[Pagina precedente]..... ho pianto tanto tanto... ho tanto sofferto!... gli ho detto d'andarsene... ed egli se n'è andato... Non è mia colpa se è stato più forte di me... se mi è parso di morire... Ma lui non ne sa niente... ti giuro!... nessuno sa quello che ho sofferto... Non dirlo a Giannino... non dirlo nemmeno alla mamma... dimmi che mi perdoni... dimmi che non mi lasci in collera!:.."
Giorgio non rispondeva, piangeva silenziosamente, col viso nascosto nell'ombra della ventola. Ad un tratto volse il lume su di lei, temendo che fosse delirante; allora scorse quell'espressione d'angoscia indicibile e le vide il viso tutto bagnato di lagrime. Non le disse una sola parola, si chinò sul letto, la abbracciò stretta, colla fronte su quella di lei, e confusero insieme le loro lagrime.
"Oh! come mi fa bene!... Come mi fa bene sentirmi bagnata dalle tue lagrime!... Come mi fa bene vedere che tu piangi!... Perché non hai pianto?... da tanto tempo!... da tanto!... Come mi fa bene!... Mi sembra che facciami rinascere... Mi sembra che guarirò..."
Egli non osava dire come fosse colpevole, sentiva che ella lo sapeva, non osava domandarle quel perdono che gli era anticipato generosamente. Singhiozzava forte, a scosse, senza staccarsi da lei; l'alba entrava dolcemente dalla finestra - come in quell'albergo - e imbiancava quell'altro viso trafelato d'inferma.
"Tu guarirai!..." balbettava alfine Giorgio con voce rotta "senti cosa ti dico, tu guarirai!... e saremo felici un'altra volta... partiremo per la campagna... Là staremo insieme... Sempre insieme!... e nessuno!... nessuno!..."
"Come mi fa bene sentirti parlare così!... Come mi sembra bella l'alba!... Mi sento meglio, sì, mi pare di star meglio... Fa venire Giannino... Povero bimbo! Fammelo vedere..."
Giorgio andò a prendere il bambino, in punta di piedi, e la madre l'avvinse in un lungo e muto abbraccio, colle lagrime impietrate nell'orbita; poi passò quel povero braccio debole e stanco anche sul collo di Giorgio, ed entrambi si tennero stretti su quel piccino roseo e fresco, che li guardava con i suoi grandi occhioni ancora imbambolati dal sonno.
"Un miglioramento infatti c'è e sensibilissimo", disse Rendona ch'era venuto per tempissimo. "Un vero miglioramento sul quale si può contare. Alla buon'ora!... forse la scapperemo bella anche quest'altra volta", borbottò fra i denti.
XVIII
Erminia migliorò realmente, e in capo a pochi giorni entrò in piena convalescenza. Giorgio non la lasciava un momento; la covava, come si dice, cogli occhi, quasi dovesse farsi perdonare un gran fallo, dimenticando i brutti giorni passati a misura che la moglie rifioriva in salute, e sentendosi rinascere anche lui. Godeva di vederla assisa nella sua poltrona, vicino a quella finestra, pallida ancora e dimagrata, sorridendo con una dolce tinta di mestizia a lui e al suo bambino, e provava un vago sentimento di letizia a far riandare il pensiero a quella notte angosciosa, passata ai piedi del letto, a quei tristi giorni agitati. Allorché contemplava le membra gracili e qualche volta ancora tremanti della cara persona provava una tenerezza nuova, più profonda, più intensa, e insieme una commiserazione affettuosa per quel che ella avea dovuto soffrire, una grande devozione, un gran rispetto per la debole creatura che gli avea dato tal lezione di forza. In alcuni momenti avea vergogna, trovavasi umiliato dinanzi a lei così nobile e modesta, sentiva confusamente una gran gioia di amarla tanto, e d'esserne tanto amato, per dimenticare insieme a lei.
