TUTTE LE POESIE, di Alessandro Manzoni - pagina 2
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25 Oh qual tutta di nove
Crin col dito rimove,
E doppio appresta di beltà spettacolo
Sul picciol fronte trascorrendo lieve
30 Con la destra di neve.
Né tacerò la bella
Bocca gentile, ove s'asconde il candido
Riso, e l'alma favella,
35 Gli accesi baci e le punture ardite
E le dolci ferite.
Me con queste possenti
Armi assaliva il fanciulletto Idalio
Mentr'io per le fiorenti
40 Ascree piagge scorrea lungo le Aonie
Secrete acque, onde a me l'adito schiuse
Il favor de le Muse.
Ahi! né valido usbergo
Gli aspri precetti di Zenon mi furono,
45 Né dar fuggendo il tergo
Al lui mi valse, ché trionfo nobile
Me in suo regno ponea, fatto possente
Del core e della mente.
50 Di sangue Italia, onde ancor pochi godono,
Né di plebe commossa
Le feroci vendette ed i terribili
Brevi furori e i rovesciati scanni
De' tremanti Tiranni.
55 Ma a dir m'insegna, come
Trasse da' gorghi del paterno Oceano
Le rugiadose chiome,
Sul mar girando i rai lucenti, Venere,
A la mirante di Nereo famiglia
60 Invidia e meraviglia:
E il Zeffiro lascivo,
Che ne le zone de le incaute vergini
Scherzar gode furtivo,
Onde audaci i pastor maligni ridono;
65 E a lor la guancia bella e vergognosa
Tinge virginea rosa.
XI
FRAMMENTO
D'UN'ODE ALLE MUSE
[1803?]
Nove fanciulle d'immortal bellezza,
Vergini tutte e d'un sol padre nate,
Di diversa vaghezza
M'han preso il cor, che fra lor dubbio stassi,
5 Né sa qual segua o lassi;
Ché varia è in lor, non disugual, beltate:
Io chiamato le seguo e con lor vivo,
Di lor sol penso ed ho tutt'altro a schivo.
Una sorge tra lor quasi primiera,
10 Signoreggiando con la regia chioma;
E su la fronte altera
Si legge ben che suo valor l'è conto;
E dal passo e dal pronto
Sguardo e da gli occhi belli, onde si noma,
15 Manda virtù che doppio effetto figlia,
E amore insieme e reverir consiglia.
Ma il crin disciolto e più negletto il manto
Un'altra porta, e un duolo in fronte ha scolto.
Ed ha su gli occhi un pianto
20 Tal che letizia fa parer men bella.
Ma ben di Lei sorella
L'accusan gli atti e il portamento e il volto
Che par che dica: io de' miei tristi e negri
Pensier mi godo; alcun non mi rallegri.
25 Ecco saltante per la sacra riva,
Con pie' securo e con allegra faccia,
Venir la terza Diva,
Bruna la chioma e bruna la pupilla,
Dal cui mover scintilla
30 L'ira faceta e il riso e la minaccia,
Che del vile nel cor mette paura,
Ed il miglior conforta e rassecura.
XII
ADDA
Idillio a Vincenzo Monti
[15 settembre 1803]
Diva di fonte umil, non d'altro ricca
Che di pura onda e di minuto gregge,
Te, come piacque al ciel, nato a le grandi
De l'Eridano sponde, a questi ameni
5 Cheti recessi e a tacit'ombre invito.
Non feroci portenti o scogli immani
Né pompa io vanto d'infinito flutto
O di abitati pin; né imperioso
Innalzo il corno, a le città soggette
10 Signoreggiando le torrite fronti;
Ma verdi colli e biancheggianti ville
E lieti colti in mio cammin saluto
E tenaci boscaglie, a cui commisi
Contro i villani d'Aquilone insulti
15 Servar la pace del mio picciol regno
e con Febo alternar l'ombre salubri.
Né al piangente colono è mio diletto
Rapir l'ostello e i lavorati campi,
Ad arricchir l'opposta avida sponda,
20 Novo censo al vicin; né udir le preci
Inesaudite e gl'imprecanti voti
De le madri, che seguono da lunge
Con l'umid'occhio e con le strida il caro
Pan destinato a la fame de' figli,
25 E la sacra dimora e il dolce letto.
Sol talor godo con l'innocua mano
Piegar l'erbe cedenti, e da le rive
Sveller fioretti, per ornarmi il seno
E le treccie stillanti.
