[Pagina precedente]...ura la salute della moglie, la quale era rimasta molto scossa, e poi non si faceva vedere fino a sera. La serena e rassegnata dolcezza di Erminia gli pungeva il cuore nel più vivo; sembravagli scorgere qualcosa d'incerto, qualcosa che voleva nascondersi quand'ella gli rivolgeva la parola e gli figgeva in viso gli occhi. Era arrendevolissimo ai menomi desideri della moglie: ma allorché Rendona avea consigliato un cambiamento d'aria per la madre e per il piccolo convalescente, e avea suggerito che tutta la famiglia andasse a passare l'estate nella loro campagna presso Giarre, egli si era opposto con molta vivacità , senza addurne le ragioni. Una volta che proprio ci sarebbe stato urgente bisogno di una sua gita a Giarre, si era rifiutato risolutamente.
Non era più andato ad Acireale. Due o tre volte era arrivato sino alla stazione, e poi era tornato indietro più combattuto che mai. Non avea il coraggio di rivedere Nata, avea paura. Quella moribonda era sempre lì, coi suoi occhi impietrati, il suo viso livido, il suo amaro sorriso di rimprovero. Dall'altro canto c'era in fondo al suo cuore, al di fuori di sé, nelle ciarle del mondo, negli sguardi dei suoi amici, un vago sentimento del dovere, della giustizia, dell'onore, di tutto quello che improvvisamente gli avea fatto sentire la sua mano di ferro nel momento in cui era arrivato sull'uscio della camera del suo bimbo moribondo, sentimento che avea conosciuto allora, per la prima volta in sua vita, sentendolo insorgere dentro di sé come una vampa di rossore, come una fitta di rimorso, e gli s'era inchiodato là , in quella casa, in ogni suo passo, in mezzo a tutti i sofismi della passione, incrollabile e inesplicabile. Sembravagli in ogni momento di vedere laggiù, su quell'orizzonte dietro il Capo dei Mulini, qualcosa che l'affascinava e l'atterriva. Avea il presentimento di aspettare una notizia funesta; provava delle scosse nervose all'annunzio più semplice, quando il domestico entrava nel suo gabinetto, quando il campanello squillava all'improvviso. Errava per la casa quasi barcollante; cercava delle occupazioni; si creava degli affari imperiosi; andava e veniva con un'aria affrettata ed inquieta; in certi momenti avea gli occhi di un pazzo. Quando vedeva giungere il medico diveniva pallido; allorché Rendona cominciava a parlare dei suoi ammalati si alzava, passeggiava per la camera, tornava a sedere, non diceva una parola, lo guardava con aria stralunata. Un giorno che era stato a fargli visita, egli era scappato dalla camera della moglie, adducendo un pretesto; poi l'avevo trovato sull'uscio dell'anticamera; mi domandò soltanto:
"Come sta?"
"Credo al solito", gli dissi.
"Non l'hai più vista?"
"No..."
"Insomma, non c'è stato nulla di nuovo all'albergo?..."
"Nulla."
Egli respirò con forza, e mi strinse la mano con un tremito leggiero: "Grazie."
Di tratto in tratto, in mezzo alle occupazioni della giornata un pensiero dispotico gli attraversava la mente e gli dava come una scossa al cuore; la parola gli moriva sulle labbra, i suoi occhi si fissavano nel vuoto, sbarrati, quasi vedessero sorgersi dinanzi un fantasma. Aveva delle impazienze brusche, irragionevoli, dei tentativi di rivolta contro tutto ciò che non aveva rispettato altrimenti che a parole. Tutti i principii del bene e del male, del diritto e del torto gli si erano confusi in mente, s'erano smarriti in una grande concitazione; ne parlava con parole amare, come se gli si gonfiassero in cuore con degli accessi irrefrenabili d'amarezza e di collera. Osservando alla sfuggita Erminia così rassegnata, così calma in apparenza, sentiva un sordo rancore verso quella gran serenità del bene che a lei non costava nulla, eppure inaspriva le sue segrete torture; le invidiava la coscienza tranquilla, e si domandava quel che valesse quella pace non contrastata; quella gran calma inalterata dell'onestà gli rinfacciava ad ogni momento la sua agitazione febbrile e il turbamento della sua coscienza; se ne sentiva soggiogato, invidiava sordamente sua moglie, ammirandola, e nei momenti delle sue angoscie più acute provava un sentimento di ostilità contro di lei.
