TUTTE LE POESIE, di Alessandro Manzoni - pagina 14
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45 Tu sola a Lui festi ritorno
Ornata del primo suo dono;
Te sola più su del perdono
Te sola dall'angue nemico
50 Non tocca né prima né poi;
Dall'angue, che appena su noi
L'indegna vittoria compiè,
Traendo l'oblique rivolte,
Rigonfio e tremante, tra l'erba,
55 Sentì sulla testa superba
Il peso del puro tuo piè.
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XXXII
[DIO NELLA NATURA]
Tu sì che a noi t'ascondi:
L'occhio ti cerca invano;
Ma l'opre di tua mano
Ti svelano, o Signor.
5 Tutto del tuo gran nome
In terra, in ciel, favella;
Risplende in ogni stella,
È scritto in ogni fior.
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RIME DI DEVOZIONE
XXXIII
SUL NOME DI MARIA
[Settembre 1823]
Santo nome, in fra i mortali
Quale è il nome che ti avanza?
Tu sei nome di speranza,
Tu sei nome di pietà.
5 Se d'Adamo il pazzo orgoglio
Al Signor ci fa ribelli,
Per te, o Madre, siam fratelli
Di Colui che ci creò.
Per te ancora al Ciel perduto
10 Nostra mente si solleva;
Tu ci togli al fallo d'Eva,
Tu ci torni al primo onor.
Quando pesa sul cuor mio
L'ingiustizia dei mortali,
15 Quando a me verranno i mali,
Il tuo nome invocherò.
Se dei troppi falli miei
Caggio sotto all'empie some,
Ripetendo il tuo bei nome
20 Io mi sento confortar.
Egli è umìl non men che mondo,
Questo giglio delle valli;
Né perch'Ella è senza falli
Mai rigetta chi fallì.
25 Ché ben sa che s'Ella intatta
Tutto corse il tristo esigilo,
È sol grazia del suo Figlio,
Che la volle preservar.
Tu se' gioia ai cuori afflitti,
30 Tu se' guida ai passi erranti,
Tu se' stella ai naviganti,
Tu se' grazia ai regnator.
Se la vita è un tristo calle
Tutto sparso di ruine,
35 Questa rosa in fra le spine
Il cammino allegrerà.
Tu conosci 1 nostri guai:
Per noi dunque il Figliuoi prega;
Se ad ogni uom Egli si piega,
40 Per la Madre che farà?
Non ti chieggo della terra
Le delizie passeggere,
Ne lo scettro del potere
Ne la febbre degli onor;
45 Prega Lui che alle nostre alme
Verso il Ciel dia corso e lena,
E la polvere terrena
Ci dia forza a disprezzar.
Fa che sempre io mi ricordi
50 Il colpevol viver mio,
Onde alfin, placato e pio,
Lo dimentichi il Signor;
Onde possa, ancor che indegno,
Rimirarlo senza velo,
55 E udir gli angioli del Cielo
Il tuo nome risuonar.
XXXIV
Tuam ipsius animam pertransivit gladius.
LUC, II, 35.
[14 marzo 1835]
Sì, che tu sei terribile!
Sì, che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine,
Sovra quel sen pietoso,
5 Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
È fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.
Vedi le nostre lagrime,
10 Intendi i nostri gridi,
Il voler nostro interroghi,
E a tuo voler decidi.
Mentre, a stornare il fulmine
Trepido il prego ascende,
15 Sordo il tuo fulmin scende
Dove tu vuoi ferir.
Ma tu pur nasci a piangere;
Ma da quel cor ferito
Sorgerà pure un gemito,
20 Un prego inesaudito;
E Questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
Nel guardo tuo beata,
Ebra del tuo respir,
25 Vezzi or ti fa; ti supplica
Suo pargolo, suo Dio;
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: È mio!
Un dì con altro palpito,
30 Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte,
E ti vedrà morir.
Onnipotente .