Né gelosa
30 Tolgo a gli occhi profani il mio soggiorno,
Ma dai tersi cristalli altrui rivelo
La monda arena; anzi sovente, scesi
Dai monti Orobj, i Satiri securi
Tempran nel fresco mio la siria fiamma,
35 Col pie' caprigno intorbidando l'onda.
Forse, al par d'Aretusa e d'Acheloo,
Natal divin non vanto e sede arcana,
Sacra ai congressi de le Aonie suore;
Pur soave ed umil vassi Aganippe
40 Su la Libetride erba mormorando.
Ben so che d'altro vanto aver corona
Pretende il Re de' fiumi, e presso al Mincio,
Del primo onor geloso, ancor s'ascolta
Fremer l'onda sdegnosa arme ed amori;
45 E so ch'egli n'andò poi de la molle
Guarinia corda, or de la tua superbo;
Ma non vedi con l'irta alga natia
Splendermi il lauro in su la fronte? Salve,
Vocal colle Eupilino: a te mai sempre
50 Sul pian felice e sul sacrato clivo
Rida Bacco vermiglio e Cerer bionda;
Salve onor di mia riva: a te sovente
Scendean Febo e le Muse Eliconiadi,
Scordato il rezzo de l'Ascrea fontana.
55 Quivi sovente il buon Cantor vid'io
Venir trattando con la man secura
Il plettro di Venosa e il suo flagello;
O traendo l'inerte fianco a stento,
Invocar la salute e la ritrosa
60 Erato bella, che di lui temea
L'irato ciglio e il satiresco ghigno;
Seguialo alfine, e su le tempia antiche
Fea di sua mano rinverdire il mirto.
Qui spesso udillo rammentar piangendo,
65 Come si fa di cosa amata e tolta,
Il dolce tempo de la prima etade;
O de' potenti maledir l'orgoglio,
Come il Genio natio movealo al canto,
E l'indomata gioventù de l'alma.
70 Or tace il plettro arguto, e ne' miei boschi
È silenzio ed orror; Te dunque invito,
Canoro spirto, a risvegliarmi intorno
Novo romor Cirreo.
A te concesse
Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi
75 E le immagini e l'estro e il furor sacro
E l'estasi soave e l'auree voci
Già di sua man rinchiuse.
A te venturo
Fiorisce il dorso Brianteo; le poma
Mostra Vertunno, e con la man ti chiama.
80 Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga,
Già m'apparecchio a salutar da lunge
L'alto Eridano tuo, che al novo suono
Trarrà maravigliando il capo algoso,
E fra gl'invidi plausi de le Ninfe,
85 Bella d'un inno tuo, corrergli in seno.
XIII
IN MORTE DI CARLO IMBONATI
VERSI DI ALESSANDRO MANZONI
A GIULIA BECCARIA SUA MADRE
Ch'ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo.
CASA
[Gennaio 1806]
Se mai più che d'Euterpe il furor santo
E d'Erato il sospiro, o dolce madre,
L'amaro ghigno di Talia mi piacque
Non è consiglio di maligno petto.
5 Né del mio secol sozzo io già vorrei
Rimescolar la fetida belletta,
Se un raggio in terra di virtù vedessi,
Cui sacrar la mia rima.
A te sovente
Così diss'io: ma poi che sospirando,
10 Come si fa di cosa amata e tolta,
Narrar t'udia di che virtù fu tempio
Il casto petto di colui che piangi;
Sarà, dicea, che di tal merto pera
Ogni memoria? E da cotanto esemplo
15 Nullo conforto il giusto tragga, e nulla
Vergogna il tristo? Era la notte; e questo
Pensiero i sensi m'avea presi; quando,
Le ciglia aprendo, mi parea vederlo
Dentro limpida luce a me venire,
20 A tacit'orma.
Qual mentita in tela,
Per far con gli occhi a l'egra mente inganno,
Quasi a culto, la miri, era la faccia.
Come d'infermo, cui feroce e lungo
Malor discarna, se dal sonno è vinto,
25 Che sotto i solchi del dolor, nel volto
Mostra la calma, era l'aspetto.
Aperta
La fronte, e quale anco gl'ignoti affida:
Ma ricetto parea d'alti pensieri.
Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso
30 Non difficile il labbro.
A me dappresso
Poi ch'e' fu fatto, placido del letto
Su la sponda si pose.
Io d'abbracciarlo,
Di favellare ardea; ma irrigidita
Da timor da stupor da reverenza
35 Stette la lingua; e mi tremò la palma,
Che a l'amplesso correva.
