[Pagina precedente]...ni di lacrime. E proprio in quel punto lei fece un atto con una mano, mettendosi l'altra sul petto come per dirle: «Signora, si fidi di me.» Ebbene, quel suo atto, quel suo sguardo, da cui mi accorsi che lei aveva capito tutti i sentimenti, tutti i pensieri di mia madre, quello sguardo che voleva dire: «Coraggio!» quell'atto che era un'onesta promessa di protezione, d'affetto, d'indulgenza, io non l'ho mai scordato m'è rimasto scolpito nel cuore per sempre; ed è quel ricordo che m'ha fatto partir da Torino. Ed eccomi qui, dopo quarantaquattro anni, a dirle: Grazie, caro maestro.
Il maestro non rispose: mi accarezzava i capelli con la mano, e la sua mano tremava, tremava, mi saltava dai capelli sulla fronte, dalla fronte sulla spalla.
Intanto mio padre guardava quei muri nudi, quel povero letto, un pezzo di pane e un'ampollina d'olio ch'eran sulla finestra, e pareva che volesse dire: - Povero maestro, dopo sessant'anni di lavoro, è questo tutto il tuo premio?
Ma il buon vecchio era contento e ricominciò a parlare con vivacità della nostra famiglia, di altri maestri di quegli anni, e dei compagni di scuola di mio padre; il quale di alcuni si ricordava e di altri no, e l'uno dava all'altro delle notizie di questo e di quello; quando mio padre ruppe la conversazione per pregare il maestro di scendere in paese a far colazione con noi. Egli rispose con espansione: - La ringrazio, la ringrazio; - ma pareva incerto. Mio padre gli prese tutt'e due le mani e lo ripregò. - Ma come farò a mangiare, - disse il maestro - con queste povere mani che ballano in questa maniera? È una penitenza anche per gli altri! - Noi l'aiuteremo, maestro - disse mio padre. E allora accettò, tentennando il capo e sorridendo.
- Una bella giornata questa, - disse chiudendo l'uscio di fuori, - una bella giornata, caro signor Bottini! Le accerto che me ne ricorderò fin che avrò vita.
Mio padre diede il braccio al maestro, questi prese per mano me, e discendemmo per la viottola. Incontrammo due ragazzine scalze che conducevan le vacche, e un ragazzo che passò correndo, con un gran carico di paglia sulle spalle. Il maestro ci disse che eran due scolare e uno scolaro di seconda, che la mattina menavan le bestie a pasturare e lavoravan nei campi a piedi nudi, e la sera si mettevano le scarpe e andavano a scuola. Era quasi mezzogiorno. Non incontrammo nessun altro. In pochi minuti arrivammo all'albergo, ci sedemmo a una gran tavola, mettendo in mezzo il maestro, e cominciammo subito a far colazione. L'albergo era silenzioso come un convento. Il maestro era molto allegro, e la commozione gli accresceva il tremito; non poteva quasi mangiare. Ma mio padre gli tagliava la carne, gli rompeva il pane, gli metteva il sale nel tondo. Per bere bisognava che tenesse il bicchiere con due mani, e ancora gli batteva nei denti. Ma discorreva fitto, con calore, dei libri di lettura di quando era giovane, degli orari d'allora, degli elogi che gli avevan fatto i superiori, dei regolamenti di quest'ultimi anni, sempre con quel viso sereno, un poco più rosso di prima, e con una voce gaia, e il riso quasi d'un giovane. E mio padre lo guardava, lo guardava, con la stessa espressione con cui lo sorprendo qualche volta a guardar me, in casa, quando pensa e sorride da sé, col viso inclinato da una parte. Il maestro si lasciò andar del vino sul petto; mio padre s'alzò e lo ripulì col tovagliolo. - Ma no, signore, non permetto! - egli disse, e rideva. Diceva delle parole in latino. E in fine alzò il bicchiere, che gli ballava in mano, e disse serio serio: - Alla sua salute, dunque, caro signor ingegnere, ai suoi figliuoli, alla memoria della sua buona madre! - Alla vostra, mio buon maestro! - rispose mio padre, stringendogli la mano. E in fondo alla stanza c'era l'albergatore ed altri, che guardavano, e sorridevano in una maniera, come se fossero contenti di quella festa che si faceva al maestro del loro paese.
