[Pagina precedente]...rdano tutto, come discutono fra loro, anche i piccoli, di cose di storia e di lingua, seduti quattro o cinque sulla stessa panca, senza voltarsi l'un verso l'altro, e conversando il primo col terzo, il secondo col quarto, ad alta voce e tutti insieme, senza perdere una sola parola, da tanto che han l'orecchio acuto e pronto! E danno più importanza di voi altri agli esami, ve lo assicuro, e s'affezionano di più ai loro maestri. Riconoscono il maestro al passo e all'odore; s'accorgono se è di buono o cattivo umore, se sta bene o male, nient'altro che dal suono d'una sua parola; vogliono che il maestro li tocchi, quando gli incoraggia e li loda, e gli palpan le mani e le braccia per esprimergli la loro gratitudine. E si voglion bene anche fra loro, sono buoni compagni. Nel tempo della ricreazione sono quasi sempre insieme quei soliti. Nella sezione delle ragazze, per esempio, formano tanti gruppi, secondo lo strumento che suonano, le violiniste, le pianiste, le suonatrici di flauto, e non si scompagnano mai. Quando hanno posto affetto a uno, è difficile che se ne stacchino. Trovano un gran conforto nell'amicizia. Si giudicano rettamente, fra loro. Hanno un concetto chiaro e profondo del bene e del male. Nessuno s'esalta come loro al racconto d'un'azione generosa o d'un fatto grande.
Votini domandò se suonano bene.
- Amano la musica ardentemente, - rispose il maestro. - È la loro gioia, è la loro vita la musica. Dei ciechi bambini, appena entrati nell'Istituto, son capaci di star tre ore immobili in piedi a sentir sonare. Imparano facilmente, suonano con passione. Quando il maestro dice a uno che non ha disposizione alla musica, quegli ne prova un grande dolore, ma si mette a studiare disperatamente. Ah! se udiste la musica là dentro se li vedeste quando suonano colla fronte alta col sorriso sulle labbra, accesi nel viso, tremanti dalla commozione, estatici quasi ad ascoltar quell'armonia che rispandono nell'oscurità infinita che li circonda, come sentireste che è una consolazione divina la musica! E giubilano, brillano di felicità quando un maestro dice loro: - Tu diventerai un artista. - Per essi il primo nella musica, quello che riesce meglio di tutti al pianoforte o al violino, è come un re; lo amano, lo venerano. Se nasce un litigio fra due di loro, vanno da lui; se due amici si guastano, è lui che li riconcilia. I più piccini, a cui egli insegna a sonare, lo tengono come un padre. Prima d'andare a dormire, vanno tutti a dargli la buona notte. E parlano continuamente di musica. Sono già a letto, la sera tardi, quasi tutti stanchi dallo studio e dal lavoro, e mezzo insonniti; e ancora discorrono a bassa voce di opere, di maestri, di strumenti, d'orchestre. Ed è un castigo così grande per essi l'esser privati della lettura o della lezione di musica, ne soffrono tanto dolore, che non s'ha quasi mai il coraggio di castigarli in quel modo. Quello che la luce è per i nostri occhi, la musica è per il loro cuore.
Derossi domandò se non si poteva andarli a vedere.
- Si può, - rispose il maestro; - ma voi, ragazzi, non ci dovete andare per ora. Ci andrete più tardi, quando sarete in grado di capire tutta la grandezza di quella sventura, e di sentire tutta la pietà che essa merita. È uno spettacolo triste, figliuoli. Voi vedete là qualche volta dei ragazzi seduti di contro a una finestra spalancata, a godere l'aria fresca, col viso immobile, che par che guardino la grande pianura verde e le belle montagne azzurre che vedete voi...; e a pensare che non vedon nulla, che non vedranno mai nulla di tutta quella immensa bellezza, vi si stringe l'anima come se fossero diventati ciechi in quel punto. E ancora i ciechi nati, che non avendo mai visto il mondo, non rimpiangono nulla, perché hanno l'immagine d'alcuna cosa, fanno meno compassione. Ma c'è dei ragazzi ciechi da pochi mesi, che si ricordano ancora di tutto, che comprendono bene tutto quello che han perduto, e questi hanno di più il dolore di sentirsi oscurare nella mente, un poco ogni giorno, le immagini più care, di sentirsi come morire nella memoria le persone più amate. Uno di questi ragazzi mi diceva un giorno con una tristezza inesprimibile: - Vorrei ancora aver la vista d'una volta, appena un momento, per rivedere il viso della mamma, che non lo ricordo più - E quando la mamma va a trovarli, le mettono le mani sul viso, la toccano bene dalla fronte al mento e alle orecchie, per sentir com'è fatta, e quasi non si persuadono di non poterla vedere, e la chiamano per nome molte volte come per pregarla che si lasci, che si faccia vedere una volta. Quanti escono di là piangendo, anche uomini di cuor duro! E quando s'esce, ci pare un'eccezione la nostra, un privilegio quasi non meritato di veder la gente, le case, il cielo. Oh! non c'è nessuno di voi, ne son certo, che uscendo di là non sarebbe disposto a privarsi d'un po' della propria vista per darne un barlume almeno a tutti quei poveri fanciulli, per i quali il sole non ha luce e la madre non ha viso!