Ei dolcemente
Incominciò: Quella virtù, che crea
Di due boni l'amor, che sian tra loro
Conosciuti di cor, se non di volto,
40 A vederti mi tragge.
E sai se, quando
Il mio cor ne le membra ancor battea,
Di te fu pieno; e quanta parte avesti
De gli estremi suoi moti.
Or poi che dato
Non m'è, com'io bramava, a passo a passo
45 Per man guidarti su la via scoscesa,
Che anelando ho fornita, e tu cominci,
Volli almeno una volta confortarti
Di mia presenza.
Io, con sommessa voce,
Com'uom, che parla al suo maggiore, e pensa
50 Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,
Risposi: Allor ch'io l'amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime furo; e la dolcezza
De l'esser teco presentia, chi detto
55 M'avria che tolto m'eri! E quando in caldo
Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,
Che non saria da gli occhi tuoi veduto,
Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo
Di te nutrissi desiderio, il pensa.
60 E come il pellegrin, che d'amor preso
Di non vista città, ver quella move;
E quando spera che la meta il paghi
Del cammin duro e lungo, e fiso osserva
Se le torri bramate apparir veggia;
65 E mira più da presso i fondamenti
Per crollo di tremuoto in su rivolti,
E le porte abbattute, e fòri e case
Tutto in ruina inospital converso;
E i meschini rimasti interrogando,
70 Con pianto ascolta raccontar dei pregi
E disegnar dei siti; a questo modo
Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti
Di retto acuto senno, d'incolpato
Costume, e d'alte voglie, ugual, sincero,
75 Non vantator di probità, ma probo:
Com'oggi al mondo al par di te nessuno
Gusti il sapor del beneficio, e senta
Dolor de l'altrui danno.
Egli ascoltava
Con volto né superbo né modesto.
80 Io rincorato proseguia: Se cura,
Se pensier di quaggiù vince l'avello
Certo so ben che il duol t'aggiunge e il pianto
Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
Te perdendo, ha perduto.
E se possanza
85 Di pietoso desio t'avrà condotto
Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto
Grondar la stilla del dolor sul primo
Bacio materno.
Io favellava ancora,
Quand'ei l'umido ciglio e le man giunte
90 Alzando inver lo loco onde a me venne,
Mestamente sorrise, e: Se non fosse
Ch'io t'amo tanto, io pregherei che ratto
Quell'anima gentil fuor de le membra
Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo
95 Di Quei, ch'eterna ciò che a Lui somiglia.
Ché finch'io non la veggo, e ch'io son certo
Di mai più non lasciarla, esser felice
Pienamente non posso.
A questi accenti
Chinammo il volto, e taciti ristemmo:
100 Ma per gli occhi d'entrambi il cor parlava.
Poi che il pianto e i singulti a le parole
Dieder la via, ripresi: A le sue piaghe
Sarà dittamo e latte il raccontarle
Che del tuo dolce aspetto io fui beato,
105 E ridirle i tuoi detti.
Ora, per lei
Ten prego, dammi che d'un dubbio fero
Toglierla io possa.
Allor che de la vita
Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto
Di possanza vital feceti a gli occhi
110 Il dardo balenar che ti percosse?
O pur ti giunse impreveduto e mite?
Come da sonno, rispondea, si solve
Uom, che né brama né timor governa,
Dolcemente così dal mortal carco
115 Mi sentii sviluppato; e volto indietro,
Per cercar lei, che al fianco mio mi stava,
Più non la vidi.
E s'anco avessi innanzi
Saputo il mio morir, per lei soltanto
Avrei pianto, e per te: se ciò non era,
120 Che dolermi dovea? Forse il partirmi
Da questa terra, ov'è il ben far portento,
E somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier da la parola è sempre
Altro, e virtù per ogni labbro ad alta
125 Voce lodata, ma nei cor derisa;
Dov'è spento il pudor; dove sagace
Usura è fatto il beneficio, e brutta
Lussuria amor; dove sol reo si stima
Chi non compie il delitto; ove il delitto
130 Turpe non è, se fortunato; dove
Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.
Dura è pel giusto solitario, il credi,
Dura, e pur troppo disegual, la guerra
Contra i perversi affratellati e molti.
135 Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E a l'onor vano e al lucro; e de le sale
Al gracchiar voto, e del censito volgo
Al petulante cinquettio, d'amici
140 Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
Segui tua strada; e dal viril proposto
Non ti partir, se sai.
Questa, risposi,
145 Qualsia favilla, che mia mente alluma,
Custodii, com'io valgo, e tenni viva
Finor.
Né ti dirò com'io, nodrito
In sozzo ovil di mercenario armento,
Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
150 De l'insipida stoppia, il viso torsi
Da la fetente mangiatoia; e franco
M'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.