Verso gli ultimi del giugno, Rendona diede finalmente la sua approvazione a quel famoso progetto d'andare a passare l'estate in campagna, che Giorgio ficcava in tutti i discorsi, e suggeriva come il rimedio per eccellenza. Faceva già troppo caldo per andare a Tremestieri o alla Piana; Erminia avea fatto accettare Giarre. I preparativi furono una grande occupazione e una gran festa. Partirono finalmente una domenica, col treno della mattina; dal cielo sembrava piovere della polvere d'oro, il mare luccicava di strisce d'argento; i giardini sparsi lungo la linea gettavano dentro i vagoni la fragranza dei fiori d'arancio; alle stazioni di campagna si vedevano dei contadini in abito di festa; le ragazze che passavano per le vie di campagna parallele alla strada ferrata salutavano il convoglio con grida giulive. Alla stazione di Acireale c'era una gran folla di venditori ambulanti, di cacciatori, e di contadini della Calabria che venivano a stormi per la mietitura. I due sposi erano soli nel loro scompartimento; Erminia osservava con curiosità il va e vieni di bagagli e viaggiatori; Giorgio guardava dall'altra parte. Il convoglio stava fermo più del tempo prescritto, poiché sulle rotaie si eseguivano delle manovre per un altro treno speciale che partiva. Questo treno era formato da due sole carrozze, oltre la macchina. In quel momento giungeva un signore di una certa età, biondo e vestito di nero, seguito da alcuni domestici, anch'essi in lutto; un impiegato della stazione chiudeva con fracasso lo sportello di uno dei vagoni che all'interno era parato di nero; in fondo a quel vagone si vedeva qualcosa come una bara, con una gran corona di fiori e un gran nastro che pendeva da un lato. Il signore in lutto si era levato il cappello, avea scambiato qualche parola col capo-stazione ed era montato sull'altra carrozza. Alle finestre dell'albergo stavano affacciati molti curiosi, coi gomiti appoggiati sul davanzale. Erminia s'era rivolta verso il marito e l'avea visto pallido e stralunato, ritto presso lo sportello, guardando quello spettacolo con occhi affascinati. La macchina dell'altro treno fischiò e il funebre convoglio partì lentamente, barcollando. Giorgio, ch'era rimasto tutto quel tempo come una statua, senza fare un gesto e senza dire una parola, si strinse nelle spalle con un brivido improvviso di freddo, sprofondò il capo nelle spalle, quasi volesse nascondervelo, e cadde seduto.
Erminia s'era fatta pallida anch'essa, quasi avesse visto anch'essa quel fantasma implacabile mettevasi fatalmente un'ultima volta sul loro cammino, e sembrava sorgere dalla tomba per attraversare tutti i loro sogni di pace, di amore e di felicità. Giorgio era annichilato: ad un tratto sentì stringersi la mano e si trovò il bimbo che gli era stato messo fra le braccia; il povero Giannino lo guardava sbalordito. La Ferlita con un movimento brusco e improvviso nascose il volto fra quelle piccole braccia, fuggendo una visione terribile, e sentì le braccia di Erminia che gli cingevano il collo.
"Povero Giorgio!" mormorava Erminia. "Noi t'ameremo tanto! tanto!..."
Egli, senza una lagrima, ma pallido come un cadavere, se li strinse entrambi sul petto, forte, e a lungo.
Allorché il convoglio si fermò a Giarre egli alzò il capo tuttora pallidissimo, guardò al di fuori, respirò con forza; sembrava si destasse da un lungo e penoso sonno. Il funebre corteo che li precedeva era scomparso; il fumo svolgevasi ancora lentamente dall'imboccatura della galleria, squarciandosi e diradandosi in larghi fiocchi sul cielo azzurro.
Non rimaneva più altro del passato.
Quando furono a Giarre, La Ferlita vi trovò un dispaccio telegrafico che era stato rimandato dall'ufficio di Catania, e che l'aspettava. Il telegramma non conteneva, oltre l'indirizzo e la data, che questa sola parola:
"Addio."