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XXXV
STROFE PER UNA PRIMA COMUNIONE
Strofe da cantarsi da un coro di giovanetti alla prima Comunione nella I[mperial] R[egia] Chiesa prepositurale di Santa Maria della Scala in S.
Fedele, Milano.
PRIMA DELLA MESSA
[1832]
Sì, Tu scendi ancor dal cielo;
Sì, Tu vivi ancor tra noi;
Solo appar, non è, quel velo:
Tu l'hai detto; il credo, il so;
5 Come so che tutto puoi,
Che ami ognora i tuoi redenti,
Che s'addicono 1 portenti
A un amor che tutto può.
ALL'OFFERTORIO
[1837]
Chi dell'erbe lo stelo compose?
10 Chi ne trasse la spiga fiorita?
Chi nel tralcio fe' scorrer la vita?
Chi v'ascose dell'uve il tesor?
Tu, quel Grande, quel Santo, quel Bono,
Che or qual dono il tuo dono riprendi;
15 Tu, che in cambio, qual cambio! ci rendi
Il tuo Corpo, il tuo Sangue, o Signor.
Anche i cor che t'offriamo son tuoi:
Ah! il tuo dono fu guasto da noi;
Ma quell'alta Bontà che li fea,
20 Li riceva quali sono, a mercè;
E vi spiri, col soffio che crea,
Quella fede che passa ogni velo,
Quella speme che more nel cielo,
Quell'amor che s'eterna con Te.
ALLA CONSACRAZIONE
[1832]
25 Ostia umìl, Sangue innocente;
Dio presente, Dio nascoso;
Figlio d'Eva, eterno Re!
China il guardo, Iddio pietoso,
A una polve che Ti sente,
30 Che si perde innanzi a Te.
PRIMA DELLA COMUNIONE
[1834]
Questo terror divino,
Questo segreto ardor,
È che mi sei vicino,
È l'aura tua, Signor!
35 Sospir dell'alma mia,
Sposo, Signor, che fia
Nel tuo superno amplesso!
Quando di Te Tu stesso
Mi parlerai nel cor!
ALLA COMUNIONE
[1834]
40 Con che fidente affetto
Vengo al tuo santo trono,
M'atterro al tuo cospetto,
Mio Giudice, mio Re!
Con che ineffabil gaudio
45 Tremo dinanzi a Te!
Cenere e colpa io sono:
Ma vedi chi T'implora,
Chi vuole il tuo perdono,
Chi merita, Chi adora,
50 Chi rende grazie in me.
DOPO LA COMUNIONE
[1832]
Sei mio; con Te respiro:
Vivo di Te, gran Dio!
Confuso a Te col mio,
Offro il tuo stesso amor.
55 Empi ogni mio desiro;
Parla, ché tutto intende,
Dona, ché tutto attende,
Quando T'alberga, un cor.
XXXVI
PER LA PRIMA COMUNIONE
Vieni, o Signor: ripòsati,
Regna nei nostri petti,
Sgombra da' nostri affetti
Ciò che immortal non è.
5 Discendi: ogni tua visita
Prepari un tuo ritorno,
Fino a quell'aureo giorno
Che ci rapisca in Te.
EPIGRAMMI, SCHERZI E COMPLIMENTI
XXXVII
[PARODIA D'ARIETTA MELODRAMMATICA
METASTASIANA]
Tu vuoi saper s'io vado,
Tu vuoi saper s'io resto:
Sappi, ben mio, che questo
Non lo saprai da me.
5 Non che il pudor nativo
Metta alla lingua il morso,
O che impedisca il corso
Quel certo non so che.
Vuoi ch'io dica perché non lo dico?
10 Non lo dico, oh destino inimico!
Non lo dico, oh terribile intrico!
Non lo dico, perché non lo so.
Lo chieggo alla madre
Con pianti ed omei:
15 Risponde: Vorrei
Saperlo da te.
Se il chieggo alla sposa:
Decidi a tuo senno,
Risponde: un tuo cenno
20 È legge per me.
