[Pagina precedente]... con voce sorda:
"Soprattutto... non mi far della morale; sai che è inutile."
"Io non te ne ho mai fatta, caro Giorgio; da dove diavolo ti è venuta questa idea..."
"M'è venuta... che avrei dovuto evitarti, e incontrandoti mi son vergognato di me."
Alcune finestre dell'albergo disegnavano qua e là sulla facciata bruna dei quadranti luminosi. Giorgio, ritto dinanzi a me, sembrava interrogarle tutte collo sguardo.
"Dov'è?" mi domandò alfine, come se avessimo già parlato di qualcheduno. "Faccio male, lo so! Hai visto come mi guardava quella povera Erminia? Sembrava che mi leggesse in cuore. E il mio Giannino?... chissà come starà a quest'ora?... Hanno un bel dire... In questo momento se alcuno mi bruciasse le cervella mi farebbe un gran bene... Ma sento che è più forte di me... quella poveretta si muore... sai... L'ho sempre dinanzi agli occhi, e se oggi fossi stato costretto a non poter venire qui mi pare che la testa mi sarebbe scoppiata!..."
Egli andava su e giù pel viale; strappava le foglie degli arbusti che masticava con una specie di rabbia. Ad un tratto lo vidi che si celava il viso fra le mani, e scoppiò in singhiozzi senza poter proferire una sola parola.
Quell'uomo che si accasciava sotto il dolore faceva pietà ; Giorgio, di solito così fatuo, così spensierato, si contorceva per nascondermi le sue lagrime e la sua debolezza. Tentai prendergli una mano; egli mi respinse dolcemente e continuò a piangere.
"Se tu sapessi quanto costino certe gioie fatali!" mi disse alfine con un accento che penetrava l'anima "e quanto si soffra a esser così miserabile!"
"Giorgio!"
"Lo so che sono un miserabile! Ho ingannato quella povera Erminia, ho lasciato mio figlio quando sarebbe stato mio dovere di assisterlo, ho lasciato la mia casa, la mia felicità ... il cuore mi si spezzava a lasciarli... e son partito!"
"Perché sei partito dunque?"
"Perché" e mi piantò in viso uno sguardo da insensato "perché bisognava... perché ella mi ha scritto."
"E la tua visita a che le gioverà ?"
"Non lo so! a nulla! Bisognava andare."
"Hai provato a pensare il contrario, ad affermarti nell'idea che non avresti dovuto andare... né per te, né per lei?"
Egli rispondeva come fosse fuori di sé.
"Provare? a che provare? Se è più forte di me, ti dico!... Si, le conosco tutte le vostre ragioni, le vostre convenzioni, i vostri doveri!... lo so, sono uno sciagurato!... ed eccomi qui come un dannato!"
Rimase così qualche tempo, col viso fra le mani, poscia si scosse, udendo suonare la mezzanotte, e con accento risoluto:
"Addio!" mi disse. "Bisogna che vada. Lasciami andare."
XIII
I lumi erano spenti quasi tutti nel corridoio che metteva alle stanze di Nata; l'uscio era socchiuso; Giorgio aprì esitando e vide la camera debolmente illuminata. Ella era ritta accanto al seggiolone, vestita di bianco, immobile, rivolta verso l'uscio. Gli andò rapidamente incontro, strisciando sul tappeto come un fantasma, più bianca della veste che indossava, colle braccia tese e gli occhi ardenti, e l'avvinse in un abbraccio da lupa.
Non diceva nulla. Lo teneva sempre così, sul suo petto. Di tratto in tratto gli afferrava il capo, lo scostava per fissargli uno sguardo felino negli occhi senza dire una parola, e tornava a stringerselo al seno con impeto.
Per caso si udì un lieve rumore dietro l'uscio: ella si volse come una fiera:
"Chiudi!" fu la sola parola che gli disse, con voce che lo fece trasalire.
"Chi può essere di là "
"Mio marito. Ma non ci abbadare. Tu avrai il tuo revolver... se la fatalità lo spinge sin qui, lo uccido."
E senza curarsi dell'impressione che quelle parole potevano fare su di lui, si rimise a fissarlo con occhi insaziati.
"Ti aspettavo!" gli disse poscia sordamente.
Ei la baciava: le labbra di lei rimanevano immobili.
"Hai preso moglie?" domandò alfine.
Ma non gli diede tempo di rispondere: gli si avventò al collo con un che di selvaggio:
"Qui! Dammi la tua fronte!... e le tue labbra! Qui..."
