[Pagina precedente]...cuore. Io vado subito a casa a levar di pena la mamma. Ecco uno scudo pei tuoi bisogni. Addio, bravo figliuolo mio. A rivederci.
Lo abbracciò, lo guardò fisso, lo ribaciò in fronte, e partì.
Il ragazzo tornò accanto al letto, e l'infermo parve racconsolato. E Cicillo ricominciò a far l'infermiere, non piangendo più, ma con la stessa premura, con la stessa pazienza di prima; ricominciò a dargli da bere, ad accomodargli le coperte, a carezzargli la mano, a parlargli dolcemente, per fargli coraggio. Lo assistette tutto quel giorno, lo assistette tutta la notte, gli restò ancora accanto il giorno seguente. Ma il malato s'andava sempre aggravando; il suo viso diventava color violaceo, il suo respiro ingrossava, gli cresceva l'agitazione, gli sfuggivan dalla bocca delle grida inarticolate, l'enfiagione si faceva mostruosa. Alla visita della sera, il medico disse che non avrebbe passata la notte. E allora Cicillo raddoppiò le sue cure e non lo perdette più d'occhio un minuto. E il malato lo guardava, lo guardava, e muoveva ancora le labbra, tratto tratto, con un grande sforzo, come se volesse dir qualche cosa, e un'espressione di dolcezza straordinaria passava a quando a quando nei suoi occhi, che sempre più si rimpiccolivano e s'andavano velando. E quella notte il ragazzo lo vegliò fin che vide biancheggiare alle finestre il primo barlume di giorno, e comparire la suora. La suora s'avvicinò al letto, diede un'occhiata al malato e andò via a rapidi passi. Pochi momenti dopo ricomparve col medico assistente e con un infermiere, che portava una lanterna.
- È all'ultimo momento, - disse il medico.
Il ragazzo afferrò la mano del malato. Questi aprì gli occhi, lo fissò, e li richiuse.
In quel punto parve al ragazzo di sentirsi stringere la mano.
- M'ha stretta la mano! - esclamò.
Il medico rimase un momento chino sul malato, poi s'alzò. La suora staccò un crocifisso dalla parte.
- E morto! - gridò il ragazzo.
- Va', figliuolo, - disse il medico. - La tua santa opera è compiuta. Va' e abbi fortuna, che la meriti. Dio ti proteggerà . Addio.
La suora che s'era allontanata un momento, tornò con un mazzettino di viole, tolte da un bicchiere sulla finestra, e lo porse al ragazzo, dicendo: - Non ho altro da darti. Tieni questo per memoria dell'ospedale.
- Grazie, - rispose il ragazzo, - pigliando il mazzetto con una mano e asciugandosi gli occhi con l'altra; - ma ho tanta strada da fare a piedi... lo sciuperei. - E sciolto il mazzolino sparpagliò le viole sul letto, dicendo: - Le lascio per ricordo al mio povero morto. Grazie, sorella. Grazie, signor dottore. - Poi, rivolgendosi al morto: - Addio... - E mentre cercava un nome da dargli, gli rivenne dal cuore alle labbra il dolce nome che gli aveva dato per cinque giorni: - Addio, povero Tata!
Detto questo, si mise sotto il braccio il suo involtino di panni, e a lenti passi, rotto dalla stanchezza, se n'andò. L'alba spuntava.
