TIGRE REALE, di Giovanni Verga - pagina 2
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Allorquando i due uomini si avvicinarono a lei, ella si era fermata dinanzi a un camino; vedendoli venire, aggrottò le sopracciglia con un rapido movimento, e fissò su di Giorgio, attraverso lo specchio, uno sguardo limpido e ghiacciato come il cristallo che lo rifletteva; poi si voltò intieramente, e gli piantò gli occhi in viso per due o tre secondi; sembrava che il consiglio della de Rancy fosse proprio giusto.
La contessa accolse freddamente la presentazione, inchinò leggermente il capo senza aprir bocca, senza guardare Giorgio, quasi senza badargli, e si allontanò appena egli ebbe scritto il suo nome sul taccuino che gli presentò.
Qui accadde un garbuglio che i padrini di La Ferlita e del maggiore Guidoni, lo spadaccino famoso, non riescirono a mettere in chiaro, e che fu sciolto con un colpo di spada.
Sembra che la contessa abbia avuto la bizzarria di offrire il suo taccuino a Giorgio quando la sua lista dei balli era piena zeppa, e che Giorgio avesse avuto l'altra bizzarria di sostituire il suo nome a quello del Guidoni, e costui, a sua volta, da uomo ammodo, si fosse inchinato sorridente e senza batter ciglio dinanzi a non so qual frase indifferente della contessa, la quale "lo pregava di credere che era sorpresa e dispiacentissima della cosa ", e allontanandosi alquanto dalla folla, insieme a La Ferlita, avevano scambiato tranquillamente poche parole.
La contessa non aveva più ballato, del resto ballava pochissimo, e allorché Giorgio la cercava per la sua contraddanza che gli costava un duello, la vide che se ne andava, senza rivolgergli neppure un'occhiata, come non si rammentasse di nulla.
Si curò poi di sapere quale dei due uomini avessero pagato con la vita un suo capriccio da romana al circo? Nel tempo che Giorgio aveva guardato il letto, molte persone erano state alla sua porta, e gli erano venuti molti biglietti di visita, fra i quali, ultimo, quello senza nome che La Ferlita mi aveva mostrato.
Alfine si erano incontrati.
La viscontessa aveva un bel suggerire ottimi consigli; l'istinto del reciproco egoismo aveva un bel mettere una diffidenza quasi ostile nel primo incrociarsi dei loro sguardi; il caso, la simpatia dei contrasti, la fatalità, li avevano posti faccia a faccia, e sin dalla prima volta ci avevano rimesso qualche cosa, egli un lembo di carne, ella una contraddanza, più tardi forse qualcos'altro.
Cotesta donna avea tutte le avidità, tutti i capricci, tutte le sazietà, tutte le impazienze nervose di una natura selvaggia e di una civiltà raffinata - era boema, cosacca e parigina - e nella pupilla felina corruscavano delle bramosie indefinite ed ardenti.
Anch'essa, come Giorgio, aveva strascinato la sua stanchezza irrequieta dappertutto, in carrozza o in slitta, colla rapidità del vento che avea appassito le sue guance e increspato non senza leggiadria le sue labbra.
Tutti avevano arso l'incenso dinanzi all'idolo moderno, il marito che l'aveva sposata, gli uomini che tentavano rubarla al marito, le donne che le invidivano le sue gemme e la sua avvenenza; questa grande passione umana, in nome della quale ell'era diva, le turbinava ai piedi, le ripeteva incessantemente lo stesso inno, glielo sbriciolava qua e là, al ballo, al teatro, nelle visite, in frasi galanti e in occhiate sentimentali.
Ella, ritta sul piedestallo, s'annoiava, e provava delle curiosità pungenti.
Una volta, una volta sola, quel sentimento ignoto, quel trastullo, quella forma d'omaggio universale, l'avea investita dai piedi alla testa come una fiamma, e le avea dato febbri da leonessa.
Più tardi, allorché s'erano veduti nelle feste, la sua fronte di marmo e i suoi occhi asciutti, nessuno avrebbe potuto indovinare che ella soffocasse ruggiti di spasimo, e di quel turbine che in un'ora avea solcato la sua anima, di quella caduta in un istante, non rimanevano altre vestigia che il sorriso implacabile della sua civetteria, e certa avidità scintillante dello sguardo che sembrava cercare qualche cosa, un conforto, un ricordo o una rappresaglia - non più scettica, ma diffidente - guardinga per sé, e spietatamente capricciosa cogli altri.