Se il chieggo a me stesso
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XXXVIII
[I VERSI DEL CONTE GIOVIO]
[1814?]
Conte Giovio tanto visse
Ch' a' suoi versi sopravvisse.
XXXIX
L'IRA D'APOLLO
ODE [BURLESCA]
[Per la Lettera semiseria di Grisostomo]
[1816]
Vidi (credi, se il vuoi, volgo profano!)
Vidi là dove innalzasi
E nel Lario si specchia il Baradello
Il Delfico calar Nume sovrano,
5 E su la torre aerea
Ristar dell'antichissimo Castello.
Gli spirava dal volto ira divina,
E da la chioma odor d'ambrosia fina.
Sperai che, quale in su la rupe Ascrea
10 O sul giogo Parnasio,
Almo suono ei trarria da la sua cetra;
Ma il Nume che tutt'altro in testa avea.
Piegando il braccio eburneo,
Stese la man sul tergo a la faretra:
15 Tolse uno stral, su l'arco d'oro il tese;
Lungo e profondo mormorio s'intese;
Ove su l'ampio verdeggiar dei prati
Sacra a le belle Najadi,
Sorge l'alta Milan, la mira ei volse.
20 Me prese alto terror pei Lari amati,
E da le labbra tremule
La voce a stento ad implorar si sciolse:
"Ferma! che fai? Deh non ferir, perdona,
Santo figlio di Giove e di Latona!"
25 Al dardo impaziente il vol ritenne,
E a me rivolto, in placido
Sembiante, a dir mi prese il dio di Delo:
"Fino a noi da que' lidi il grido venne
D'uom che sfidare attentasi
30 Tutti gli Dei, tutte le Dee del cielo,
E l'audacia di lui resta impunita?
Pera l'empia città che il lascia in vita!"
"Deh! per Leucotoe", io dissi, "e per Giacinto,
Per la gentil Coronide,
35 Per quella Dafne più di tutte amata,
De la cui spoglia verde il capo hai cinto,
Poni lo sdegno orribile,
Frena la furia de la destra irata;
Pensa, o signor di Delfo, almo Sminteo,
40 Che se enorme è la colpa, un solo è il reo.
Un solo ha fatto ai numi vostri insulto,
Spinto da l'atre Eumenidi;
Egli è il solo fra noi che non vi adora;
Non obliar per lui degli altri il culto:
45 Vedi l'are che fumano,
Vedi il popolo pio che a voi le infiora,
Ascolta i preghi, odi l'umil saluto,
Che il Cordusio ti manda e il Bottonuto.
Tutto è pieno di voi.
Qual rio cultore,
50 Non invocata Cerere,
I semi affida a l'immortal Tellure?
Ad ardua impresa chi rivolge il core,
Se a la Cortina Delfica
Non tenta il velo de le sorti oscure?
55 Quale è il nocchier che sciolga al vento i lini,
Pria di far sacrificio ai Dei marini?
Voi, se Fortuna a noi concede il crine
O volge il calvo, amabile
E perenne argomento ai canti nostri:
60 Così le Greche genti e le Latine
Voi Signori cantavano
E degli Olimpj e dei Tartarei chiostri:
E noi, che in voi crediamo al par di loro,
Non sacreremo a voi le cetre d'oro?
65 Figlio di Rea, tu faretrato arciero,
De la donzella Sicula
Buon rapitor, che regno hai sopra l'ombre,
Tu che dal suolo uscir festi il destriero,
Marte, Giunone e Venere,
70 Tu che il virgineo crin d'ulivo adombre,
Io per me mi protesto, o Numi santi,
Umilissimo servo a tutti quanti.
Fa' luogo, o biondo Nume, al mio riclamo:
Non render risponsabile,
75 Per un sol che peccò, tutto un paese;
Lascia tranquilli noi che rei non siamo;
E le misure energiche
Sol contra l'empio schernitor sian prese".