Ad un tratto si irrigidì, e gli si abbandonò nelle braccia; Giorgio la trascinava verso la poltrona.
"Non è nulla!" balbettava ella col capo arrovesciato all'indietro "non aver paura. Dammi quella boccetta... lì..."
Come l'ebbe sturata, si sentì al forte odore che dovea essere un cordiale efficacissimo. Nata comprese la titubanza di lui, gli sorrise tristamente, e togliendogliela di mano ripetè con impazienza:
"Non aver paura, non potrà farmi un gran male; e adesso ne ho bisogno!"
Appena ebbe bevute due o tre goccie che avea versato in un cucchiaino, le gote le arsero di una fiamma improvvisa, e si mise a ridere in modo che stringeva il cuore. "Come fa bene! mi sembra che mi abbia messo del fuoco... qui."
Giorgio stava a guardarla con occhi aridi, senza poter trovare una parola né una lagrima; si sentiva soffocare da un cumulo di sentimenti, d'affetti e d'angoscie diverse. Ella, con triste civetteria da inferma s'era abbigliata con cura; aveva annodato i suoi capelli in due grosse trecce, avea delle trine preziose sul petto roso dalla tisi. - Egli la vedeva sempre in fondo a quel palchetto della Pergola, e nei viali del giardinetto in via Principe Amedeo, leggiadra e sarcastica.
"A che pensi? Non voglio che pensi a tua moglie", gli disse ella con collera.
Giorgio sprofondò il capo nelle spalle.
"L'ami cotesta donna? No, non mi rispondere", aggiunse vivamente mettendogli una mano sulla bocca. "L'ho vista al teatro... è bella!"
Chiuse gli occhi e due lagrime scesero per le sue guance lentamente, cadendo a piccole scosse. Successe un lugubre silenzio in quel colloquio d'amanti. A un tratto Nata spalancando gli occhi e fissandoli sbarrati in quelli di lui:
"Perché mi guardi così? Son diventata brutta? Ho ancora i capelli molto belli, guarda! snodali... Non aver paura di me, non morrò ancora! E poi, t'amo tanto!"
In così dire brancicando gli si avviticchiava al collo, e gli appoggiava la testa in seno con una specie di voluttà disperata.
Tutt'a un tratto gli mise le mani sul petto, scostandolo con una forza che Giorgio non avrebbe supposto in lei, e con gli occhi ardenti e fisi su di lui.
"Dimmi che non ami questa donna! dimmi che non l'ami!"
Giorgio chinò gli occhi.
"Dimmi che non l'hai amata, che ami me sola. Dimmelo!"
Ei mentì, senza saper di mentire, e senza vergogna di mentire. Allora ella seguitò a fisarlo in quel modo, e dopo alcuni secondi di quel silenzio, con un accento intraducibile:
"Hai un figlio di costei?"
Giorgio taceva umiliato; ma Nata all'improvviso attirò bruscamente il capo di lui sul suo grembo, vi appoggiò il suo e cominciò a piangere.
"Non piangere!" esclamò Giorgio che si sentiva spezzare il cuore.
"Non piangerò più... no, non piangerò più..." le lagrime le si asciugarono nell'occhio febbrile e corrucciato. "Ho il diritto ad essere felice anch'io... Che m'importa di costei!... dille che ti ho amato prima di lei... dille che morrò presto... dille... Non ho avuto la forza di morire senza vederti... Quando ti scrivevo così... non credevo che dovessi morire così presto... non sapevo cosa fosse sentire la vita che fugge... non mi sentivo il cuore così pieno... Se sapessi com'è triste il morire! e morir sola, in un albergo! Mio marito è venuto adesso, all'ultimo momento... gli ha scritto i medico... così è sicuro di non mancare al suo dovere laggiù... per più di un mese... e ha messo in salvo il dovere e la convenienza... Cosa vuoi che me ne faccia di quest'uomo? cos'è per me? Ti ho fatto ribrezzo quando ho detto che se in questo momento fosse venuto a mettersi fra di noi sarebbe stata una fatalità !... Cos'è tutto il mondo adesso che sto per lasciarlo?... Cosa ho da temere dippiù? Cosa devo aspettarmi? Non ho che te, e ti voglio! intendi? a dispetto di tua moglie, a dispetto di tuo figlio, a dispetto di tutti!..."
