[Pagina precedente]...a testaccia che riuscirà a qualcosa, te lo assicuro io! - E Stardi socchiudeva gli occhi sotto quelle ruvide carezze come un grosso cane da caccia. Io non so; non osavo scherzare con lui; non mi pareva vero che avesse solamente un anno più di me, e quando mi disse - A rivederci - sull'uscio, con quella faccia che par sempre imbronciata, poco mancò che gli rispondessi: - La riverisco - come a un uomo. Io lo dissi poi a mio padre, a casa: - Non capisco, Stardi non ha ingegno, non ha belle maniere, è una figura quasi buffa; eppure mi mette soggezione. - E mio padre rispose: - È perché ha carattere. - Ed io soggiunsi: - In un'ora che son stato con lui non ha pronunciato cinquanta parole, non m'ha mostrato un giocattolo, non ha riso una volta; eppure ci son stato volentieri. - E mio padre rispose: - È perché lo stimi.
Il figliuolo del fabbro ferraio
Sì, ma anche Precossi io stimo, ed è troppo poco il dire che lo stimo. Precossi, il figliuolo del fabbro ferraio, quello piccolo, smorto, che ha gli occhi buoni e tristi, e un'aria di spaventato così timido, che dice a tutti: scusami; sempre malaticcio, e che pure studia tanto. Suo padre rientra in casa ubriaco d'acquavite, e lo batte senza un perché al mondo, gli butta in aria i libri e i quaderni con un rovescione; ed egli viene a scuola coi lividi sul viso, qualche volta col viso tutto gonfio e gli occhi infiammati dal gran piangere. Ma mai, mai che gli si possa far dire che suo padre l'ha battuto. - È tuo padre che t'ha battuto! - gli dicono i compagni. Ed egli grida subito: - Non è vero! Non è vero! - per non far disonore a suo padre. - Questo foglio non l'hai bruciato tu, - gli dice il maestro, mostrandogli il lavoro mezzo bruciato. - Sì, - risponde lui, con la voce tremante; - son io che l'ho lasciato cadere sul fuoco. - Eppure noi lo sappiamo bene che è suo padre briaco che ha rovesciato tavolo e lume con una pedata, mentr'egli faceva il suo lavoro. Egli sta in una soffitta della nostra casa, dall'altra scala, la portinaia racconta tutto a mia madre; mia sorella Silvia lo sentì gridare dal terrazzo un giorno che suo padre gli fece far la scala a capitomboli perché gli aveva chiesto dei soldi da comperare la Grammatica. Suo padre beve, non lavora, e la famiglia patisce la fame. Quante volte il povero Precossi viene a scuola digiuno, e rosicchia di nascosto un panino che gli dà Garrone, o una mela che gli porta la maestrina della penna rossa, che fu sua maestra di prima inferiore! Ma mai ch'egli dica: - Ho fame, mio padre non mi dà da mangiare. - Suo padre vien qualche volta a prenderlo, quando passa per caso davanti alla scuola, pallido, malfermo sulle gambe, con la faccia torva, coi capelli sugli occhi e il berretto per traverso; e il povero ragazzo trema tutto quando lo vede nella strada; ma tanto gli corre incontro sorridendo, e suo padre par che non lo veda e pensi ad altro. Povero Precossi! Egli si ricuce i quaderni stracciati, si fa imprestare i libri per studiare la lezione, si riattacca i brindelli della camicia con degli spilli, ed è una pietà a vederlo far la ginnastica con quelli scarponi che ci sguazza dentro, con quei calzoni che strascicano, e quel giacchettone troppo lungo, con le maniche rimboccate sino ai gomiti. E studia, s'impegna; sarebbe uno dei primi se potesse lavorare a casa tranquillo. Questa mattina è venuto alla scuola col segno d'un'unghiata sopra una gota, e tutti a dirgli: - È stato tuo padre, non lo puoi negare sta volta, è tuo padre che t'ha fatto quello. Dillo al Direttore, che lo faccia chiamare in questura. - Ma egli s'alzò tutto rosso con la voce che tremava dallo sdegno: - Non è vero! Non è vero! Mio padre non mi batte mai! - Ma poi, durante la lezione, gli cascavan le lacrime sul banco, e quando qualcuno lo guardava, si sforzava di sorridere, per non parere. Povero Precossi! Domani verranno a casa mia Derossi, Coretti e Nelli; lo voglio dire anche a lui, che venga. E voglio fargli far merenda con me, regalargli dei libri, metter sossopra la casa per divertirlo e empirgli le tasche di frutte, per vederlo una volta contento, povero Precossi, che è tanto buono e ha tanto coraggio!