Tacqui, e m'accorsi dal placato aspetto
80 Che il biondo Dio gustava il mio progetto.
Lo stral ripose nel turcasso, e disse:
"Poi che quest'empio attentasi
Esercitar le nostre arti canore,
Queste orribili pene a lui sien fisse:
85 Lunge dai gioghi aonii
Sempre dimori e dalle nove suore;
Non abbia di Castalia onda ristauro,
Ne mai gli tocchi il crin fronda di lauro.
Giammai non monti il corridor che vola,
90 Ma intorno al vero aggirisi,
Viaggiando pedestre il vostro mondo.
Non spiri aura di Pindo in sua parola:
Tutto ei deggia da l'intimo
Suo petto trarre e dal pensier profondo,
95 E sia costretto lasciar sempre in pace
L'ingorda Libitina e il Veglio edace.
E perché privo d'ogni gioja e senza
Speme si roda il perfido,
Lira eburna gli tolgo e plettro aurato".
100 Un gel mi prese alla feral sentenza;
E, sbigottito e pallido,
Esclamai: "Santi Numi, egli è spacciato!
E come vuoi che senza queste cose
Ei se la cavi?".
"Come può", rispose.
105 Tacque, e ristette il Nume, simigliante
A la sua sacra immagine
Che per Greco scalpel nel marmo spira,
Dove negli atti e nel divin sembiante
Vedi la calma riedere,
110 E sul labbro morir la turgid'ira:
Spunta il piacer de la vittoria in viso,
Mirando il corpo del Pitone anciso.
XL
[A GIULIO, LODATORE DI "PAZZI SONETTANTI", O CLASSICISTI]
[1816-1817]
Dunque il tuo Lesbio per l'estinta Nice
Va su' tumuli erbosi a sparger pianti
Veracemente come in versi il dice?
Oh, che mi narri di siffatti vanti
5 Sentimentali che a bandir lor nome
Spandon cotesti pazzi sonettanti?
Poi gridan che ahi! gli è indarno offrir le chiome
Alla Tartarea Giuno, e abbracciar l'are
Dell'Eumenidi pie per vincer, come
10 Pur non fu dato al Tracio Orfeo, le avare
Fauci dell'atra Dite, e all'aureo sole
Ricondur le rapite anime care.
E sentono costoro? e in lor parole
Dolor tu forse, o amor, od altro senti
15 In mezzo al ghiaccio di cotante fole?
Male il Poeta ti pingesti in mente,
Diletto Giulio, e il tuo veder fallace
S'accusa in tal subbietto anco ebbramente.
Come i versi lodar puoi del dicace
20 Spensierato Berillo, ond'è schernita
Del buon Pacomio la vista verace
Perché incerto è nell'opre, ed ogni ardita
Sentenza il punge, e fugge i crocchi, e gode
Trar taciturna e solitaria vita?
25 Poi veggo il duolo che ti cruccia e rode
Se la scola t'ingiunge altra lettura
Che poemetti, canzoncine ed ode.
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XLI
IL CANTO XVI DEL TASSO
DRAMMA
[1817]
Interlocutori:
ARMIDA - RINALDO - UBALDO - CARLO
La scena rappresenta gli orti di Armida.
ATTO PRIMO
Scena I
RINALDO solo
(col ventaglio in mano, all'ombra).
Oh! che caldo fa in questo paese!
Un più forte giammai non m'accese;
Nemmen quello del Nume d'Amor.
E quand'ho la camicia sudata,
5 Non v'è alcun che me l'abbia cambiata;
Mi s'asciuga sul corpo il sudor.
Dacché mi trovo in questo
Non so se labirinto ovver palazzo
Rotondo, e di figura irregolare,
10 Giammai non vidi un uomo a cui parlare:
Tutto lo spasso mio
Fu il contar le colonne; e son seimila,
Ma l'architetto non le ha messe in fila.
