[Pagina precedente]...ronte, e intanto gli teneva una mano sopra una spalla: io cercai in platea suo padre e sua madre, e vidi che ridevano, coprendosi la bocca con una mano. Poi passò Derossi, tutto vestito di turchino, coi bottoni luccicanti, con tutti quei riccioli d'oro, svelto, disinvolto, con la fronte alta, così bello, così simpatico, che gli avrei mandato un bacio, e tutti quei signori gli vollero parlare e stringer le mani. Poi il maestro gridò: - Giulio Robetti! - e si vide venire innanzi il figliuolo del capitano d'artiglieria, con le stampelle. Centinaia di ragazzi sapevano il fatto, la voce si sparse in un attimo scoppiò una salva d'applausi e di grida che fece tremare il teatro, gli uomini s'alzarono in piedi, le signore si misero a sventolare i fazzoletti, e il povero ragazzo si fermò in mezzo al palcoscenico, sbalordito e tremante... Il Sindaco lo tirò a sé, gli diede il premio e un bacio, e staccata dalla spalliera del seggiolone la coroncina d'alloro che v'era appesa, glie la infilò nella traversina d'una stampella... Poi lo accompagnò fino al palchetto del proscenio, dov'era il capitano suo padre, e questi lo sollevò di peso e lo mise dentro, in mezzo a un gridìo di bravo e d'evviva. E intanto continuava quella musica leggiera e gentile di violini, e i ragazzi seguitavano a passare: quelli della Sezione della Consolata, quasi tutti figli di mercatini; quelli della Sezione di Vanchiglia, figliuoli d'operai; quelli della Sezione Boncompagni, di cui molti son figliuoli di contadini; quelli della scuola Raineri, che fu l'ultima. Appena finito, i settecento ragazzi della platea cantarono un'altra canzone bellissima, poi parlò il Sindaco, e dopo di lui l'assessore, che terminò il suo discorso dicendo ai ragazzi: - ...Ma non uscite di qui senza mandare un saluto a quelli che faticano tanto per voi, che hanno consacrato a voi tutte le forze della loro intelligenza e del loro cuore, che vivono e muoiono per voi. Eccoli là ! - E segnò la galleria dei maestri. E allora dalle gallerie, dai palchi, dalla platea tutti i ragazzi s'alzarono e tesero le braccia gridando verso le maestre e i maestri, i quali risposero agitando le mani, i cappelli, i fazzoletti, tutti ritti in piedi e commossi. Dopo di che la banda sonò ancora una volta e il pubblico mandò un ultimo saluto fragoroso ai dodici ragazzi di tutte le provincie d'Italia, che si presentarono al proscenio schierati, con le mani intrecciate, sotto una pioggia di mazzetti di fiori.
Litigio
20, lunedì
Eppure, no, non fu per invidia ch'egli abbia avuto il premio ed io no, che mi bisticciai con Coretti questa mattina. Non fu per invidia. Ma ebbi torto. Il maestro l'aveva messo accanto a me, io scrivevo sul mio quaderno di calligrafia: egli mi urtò col gomito e mi fece fare uno sgorbio e macchiare anche il racconto mensile, Sangue romagnolo, che dovevo copiare per il «muratorino» che è malato. Io m'arrabbiai e gli dissi una parolaccia. Egli mi rispose sorridendo: - Non l'ho fatto apposta. - Avrei dovuto credergli perché lo conosco; ma mi spiacque che sorridesse, e pensai: - Oh! adesso che ha avuto il premio, sarà montato in superbia! - e poco dopo, per vendicarmi, gli diedi un urtone che gli fece sciupare la pagina. Allora, tutto rosso dalla rabbia: - Tu sì che l'hai fatto apposta! - mi disse, e alzò la mano, - il maestro vide, - la ritirò. Ma soggiunse: - T'aspetto fuori! - Io rimasi male, la rabbia mi sbollì, mi pentii. No, Coretti non poteva averlo fatto apposta. È buono, pensai. Mi ricordai di quando l'avevo visto in casa sua, come lavorava, come assisteva sua madre malata, e poi che festa gli avevo fatto in casa mia, e come era piaciuto a mio padre. Quanto avrei dato per non avergli detto quella parola, per non avergli fatto quella villania! E pensavo al consiglio che m'avrebbe dato mio padre.