Il maestro malato
25, sabato
Ieri sera, uscendo dalla scuola, andai a visitare il mio maestro malato. Dal troppo lavorare s'è ammalato. Cinque ore di lezione al giorno, poi un'ora di ginnastica, poi altre due ore di scuola serale, che vuol dire dormir poco, mangiare di scappata e sfiatarsi dalla mattina alla sera: s'è rovinata la salute. Così dice mia madre. Mia madre m'aspettò sotto il portone, io salii solo, e incontrai per le scale il maestro della barbaccia nera, - Coatti, - quello che spaventa tutti e non punisce nessuno, egli mi guardò con gli occhi larghi e fece la voce del leone, per celia, ma senza ridere. Io ridevo ancora tirando il campanello, al quarto piano; ma rimasi male subito, quando la serva mi fece entrare in una povera camera, mezz'oscura, dove era coricato il mio maestro. Era in un piccolo letto di ferro, aveva la barba lunga. Si mise una mano alla fronte, per vederci meglio, ed esclamò con la sua voce affettuosa: - Oh Enrico! - Io m'avvicinai al letto, egli mi pose una mano sulla spalla, e disse: - Bravo, figliuolo. Hai fatto bene a venir a trovare il tuo povero maestro. Son ridotto a mal partito, come vedi, caro il mio Enrico. E come va la scuola? come vanno i compagni? Tutto bene, eh? anche senza di me. Ne fate di meno benissimo, è vero? del vostro vecchio maestro. - Io volevo dir di no; egli m'interruppe: - Via, via, lo so che non mi volete male. - E mise un sospiro. Io guardavo certe fotografie attaccate alla parete. - Vedi? - egli mi disse. - Son tutti ragazzi che m'han dato i loro ritratti, da più di vent'anni in qua. Dei buoni ragazzi, son le mie memorie quelle. Quando morirò, l'ultima occhiata la darò lì, a tutti quei monelli, fra cui ho passata la vita. Mi darai il ritratto tu pure, non è vero, quando avrai finito le elementari? Poi prese un'arancia sul tavolino da notte e me la mise in mano. - Non ho altro da darti, - disse, - è un regalo da malato. - Io lo guardavo e avevo il cuor triste, non so perché. - Bada eh... - riprese a dire - io spero di cavarmela; ma se non guarissi più... vedi di fortificarti nell'aritmetica, che è il tuo debole; fa' uno sforzo! non si tratta che d'un primo sforzo perché, alle volte, non è mancanza di attitudine, è un preconcetto, è come chi dicesse una fissazione. - Ma intanto respirava forte, si vedeva che soffriva. - Ho una febbraccia, - sospirò, - son mezz'andato. Mi raccomando, dunque. Battere sull'aritmetica, sui problemi. Non riesce alla prima? Si riposa un po' e poi si ritenta. Non riesce ancora? Un altro po' di riposo e poi daccapo. E avanti, ma tranquillamente, senza affannarsi, senza montarsi la testa. Va'. Saluta la mamma. E non rifar più le scale, ci rivedremo alla scuola. E se non ci rivedremo, ricordati qualche volta del tuo maestro di terza, che t'ha voluto bene. - A quelle parole mi venne da piangere. - China la testa, - egli mi disse. Io chinai la testa sul cappezzale; egli mi baciò sui capelli. Poi mi disse: - Va', - e voltò il viso verso il muro. E io volai giù per le scale perché avevo bisogno d'abbracciar mia madre.