Potessi almen sapere
15 Quel che fa Armida dentro il suo casotto!
Vi sta dalle otto del mattino alle otto
Della sera: ma zitto...
appunto è dessa;
Dessa la sola fiamma del cor mio;
Ma è troppo giusto, ché son solo anch'io.
Scena II
ARMIDA e DETTO
ARMIDA
20 Che fai, bell'idol mio?
RINALDO
Il solito, o mia stella:
In questa parte e in quella
Vado portando il piè.
E tu che fai, mio bene?
25 Se la domanda è onesta.
ARMIDA
(accennando il casotto).
Da quella parte a questa
Ho già portato il piè.
Vedi, mio bel guerriero,
Quanto io feci per te? Ti addussi in questo
30 Solitario ritiro, e ne raccolsi
Quanto di bel sa far natura ed arte,
Se avvien che la natura
Co' suoi d'imitazion tratti più arditi
"L'imitatrice sua scherzando imiti".
35 E perché nulla al sommo piacer manchi
Il popolai di bella
E scelta compagnia,
Orsi, tigri, leoni, aquile, e serpi:
E quel ch'è più di tutti, un papagallo
40 Che nel periodar non fé mai fallo.
RINALDO
Ma pur qualche vivente
Che parlasse per uso, e non per caso,
Non farebbe difetto.
ARMIDA
Quando l'esser soletto
45 Con l'adorata donna
Spiacque ad amante mai?
RINALDO
Quando s'annoja.
ARMIDA
Deh! non dir tal parola, o cara gioja.
RINALDO
Se 'l dissi, ad arte e non a caso il fei:
Se non dicessi il resto io creperei.
ARMIDA
50 Ohimè! che vuol dir questo?
RINALDO
Vuol dir: panico pesto.
È tempo alfine
Ch'io parli, e tu m'ascolti; e se finora
Fui di poche parole...
Basta: so quel che dico:
55 La colpa non fu mia, ma d'un amico.
È quello il modo, insomma,
Di trattare un guerriero innamorato?
Lasciarlo sempre solo
A parlar con le belve e colle piante:
60 "Se non quando è con te romito amante"?
Cangiarlo in cacclator senza fucile?
Cangiarlo in giardinier senza badile?
So che un certo Ruggiero,
Che fu antenato mio, trovossi un giorno
65 In questo contingente, in ch'io mi trovo;
Vedete che il trovato non è nuovo!
Ma quei si stava in festa,
A caccia, a giostre, a danze, ed a conviti
In mezzo ad una bella compagnia.
70 Ed io solo così convien che stia!
Che invenzioni son queste?
Non si tratta così con casa d'Este.
ARMIDA
E vorresti, o degenere superbo,
Metterti con Ruggiero?
75 Non sei degno di fargli il cameriero.
Quello era un uom famoso in tutto il mondo,
Amato dalle donne, riverito
Dai guerrieri nell'arme più lodati:
E tu degno non sei
80 Di comandare a quattro venturieri;
Se Goffredo, quel re dei galantuomini,
Sa conoscere il merito degli uomini.
Ma...
finiamola; io voglio pettinarmi,
E far cent'altre cose...
RINALDO
85 Saranno al tuo fedel sempre nascose?
ARMIDA
Solo al Tasso io le rivelo,
Al mio fido consigliere.
Quello è un uom che sa tacere,
E a nessuno le dirà.
RINALDO
90 Basta, basta...
Mi rimetto.
Di saperle non m'affretto:
Se voi fate qualche cosa,
Qualche cosa si vedrà.
Ma questo estraneo arnese
95 Certo per nulla al fianco mio s'appese!
Questo cristallo netto,
Che nell'argenteo rivo
Ripete l'oro fin della tua chioma,
Guardar non lo dovresti;
100 Ma guàrdati nei specchi, almi, celesti.
ARMIDA
No, mio fedel: favellami sul sodo.
RINALDO (a parte).
Oh quanto di parlare un poco io godo!