L'officina
18, sabato
Precossi venne ieri sera a rammentarmi che andassi a vedere la sua officina, che è sotto nella strada, e questa mattina, uscendo con mio padre, mi ci feci condurre un momento. Mentre noi ci avvicinavamo all'officina, ne usciva di corsa Garoffi, con un pacco in mano, facendo svolazzare il suo gran mantello, che copre le mercanzie. Ah! ora lo so dove va a raspare la limatura di ferro, che vende per dei giornali vecchi, quel trafficone di Garoffi! Affacciandoci alla porta, vedemmo Precossi, seduto sur una torricella di mattoni, che studiava la lezione, col libro sulle ginocchia. S'alzò subito e ci fece entrare: era uno stanzone pien di polvere di carbone, colle pareti tutte irte di martelli, di tanaglie, di spranghe, di ferracci d'ogni forma, e in un angolo ardeva il fuoco d'un fornello, in cui soffiava un mantice, tirato da un ragazzo. Precossi padre era vicino all'incudine, e un garzone teneva una spranga di ferro nel fuoco. - Ah! eccolo qui, - disse il fabbro appena ci vide, levandosi la berretta, - il bravo ragazzo che regala i treni delle strade ferrate! È venuto a vedere un po' lavorare, non è vero? Eccolo servito sul momento. - E dicendo questo sorrideva, non aveva più quella faccia torva, quegli occhi biechi dell'altre volte. Il garzone gli porse una lunga spranga di ferro arroventata da un capo, e il fabbro l'appoggiò sull'incudine. Faceva una di quelle spranghe a voluta per le ringhiere a gabbia dei terrazzini. Alzò un grosso martello e cominciò a picchiare, spingendo la parte rovente ora di qua ora di là tra una punta dell'incudine e il mezzo, e rigirandola in vari modi, ed era una meraviglia a vedere come sotto ai colpi rapidi e precisi del martello il ferro s'incurvava, s'attorceva, pigliava via via la forma graziosa della foglia arricciata d'un fiore, come un cannello di pasta, ch'egli avesse modellato con le mani. E intanto il suo figliuolo ci guardava, con una cert'aria altera, come per dire: - Vedete come lavora mio padre! - Ha visto come si fa, il signorino? - mi domandò il fabbro, quand'ebbe finito, mettendomi davanti la spranga, che pareva il pastorale d'un vescovo. Poi la mise in disparte e ne ficcò un'altra nel fuoco. - Ben fatto davvero, - gli disse mio padre. E soggiunse: - Dunque... si lavora, eh? La buona voglia è tornata. - È tornata, sì - rispose l'operaio, asciugandosi il sudore, e arrossendo un poco. - E sa chi me l'ha fatta tornare? - Mio padre finse di non capire. - Quel bravo ragazzo, - disse il fabbro, accennando il figliuolo col dito, - quel bravo figliuolo là , che studiava e faceva onore a suo padre mentre suo padre... faceva baldoria e lo trattava come una bestia. Quando ho visto quella medaglia... Ah! il piccinetto mio, alto come un soldo di cacio, vieni un po' qua che ti guardi bene nel muso! - Il ragazzo corse subito, il fabbro lo prese e lo mise diritto sull'incudine, tenendolo sotto le ascelle, e gli disse: - Pulite un poco il frontespizio a questo bestione di babbo. - E allora Precossi coprì di baci il viso nero di suo padre fin che fu anche lui tutto nero. - Così va bene, - disse il fabbro, e lo rimise in terra. - Così va bene davvero, Precossi! - esclamò mio padre, contento. E detto a rivederci al fabbro e al figliuolo, mi condusse fuori. Mentre uscivo, Precossino mi disse: - Scusami, - e mi cacciò in tasca un pacchetto di chiodi; io l'invitai a venir a vedere il carnevale da casa mia. - Tu gli hai regalato il tuo treno di strada ferrata, - mi disse mio padre per la strada; - ma se fosse stato d'oro e pieno di perle, sarebbe stato ancora un piccolo regalo per quel santo figliuolo che ha rifatto il cuore a suo padre.
Il piccolo pagliaccio
20, lunedì
Tutta la città è in ribollimento per il carnevale, che è sul finire, in ogni piazza si rizzan baracche di saltimbanchi e giostre, e noi abbiamo sotto le finestre un circo di tela, dove dà spettacolo una piccola compagnia veneziana, con cinque cavalli. Il circo è nel mezzo della piazza, e in un angolo ci son tre carrozzoni grandi, dove i saltimbanchi dormono e si travestono; tre casette con le ruote, coi loro finestrini e un caminetto ciascuna, che fuma sempre; e tra finestrino e finestrino sono stese delle fasce da bambini. C'è una donna che allatta un putto, fa da mangiare e balla sulla corda. Povera gente! Si dice saltimbanco come un'ingiuria; eppure si guadagnano il pane onestamente, divertendo tutti; e come faticano! Tutto il giorno corrono tra il circo e i carrozzoni, in maglia, con questi freddi; mangian due bocconi a scappa e fuggi, in piedi, tra una rappresentazione e