[Pagina precedente]...suo binoculo e lo puntò su di noi. Tre o quattro cannocchiali si erano rivolti verso quella strana figura che sembrava sorgere improvvisamente dall'ombra. La signora La Ferlita discorreva sempre gaiamente, e ad un tratto, ad un movimento del marito, alzò gli occhi anche lei. Giorgio senza finire quel che stava dicendo balbettò che andava a far delle visite ed uscì. L'incognita si ritrasse nel fondo del suo palchetto, né più si vide. Di tanto in tanto si udiva lassù, in terza fila, uno scoppio di tosse soffocata.
La signora Erminia non mi avea domandato chi fosse quella sconosciuta la quale per un istante avea attirato la curiosità di una metà degli spettatori, né io avrei saputo dirglielo; ma era tornata a casa taciturna, e sembrava meno allegra di prima. Mi disse per altro essere in pensiero pel suo Giannino che da qualche giorno stava maluccio. Giorgio stette un'ora presso la culla a tempestare Rendona di domande, di dubbi e di timori esagerati, e passò il rimanente della sera colla moglie, più affettuoso che mai e quasi riconoscente. Malgrado di tutto ciò si tradiva in lui un certo sforzo, come se volesse vincere una inesplicabile irrequietezza; sembrava in certi momenti che temesse qualche cosa.
Io ero ritornato ai miei bagni. Una volta mi era sembrato d'incontrare nel piccolo giardino dell'albergo quella stessa donna che mi avea fatto sì strana impressione al teatro; era la medesima figura estenuata e triste, in cui la fierezza e un certo che di vivo e di ardente, sembravano ribellarsi ancora; andava lenta, stanca, appoggiandosi al braccio di qualcuno - un signore alto e biondo - e mi fissò in volto quei medesimi occhioni divoranti e accerchiati di un solco bruno.
Il giorno stesso vennero a dirmi che la signora che occupava il grande appartamento del primo piano desiderava parlarmi. Non conoscevo la signora del primo piano, non mi aspettavo quell'ambasciata fatta in modo singolare, ma non fui incerto un istante sul chi ella fosse, e di chi avesse a parlarmi. Scendendo al primo piano sentivo un presentimento doloroso che mi stringeva il cuore.
Allorché entrai stava presso la finestra; quantunque fosse la metà di maggio, avea fatto accendere un gran fuoco. Il sole era tramontato e nella stanza regnava la luce incerta di quell'ora, sebbene anche le due lanterne fossero accese. Dalla finestra si vedevano alcuni fiocchetti di nuvole rade, ancora leggermente illuminate sul cielo più scuro, che andavansi sfilacciando qua e là . Il viso della donna rimaneva al buio, sprofondata com'era in una gran sedia a bracciuoli. Era vestita di nero; avea una treccia bionda, allentata e quasi disciolta, che serpeggiava sulla spalliera e le mani dimagrate e bianche scintillavano di gemme. I suoi occhioni grigi, profondamente infossati, sembravano ardere e consumarsi, le labbra pallide e chiuse avevano una piega dolorosa. La morte avea lambito colla sua ruvida lingua quel viso trafelato, così bianco come se non vi scorresse più una sola goccia di sangue, e vi avea lasciato delle sfumature livide. Non la dimenticherò mai più.
Ella inchinò il capo con un triste sorriso, e mi fé cenno colla mano di mettermi a sedere.
Taceva, come dovesse superare uno sforzo, o ricordarsi di quel che voleva dirmi; c'era ancora qualcosa che non era vinta e che si ribellava in lei; la fronte altera di quella tigre ferita a morte avea un'aria di maestà .
"Ella sarà sorpresa del mio invito," mi disse lentamente, "ma io la conosco da un pezzo, e non ho tempo di aspettare una presentazione. Ella è amico del signor La Ferlita... l'ho visto spesso con lui a Firenze, allorché egli ebbe un duello... si rammenta?... ed anche qui vicino, a Catania... li ho visti insieme."
Chiuse gli occhi un momento, o almeno mi parve, ché così com'era situata il suo viso non si distingueva chiaramente. Dopo due o tre secondi di silenzio riprese con un accento che mi parve più profondo.