Alle due passate uscimmo e il maestro ci volle accompagnare alla stazione. Mio padre gli diede di nuovo il braccio ed egli mi riprese per la mano: io gli portai il bastone. La gente si soffermava a guardare, perché tutti lo conoscevano, alcuni lo salutavano. A un certo punto della strada sentimmo da una finestra molte voci di ragazzi, che leggevano insieme, compitando. Il vecchio si fermò e parve che si rattristasse.
- Ecco, caro signor Bottini, - disse, - quello che mi fa pena. È sentir la voce dei ragazzi nella scuola, e non esserci più, pensare che c'è un altro. L'ho sentita per sessant'anni questa musica, e ci avevo fatto il cuore... Ora son senza famiglia. Non ho più figliuoli.
- No, maestro, - gli disse mio padre, ripigliando il cammino, - lei ce n'ha ancora molti figliuoli, sparsi per il mondo, che si ricordano di lei, come io me ne son sempre ricordato.
- No, no, - rispose il maestro, con tristezza, - non ho più scuola, non ho più figliuoli. E senza figliuoli non vivrò più un pezzo. Ha da sonar presto la mia ora.
- Non lo dica, maestro, non lo pensi, - disse mio padre. - In ogni modo, lei ha fatto tanto bene! Ha impiegato la vita così nobilmente!
Il vecchio maestro inclinò un momento la testa bianca sopra la spalla di mio padre, e mi diede una stretta alla mano.
Eravamo entrati nella stazione. Il treno stava per partire.
- Addio, maestro! - disse mio padre, baciandolo sulle due guancie.
- Addio, grazie, addio, - rispose il maestro, prendendo con le sue mani tremanti una mano di mio padre, e stringendosela sul cuore.
Poi lo baciai io, e gli sentii il viso bagnato. Mio padre mi spinse nel vagone, e al momento di salire levò rapidamente il rozzo bastone di mano al maestro, e gli mise invece la sua bella canna col pomo d'argento e le sue iniziali, dicendogli: - La conservi per mia memoria.
Il vecchio tentò di renderla e di riprender la sua; ma mio padre era già dentro, e aveva richiuso lo sportello.
- Addio, mio buon maestro!
- Addio, figliuolo, - rispose il maestro, mentre il treno si moveva, - e Dio la benedica per la consolazione che ha portato a un povero vecchio.
- A rivederci! - gridò mio padre, con voce commossa.
Ma il maestro crollò il capo come per dire: - Non ci rivedremo più.
- Sì, sì, - ripeté mio padre, - a rivederci.
E quegli rispose alzando la mano tremola al cielo: - Lassù.
E disparve al nostro sguardo così, con la mano in alto.
Convalescenza
20, giovedì
Chi m'avrebbe detto quando tornavo così allegro da quella bella gita con mio padre che per dieci giorni non avrei più visto né campagna né cielo! Son stato molto malato, in pericolo di vita. Ho sentito mia madre singhiozzare, ho visto mio padre pallido pallido, che mi guardava fisso, e mia sorella Silvia e mio fratello che discorrevano a bassa voce, e il medico, con gli occhiali, che era ogni momento lì, e mi diceva delle cose che non capivo. Proprio, son stato a un punto dal dare un addio a tutti. Ah povera mia madre! Son passati almeno tre o quattro giorni di cui non mi ricordo quasi nulla, come se avessi fatto un sogno imbrogliato e oscuro. Mi sembra d'aver visto accanto al mio letto la mia buona maestra di prima superiore che si sforzava di soffocar la tosse col fazzoletto, per non disturbarmi; ricordo così in confuso il mio maestro che si chinò a baciarmi e mi punse un poco il viso con la barba; e ho visto passare come in una nebbia la testa rossa di Crossi, i riccioli biondi di Derossi, il calabrese vestito di nero, e Garrone che mi portò un mandarino con le foglie e scappò subito perché sua madre stava male. Poi mi destai come da un sonno lunghissimo, e capii che stavo meglio vedendo mio padre e mia madre che sorridevano, e sentendo Silvia che canterellava. Oh che triste sogno è stato! Poi ho cominciato a migliorare ogni giorno. È venuto il «muratorino» che m'ha rifatto ridere per la prima volta col suo muso lepre; e come lo fa bene ora che gli s'è allungato un po' il viso per la malattia, poveretto! È venuto Coretti, è venuto Garoffi a regalarmi due biglietti della sua nuova lotteria per «un temperino a cinque