[Pagina precedente]...la non volle vederlo, e gli fece dare quattromila rubli per mezzo del domestico. Il vostro sigaro non accende bene, prendetene un altro, son degli avana fabbricati in Isvizzera, che mi appestano la stanza. Sentite che donna, mio caro! Gli diceva: 'Vi ho comperato, ma non vi ho amato, ora vi pago, l'amore è salvo e senza macchia' - l'amore è la sola divinità di costei; egli le scrisse colla febbrile concisione della disperazione, che se non gli avesse perdonato sarebbesi ucciso sotto i suoi occhi. 'È il solo mezzo di riabilitarci entrambi' gli fece rispondere.
Giorgio fumava e sembrava distratto. Infine gli disse colla maggiore calma del mondo:
"Dite delle cose giustissime, caro visconte; ma quando siete stato innamorato, cosa avete fatto?"
"Quello che state per fare voi. Non sono un eroe, non ho la pretesa di vincere né me né gli altri; batto in ritirata: quando mi accorgo di essere sul punto di fare una corbelleria, ci metto di mezzo una bella distanza; il meglio sarebbe di metterci un'altra donna - chiodo scaccia chiodo; il mare vi dà delle melanconie noiosissime, i monti vi danno la nostalgia, la frontiera vi pare che vi stia sullo stomaco - ma la ritirata ad ogni costo, a costo della nostalgia, a costo dello spleen, se non potete metterci un'altra donna; è questione d'ottica, amico mio, quando sarete di là dalle Alpi finirete col far le boccaccie alla corbelleria che stavate per fare. Infine spero che questo viaggio vi sarà utile."
"Vi ringrazio."
"E scusatemi anche, caro La Ferlita, se ho chiacchierato troppo, a fin di bene però, vi prego di esserne convinto. Ho detto delle cose che forse in questo momento non avreste voluto udire; quel che ho raccontato della storia del polacco avrà potuto farvi dispiacere; ma in fondo spero che gioverà . È una donna terribile, caro mio, con idee dell'altro mondo, ma che nel nostro, diciamolo fra noi, fanno un effetto assai singolare, e credo vi aiuteranno a partire allegramente."
"Non parto più."
"Siete matto!"
"Lo so benissimo, ma non parto più."
"Per quel che vi ho raccontato?"
"Forse..."
"Caro mio... Io sono stato certamente più matto di voi a non prevederlo."
L'indomani, quando Nata meno se lo aspettava, arrivò suo marito.
Marito e moglie solevano farsi buona compagnia per tre o quattro mesi dell'anno, allorché s'incontravano alla capitale; ma il resto del tempo il conte era sempre lontano e in servizio. Egli dovette indovinare, o si aspettava, la sorpresa della moglie.
"So che state assai meglio" le disse, "e credo che vorrete approfittare della buona stagione per tornare in Russia. Ho chiesto un permesso di quindici giorni e son venuto per avere il piacere di accompagnarvi."
Il conte era un gentiluomo sui 40 anni, alto, biondo, un po' calvo sulla sommità della fronte e invecchiato innanzi tempo; ma nel suo aspetto, nelle sue maniere, in tutto ciò che faceva e diceva aveva una rigidità militare, un certo che di calmo e risoluto che, accompagnato a quel viso pallido e disfatto, imponeva soggezione mista a diffidenza. Avea degli sguardi freddi e penetranti che infastidivano.
"Grazie" rispose Nata.
Però la sera istessa ricevette una lettera misteriosa che le fu recapitata di nascosto per mezzo della sua cameriera.
"Tuo marito ha dei sospetti. Guardati."
Il conte non mostrava aver nulla di nulla, e passò il giorno visitando le gallerie e i musei. Rientrando in casa vide dei preparativi di partenza.
"Quando volete partire?" domandò alla moglie.
"Anche domani; sono pronta."