Se avesse potuto immaginare quanto costava alla povera Erminia!
Ella avea tutto indovinato, colla delicatezza squisita della donna; gli amici di Giorgio s'erano creduti in debito di narrarle un po' alla volta vita e miracoli del marito, e specialmente la leggenda del viale Principe Amedeo; Giorgio in fondo era troppo onesto per riuscire a dissimulare completamente quello che soffriva. Da principio la povera donna s'era trovata sbigottita; l'isolamento in cui avea passato la prova crudele di quella notte in cui il bambino era stato per morire le faceva paura, vedeva quel triste isolamento sempre dinanzi a sé, per quant'era lungo l'avvenire, nel mutato contegno dello sposo, nelle sue attenzioni impacciate e timide, nelle sue distrazioni, nelle sue preoccupazioni frequenti, in quegli occhi che evitavano i suoi, e che avevano costantemente qualche altra cosa dinanzi. Si sentiva derelitta; quel bambino convalescente le stringeva il cuore, quasi fosse orfano e qualche volta le carezze del padre urtavano la sua delicatezza, le repugnavano come se fossero mendicate; allora avvampava in viso. Sentiva istintivamente l'abisso che allargavasi fra lei e quello sposo sul quale si erano appoggiati ad uno ad uno tutti i suoi affetti, dal giorno ch'era rimasta sola con lui, in quella carrozza che l'allontanava al gran trotto dalla sua mamma, dalla sua casa, dalle sue affezioni passate, e metteva intera la sua vita nelle braccia di quell'uomo che per pochi mesi innanzi era ancora uno sconosciuto per lei. Ora che lo sentiva allontanarsi alla sua volta, provava lo stesso sentimento d'inquietudine, lo stesso sbigottimento, lo stesso bisogno di attaccarsi a qualche cosa che allora l'avea fatta attaccare al braccio di lui; l'isolamento stavolta era più amaro, più agitato, era punzecchiato tratto tratto da vaghi turbamenti, da immagini e riminiscenze che la facevano sognare ad occhi aperti, le gettavano delle fiamme sul viso, delle tepide correnti nei nervi, durante le lunghe ore silenziose della sua camera deserta, e la facevano ridestare di soprassalto. Non osava lagnarsi; nascondeva gelosamente quel che soffriva, non per dignità , ma per un inesplicabile bisogno, perché non osava confessarlo a se stessa. Poi, cosa più dolorosa, quello sposo che le toglieva giorno per giorno non solamente il cuore, ma l'intimità , la schiettezza, la fiducia, il sorriso, le imponeva soggezione, diventava non solo un estraneo, ma un padrone.
Da quella notte in cui aveva sofferto per la prima volta come, nelle grandi afflizioni che avea avuto da ragazza, non avea creduto che si potesse soffrire giammai, il cuore della donna si era formato con tutte le tenerezze, con tutta la sua delicata sensibilità , con tutti i tesori dell'affetto, meglio di come non l'avessero fatto le prime impressioni della vita, della giovinezza, della felicità , dell'amore; meglio di come non l'avesse fatto il primo sentimento della maternità che s'era svegliato col primo vagito del suo bambino - e in quella notte il suo Giorgio non era stato là ... il suo pensiero rifuggiva dal cercarlo dove era stato. Sentiva perciò una gran riconoscenza, una tenerezza più intensa, più profonda pel cugino Carlo che avea sofferto con lei; perché in quella notte in cui tutti i suoi pensieri si sconvolgevano e si abbuiavano, erale parso che tutto il mondo dovesse soffrire come lei. Il primo irrompere della sua gratitudine era stato impetuoso, l'era montato dal cuore alla testa, come una vertigine, l'avea fatta trasalire sin nelle più intime fibre del cuore! Però da quel momento in cui avea gettato le braccia al collo del cugino come se fosse stato un salvatore, avea evitato istintivamente di trovarsi sola con Carlo; sentiva che il gran bene che gli voleva e che gli avea sempre voluto, la turbava per la prima volta - allorché l'avea rivisto si era fatta di porpora in viso.