Parlava con voce sorda e brusca, risolutamente, e con un che di fosco e di fatale. Egli avea i capelli irti, molli di sudore, l'abbracciava con una frenesia spaventosa, quasi fosse in preda a un delirio; sembravagli che quelle ossa che si avviticchiavano a lui scricchiolassero; l'ebbrezza del suo amore era mostruosa, quasi la dividesse con un cadavere; l'immagine di sua moglie, di suo figlio infermo, della sua dimora tranquilla, della sua felicità domestica, mischiavasi a quel fantasma della donna che avea tanto amato in un orribile e doloroso incubo. Ella irrigidita, quasi svenuta, metteva dei piccoli gridi selvaggi, e difendeva i veli del suo petto con pudore d'inferma. Ad un tratto si mise a stracciarli lei stessa, fuori di sé, poi gli si abbondonò nelle braccia con rigidità catalettica, balbettando, singhiozzando, annaspando colle mani verso il letto. Egli ve l'adagiò, colle vesti disfatte, i capelli sparsi, stecchita come un cadavere.
Delle lagrime le scorrevano lente lente per le guance; avea gli occhi chiusi, e le labbra contratte da una convulsione dei muscoli del viso scoprivano la doppia fila dei suoi denti lucidi ancora come perle.
Mentre sembrava che dormisse, spalancò gli occhi all'improvviso, guardandolo sbigottita, come delirante, e lo respinse con impeto.
"No! quella donna... quella donna ch'è sempre lì, fra di noi!... No! no!"
Da quel momento si mise a vaneggiare per quasi mezz'ora; infine si assopì penosamente. Giorgio udiva il suo respiro sibilante, la sentiva trasalire fra le sue braccia; di tanto in tanto ella si scuoteva con un gran sussulto e gli fissava in volto dei grandi occhi sbarrati senza vederlo; dormiva colla testa arrovesciata all'indietro; il naso sembrava acuto e sottile; gli occhi erano incavernati; due grandi sfumature livide solcavano le gote; i capelli erano sparsi in disordine sul cuscino; la veste bianca la modellava rigidamente, distesa com'era sul letto; attraverso la scollatura semiaperta si vedeva il petto solcato da ombre profonde. Giorgio fissava su di lei che dormiva gli occhi affascinati. Quell'orribile notte d'amore durava eterna.
Finalmente apparvero i primi barlumi del giorno sui quadri che ornavano le pareti e sul bianco cortinaggio; i mobili cominciarono a disegnarsi nettamente in una luce ancora incerta; allora l'inferma si svegliò.
"Ho dormito... mi sento bene!" mormorò, "mi sento proprio bene."
Cercò brancolando la mano di Giorgio, e si voltò verso di lui. Al chiarore dell'alba il suo viso sembrava ancora più incadaverito.
"È giorno diggià ? Come ho dormito a lungo!... Aiutami ad alzarmi, voglio vedere l'alba."
Ei la sollevò di peso, e tenendosi colle braccia al collo di lui, l'inferma andò sino alla finestra. Tutti nell'albergo dormivano ancora; alcuni impiegati della stazione andavano e venivano fra le rotaie colle lanterne accese: un gallo ritto e pettoruto su di una catasta di regoli, provava il suo mattutino; il cielo era di un azzurro cupo, striato di vapori lattiginosi, e leggermente rosato verso l'oriente; sul mare ancora grigio e fosco si vedeva per l'ampia distesa la lunga fila delle vele dei pescatori.
"Che pace!" mormorò Nata. "Quanta gente felice ci sarà a quest'ora!"
Giorgio rabbrividì.
"Addio!" gli disse ella risolutamente, ma con uno sforzo - avea la voce commossa e gli occhi pieni di lagrime. "Ritornerai stasera?"
"Si"
"Me lo prometti?"
Gli teneva le mani.
"Sarà per poco ancora!... Vieni... Non ho che te. Sarà per poco ancora!"
Giorgio l'abbracciò col cuore preso come in una morsa, ed ella si lasciò baciare, immobile, colle labbra chiuse e gli occhi fisi.
Egli uscì barcollando.
XIV
Rendona non avea potuto fare la solita visita della sera alla sua ammalata dell'albergo, perché era stata chiamato in tutta fretta a casa La Ferlita. Col cadere del giorno il male del bambino si era aggravato, la febbre erasi fatta violentissima, e la difterite si era presentata improvvisa e minacciosa.
Il bambino era stato messo sul letto, ed Erminia non gli si era tolta d'accanto, spiandone con ansia ed angoscia i più piccoli sintomi sul volto incadaverito, e trasalendo allorché l'udiva strillare in tal maniera e tal voce soffocata che gli occhi e il cuore della povera madre si gonfiavano di lagrime. Sin che il sole avea scintillato sui vetri...
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