[Pagina precedente]... delle bandiere. Primi gli allievi dell'Accademia, quelli che saranno ufficiali del Genio e dell'Artiglieria, circa trecento, vestiti di nero, passarono, con una eleganza ardita e sciolta di soldati e di studenti. Dopo di loro sfilò la fanteria: la brigata Aosta che combatté a Goito e a San Martino, e la brigata Bergamo che combatté a Castelfidardo, quattro reggimenti, compagnie dietro compagnie, migliaia di nappine rosse, che parevan tante doppie ghirlande lunghissime di fiori color di sangue, tese e scosse pei due capi, e portate a traverso alla folla. Dopo la fanteria s'avanzarono i soldati del Genio, gli operai della guerra, coi pennacchi di crini neri e i galloni cremisini; e mentre questi sfilavano, si vedevano venire innanzi dietro di loro centinaia di lunghe penne diritte, che sorpassavano le teste degli spettatori: erano gli alpini, i difensori delle porte d'Italia, tutti alti, rosei e forti, coi capelli alla calabrese e le mostre di un bel verde vivo, color dell'erba delle loro montagne. Sfilavano ancor gli alpini, che corse un fremito nella folla, e i bersaglieri, l'antico dodicesimo battaglione, i primi che entrarono in Roma per la breccia di Porta Pia, bruni, lesti, vivi, coi pennacchi sventolanti, passarono come un'ondata d'un torrente nero, facendo echeggiare la piazza di squilli acuti di tromba che sembravan grida d'allegrezza. Ma la loro fanfara fu coperta da uno strepito rotto e cupo che annunziò l'artiglieria di campagna; e allora passarono superbamente, seduti sugli alti cassoni, tirati da trecento coppie di cavalli impetuosi i bei soldati dai cordoni gialli e i lunghi cannoni di bronzo e d'acciaio, scintillanti sugli affusti leggieri, che saltavano e risonavano, e ne tremava la terra. E poi venne su lenta, grave, bella nella sua apparenza faticosa e rude, coi suoi grandi soldati, coi suoi muli potenti, l'artiglieria di montagna, che porta lo sgomento e la morte fin dove sale il piede dell'uomo. E infine passò di galoppo, con gli elmi al sole con le lancie erette, con le bandiere al vento, sfavillando d'argento e d'oro, empiendo l'aria di tintinni e di nitriti, il bel reggimento Genova cavalleria, che turbinò su dieci campi di battaglia, da Santa Lucia a Villafranca. - Come è bello! - io esclamai. Ma mio padre mi fece quasi un rimprovero di quella parola, e mi disse: - Non considerare l'esercito come un bello spettacolo. Tutti questi giovani pieni di forza e di speranze possono da un giorno all'altro esser chiamati a difendere il nostro paese, e in poche ore cader sfracellati tutti dalle palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva l'esercito, viva l'Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l'evviva all'esercito t'escirà più dal profondo del cuore, e l'immagine dell'Italia t'apparirà più severa e più grande.
Italia
14, martedì
Salutala così la patria, nei giorni delle sue feste: - Italia, patria mia, nobile e cara terra, dove mio padre e mia madre nacquero e saranno sepolti, dove io spero di vivere e di morire, dove i miei figli cresceranno e morranno; bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli; unita e libera da pochi anni; che spargesti tanta luce d'intelletti divini sul mondo, e per cui tanti valorosi moriron sui campi e tanti eroi sui patiboli; madre augusta di trecento città e di trenta milioni di figli, io, fanciullo, che ancora non ti comprendo e non ti conosco intera, io ti venero e t'amo con tutta l'anima mia, e sono altero d'esser nato da te, e di chiamarmi figliuol tuo. Amo i tuoi mari splendidi e le tue Alpi sublimi, amo i tuoi monumenti solenni e le tue memorie immortali; amo la tua gloria e la tua bellezza; t'amo e ti venero tutta come quella parte diletta di te, dove per la prima volta vidi il sole e intesi il tuo nome. V'amo tutte di un solo affetto e con pari gratitudine, Torino valorosa, Genova superba, dotta Bologna, Venezia incantevole, Milano possente; v'amo con egual reverenza di figlio, Firenze gentile e Palermo terribile. Napoli immensa e bella, Roma meravigliosa ed eterna. T'amo, patria sacra! E ti giuro che amerò tutti i figli tuoi come fratelli; che onorerò sempre in cuor mio i tuoi grandi vivi e i tuoi grandi morti; che sarò un cittadino operoso ed onesto, inteso costantemente a nobilitarmi, per rendermi degno di te, per giovare con le mie minime forze a far sì che spariscano un giorno dalla tua faccia la miseria, l'ignoranza, l'ingiustizia, il delitto, e che tu possa vivere ed espanderti tranquilla nella maestà del tuo diritto e della tua forza. Giuro che ti servirò, come mi sarà concesso, con l'ingegno, col braccio, col cuore, umilmente e arditamente; e che se verrà giorno in cui dovrò dare per te il mio sangue e la mia vita, darò il mio sangue e morrò, gridando al cielo il tuo santo nome e mandando l'ultimo mio bacio alla tua bandiera benedetta.