Come talor, discepolo di tale,
Cui mi saria vergogna esser maestro,
155 Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso
Di tanto amor, che mi parea vederli
Veracemente, e ragionar con loro.
Né l'orecchio tuo santo io vo' del nome
Macchiar de' vili, che oziosi sempre,
160 Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
L'operosa calunnia.
A le lor grida
Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.
Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;
Ond'io lieve men vado a mia salita,
165 Non li curando.
Or dimmi, e non ti gravi,
Se di te vero udii che la divina
De le Muse armonia poco curasti.
Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
Di chiaro esempio, o di veraci carte
170 Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo.
E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
l'orma stampò de l'italo coturno:
E l'aureo manto lacerato ai grandi,
175 Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre
180 Scola e palestra di virtù.
Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L'immondizia del trivio e l'arroganza
E i vizj lor; che di perduta fama
185 Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
Né lodator comprati avea quel sommo
D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
190 Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d'Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
195 E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende.
E tacque; e scosso il capo,
200 E sporto il labbro, amaramente il torse,
Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.
Gioja il suo dir mi porse, e non ignota
Bile destommi; e replicai: Deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
205 Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
210 Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: né proferir mai verbo,
215 Che plauda al vizio, o la virtù derida.
O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
Non mi sia spento; a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
220 L'ingegno, e serva la ragion del core.
Così parlava e lagrimava: al mio
Pianto ei compianse, e: Non è questa, disse,
Quella città, dove sarem compagni
Eternamente.
Ora colei, cui figlio
225 Se' per natura, e per eletta amico,
Ama ed ascolta, e di filial dolcezza
L'intensa amaritudine le molci.
Dille ch'io so, ch'ella sol cerca il piede
Metter su l'orme mie; dille che i fiori,
230 Che sul mio cener spande, io gli raccolgo
E gli rendo immortali; e tal ne tesso
Serto, che sol non temerà né bruma,
Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora
De le sue belle lagrime irrorato.
235 Dolce tristezza, amor, d'affetti mille
Turba m'assalse; e da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
A la cara cervice.
A quella scossa,
Quasi al partir di sonno io mi rimasi;
240 E con l'acume del veder tentando
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.
XIV
A PARTENEIDE
[1809-1810]
E tu credesti che la vista sola
Di tua casta bellezza innamorarmi
Potente non saria, che anco del suono
Di tua dolce parola il cor mi tenti,
5 Vergine Dea? Col tuo secondo Duca
Te vidi io prima, e de le sacre danze
O dimentica o schiva; e pur sì franco,
Sì numeroso il portamento e tanto
Di rosea luce ti fioriva il volto,
10 Che Diva io ti conobbi, e t'adorai.
Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieta
D'amor primiero ti porgea la destra,
Di sì fidata compagnia, che primo
Giurato avrei che per trovarti ei l'erta
15 Superasse de l'Alpe, ei le tempeste
Affrontasse del Tuna, e tremebondo
Da la mobil Vertigo, e da l'ardente
Confusion battuto, in sul petroso
Orlo giacesse.
Entro il mio cor fean lite
20 Quegli avversarj che van sempre insieme,
Riverenza ed Amor: ma pur sì pio
Aprivi il riso, e non so che di noto
Mi splendea ne' tuoi guardi, che Amor vinse,
E m'appressai securo.
E quel cortese,
25 Di cui cara l'immago ed onorata
Sarammi infin che la purpurea vita
M'irrigherà le vene, a me rivolto,
Con gentil piglio la tua man levando,
Fea d'offrirmela cenno.
Ond'io più baldo
30 La man ti stesi; ma tremò la mano
E il cor: ché tutto in su la fronte allora
Vidi il dio sfolgorarti e tosto in mente
Chi sei mi corse, ed in che pura ed alta
Aria nutrita, ed a che scorte avvezza.
35 Mesto allor la tua vista abbandonai;
Ma l'inquieto immaginar, che sempre
Benché d'alto caduto in alto aspira,
Sovra l'aspro sentiero a vol si mosse
Del tuo viaggio, e a te fidato, al sommo
40 Stette de l'Alpe, e si librò securo
Sovra i vestigj e i desiderj umani.
Poi riverito il tuo celeste nido,
Di pensiero in pensier, di monte in monte,
Seguitando il desio, ver la mia sacra
45 Terra drizzai le penne, ed i cognati
Reti giganti valicando, alfine
Vidi l'Orobia valle.