- Hai torto? - Sì. - E allora domandagli scusa. - Ma questo io non osavo di farlo, avevo vergogna d'umiliarmi. Lo guardavo di sott'occhio, vedevo la sua maglia scucita alla spalla, forse perché aveva portato troppe legna, e sentivo che gli volevo bene, e mi dicevo: - Coraggio! - ma la parola - scusami - mi restava nella gola. Egli mi guardava di traverso, di tanto in tanto, e mi pareva più addolorato che arrabbiato. Ma allora anch'io lo guardavo bieco, per mostrargli che non avevo paura. Egli mi ripeté: - Ci rivedremo fuori! - Ed io: - Ci rivedremo fuori! - Ma pensavo a quello che mio padre m'aveva detto una volta: - Se hai torto difenditi; ma non battere! - Ed io dicevo tra me: - mi difenderò, ma non batterò. - Ma ero scontento, triste, non sentivo più il maestro. Infine, arrivò il momento d'uscire. Quando fui solo nella strada, vidi ch'egli mi seguitava. Mi fermai, e lo aspettai con la riga in mano. Egli s'avvicinò, io alzai la riga. - No, Enrico, - disse egli, col suo buon sorriso, facendo in là la riga con la mano, - torniamo amici come prima. - Io rimasi stupito un momento, e poi sentii come una mano che mi desse uno spintone nelle spalle, e mi trovai tra le sue braccia. Egli mi baciò e disse: - Mai più baruffe tra di noi, non è vero? - Mai più! mai più! - risposi. E ci separammo, contenti. Ma quando arrivai a casa e raccontai tutto a mio padre, credendo di fargli piacere, egli si rabbruscò e disse: - Dovevi esser tu il primo a tendergli la mano, poiché avevi torto. - Poi soggiunse: - Non dovevi alzar la riga sopra un compagno migliore di te, sopra il figliuolo d'un soldato! - E strappatami la riga di mano, la fece in due pezzi e la sbatté nel muro.
Mia sorella
24, venerdì
Perché, Enrico, dopo che nostro padre t'aveva già rimproverato d'esserti portato male con Coretti, hai fatto ancora quello sgarbo a me? Tu non immagini la pena che n'ho provata. Non sai che quand'eri bambino ti stavo per ore e ore accanto alla culla, invece di divertirmi con le mie compagne, e che quand'eri malato scendevo da letto ogni notte per sentire se ti bruciava la fronte? Non lo sai, tu che offendi tua sorella, che se una sventura tremenda ci colpisse, ti farei da madre io, e ti vorrei bene come a un figliuolo? Non sai che quando nostro padre e nostra madre non ai saranno più, sarò io la tua migliore amica, la sola con cui potrai parlare dei nostri morti e della tua infanzia, e che se ci fosse bisogno lavorerei per te, Enrico, per guadagnarti il pane e farti studiare, e che ti amerò sempre quando sarai grande, che ti seguirò col mio pensiero quando andrai lontano, sempre, perché siamo cresciuti insieme e abbiamo lo stesso sangue? O Enrico, stanne pur sicuro, quando sarai un uomo, se t'accadrà una disgrazia, se sarai solo, sta pur sicuro che mi cercherai, che verrai da me a dirmi: - Silvia, sorella, lasciami stare con te, parliamo di quando eravamo felici, ti ricordi? parliamo di nostra madre, della nostra casa, di quei bei giorni tanto lontani. - O Enrico, tu troverai sempre tua sorella con le braccia aperte. Sì, caro Enrico, e perdonami anche il rimprovero che ti faccio ora. Io non mi ricorderò di alcun torto tuo, e se anche tu mi dessi altri dispiaceri, che m'importa? Tu sarai sempre mio fratello lo stesso, io non mi ricorderò mai d'altro che d'averti tenuto in braccio bambino, d'aver amato padre e madre con te, d'averti visto crescere, d'essere stata per tanti anni la tua più fida compagna. Ma tu scrivimi una buona parola sopra questo stesso quaderno e io ripasserò a leggerla prima di sera. Intanto, per mostrarti che non sono in collera con te, vedendo che eri stanco, ho copiato per te il racconto mensile Sangue romagnolo, che tu dovevi copiare per il muratorino malato: cercalo nel cassetto di sinistra del tuo tavolino. L'ho scritto tutto questa notte mentre dormivi. Scrivimi una buona parola, Enrico, te ne prego.
TUA SORELLA SILVIA
Non sono degno di baciarti le mani.