TUO PADRE
32 gradi
Venerdì, 16
In cinque giorni che passarono dalla festa nazionale il caldo è cresciuto di tre gradi. Ora siamo in piena estate, tutti cominciano a essere stanchi, hanno tutti perduto i bei colori rosati della primavera; i colli e le gambe s'assottigliano, le teste ciondolano e gli occhi si chiudono. Il povero Nelli, che patisce molto il caldo e ha fatto un viso di cera, s'addormenta qualche volta profondamente, col capo sul quaderno; ma Garrone sta sempre attento a mettergli davanti un libro aperto e ritto perché il maestro non lo veda. Crossi appoggia la sua zucca rossa sul banco in un certo modo, che par distaccata dal busto e messa lì. Nobis si lamenta che ci siamo troppi e che gli guastiamo l'aria. Ah! che forza bisogna farsi ora per istudiare! Io guardo dalle finestre di casa quei begli alberi che fanno un'ombra così scura, dove andrei a correre tanto volentieri, e mi vien tristezza e rabbia di dovermi andar a chiudere tra i banchi. Ma poi mi fo animo a veder la mia buona madre che mi guarda sempre, quando esco dalla scuola per veder se son pallido; e mi dice a ogni pagina di lavoro: - Ti senti ancora? - e ogni mattina alle sei, svegliandomi per la lezione: - Coraggio! Non ci son più che tanti giorni: poi sarai libero e riposerai, andrai all'ombra dei viali. - Sì, essa ha ben ragione a rammentarmi i ragazzi che lavoran nei campi sotto la sferza del sole, o tra le ghiaie bianche dei fiumi, che accecano e scottano, e quelli delle fabbriche di vetro, che stanno tutto il giorno immobili, col viso chinato sopra una fiamma di gas; e si levan tutti più presto di noi, e non hanno vacanze. Coraggio, dunque! E anche in questo è il primo di tutti Derossi, che non soffre né caldo né sonno, vivo sempre, allegro coi suoi riccioli biondi, com'era d'inverno, e studia senza fatica, e tien desti tutti intorno a sé, come se rinfrescasse l'aria con la sua voce. E ci sono due altri pure, sempre svegli e attenti: quel cocciuto di Stardi, che si punge il muso per non addormentarsi, e quanto più è stanco e fa caldo, e tanto più stringe i denti e spalanca gli occhi, che par che si voglia mangiare il maestro; e quel trafficone di Garoffi tutto affaccendato a fabbricare ventagli di carta rossa ornati con figurine di scatole di fiammiferi, che vende a due centesimi l'uno. Ma il più bravo è Coretti; povero Coretti che si leva alle cinque per aiutare suo padre a portar legna! Alle undici, nella scuola, non può più tenere gli occhi aperti, e gli casca il capo sul petto. E nondimeno si riscuote, si dà delle manate nella nuca, domanda il permesso d'uscire per lavarsi il viso, si fa scrollare e pizzicottare dai vicini. Ma tanto questa mattina non poté reggere e s'addormentò d'un sonno di piombo. Il maestro lo chiamò forte: - Coretti! - Egli non sentì. Il maestro, irritato, ripeté: - Coretti! - Allora il figliuolo del carbonaio che gli sta accanto di casa, s'alzò e disse: - Ha lavorato dalle cinque alle sette a portar fascine. - Il maestro lo lasciò dormire, e continuò a far lezione per una mezz'ora. Poi andò al banco da Coretti e piano piano, soffiandogli nel viso, lo svegliò. A vedersi davanti il maestro, si fece indietro impaurito. Ma il maestro gli prese il capo fra le mani e gli disse baciandolo sui capelli: - Non ti rimprovero, figliuol mio. Non è mica il sonno della pigrizia il tuo; è il sonno della fatica.