Dall'incontro di questi due prodotti malsani di una delle esuberanze patologiche della civiltà, il dramma dovea scaturire naturalmente, dramma o farsa, come dall'urto di due correnti elettriche.
Giorgio effeminato, effeminato nel senso moderno ed elegante, buon spadaccino all'occorenza, nel quarto d'ora, e tale da giuocare noncurantemente la vita per un capriccio, ma solito ad esagerare il capriccio sino a farne una passione, e solito ad esagerare l'idea della passione sino a renderla realmente irresistibile; fiacco per non aver mai combattuto se stesso.
- Quell'altra con tutti gli impeti bruschi e violenti della passione inferma, vagabonda ed astratta, però forte e risoluta, col cuore di ghiaccio e l'immaginazione ardente.
Egli con tutte le suscettibilità, con tutte le delicatezze, con tutte le debolezze muliebri; ella con tutte le veemenze, tutte le energie, tutti i dispotismi virili.
III
L'inverno era sopravvenuto, grigio e triste.
Giorgio rivide la contessa alle Cascine, raggomitolata in un angolo della sua carrozza, tremante di freddo sotto un mucchio di pellicce e un bel sole di novembre che splendeva sul cielo puro e azzurro.
Era pallida, dimagrata, avea gli occhi stanchi, arsi di febbre, che vagavano distratti o pensierosi sulle alte cime degli alberi spogliate delle ultime foglie.
S'incontrarono faccia a faccia; ella si fece bianca un istante.
Sapeva che egli era ancora a Firenze? che l'avrebbe incontrato? Aveva voluto rivederlo?
La Ferlita era in carrozza colla sua Palmira; piantò carrozza e Palmira al Piazzone, e tornò indietro.
Non incontrò più la contessa, non poté più rivederla per alcuni giorni di seguito.
Infine si decise ad andare ad informarsene dalla viscontessa de Rancy.
"Si", rispose costei.
"So che è ritornata, ma non ho potuto vederla.
È molto malata, sa?"
"Infatti..."
"È tornata a passar l'inverno a Firenze.
I medici non l'accordano due anni di vita, e le hanno consigliato il clima d'Italia."
Giorgio parve distratto; si misero a parlare di cose indifferenti; sopravvennero parecchie visite, e la conversazione si fece generale.
La Ferlita disse alla viscontessa in un momento di a parte:
"Penso a quel che si deve provare essendo l'amante di una donna i cui giorni sieno contati."
Ella gli fissò in viso uno sguardo attonito.
"Amico mio, le so punto testa, ma un po' di cuore glielo so.
La lasci tranquilla, poveretta! sarà meglio per entrambi."
Due giorni dopo La Ferlita ricevette questo biglietto laconico dalla de Rancy:
"Venga giovedì.
Ella ci sarà."
"Il mio biglietto le ha messo l'argento vivo addosso?" gli domandò la viscontessa vedendolo arrivare prima delle dieci; "e viene a domandarmi il come e il perché.
La cosa è quale gliel'ho detta; s'è invitata da sé.
Il perché poi me lo dirà lei."
"Quando lo saprò."
"Quando lo saprà, ben inteso.
Con chi era sabato scorso alle Cascine?"
"Le ha fatto questa domanda?"
"Curioso! Con chi era?"
"Non mi rammento nemmeno di essere stato alle Cascine sabato scorso."
"Ha incontrato la contessa alle Cascine uno di questi giorni?"
"Sì."
"Era solo?"
"No."
"Adesso il perché lo so; non occorre altro."
E lo piantò lì, tutto irto di interrogazioni, per andar incontro a due signore che giungevano.
I giovedì della viscontessa de Rancy erano affollatissimi sempre.
La padrona di casa era troppo occupata perché Giorgio potesse sperare da lei la menoma spiegazione prima delle due del mattino, e andò a rassegnarsi con un album di fotografie.
Verso le undici entrò Nata, elegante come sempre, ma avea gli occhi profondamente solcati, ed era imbellettata.
Giorgio dal suo posto sorprese uno sguardo circolare di lei sulla folla.
Le due amiche si andarono incontro premurosamente e passarono insieme alle altre sale.
In tutta la sera non riuscì al diplomatico in erba di attirare l'attenzione della contessa, malgrado le sue manovre macchiavelliche.
Solo al momento d'andarsene ella lo scorse vicino al pianoforte, e fece due o tre passi verso di lui colla mano tesa, col sorriso sulle labbra, colla più schietta naturalezza.