La Ferlita intanto non sapeva nulla di quell'arrivo, ed indugiava ad affibbiare le sue valigie. La sera dopo trovò una lettera che l'aspettava sul suo tavolino:
"Speravo vedervi un'altra volta. Quando ci siamo lasciati l'altro giorno né io né voi sapevamo che quello sarebbe stato il nostro ultimo addio. Ho molto sofferto, sapete; ma nel momento in cui vi scrivo, accanto a quel medesimo tavolino sul quale avete appoggiato la mano tante volte, sembrami di soffocare. Vorrei morire prima di di partire. Pochi giorni sono eravate qui, seduto sul canapè, vi rammentate? avevate il gomito sul bracciuolo, e il cuore mi si spezzava pensando che fra non molto ci saremmo lasciati per sempre. V'erano dei momenti, quando meno lo sospettevate, in cui avrei voluto soffocarvi nelle mie braccia come una pantera gelosa. Vi amo! vi amo! ve lo dico adesso che non vi vedrò mai più; ve lo dico per inchiodarvi queste parole nel cuore, come ho la vostra immagine inchiodata nel mio. Sentite, ora che ve l'ho detto, ora che non mi vedrete più, voi non mi dimenticherete giammai; nessuna passione dell'animo vostro mi sarà rivale: l'amore, il giuoco, l'ambizione, tutto sarà meschino per voi al confronto della memoria di colei cui non avete baciato un dito. Ecco come voglio essere amata: se fossi stata vostra amante, forse saremmo finiti per voltarci le spalle senza dirci addio; ogni giorno che avremmo passato insieme ci avrebbe rapito un'illusione; l'oggetto del mio amore dev'essere superiore a tutti gli altri. Voglio pensare a voi, sempre, nei lunghi dolori, nella solitudine, negli scoramenti che mi aspettano; voglio pensare che mi amerete come cosa al di sopra di voi, che mi cercherete dappertutto col pensiero, anche quando sarò morta. Vi condanno a pensare a me, vi condanno ad adorarmi in ispirito, come una divinità , perché vi amo! Voi sapete che mi rimangono pochi mesi di vita - voglio sopravvivere in voi. Addio, Giorgio! vi faccio una promessa; verrò a morire vicino a voi, non vi vedrò, avrò la forza di morire in silenzio, ma voi penserete a me, non è vero? Direte, forse in questo momento, ella è là , che si muove. Guardate, piango e vi assicuro che non mi accade di frequente! Vorrei piangere sulle vostre ginocchia."
L'orologio sullo scrittoio suonava gli ultimi rintocchi delle ore che Giorgio non aveva udito; il vento faceva piegare la fiammella della candela; ei si accorse allora che la finestra era aperta. La via era silenziosa e deserta, in alto, al di sopra dei tetti che confondevansi vagamente nell'ombra, formicolavano delle stelle. La Ferlita stette qualche tempo alla finestra, assorto, senza sapere quel che stesse pensando; le ore suonavano a tutti gli orologi della città con toni diversi; di tanto in tanto si levava in mezzo al silenzio il fischio della stazione di Santa Maria Novella; l'unico pensiero, di cui egli avesse una percezione distinta, era che giammai avea creduto ci fossero tanti orologi a Firenze. Finalmente uscì, e andò nel viale Principe Amedeo senza sapere egli stesso perché. Il villino avea la consueta fisionomia. Qualche volta La Ferlita s'era trovato a passare a notte avanzata dinanzi a quelle finestre - allora se ne ricordava - e avea visto così quella casa, colla sua facciata biancastra e muta su cui si allungavan le ombre degli alberi, e coi suoi contorni che al lume del gas uscivano dall'oscurità con un certo rilievo. Il lampione più vicino del marciapiede lambiva di sbieco le lancie dorate. Al cominciare del viale c'era ancora il solco netto delle ruote di una carrozza signorile; d'insolito non c'era che l'appigionasi, in alto, appeso al cancello, che di quando in quando si muoveva nell'ombra agitato dal vento.
VIII
Era passato del tempo! Babbo La Ferlita era morto; Giorgio avea preso moglie; noi eravamo invitati per un'altra festa di famiglia, la nascita del suo primogenito.
C'erano i medesimi invitati, le medesime signore con degli altri vestiti, i medesimi signori con le stesse cravatte bianche, la stessa suocera, che andava e veniva nelle camera della sposa collo stesso fazzoletto ricamato e più giallo che mai, la madesima sposina bella come allora, sorridente come allora, ma in un'altra maniera, un po' pallida ancora, seduta nella sua gran poltrona, e infine quel medesimo sposo, bel giovane sempre ed elegante, in giubba e cravatta bianca, ma che avea un'aria singolare con quel fagotto di batista e di trine che portava attorno fra le braccia trionfante, senza accorgersene ma di buona fede, facendo ammirare a coloro che lo volevano e a coloro che ne avrebbero anche fatto a meno una cosina informe, che si moveva con contorcimenti bruschi, impacciati, che faceva delle smorfie, e di quando in quando metteva una specie di belato.