ARMIDA
Se fosse proprio vero
Quel complimento che tu m'hai suonato,
105 Il venditor di specchi è rovinato.
RINALDO
Scusa se in geroglifico io favello,
Amabile fanciulla,
Per dire il vero, anch'io ne intendo nulla.
ARMIDA
Dunque facciamo fine.
RINALDO
110 Ahimè! che nuova è questa?
Caro mio ben, t'arresta...
ARMIDA
Non posso, in verità.
RINALDO
M'ucciderò, crudele,
Se tu mi volgi il tergo...
ARMIDA
115 Torno all'usato albergo...
(Rinaldo vuol seguirla, ma Armida,
accennandogli di star fermo, dice:)
Più innanzi non si va!
ATTO SECONDO
Scena I
RINALDO solo
(Ubaldo e Carlo in disparte).
Quanto è dolce in erma parte
Sospirar per un bel volto,
Per un crin dorato e sciolto,
120 Per li gigli di un bel sen!
Quest'è quel che fa felice
L'oziosa vita mia;
Ma un tantin di compagnia
Mi darebbe un gran piacer.
125 Quanto è dolce, allor che tenero
In me volge Armida il guardo,
Dirle: - O cara, un dolce dardo
M'ha ferito in seno il cor!
Il mio cor, che ovunque il giri,
130 Fuor di te nulla desia! -
Ma un tantin di compagnia
Mi darebbe un gran piacer.
Ed allora che allo specchio
Ella ha vòlto il suo bei viso,
135 Dirle: - Io vedo un paradiso
In un vetro piccolin.
Questi detti son del core
Vero indizio e vera spia! -
Ma un tantin di compagnia
140 Mi darebbe un gran piacer.
Dirle: - Son gl'incendi miei
Un ritratto in miniatura;
Quale è donna tanto dura
Che a tal dir resisterà!
145 Amator di me più fervido
Mai non fu, giammai non fia! -
Ma un tantin di compagnia
Mi darebbe un gran piacer.
Scena II
UBALDO, CARLO e DETTO
UBALDO (a Carlo).
Udisti?
CARLO
Udii: non sembra mal disposto.
UBALDO
150 Dunque mostriamoci...
RINALDO
Oh Dei!
Ecco esauditi alfine i vóti miei:
Che buon vento vi guida?
UBALDO
Siam mandati
Dal pio Goffredo...
RINALDO
Appunto: cosa fa?
UBALDO
Ove tu lo lasciasti ancora sta:
155 Seda sedizioni col mostrarsi;
E poi fa quel che fanno i Genovesi.
RINALDO
Mal ti spiegasti, o pure io mal t'intesi.
UBALDO
Dirò: venne un'arsura
Che diseccò ogni fonte ed ogni roggia...
RINALDO
Oh Dio! com'è finita?
UBALDO
Colla pioggia.
Il pio Goffredo la lasciò cadere,
Affrettandola un po' colle preghiere.
RINALDO
E il solitario Piero
Comandava gli eserciti frattanto?
UBALDO
165 Credo non combattessero in quel canto.
Fu bruciata una macchina stupenda,
Talché non si poté più dar l'assalto.
RINALDO
Me ne rallegro!
UBALDO
E per rifarne un'altra
Siam venuti a chiamarti.
RINALDO
170 Io sono avventuriero,
Non inventor di macchine: che parli?
UBALDO
È ver: ma è duopo per tagliare un bosco,
Che sol nell'Asia tutta
Ha legname che possa in uso porse,
175 D'un uom della tua schiena:
Ecco l'alta cagion che qui ci mena.
RINALDO
Carlo, Ubaldo, voi tutti, ospiti amici,
Guerrieri, pellegrini,
Ditemi: al campo non vi son Trentini?
180 Quando lo venni in Gerosolima,
Mi diceva il signor Padre:
"A fugar le ostili squadre
Io ti mando, o mio figliuol".