"Perché non è venuto a farmi visita?" gli disse in italiano, con un leggero accento straniero, ma senza il menomo imbarazzo.
Giorgio, ancora un po' sorpreso, rispose:
"Perché non me ne ha accordato il permesso."
"Se non è che questo glielo dò due volte" e gli tese anche la sinistra.
E così, colle mani nelle sue, fissandolo in viso.
"Sono in casa tutti i giorni dalle quattro alle sei.
Se vuole trovarmi venga dopo le quattro."
Giorgio s'inchinò, e accompagnandola per sortire:
"Si fermerà tutto l'inverno a Firenze?" le chiese.
"Non so.
I medici pretendono che il clima del nord mi uccida.
Ho una salute che non val nulla, come potrà vedere" aveva il petto candido e delicato coperto da filari di perle.
"Starò forse sino a marzo, sino a giugno, non so insomma.
Sono variabile anch'io come la mia salute.
Abbiamo parlato molto di lei colla viscontessa.
Ella deve partire fra qualche mese?"
"Dipenderà dalla destinazione che mi sarà data."
"Allora si faccia destinare a Pietroburgo; ci sarò fra il giugno e il luglio."
Così dicendo gli scosse brevemente la mano, come ad un vecchio amico, ed uscì.
"Cosa le ha detto?" domandò la viscontessa al momento in cui La Ferlita prendeva commiato da lei.
"M'ha detto d'andare a farle visita."
L'altra scoppiò a ridere, ben inteso di un riso impercettibile, discreto, che scopriva appena i suoi bei denti smaglianti.
"Ella sta meglio assai.
Non le sembra?"
"Sì."
"È vero che avea messo del rosso...
Poverina! Vorrei che i medici si fossero sbagliati.
Sa? abbiamo parlato di lei.
M'ha detto che si è fatto presentare da mio marito."
"Nient'altro?"
"No.
Abbiamo riso della sua ostinazione; io più di lei, però! Vuole che glielo dica sul serio, molto sul serio, amico mio? Temo che questo bel scherzo abbia a diventare troppo brutto e troppo serio, il che sarebbe una gran disgrazia."
Giorgio si strinse nelle spalle.
"Proprio una gran disgrazia! Sino ad un'ora fa temevo soltanto per lei, con tutto il suo spirito, con tutta la sua pratica mondana, e con tutta la sua diplomazia.
Però la conosco abbastanza, e so che un viaggio, una croce, una ballerina, una perdita al giuoco l'avrebbero guarito.
Ma adesso Nata è malata, è troppo debole, ha troppi nervi, troppa suscettibilità, che so io, insomma il pericolo è tutto lì...
ha qualche cosa di insolito e di infermiccio."
Giorgio non sorrideva più.
"Infine, qual donna crede che sia?"
"La credo una leggiadra bionda - non bella ma leggiadra - molto elegante, che fa bene in un salone, che ha bei diamanti, un bel nome, un marito gran signore, generale, amico personale dello Czar, e lontano."
"E poi?"
"Il poi non si comanda, caro mio.
E poi nulla, o tutto.
Ci ricami sopra i suoi sogni rosei, quali essi sieno, e ci metta addosso delle sete e delle trine."
"Se facesse apposta per farmi innamorare di costei," esclamò Giorgio cercando di sorridere, ma con un'ombra d'impazienza, "non potrebbe far meglio - o peggio."
Allora la viscontessa, levandosi bruscamente:
"Orsù, La Ferlita, se ne vada, ch'è tardi; abbiamo sonno e sragioniamo entrambi.
Domani o doman l'altro la vedrà.
Sia suo amico o suo amante, o s'ammazzi per lei, come quell'altro.
Buonanotte."
IV
Il villino abitato dalla contessa era nel viale Principe Amedeo, le sue finestre chiudevano da tre lati un giardinetto tascabile, largo cinquanta metri, ma avevano di faccia San Miniato e il leggiadro serpeggiamento del Viale dei Colli.
Le aiuole verdi del giardino, grandi come tappeti da bigliardo, e quegli alberi nani facevano un bel vedere sulla facciata nuova, lisciata e imbellettata, e sulle finestre di cui i vetri irradiavansi dei colori delle tende allorché il sole vi batteva sopra.