ENRICO
Sangue romagnolo
Racconto mensile
Quella sera la casa di Ferruccio era più quieta del solito. Il padre, che teneva una piccola bottega di merciaiolo, era andato a Forlì a far delle compere, e sua moglie l'aveva accompagnato con Luigina, una bimba, per portarla da un medico, che doveva operarle un occhio malato; e non dovevano ritornare che la mattina dopo. Mancava poco alla mezzanotte. La donna che veniva a far dei servizi di giorno se n'era andata sull'imbrunire. In casa non rimaneva che la nonna, paralitica delle gambe, e Ferruccio, un ragazzo di tredici anni. Era una casetta col solo piano terreno, posta sullo stradone, a un tiro di fucile da un villaggio, poco lontano da Forlì, città di Romagna; e non aveva accanto che una casa disabitata, rovinata due mesi innanzi da un incendio, sulla quale si vedeva ancora l'insegna d'un'osteria. Dietro la casetta c'era un piccolo orto circondato da una siepe, sul quale dava una porticina rustica; la porta della bottega, che serviva anche da porta di casa, s'apriva sullo stradone. Tutt'intorno si stendeva la campagna solitaria, vasti campi lavorati, piantati di gelsi.
Mancava poco alla mezzanotte, pioveva, tirava vento. Ferruccio e la nonna, ancora levati, stavano nella stanza da mangiare, tra la quale e l'orto c'era uno stanzino ingombro di mobili vecchi. Ferruccio non era rientrato in casa che alle undici, dopo una scappata di molte ore, e la nonna l'aveva aspettato a occhi aperti, piena d'ansietà , inchiodata sopra un largo seggiolone a bracciuoli, sul quale soleva passar tutta la giornata, e spesso anche l'intera notte, poiché un'oppressione di respiro non la lasciava star coricata.
Pioveva e il vento sbatteva la pioggia contro le vetrate: la notte era oscurissima. Ferruccio era rientrato stanco, infangato, con la giacchetta lacera, e col livido d'una sassata sulla fronte; aveva fatto la sassaiola coi compagni, eran venuti alle mani, secondo il solito; e per giunta aveva giocato e perduto tutti i suoi soldi, e lasciato il berretto in un fosso.
Benché la cucina non fosse rischiarata che da una piccola lucerna a olio, posta sull'angolo d'un tavolo, accanto al seggiolone, pure la povera nonna aveva visto subito in che stato miserando si trovava il nipote, e in parte aveva indovinato, in parte gli aveva fatto confessare le sue scapestrerie.
Essa amava con tutta l'anima quel ragazzo. Quando seppe ogni cosa, si mise a piangere.
- Ah! no, - disse poi, dopo un lungo silenzio; - tu non hai cuore per la tua povera nonna. Non hai cuore a profittare in codesto modo dell'assenza di tuo padre e di tua madre per darmi dei dolori. Tutto il giorno m'hai lasciata sola! Non hai avuto un po' di compassione. Bada, Ferruccio! Tu ti metti per una cattiva strada che ti condurrà a una triste fine. Ne ho visti degli altri cominciar come te e andar a finir male. Si comincia a scappar di casa, a attaccar lite cogli altri ragazzi, a perdere i soldi; poi, a poco a poco, dalle sassate si passa alle coltellate, dal gioco agli altri vizi, e dai vizi... al furto.
Ferruccio stava a ascoltare, ritto a tre passi di distanza, appoggiato a una dispensa, col mento sul petto, con le sopracciglia aggrottate, ancora tutto caldo dell'ira della rissa. Aveva una ciocca di bei capelli castagni a traverso alla fronte e gli occhi azzurri immobili.
- Dal gioco al furto, - ripeté la nonna, continuando a piangere. - Pensaci, Ferruccio. Pensa a quel malanno qui del paese, a quel Vito Mozzoni, che ora è in città a fare il vagabondo; che a ventiquattr'anni è stato due volte in prigione, e ha fatto morir di crepacuore quella povera donna di sua madre, che io conoscevo, e suo padre è fuggito in Svizzera per disperazione. Pensa a quel tristo soggetto, che tuo padre si vergogna di rendergli il saluto, sempre in giro con dei scellerati peggio di lui, fino al giorno che cascherà in galera. Ebbene, io l'ho conosciuto ragazzo, ha cominciato come te. Pensa che ridurrai tuo padre e tua madre a far la stessa fine dei suoi.
Ferruccio taceva. Egli non era mica tristo di cuore, tutt'altro; la sua scapestrataggine derivava piuttosto da sovrabbondanza di vita e d'audacia che da mal animo; e suo padre l'aveva avvezzato male appunto per questo, che ritenendolo capace, in fondo, dei sentimenti più...
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