"Adesso anche lei sa chi sono io... Giorgio le avrà parlato di me." Costei abbordava il punto spinoso della nostra conversazione con tale altera e disinvolta franchezza che di noi due io ero al certo più imbarazzato di lei. Mi porse la mano secca, arida, arsa. "Ora spero che mi perdonerà il disturbo che le ho dato", aggiunse con una voce che mi penetrò sino all'anima; sentivo confusamente quel che avrebbe dovuto esserci nel cuore di Giorgio se egli si fosse trovato al mio posto. Ella dopo un altro silenzio, forse dopo aver superato un'ultima esitazione:
"Il signor La Ferlita è ammogliato?" mi domandò.
"Si."
"È felice?"
"Lo credo."
Ammutolì e reclinò la fronte sulla mano. Che cosa sarà stato in quell'anima? Quando rialzò il capo il suo profilo sembrava essersi pietrificato; il naso e la fronte spiccavano nell'ombra con linee secche ed angolose, ma era perfettamente rassegnata o impassibile.
"Grazie, signore", mi disse. "Un'ultima preghiera... non gli dica nulla di questa mia fantasia da inferma, non gli dica nemmeno di avermi vista."
Mi accomiatò con un'ultima stretta di mano, e rimase immobile e calma. Soltanto allorché fui sull'uscio, voltandomi verso di lei, la vidi che si teneva il fazzoletto sul viso.
XII
La Ferlita in quel tempo avea, senza dubbio, "il diavolo" che gli avea scoperto il cugino Carlo. Fosse la salute malsana del suo bambino, fosse altro motivo, era evidente che faceva grandi sforzi per dissimulare una insolita agitazione, colmava di carezze il bimbo, ed era pieno di attenzioni e di premure per la moglie; ma in modo singolare, con una certa inquietudine, come se volesse farsi perdonare qualche torto, come avesse qualcosa che lo pungesse, o come se temesse di perdere madre e figlio. Ne' suoi mille progetti d'andare a passare l'estate in campagna, di cominciare grandi lavori nelle sue terre, di andare ai bagni di Alì, c'era dell'irrequietezza. Gli rincresceva moltissimo che lo stato del bimbo non gli permettesse di mettere in esecuzione su due piedi l'idea fissa che faceva capolino sotto tutte le forme, quella di lasciare la città .
Un giorno ch'ero andato a fargli visita, mi domandò: "Tu che sei all'Albergo dei Bagni... ci sono molti forestieri?"
"Pochi, per la stagione che corre."
Egli mi fissò, e non aggiunse altro. Un'altra volta domandò a Rendona: "E la tua ammalata? come sta?"
"Come quelli che se ne vanno."
"Dev'essere assai triste morire così sola in paese lontano!" aggiunse dopo alcuni istanti di silenzio.
"È giunto suo marito."
"Poveretta! chissà dove correrà il suo pensiero! chissà quanto avrà sofferto per arrivare a tal punto! chissà quale passione l'avrà uccisa!"
"Oh la passione! di passione non si muore, mio caro, quando non è accompagnata dalla tubercolosi o dal tifo."
"Tu parli da medico!" rispose Giorgio con un certo sorriso.
"Non sono medico soltanto, e ho avuto anch'io i miei amoretti grandi e piccini. Ho pianto, in quel beato tempo che avevo più arrendevole la glandula lacrimale, e mi sono strappato i capelli, quando ne avevo molti; ma vedi, non sono morto, e sto benissimo."
"Si vede! Anzi hai messo pancia. Però ti calunnii alquanto, mio povero dottore; avrai avuto degli amoretti, ti sarai strappato i capelli, conosci le trentanove maniere in cui un galantuomo se ne può andare all'altro mondo, ma ignori completamente quel che sia una passione... e meglio per te! Potresti vincere la morte, tu che hai tanto studiato? sai che ci sia un rimedio contro la tisi? Quando si è colpiti di quel male, che si chiama una passione, vedi... è una disgrazia, è una fatalità ... ma è inutile lottare, e bisogna subirla fino all'ultimo."
"Se fosse così, sarebbe meglio mandare pel prete alla prima febbre - e in buona coscienza io credo di fare il mio dovere lottando colla malattia della mia russa, quantunque non abbia la menoma speranza."
"Bravo, dottore!" disse facendosi un po' rossa la signora Erminia, la quale sino allora non avea ardito prender parte alla conversazione. "Mi pare che sia proprio così! Molti mali ci vengono addosso appunto per la paura che ne abbiamo, e ci vincono più facilmente allorché ci lasciamo sopraffare senza combatterli... certe cose bisogna guardarle coraggiosamente in faccia per vedere quali sono... e alla fine forse non ci è nulla di irresistibile, né di fatale."