Alla sera, dalle otto alle undici, mentre i rumori della città si perdevano in lontananza, la luce che scaturiva da quelle finestre strette fra di loro, adorne, civettuole, foderate di velo e di damasco, ricamava a giorno come un merletto il disegno della cancellata sul marciapiede della larga via oscura e quasi deserta, e lambiva le foglie lucenti delle magnolie.
Le poche persone che passavano si fermavano un istante, o mettevano il capo allo sportello della carrozza, per rallegrarsi la vista a quella luce, a quei luccichii che carezzavano qua e là i mobili e le stoffe, a quel dolce tepore profumato che indovinavasi, e immergendosi nel buio, mentre si allontanavano, si voltavano ancora per cercare di leggere un sorriso sulla faccia di quella dimora felice.
Al di dentro quella dimora felice avea un altro aspetto.
Nella stanza più lontana dalla via, nell'angolo più remoto, stava di solito Nata, vicino al camino, illividita dagli azzurri bagliori della fiamma, cogli occhi semichiusi, come enormi macchie nere sul viso smorto, allungando i piedi sul tappeto, abbandonando il capo sulla poltrona, sfogliando le pagine di un libro o trastullandosi macchinalmente colla ventola.
Tutte le altre stanze erano vuote, mute, fredde; il domestico passeggiava silenzioso nell'anticamera, e in mezzo a quel silenzio lo scoppiettare dei tizzi, il tic-tac dell'orologio, o il rumore delle carozze che passavano nella via avea qualcosa di triste.
Allorché Giorgio era andato a far visita alla contessa, verso le cinque, tutte le finestre della casa luccicavano come specchi; al disopra delle tegole rosse e in mezzo alle guglie sottili dei camini il sole sembrava diffondersi come un'aureola di polvere d'oro.
Nata, udendo una carrozza che si fermava al cancello, aveva volto istintivamente il viso verso l'uscio del salotto, con un rapido movimento.
Giorgio la trovò presso la stessa finestra, davanti a un piccolo tavolino incrostato di rame dorato, su cui c'erano i suoi libri e le sue lettere, e sembrava più sola e derelitta che mai.
Il salotto, tutto foderato di seta azzurra, era poco illuminato e vi ardeva un gran fuoco.
Quello splendido giorno invernale non metteva né un raggio, né un sorriso in quella stanzina.
Gli uccelli facevano gazzarra nel giardino elegante e malinconico, e fin sulle finestre, e fra i vetri e le tendine vedevasi una lista di cielo terso e limpido.
La luce attraverso la seta delle tende penetrava tenera, diffusa, e nell'angolo del caminetto era assorbita dai chiarori rossastri della fiamma.
Nata, colle spalle rivolte a quel quadrato di luce azzurrina, sembrava quasi al buio, i suoi occhi parevano più grandi e profondi, e il suo pallore sembrava quasi verdastro.
Ella batté le mani con un movimento infantile, e stendendogliele entrambe, col suo più bel sorriso:
"Bravo! Se sapesse come giunge in buon punto, e come le son grata della sua visita! Vede? Tutta la mia vita si passa così, a contar gli alberi del viale.
Ed ecco la mia più grande distrazione."
Giorgio si chinò ad esaminare la grande distrazione, un disegno giapponese che la contessa stava incollando su di una ventola, e si misero a discorrere delle industrie di quel paese, dove La Ferlita avea passato parecchi anni come addetto alla legazione.
Nata gli faceva mille domande, una più bizzarra dell'altra, e di tanto in tanto, senza pensarci, gli piantava in volto quei suoi occhioni prenetanti e impenetrabili.
Tutt'a un tratto, fra la descrizione di un bronzo niellato e di un lavoro in avorio, gli domandò:
"Dev'essere un po' in broncio con me, dica?"
Egli levò il capo bruscamente; la contessa non lo guardava neppure, teneva il disegno attraverso alla luce per vedere se fosse disteso abbastanza, ammiccando un po' degli occhi, colle mani in alto, bianche come cera e leggermente trasparenti nei contorni.
Non sembrava nemmeno che avesse fatto quella domanda.
"Io!" disse alfine La Ferlita.
"Si, un peu, beaucoup, passionnément - passionnément!"
"Mais non! rien du tout!"
Ella si voltò, colle mani ancora in aria e il disegno che faceva da trasparente.
"Davvero? tanto meglio! Non può immaginare qual piacere mi faccia..."
E chinando il capo con quella sua aria da statua che non lasciava indovinare se scherzasse o dicesse sul serio, aggiunse con un certo sibilo nell'accento:
"Merci!"