Ivi un portento
Al mio guardar s'offerse: una indistinta
Aeria forma or si movea qual pura
50 Nuvoletta d'argento, ed or di neve
Fiocco parea che un bel cespuglio vesta.
Ma pur l'immagin bella e fuggitiva
Tanto con l'occhio seguitai, che vera
Alfin m'apparve, a te simile alquanto,
55 Vergin né tocca né veduta ancora,
E d'immortal concepimento anch'ella.
Non tenea scettro, non cingea corona
Se non di fiori; e sol di questi vaga,
Fra i color mille, onde splendea distinta
60 La verdissima piaggia, or la viola,
Or la rosa sceglieva, or l'amaranto,
Tal che Matelda rimembrar mi feo,
Qual la vide il divin nostro Poeta
Ne l'alta selva da lui sol calcata.
65 Ed ecco alfin, del mio venire accorta,
Volger le luci al pellegrin parea
Piene di maraviglia, e la rosata
Faccia levando, mi parea guardarlo,
E sorridere a lui come si suole
70 Ad aspettato.
E quando io, de la diva
Bellezza innebriato e del gentile
Atto, con l'ali de la mente a lei
Appressarmi tentai, se udir potessi
Come in cielo si parla, affaticate
75 Caddero l'ali de la mente, e al guardo
Tacque la bella vision.
Ma sempre
Da quel momento la memoria al core
Di lei ragiona.
E quando in sul mattino
Leve lo spirto dal sopor si scioglie
80 (Allor per l'aria de' pensier celesti
Libero ei vola, e da le basse voglie
De la vita mortal quasi il divide
Un deserto d'oblio), sempre in quell'ora,
Più che mai bella, quella eterea Virgo
85 Mi vien dinnanzi.
Or d'oro e d'onor vani
Nessun mi parli; un solo amor mi regge,
Sola una cura: degli Orobj dorsi
Rivisitar l'asprezza, e questa Diva,
Deh mel consenta!, accompagnar primiero
90 Per le italiche ville pellegrina.
Che se l'evento il mio sperar pareggia,
Se né la vita né l'ardir mi falla,
Forse, più ardito condottier già fatto,
Te piglierò per mano; e come io valgo,
95 Maraviglia gentile a la mia sacra
Italia io mostrerotti, a quell'augusta
D'uomini Madre e d'intelletti, augusta
Di memorie nutrice e di speranze.
SERMONI
[1803-1804]
XV
I - AMORE A DELIA
SCIOLTI DI ALESSANDRO MANZONI
Amore a Delia.
A te non noto ancora,
Se non di nome, io vengo, io quel di Cipri
Fra gli uomini e gli Dei fanciul famoso;
Dubbio innoltrando il pie', che già due lustri
5 Da queste stanze ad altre sedi io trassi,
Quando la Madre tua savia divenne,
E cessò d'esser bella.
Or riconosco
De' miei trionfi i monumenti; or veggio
Il fido letto, ch'io nel dì lucente,
10 La notte il sonno coniugal calcava,
E or sola, dopo il sibilar di molte
Preci e molto sbadiglio, in su la sera
L'accoglie.
Imen vuol che dapprima i suoi
Seguaci il sonno abbian comune e il cibo
15 Indi fuor che la mensa a parte il tutto.
Qui gli sdegni, le tregue, indi le paci,
Indi novelli sdegni e nove paci
Lungo tempo alternati ad arte usai.
Su questa sedia or per età vetusta
20 Cader lasciossi da gelosa rabbia
Oppressa a un tratto, i languidi chiudendo
Occhi, scomposta il crin, madido il fronte
Di sudor freddo; il natural rossore
Abbandonolle il volto, e sol restovvi
25 L'imposta rosa; l'innocente lino
Provò le ingiurie de l'acuto dente.
Qui l'immaturo Giovane inesperto
Modesta accolse in pria, che dopo lungo
Conversar con Minerva e con le Muse
30 A me pur venne alfin, piena la mente
Di sermon Lazio e di raccolti Dommi.
Qui si sdegnò de l'ardir suo, qui ruppe
Un nascente sorriso, qui compose
A matronal severitade il guardo;
35 E con la dotta man compose il velo
In modo tal che ne apparisse il seno.
Placossi alfin: più debolmente alfine
L'audace man respinse; l'ostinata
Garrula voce infievolissi, e tacque;
40 E con un guardo di sdegno, e d'amore
Parea dicesse: a te do in sacrificio
Mia virtù novilustre; e stanca ormai
Di sonanti virili ispidi nèi,
Anco sentì sollicitarsi il volto
45 Da la molle lanuggine
...
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