sorprese» che comprò da un rigattiere di via Bertola. Ieri poi, mentre dormivo, è venuto Precossi, e ha messo la guancia sopra la mia mano, senza svegliarmi, e come veniva dall'officina di suo padre col viso impolverato di carbone, mi lasciò l'impronta nera sulla manica, che mi ha fatto un gran piacere a vederla, quando mi sono svegliato. Come son diventati verdi gli alberi in questi pochi giorni! E che invidia mi fanno i ragazzi che vedo correre alla scuola coi loro libri, quando mio padre mi porta alla finestra! Ma fra poco ci tornerò io pure. Sono tanto impaziente di rivedere tutti quei ragazzi, il mio banco, il giardino, quelle strade; di sapere tutto quello che è accaduto in questo tempo; di rimettermi ai miei libri e ai miei quaderni, che mi pare un anno che non li vedo più! Povera mia madre, com'è dimagrata e impallidita. Povero padre mio, come ha l'aria stanca. E i miei buoni compagni, che son venuti a trovarmi e camminavano in punta di piedi e mi baciavano in fronte! Mi fa tristezza ora a pensare che un giorno ci separeremo. Con Derossi, con qualche altro, continueremo a far gli studi insieme, forse; ma tutti gli altri? Una volta finita la quarta, addio; non ci vedremo più; non li vedrò più accanto al mio letto quando sarò malato; Garrone, Precossi, Coretti, tanti bravi ragazzi, tanti buoni e cari compagni, mai più!
Gli amici operai
20, giovedì
Perché, Enrico, mai più? Questo dipenderà da te. Finita la quarta, tu andrai al Ginnasio ed essi faranno gli operai, ma rimarrete nella stessa città , forse per molti anni. E perché, allora, non v'avrete più a rivedere? Quando tu sarai all'Università o al Liceo, li andrai a cercare nelle loro botteghe o nelle loro officine, e ti sarà un grande piacere il ritrovare i tuoi compagni d'infanzia, - uomini, - al lavoro. Vorrei vedere che tu non andassi a cercar Coretti e Precossi; dovunque fossero. Tu ci andrai, e passerai delle ore in loro compagnia, e vedrai, studiando la vita e il mondo, quante cose potrai imparare da loro, che nessun altri ti saprà insegnare, e sulle loro arti e sulla loro società e sul tuo paese. E bada che se non conserverai queste amicizie, sarà ben difficile che tu ne acquisti altre simili in avvenire, delle amicizie, voglio dire, fuori della classe a cui appartieni; e così vivrai in una classe sola, e l'uomo che pratica una sola classe sociale, è come lo studioso che non legge altro che un libro. Proponiti quindi fin d'ora di conservarti quei buoni amici anche dopo che sarete divisi; e coltivali fin d'ora di preferenza, appunto perché son figliuoli d'operai. Vedi: gli uomini delle classi superiori sono gli ufficiali, e gli operai sono i soldati del lavoro, ma così nella società come nell'esercito, non solo il soldato non è men nobile dell'ufficiale, perché la nobiltà sta nel lavoro e non nel guadagno, nel valore e non nel grado, ma se c'è una superiorità di merito è dalla parte del soldato, dell'operaio, i quali ricavan dall'opera propria minor profitto. Ama dunque, rispetta sopra tutti, fra i tuoi compagni, i figliuoli dei soldati del lavoro; onora in essi le fatiche e i sacrifici dei loro parenti; disprezza le differenze di fortuna e di classe, sulle quali i vili soltanto regolano i sentimenti e la cortesia; pensa che uscì quasi tutto dalle vene dei lavoratori delle officine e dei campi il sangue benedetto che ci ha redento la patria, ama Garrone, ama Precossi, ama Coretti, ama il tuo «muratorino» che nei loro petti di piccoli operai chiudono dei cuori di principi, e giura a te medesimo che nessun cangiamento di fortuna potrà mai strappare queste sante amicizie infantili dall'anima tua. Giura che se fra quarant'anni; passando in una stazione di strada ferrata, riconoscerai nei panni d'un macchinista il tuo vecchio Garrone col viso nero... ah, non m'occorre che tu lo giuri: son sicuro che salterai sulla macchina e che gli getterai le braccia al collo, fossi anche Senatore del Regno.
TUO PADRE
La madre di Garrone
29, sabato
Tornato alla scuola, subito una triste n...
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