Successe un istante di silenzio; ella sembrava tutta intenta al suo lavoro: poi lo buttò in un cestino e andò a posare il piede sul posacenere, rialzando un po' la veste e appoggiando il gomito al piano del camino.
"È stato sempre a Firenze tutto questo tempo, dacché non ci siamo visti?"
"Sì, all'infuori di un mese di congedo, che poi si fece di otto settimane."
"Non l'avevo più visto dopo il mio ritorno, e credevo fosse partito."
"Io però l'avevo vista."
"Dove?"
"Alle Cascine, saranno otto o nove giorni."
"Non l'avrò riconosciuto.
Era una delle prime volte che incominciavo ad uscire in carrozza, ed ero ancor debolissima, la folla mi dava il capogiro."
"Adesso però sta molto meglio."
"Si, adesso sto bene..."
La Ferlita, il quale era venuto sognando senza sapere precisamente che cosa, ma tutto pieno dell'immagine di quella donna che gli avea fatto girar la testa come una trottola, a poco a poco era rientrato nella sua pelle vedendola da vicino e discorrendo tranquillamente con lei tanto semplice e naturale; Nata era assai leggiadra così ritta dinanzi al fuoco, ma nulla più, e solo allorquando fissavagli in viso gli sguardi, egli sentivasi sconcertato e perdeva qualcosa della sua disinvoltura.
Allorché si levò per andarsene, ella stendendogli la mano:
"Presto, non è vero?" gli disse.
Nell'andarsene, La Ferlita diceva fra sé:
"Giorgio, amico mio, m'è entrato il sospetto che tu ci abbia fatto una figura ridicola.
Orsù, la testa a casa, e rimediamo al malfatto."
Perciò era ritornato altre volte da lei senza farle un briciolo di corte.
Ella gli si era mostrata riconoscentissima.
Lo accoglieva sempre con un'esclamazione o un sorriso, e gli diceva ch'era proprio una buona azione quella di venire a contare con lei gli alberi del viale.
"Che peccato non esserci conosciuti prima, n'è vero?" Giorgio rispondeva ridendo: "Ma noi ci conosciamo da un pezzo!".
"Conosciuti?...
cioè, sconosciuti! Incontrarsi in un ballo non è punto conoscersi.
Ma tant'è, meglio tardi che mai.
Del resto, vogliam divertirci questo carnevale; ella sarà dei nostri; ella, la viscontessa, suo marito, e qualche altro.
Faremo delle follie.
Non abbia paura, non lo comprometteremo col suo Ministro, o alla peggio lo faremo compromettere con lei."
Nelle belle giornate di dicembre ella lagnavasi sempre d'aver freddo e stavano a discorrere accanto al fuoco che scoppiettava e illuminava di riflessi cangianti il viso scarno e sorridente di lei.
Gli avea sempre promesso per ischerzo che la prima volta che sarebbe uscita si sarebbe fatta accompagnare da lui.
Un giorno, vedendolo entrare, gli domandò:
"Fa molto freddo oggi?"
"Punto.
È una bellissima giornata."
Ella andò lentamente verso la finestra e sollevò la tendina.
"Infatti," disse sbadatamente, "sarebbe proprio la giornata..."
Il largo viale inondato di sole sembrava in festa.
Passavano dei contadini coi loro carri, dei commessi che avevano preso da porta San Gallo per andare a porta San Niccolò, e delle sartine che avevano dimenticato la loro scatola dalla portinaia, a coppie, rasentando i muri o serpeggiando per la via, tenendosi per mano, dondolando le braccia o tirando in su il vestitino nuovo sugli stivalini polverosi; passava qualche fiacre aperto, lesto, chiassone, scoppiettando la frusta, oppure colle tendine calate che lasciavano passare una mano o un occhio curioso; e in mezzo a tutto questo va e vieni, dei passeri vispi e petulanti che saltellavano sul marciapiede.
La cupola del Duomo, il campanile, e la torre di Palazzo Vecchio, spiccavano sul cielo con profili netti, su di un caos di tetti e di guglie; più in là il palazzo Pitti, bruno e severo, sembrava appoggiarsi alla gran spalliera di verdura del giardino di Boboli.
In fondo la leggiadra cintura dei colli stendevasi come un immenso giardino punteggiato di ville bianche e screziato di getti d'acqua, di masse di verdi e di bianchi viali serpeggianti; e dietro il vasto piazzale, di cui la balaustra si disegnava sull'azzurro, e il profilo grazioso della Bella Villanella, un immenso sfondo ceruleo, digradante una luce opalina sui verdi contorni delle colline.