La Ferlita ascoltava la moglie sorridendo con una specie di tenera compiacenza, di rispetto e d'indulgente compatimento. "Mia cara Erminia," le disse poscia accarezzandola con la voce, "come vuoi parlare tu di cotesti mali e del modo di vincerli!... Tu sei una bambina, tu! la sorella maggiore del nostro Giannino!..."
Uno o due giorni dopo La Ferlita ricevette una lettera col bollo di Acireale. Prima di aprirla le mani gli tremavano; poi entrò nella camera dove erano la moglie e il bambino infermo per dire che un affare urgente lo chiamava la sera stessa a Giarre. Io mi trovava presente, insieme a Rendona, e mi parve scorgere in Giorgio una singolare agitazione. Anche la moglie se n'era accorta di sicuro, poiché lo fissava con un'aria mal dissimulata di sorpresa, mentre metteva innanzi mille pretesti per fargli differire quella gita. Il bambino infatti, sebbene non destasse serie inquietudini, avea peggiorato. "Andrai domani," gli diceva Erminia, "infine a Giarre non può essere avvenuto nulla di così urgente. Domani il nostro Giannino starà meglio, e tu partirai più tranquillo."
"Come hai trovato mio figlio?" domandò Giorgio a Rendona, sempre con quel turbamento inesplicabile nella voce, in tutta la persona.
"Come stamane. La sera poi di solito la febbre si fa più gagliarda."
"Bisogna assolutamente che io vada a Giarre stasera... se credi che lo stato del mio Giannino non me lo permetta, dimmelo..."
"No... non ho detto questo..."
"Allora a rivederci, Erminia; sarò di ritorno col primo treno di domani. Vedi che il nostro Rendona è tranquillo?"
La moglie non rispose, lo accompagnò sino all'uscio, e ritornò a mettersi accanto alla culla, tenendo gli occhi fissi sul bimbo. Uscendo con me, Rendona mi disse:
"Che maniera singolare di farmi siffatte domande in presenza della moglie! Un po' inquieto lo sono, è vero; ma avrebbe fatto meglio ad indovinarlo, anziché costringermi a spaventare quella povera donna."
Siccome ritornavo ad Acireale, incontrai La Ferlita alla stazione al momento di partire. Era solo, senza bagaglio, e parve sorpreso vedendomi, come se non sapesse che quasi tutti i giorni facevo quel va e vieni; egli prese un biglietto per Giarre; c'era uno scompartimento vuoto e l'occupammo noi due. Giorgio parlava poco, e stette col capo allo sportello dalla parte del mare per quasi tutto il tempo del brevissimo viaggio. Alla stazione di Aci-Castello credeva fossimo diggià arrivati, e quando il treno si rimise di nuovo in movimento appoggiò i gomiti alle ginocchia e il capo fra le mani. Prima ancora di giungere ad Acireale, mentre il convoglio fischiava e andava balzelloni rallentando la corsa, egli era alzato e s'era messo ritto dinanzi allo sportello che guardava dal lato opposto all'albergo dei Bagni, appoggiandosi alla manopola. Non si mosse, più, e tutto il tempo che il treno stette fermo, non disse una parola. Gli domandai prima di lasciarlo se avremmo fatto il ritorno insieme col treno dell'indomani; ma rispose che non lo sapeva di sicuro, e che forse sarebbe tornato a Catania in carrozza. Lo sportello si chiuse, e mentre il convoglio ripartiva, non si affacciò nemmeno per vedere la gente che usciva dalla stazione.
All'albergo si passava la sera leggicchiando, pestando sul piano, o fumando e passeggiando in giardino. Verso le undici si udì arrivare una carrozza dalla parte di Giarre; io stavo per salire in camera mia quando m'imbattei faccia a faccia con La Ferlita.
Giorgio si arrestò bruscamente, poi mi venne incontro risolutamente e mi strine la mano con forza. "Infine," mormorò, "dovea essere così! Andiamo in sala, in giardino, in camera tua, dove vuoi. Avrai tutto compreso..."
Io avevo compreso perfettamente e lo condussi in giardino; la sera era mite, ma importuni non ce n'erano a quell'ora. Mentre cercavamo un banco, al buio, egli mi disse...
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