"To'! par vero? Eppure è proprio La Ferlita col suo marmocchio in braccio!" borbottò Crespi, scapolo impenitente, mentre che Giorgio ci passava vicino.
"Lascia vedere! ha diggià i capelli!" esclamò un invitato ufficioso per soffocare l'osservazione del Crespi.
"Sì" rispose Giorgio sorridendo, "è biondo."
"Tutti i bambini sono biondi", disse Vernetti.
"Come te, tutto te, la fronte, il naso... guarda se non è il naso di Giorgio, eh?"
"Ma di naso sembra invece che non ne abbia punto."
"Strano! come siam fatti... quando veniamo al mondo!"
"Caro Crespi," disse alfine La Ferlita, "quando avrai dei figliuoli sarai anche tu come me, te lo dico io, e sarai scioccamente giulivo di sentirti sgambettare fra le braccia il tuo piccolo bamboccio."
"Eh!... lo credo" rispose Crespi colle mani in tasca "quando li avrò."
Nell'altra camera le intime amiche e le matrone facevano corona alla moglie di Giorgio, colmandola di carezze, di suggerimenti e di consigli; il bambino passava di mano in mano come un balocco. Giorgio quando la moglie era sola le si avvicinava, si chinava sul bambino che ella tenevasi in grembo, le sorrideva e le diceva qualche parola sottovoce. Attraverso le tende dell'uscio quella grande poltrona foderata di guanciali, in quella gran camera debolmente illuminata, quella donna vestita di bianco, col viso abbattuto e giulivo, e quei baffi biondi messi lì vicino a quella cuffietta, con quel vagito sottile che si udiva, e quella mano candida come cera che si posava su quella giubba nera, visti da quella sala riboccante di luce e affollata di signore eleganti, coperte di trine, scintillanti di gemme e colle spalle nude, e di giubbe nere che ronzavano e s'aggruppavano come mosconi in un meriggio d'estate "facevano un effetto singolare", diceva Crespi. "In parola d'onore, quando avrò moglie e figliuoli, come dice Giorgio, voglio mettere tanto di catenaccio alla porta di casa!" borbottò cavando finalmente le mani di tasca.
Gli uomini, almeno quelli che non avevano a chi fare la corte, a poco a poco s'erano ridotti nel gabinetto di Giorgio, a fumare e a ciarlare di donne e di politica. Falchi aveva comperato una bellissima pariglia e ce la fece entrare a rimorchio delle voci di guerra, delle rimonte della cavalleria, e delle spese enormi che sostiene lo stato pei depositi di stalloni. Bassano avea fatto un'eccellente speculazione sulla rendita lo stesso giorno, e tirò in campo il listino della Borsa a proposito di quanto costano le donne. Giorgio andava e veniva. "La Ferlita ci parlerà di balie", disse Crespi all'orecchio del suo vicino. "Ne ho abbastanza, caro mio; preferisco andar a discorrere di mode con quelle signore."
Quei giovinotti azzimati e in cravatta bianca, sdraiati sui canapè e sulle poltrone col sigaro in bocca, aveano finito col parlar tutti di donne, senza molti riguardi, come se di là non ci fossero ancora delle signore cui avevan rivolto cinque minuti prima delle cose profumate e vaporose, arrotondando le frasi e l'atteggiamento. Ciascuno diceva la sua, spesso tutti in una volta, spifferandone di tutti i colori colla maggiore disinvoltura. Se quelle dame si fossero data la pena di origliare dietro l'uscio, ne avrebbero sentite delle belline. "La donna è il più bell'animale della creazione, ma ha degli istinti troppo complicati." "Crespi perde il suo tempo colla baronessa, senza accorgersi che Giulio è arrivato col primo treno." "Sentite, mio caro, io sto per l'emancipazione della donna; allora verrà la nostra volta di essere corteggiati, e di permetterci dei capricci, e dei nervi." "Sai di Alfonso? Alfonso il bello? è proprio una disgrazia! Sembra che il suo cameriere non sia più un ladro, e che la padrona ne sapesse già qualche cosa anche prima che i questurini gli abbiano messo le unghie addosso; insomma, il fatto...
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