Anche Carlo non sembrava più quel di prima. Stava dei lunghi quarti d'ora in silenzio e giocherellando coi guanti o colla frangia del canapè, mentre la signora Ruscaglia chiacchierava colla figlia, o mentre Erminia colmava di carezze il suo Giannino ancora palliduccio; avea perso il suo gaio umore, il suo riso spensierato, la sua franchezza giovanile; evitava di parlare di quelle cose che potessero rimorchiare a tradimento il volume del Prati o l'anticameretta gialla; discorreva di rado della sua partenza, e vi pensava spesso: si confondeva qualche volta allorché Erminia o suo marito gli domandavano particolari de' suoi viaggi, e si alzava dieci volte per andarsene quando rimaneva solo colla cugina. - Anche lui, la prima volta che avea rivisto la cugina e s'era accorto delle vampe che le montavano dal collo alla fronte, s'era sentito far di bracia in viso. Erminia credeva di volergli bene perché egli non cercava di leggerle in cuore, e per lo studio che metteva nell'evitare le occasioni di trovarsi soli e imbarazzati tutti e due. "Quando ritornerai?" gli domandava. "Chi lo sa? fra due, fra tre anni..." Erminia sentiva una gran tenerezza pensando che forse non si sarebbero visti mai più. "Ritornerai contrammiraglio, almeno?" soggiungeva colla migliore intenzione di sembrare gaia e di farlo ridere. Egli sorrideva tristamente infatti e la guardava in viso senza dir altro.
Il turbamento di Erminia però cominciava a dileguarsi, perché in cuore le si andava gonfiando lentamente una gran pienezza di vita, una grande gioia inquieta e inesplicabile, una dolcezza che si ridestava di tanto in tanto con punte acute le quali le traversavano tutte le vene, una dolcezza che l'invadeva, che l'assopiva a poco a poco, che gettava un balsamo, un velo, sulle sue angoscie, sul suo sconforto, sulle amarezze e il dolore di vedersi abbandonata dal marito, e fin sull'immagine del marito, e le faceva sentire come una dolce stanchezza, come un gran bisogno d'addormentarsi in qualche cosa. Non sapeva da che le venisse, avea paura di indovinarlo, era felice di ignorarlo. Quando il suo spirito si svegliava inquieto, ansioso, e turbato, provava un gran desiderio di rituffarsi in quell'oblio, di stare vicino al cugino, di ascoltare la sua voce, di seguirlo col pensiero nelle lontane regioni che alla sua immaginazione sembravano tutte colorate di azzurro; le pareva di volergli bene perché accanto a lui sembravale di ritornare agli anni spensieratamente felici della sua giovinezza, fra le rose del giardino, colte per lui, le strette di mano dell'anticameretta gialla, e i versi letti insieme, vicino a quel tavolinetto, sotto quel lume dalla gran ventola dipinta a fiori. Sognava, sognava, cogli occhi fisi; il passato era tutto azzurro, come gli ignoti paesi dove il suo pensiero soleva seguir Carlo; non vi si vedeva che le gioie più schiette, più dolci, più profonde, e nello stesso tempo più vaporose. Allora stava ad ascoltarlo delle ore intiere zitta zitta, a guisa di bambina; ei narrava semplicemente, senza enfasi, ma coll'accento della verità , le splendide albe del mare, i dolci tramonti, la pace immensa, le contrade diverse e lontane, le tempeste solenni e gigantesche, le febbri delle battaglie, fra il rombo assordante, il comando breve ed austero, il tumulto della vita e della morte, le sublimi ebbrezze della lotta e della vittoria, l'orgoglio della gloria, dell'onore, della patria e della bandiera. Ella non fiatava, si sentiva stringere e allargarsi il cuore con violenza, cambiava di colore cento volte; lo guardava, lo guardava, non poteva saziarsi di mirarlo, e il suo pensiero errava lontano; le pareva di vedere il suo povero cugino ch'era piuttosto delicato, così giovane, così debole, orfano di padre e di madre, in mezzo a tutta quella rovina d'uomini e di elementi in collera, e sorridente, con dolcezza come in quel momento; allora sentiva una gran tentazione di buttargli le braccia al collo e di non lasciarlo partire mai più. Il cuore le si gonfiava, le si gonfiava con un nodo...
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