l'altra, e a volte, quando hanno già il circo affollato, si leva un vento che strappa le tele e spegne i lumi, e addio spettacolo! debbon rendere i denari e lavorar tutta la sera a rimetter su la baracca. Ci hanno due ragazzi che lavorano; e mio padre riconobbe il più piccolo mentre attraversava la piazza: è il figliuolo del padrone lo stesso che vedemmo fare i giochi a cavallo l'anno passato, in un circo di piazza Vittorio Emanuele. È cresciuto, avrà otto anni, è un bel ragazzo, un bel visetto rotondo e bruno di monello, con tanti riccioli neri che gli scappan fuori dal cappello a cono. È vestito da pagliaccio, ficcato dentro a una specie di saccone con le maniche, bianco ricamato di nero, e ha le scarpette di tela. È un diavoletto. Piace a tutti. Fa di tutto. Lo vediamo ravvolto in uno scialle, la mattina presto, che porta il latte alla sua casetta di legno; poi va a prendere i cavalli alla rimessa di via Bertola; tiene in braccio il bimbo piccolo; trasporta cerchi cavalletti, sbarre, corde; pulisce i carrozzoni, accende il fuoco, e nei momenti di riposo è sempre appiccicato a sua madre. Mio padre lo guarda sempre dalla finestra, e non fa che parlar di lui e dei suoi, che han l'aria di buona gente, e di voler bene ai figliuoli. Una sera ci siamo andati, al circo; faceva freddo, non c'era quasi nessuno; ma tanto il pagliaccino si dava un gran moto per tener allegra quella po' di gente: faceva dei salti mortali, s'attaccava alla coda dei cavalli, camminava con le gambe per aria, tutto solo, e cantava, sempre sorridente, col suo visetto bello e bruno; e suo padre che aveva un vestito rosso e i calzoni bianchi, con gli stivali alti e la frusta in mano, lo guardava; ma era triste. Mio padre n'ebbe compassione, e ne parlò il dì dopo col pittore Delis, che venne a trovarci. Quella povera gente s'ammazza a lavorare e fa così cattivi affari! Quel ragazzino gli piaceva tanto! Che cosa si poteva fare per loro? Il pittore ebbe un'idea. - Scrivi un bell'articolo sulla Gazzetta, - gli disse, - tu che sai scrivere: tu racconti i miracoli del piccolo pagliaccio e io faccio il suo ritratto; la Gazzetta la leggon tutti, e almeno per una volta accorrerà gente. - E così fecero. Mio padre scrisse un articolo, bello e pieno di scherzi, che diceva tutto quello che noi vediamo dalla finestra, e metteva voglia di conoscere e di carezzare il piccolo artista; e il pittore schizzò un ritrattino somigliante e grazioso, che fu pubblicato sabato sera. Ed ecco, alla rappresentazione di domenica, una gran folla che accorre al circo. Era annunziato: Rappresentazione a beneficio del pagliaccino; del pagliaccino, com'era chiamato nella Gazzetta. Mio padre mi condusse nei primi posti. Accanto all'entrata avevano affisso la Gazzetta. Il circo era stipato; molti spettatori avevano la Gazzetta in mano, e la mostravano al pagliaccino, che rideva e correva or dall'uno or dall'altro, tutto felice. Anche il padrone era contento. Figurarsi! Nessun giornale gli aveva mai fatto tanto onore, e la cassetta dei soldi era piena. Mi padre sedette accanto a me. Tra gli spettatori trovammo delle persone di conoscenza. C'era vicino all'entrata dei cavalli, in piedi, il maestro di Ginnastica, quello che è stato con Garibaldi; e in faccia a noi, nei secondi posti, il muratorino, col suo visetto tondo, seduto accanto a quel gigante di suo padre... e appena mi vide, mi fece il muso di lepre. Un po' più in là vidi Garoffi, che contava gli spettatori, calcolando sulle dita quanto potesse aver incassato la Compagnia. C'era anche nelle seggiole dei primi posti, poco lontano da noi, il povero Robetti, quello che salvò il bimbo dall'omnibus, con le sue stampelle fra le ginocchia, stretto al fianco di suo padre, capitano d'artiglieria, che gli teneva una mano sulla spalla. La rappresentazione cominciò. Il pagliaccino fece meraviglie sul cavallo, sul trapezio e sulla corda, e ogni volta che saltava giù, tutti gli battevan le mani e molti gli tiravano i riccioli. Poi fecero gli esercizi vari altri, funamboli, giocolieri e cavallerizzi, vestiti di cenci e scintillanti d'argento. Ma quando non c'era il ragazzo, pareva che la gente si seccasse. A un certo punto vidi il maestro di ginnastica, fermo all'entrata dei cavalli, che parlò nell'orecchio del padrone del circo, e questi subito girò lo sguardo sugli spettatori, come se cercasse qualcuno. Il suo sguardo si fermò su di noi. Mio padre se ne accorse, capì che il maestro aveva detto ch'era lui l'autor dell'articolo, e per non esser ringraziato se ne s...
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