"Ma mi sento molto stanca," soggiunse Nata, "come se avessi camminato tanto quanto tutta quella gente lì.
Costoro si danno bel tempo, come se non avessero altro da fare!..."
C'era del corruccio nella sua voce e nella ruga verticale che solcò un momento la sua fronte.
La contessa stava sempre meglio, riceveva quasi tutte le sere la de Rancy, Giorgio, e tre o quattro altri; di tutti i suoi amici, La Ferlita era divenuto il più assiduo, passava sovente le sere intere in via Principe Amedeo, presso il caminetto, col thè fumante sul tavolino, e se pur gli balenava in mente il desiderio di baciare la mano delicata che gli presentava la tazza, lo faceva da dilettante, per una vecchia abitudine, quasi per un obbligo di cortesia, e non pensava più che sarebbe stato possibile perdere la testa per quella leggiadra signora colla quale passava così piacevolmente la sera, in tranquilla intimità.
Un giorno le disse ridendo:
"Perché la prima volta che son venuto a farle visita mi ha domandato se fossi stato in broncio con lei?...
Dica la verità...
c'è stato un momento, tempo fa, in cui devo esserle sembrato assai ridicolo!"
Ella aggrottò le sopracciglia, o perché la domanda la pungesse, o perché cercasse risovvenirsi.
"Ridicolo? e perché?"
"Giacché non lo sa, o giacché non si rammenta, tanto meglio...
Non ne parliamo altro."
"Ma si, mi rammento.
Però non mi sembra ridicolo battersi per la sua dama; io ero la sua dama...
allora, in quel quarto d'ora, nient'altro."
Egli, che era stato ad un pelo di rimetterci la pelle invece di far delle armi, si accorse che il meglio era riderne anche lui.
Così su quel passato, imbarazzante per ambedue, ella avea messo risolutamente, con grazia, il suo stivalino polacco, egli s'era chinato ad ammirare il piede, e non se n'era più parlato.
V
La Ferlita sarebbe stato sorpreso se alcuno avesse affermato che egli faceva la corte alla contessa.
Se quello poteva dirsi far la corte, era fare una corte molto magra.
Avea cominciato dall'amarla, è vero, come un ragazzo, come uno studente, ma sin dalla prima visita ella gli aveva messo del ghiaccio sulla testa, e aveano riso francamente di quel ch'era stato di quella sciocchezza; non l'amava affatto, ne era ben certo, ma stava volentieri vicino a lei.
Ella era tutt'altra donna di quella che avea creduto conoscere; una donna a quarti d'ora, tutta nervi e capricci, trasformantesi ad ogni momento - giammai la stessa - senza artificio e senza affettazione, forse anche senza averne coscienza; una donna cui non si sapeva su qual tono rispondere ad una domanda fatta da lei all'istante medesimo.
Come amante ella non valeva la marchesa, né la bionda Targotti, né Palmira, non valeva gran cosa insomma; ma come amica era impareggiabile, non fosse altro che non ci si annoiava mai un momento in casa sua, neanche a star zitti e musoni, non fosse altro quella birichina curiosità che vi prendeva di sapere come l'avreste trovata - ché il suo umore era sempre cangiante e bizzarro - al momento di metter piede a terra al cancello del suo villino.
Anche quale amica, senza avvedersene metteva sempre nella loro intimità un po' dell'ignoto della sconosciuta che si voltava a guardarlo quando l'incontrava in via Calzaioli.
L'imprevisto era la sua maggiore attrattiva.
Nata aveva delle ore in cui irrompeva la sua natura selvaggia, specialmente quand'era sola; allora passava delle ore rannicchiata nella sua poltrona dinanzi al fuoco, cogli occhi spalancati ed astratti, non pensando a nulla, sentendo solo con voluttà carnale le aspre punture della fiamma.
Alcune volte stava ad ascoltare La Ferlita senza dire una parola, colle labbra leggermente contratte e la fronte corrugata, vagabondando col pensiero, rispondendo per monosillabi, spesso a sproposito, col capo appoggiato alla spalliera della poltrona, stanca o annoiata.
Giorgio credeva che fosse ora di andarsene, e allorché prendeva commiato, ella gli domandava perché volesse partire così presto, e lo pregava di rimanere.
La scena non mutava però; la conver
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