Una bella visita
12, giovedì
Ecco uno dei giovedì più belli dell'anno, per me. Alle due in punto vennero a casa Derossi e Coretti, con Nelli, il gobbino; Precossi, suo padre non lo lasciò venire. Derossi e Coretti ridevano ancora ché avevano incontrato per strada Crossi, il figliuolo dell'erbivendola, - quello del braccio morto e dei capelli rossi, - che portava a vendere un grossissimo cavolo, e col soldo del cavolo doveva poi andar a comperare una penna; ed era tutto contento perché suo padre ha scritto dall'America che lo aspettassero di giorno in giorno. Oh le belle due ore che abbiamo passate insieme! Sono i due più allegri della classe Derossi e Coretti; mio padre ne rimase innamorato. Coretti aveva la sua maglia color cioccolata e il suo berretto di pel di gatto. È un diavolo, che sempre vorrebbe fare, rimestare, sfaccendare. Aveva già portato sulle spalle una mezza carrata di legna, la mattina presto; eppure galoppò per tutta la casa, osservando tutto e parlando sempre, arzillo e lesto come uno scoiattolo, e passando in cucina domandò alla cuoca quanto ci fanno pagare le legna il miriagramma, ché suo padre le dà a quarantacinque centesimi. Sempre parla di suo padre, di quando fu soldato nel 49° reggimento, alla battaglia di Custoza, dove si trovò nel quadrato del principe Umberto; ed è così gentile di maniere! Non importa che sia nato e cresciuto fra le legna: egli l'ha nel sangue, nel cuore la gentilezza, come dice mio padre. E Derossi ci divertì molto: egli sa la geografia come un maestro: chiudeva gli occhi e diceva: - Ecco, io vedo tutta l'Italia, gli Appennini che s'allungano sino al Mar Jonio, i fiumi che corrono di qua e di là , le città bianche, i golfi, i seni azzurri, le isole verdi; - e diceva i nomi giusti, per ordine, rapidissimamente, come se leggesse sulla carta; e a vederlo così con quella testa alta, tutta riccioli biondi, con gli occhi chiusi, tutto vestito di turchino coi bottoni dorati, diritto e bello come una statua, tutti stavamo in ammirazione. In un'ora egli aveva imparato a mente quasi tre pagine che deve recitare dopo domani, per l'anniversario dei funerali di re Vittorio. E anche Nelli lo guardava con meraviglia e con affetto, stropicciando la falda del suo grembialone di tela nero, e sorridendo con quegli occhi chiari e melanconici. Mi fece un grande piacere quella visita, mi lasciò qualche cosa, come delle scintille, nella mente e nel cuore. E anche mi piacque, quando se n'andarono, vedere il povero Nelli in mezzo agli altri due, grandi e forti, che lo portavano a casa a braccetto, facendolo ridere come non l'ho visto ridere mai. Rientrando nella stanza da mangiare, m'accorsi che non c'era più il quadro che rappresenta Rigoletto, il buffone gobbo. L'aveva levato mio padre perché Nelli non lo vedesse.