Mio padre
Sabato, 17
Non certo il tuo compagno Coretti, né Garrone, risponderebbero mai al loro padre come tu hai risposto al tuo questa sera. Enrico! Come è possibile? Tu mi devi giurare che questo non accadrà mai più, fin ch'io viva. Ogni volta che a un rimprovero di tuo padre ti correrà una cattiva risposta alle labbra, pensa a quel giorno, che verrà immancabilmente, quando egli ti chiamerà al suo letto per dirti - Enrico, io ti lascio. - O figliuol mio, quando sentirai la sua voce per l'ultima volta, e anche molto tempo dopo, quando piangerai solo nella sua stanza abbandonata, in mezzo a quei libri ch'egli non aprirà mai più, allora, ricordandoti d'avergli mancato qualche volta di rispetto, ti domanderai tu pure: - Com'è possibile? - Allora capirai che egli è sempre stato il tuo migliore amico, che quando era costretto a punirti, ne soffriva più di te, e che non t'ha mai fatto piangere che per farti del bene; e allora ti pentirai, e bacierai piangendo quel tavolino su cui ha tanto lavorato, su cui s'è logorata la vita per i suoi figliuoli. Ora non capisci: egli ti nasconde tutto di sé fuorché la sua bontà e il suo amore. Tu non lo sai che qualche volta egli è così affranto dalla fatica che crede di non aver più che pochi giorni da vivere, e che in quei momenti non parla che di te, non ha altro affanno in cuore che quello di lasciarti povero e senza protezione! E quante volte, pensando a questo, entra nella tua camera mentre dormi; e sta là col lume in mano a guardarti, e poi fa uno sforzo, e stanco e triste com'è, torna al lavoro! E neppure sai che spesso egli ti cerca e sta con te, perché ha un'amarezza nel cuore, dei dispiaceri che a tutti gli uomini toccano nel mondo, e cerca te come un amico, per confortarsi e dimenticare, e ha bisogno di rifugiarsi nel tuo affetto, per ritrovare la serenità e il coraggio. Pensa dunque che dolore dev'esser per lui quando invece di trovar affetto in te, trova freddezza e irriverenza! Non macchiarti mai più di questa orribile ingratitudine! Pensa che se anche fossi buono come un santo, non potresti mai compensarlo abbastanza di quello che ha fatto e fa continuamente per te. E pensa anche: sulla vita non si può contare: una disgrazia ti potrebbe toglier tuo padre mentre sei ancora ragazzo, fra due anni, fra tre mesi; domani. Ah! povero Enrico mio, come vedresti cambiar tutto intorno a te, allora, come ti parrebbe vuota, desolata la casa, con la tua povera madre vestita di nero! Va', figliuolo; va' da tuo padre: egli è nella sua stanza che lavora: va' in punta di piedi, che non ti senta entrare, va' a metter la fronte sulle sue ginocchia e a dirgli che ti perdoni e ti benedica.
TUA MADRE
In campagna
19, lunedì
Il mio buon padre mi perdonò, anche questa volta, e mi lasciò andare alla scampagnata che si era combinata mercoledì col padre di Coretti, il rivenditor di legna. Ne avevamo tutti bisogno d'una boccata d'aria di collina. Fu una festa. Ci trovammo ieri alle due in piazza dello Statuto, Derossi, Garrone, Garoffi, Precossi, padre e figlio Coretti, ed io, con le nostre provviste di frutte, di salsicciotti e d'ova sode: avevamo anche delle barchette di cuoio e dei bicchieri di latta: Garrone portava una zucca con dentro del vino bianco; Coretti, la fiaschetta da soldato di suo padre, piena di vino nero; e il piccolo Precossi, col suo camiciotto di fabbro ferraio, teneva sotto il braccio una pagnotta di due chilogrammi. S'andò in omnibus fino alla Gran Madre di Dio, e poi su, alla lesta, per i colli. C'era un verde, un'ombra, un fresco! Andavamo rivoltoloni nell'erba, mettevamo il viso nei rigagnoli, saltavamo a traverso alle siepi. Coretti padre ci seguitava di lontano, con la giacchetta sulle spalle, fumando ...
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