La strada
25, sabato
Io t'osservavo dalla finestra, questa sera, quando tornavi da casa del maestro, tu hai urtato una donna. Bada meglio a come cammini per la strada. Anche lì ci sono dei doveri. Se misuri i tuoi passi e i tuoi gesti in una casa privata, perché non dovresti far lo stesso nella strada, che è la casa di tutti? Ricordati, Enrico. Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero, un donna con un bimbo in braccio, uno storpio con le stampelle, un uomo curvo sotto un carico, una famiglia vestita a lutto, cedile il passo con rispetto: noi dobbiamo rispettare la vecchiaia, la miseria, l'amor materno, l'infermità , la fatica, la morte.
Ogni volta che vedi una persona a cui arriva addosso una carrozza, tiralo via, se è un fanciullo, avvertilo, se è un uomo; domanda sempre che cos'ha al bambino che piange, raccogli il bastone al vecchio che l'ha lasciato cadere. Se due fanciulli rissano, dividili, se son due uomini allontà nati, non assistere allo spettacolo della violenza brutale, che offende e indurisce il cuore. E quando passa un uomo legato fra due guardie, non aggiungere la tua alla curiosità crudele della folla: egli può essere un innocente. Cessa di parlar col tuo compagno e di sorridere quando incontri una lettiga d'ospedale, che porta forse un moribondo, o un convoglio mortuario, ché ne potrebbe uscir uno domani di casa tua. Guarda con riverenza tutti quei ragazzi degli istituti che passano a due a due: i cechi, i muti, i rachitici, gli orfani, i fanciulli abbandonati: pensa che è la sventura e la carità umana che passa. Fingi sempre di non vedere chi ha una deformità ripugnante o ridicola. Spegni sempre ogni fiammifero acceso che tu trovi sui tuoi passi, che potrebbe costar la vita a qualcuno. Rispondi sempre con gentilezza al passeggiero che ti domanda la via. Non guardar nessuno ridendo, non correre senza bisogno, non gridare. Rispetta la strada. L'educazione d'un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch'egli tien per la strada. Dove troverai la villania per le strade, troverai la villania nelle case. E studiale, le strade, studia la città dove vivi; se domani tu ne fossi sbalestrato lontano, saresti lieto d'averla presente bene alla memoria, di poterla ripercorrere tutta col pensiero, - la tua città , la tua piccola patria, - quella che è stata per tanti anni il tuo mondo, - dove hai fatto i primi passi al fianco di tua madre, provato le prime commozioni, aperto la mente alle prime idee, trovato i primi amici. Essa è stata una madre per te: t'ha istruito, dilettato, protetto. Studiala nelle sue strade e nella sua gente, - ed amala, - e quando la senti ingiuriare, difendila.
TUO PADRE
MARZO
Le scuole serali
2, giovedì
Mio padre mi condusse ieri a vedere le scuole serali della nostra sezione Baretti, che eran già tutte illuminate, e gli operai cominciavano ad entrare. Arrivando, trovammo il Direttore e i maestri in gran collera perché poco prima era stato rotto da una sassata il vetro d'una finestra: il bidello, saltato fuori, aveva acciuffato un ragazzo che passava; ma allora s'era presentato Stardi, che sta di casa in faccia alla scuola, e aveva detto: - Non è costui, ho visto coi miei occhi: è Franti che ha tirato, e m'ha detto: - Guai se tu parli! - ma io non ho paura. E il Direttore disse che Franti sarà scacciato per sempre. Intanto badava agli operai che entravano a due a tre insieme, e n'eran già entrati più di duecento. Non avevo mai visto come è bella una scuola serale! C'eran dei ragazzi da dodici anni in su, e degli uomini con la barba, che tornavano dal lavoro, portando libri e quaderni; c'eran dei falegnami, dei fochisti con la faccia nera, dei muratori con le mani bianche di calcina, dei garzoni fornai coi capelli infarinati e si sentiva odor di vernice, di coiami, di pece, d'olio, odori di tutti i mestieri. Entrò anche una squadra d'operai d'artiglieria vestiti da soldati, condotti da un caporale. S'infilavano tutti lesti ...
[Pagina successiva]