I funerali di Vittorio Emanuele
17, martedì
Quest'oggi alle due, appena entrato nella scuola, il maestro chiamò Derossi, il quale s'andò a mettere accanto al tavolino, in faccia a noi, e cominciò a dire col suo accento vibrato, alzando via via la voce limpida e colorandosi in viso:
- Quattro anni sono, in questo giorno, a quest'ora, giungeva davanti al Pantheon, a Roma, il carro funebre che portava il cadavere di Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia, morto dopo ventinove anni di regno, durante i quali la grande patria italiana, spezzata in sette Stati e oppressa da stranieri e da tiranni, era risorta in uno Stato solo, indipendente e libero, dopo un regno di ventinove anni, ch'egli aveva fatto illustre e benefico col valore, con la lealtà , con l'ardimento nei pericoli, con la saggezza nei trionfi, con la costanza nelle sventure. Giungeva il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto una pioggia di fiori, tra il silenzio di una immensa moltitudine addolorata, accorsa da ogni parte d'Italia, preceduto da una legione di generali e da una folla di ministri e di principi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di bandiere, dagli inviati di trecento città , da tutto ciò che rappresenta la potenza e la gloria d'un popolo, giungeva dinanzi al tempio augusto dove l'aspettava la tomba. In questo momento dodici corazzieri levavano il feretro dal carro. In questo momento l'Italia dava l'ultimo addio al suo re morto, al suo vecchio re, che l'aveva tanto amata, l'ultimo addio al suo soldato, al padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia. Fu un momento grande e solenne. Lo sguardo, l'anima di tutti trepidava tra il feretro e le bandiere abbrunate degli ottanta reggimenti dell'esercito d'Italia, portate da ottanta ufficiali, schierati sul suo passaggio; poiché l'Italia era là , in quegli ottanta segnacoli, che ricordavano le migliaia di morti, i torrenti di sangue, le nostre più sacre glorie, i nostri più santi sacrifici, i nostri più tremendi dolori. Il feretro, portato dai corazzieri, passò, e allora si chinarono tutte insieme in atto di saluto, le bandiere dei nuovi reggimenti, le vecchie bandiere lacere di Goito, di Pastrengo, di Santa Lucia, di Novara, di Crimea, di Palestro, di San Martino, di Castelfidardo, ottanta veli neri caddero, cento medaglie urtarono contro la cassa, e quello strepito sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille voci umane che dicessero tutte insieme: - Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l'Italia. - Dopo di che le bandiere si rialzarono alteramente verso il cielo, e re Vittorio entrò nella gloria immortale della tomba.
Franti, cacciato dalla scuola
21, sabato
Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise. Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figliuolo, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone, e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il braccio morto; schernisce Precossi, che tutti rispettano; burla perfino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s'inferocisce e tira a far male. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino di tela cerata. Non teme nulla, ride in faccia al maestro, ruba quando può, nega con una faccia invetriata, è sempre in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si strappa i bottoni dalla giacchetta, e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella, quaderni, libro, tutto sgualcito, stracciato, sporco, la riga dentellata, la penna mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse. Dicono che sua madre è malata dagli affanni ch'egli le dà , e che suo padre lo cacciò di casa tre volte; sua madre viene ogni tanto a chiedere informazioni e se ne va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni odia il maestro. Il maestro finge qualche volta di non vedere le sue birbonate, ed egli fa peggio. Provò a pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece beffe. Gli disse delle parole terribili, ed egli si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola per tre giorni, e tornò più tristo e più insolente di prima. Derossi gli disse un giorno: - Ma finiscila, vedi che il maestro ci soffre troppo, - ed egli lo minacciò di piantargli un chiodo nel ventre. Ma questa mattina, finalmente, si fece scacciare come un cane. Mentre il maestro dava a Garrone la brutta copia del Tamburino sardo, il racconto mensile di gennaio, da trascrivere, egli gittò sul pavimento un petardo che scoppiò facendo rintronar la scuola come una fucilata. Tutta la classe ebbe un riscossone. Il maestro balzò in piedi e gridò: - Franti! fuori di scuola! - Egli rispose: - ...
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