Non mi disse: "O mio figliuolo,
185 Io ti mando a spaccar legna".
UBALDO
Deh! pietà di noi ti vegna;
Ché ci puoi salvar tu sol.
RINALDO
Io vengo, oh giubbilo!
Son fuor d'intrico:
190 Verrei, vi dico,
Tutto quel bosco
Anche a segar.
UBALDO
Ei viene, oh giubbilo!
Che dici, oh Carlo?
CARLO
Per me, non parlo:
195 Tu déi parlar.
UBALDO
Presto, dunque, fuggiam.
RINALDO
Che fretta avete?
UBALDO
Se qualcuno ci scopre...
RINALDO
200 Eh! che non v'è nessuno...
Se per caso non fosse il pappagallo.
UBALDO
Ecco Armida che viene.
RINALDO
Or siamo in ballo.
Scena III
ARMIDA e DETTI
ARMIDA
Il musico gentile
Pria che la lingua snodi,
Sussurra in bassi modi
205 Un bel ge - sol - re - ut.
Tal l'infelice Armida
Or che pregar ti deve
Forma un concento breve
Per prepararti il cor.
210 Attenti, miei signori, ed incomincio.
"Non aspettar..."
RINALDO
Signora, altro non chiedo:
Me n'andava.
ARMIDA
Oh! ch'io preghi, volea dire:
Deh! non m'interrompete almen l'esordio.
È la metà dell'opra un bel primordio!
215 Non aspettar ch'io preghi che tu resti:
Solo ti prego, ingrato,
Che mi lasci venire ove tu vai;
Ti potrò far servigio, lo vedrai.
Io ti starò dinnanzi:
220 "Barbaro forse non sarà sì crudo,
Che ti voglia ferir per non piagarmi".
RINALDO
Dite davvero, o fate per burlarmi?
ARMIDA
Anzi ti faccio una proposta in forma.
RINALDO
Vedete, amici cari?
225 Parla la bella donna, e par che dorma.
ARMIDA
Scudiero o scudo,
Col petto ignudo
Ti coprirò.
RINALDO
Non farem nulla:
230 Un Turco crudo,
Bella fanciulla,
Ti piglierà.
E ti dirà:
"Signore scudo,
235 Signor scudiere,
Venga al quartiere
Di Mustafà".
ARMIDA
Tu non sei nato
In casa d'Este:
240 Nelle foreste
Ti fece il mar,
Allor che il Caucaso
(La cosa è piana)
Coll'onda insana
245 Si maritò.
Vattene pur, crudele;
Vattene, iniquo, omai:
Me ignoto spirto a tergo
Eternamente avrai.
RINALDO
250 Non me ne importa un corno,
Perché non ti vedrò.
ARMIDA
Ma cado tramortita, e mi diffondo
Di gelato sudor.
RINALDO
Poter del mondo!
Cara Armida! oimè! che fai?
255 Non mi senti e non mi vedi?
Ma pur gli ultimi congedi
Per pietade io prenderò.
Oh! crudel, tu non rispondi?
Non mi dici: "Schiavo, cane!"
260 Sta' pur lì fino a dimane;
Ch'io per me già me ne vo.
XLII
A CARLO PORTA
[Sonetto beroldinghiano]
[1° marzo 1819]
Lingua mendace che invoca gli Dei
Essendo in suo cuore ateo mitologico,
Tu credesti ingannare i sensi miei
Con stile affettatamente pedagogico.
5 Del qual giammai creduto io non avrei
Che mi stimassi tanto cacologico
Da non discerner sensi buoni e rei
Sotto il velame del linguaggio anfibologico.
Falso avvocato ne fingesti difensore
10 Per tirare in rovina il tuo cliente.
O stelle! o numi! chi vide un tale orrore?.
E per tradire ancor più impunemente
Pigliare un nome caro all'alme Suore
Come la tua inizial spergiura e mente!
XLIII
[POSTILLA AL PRECEDENTE SONETTO]
[1° marzo 1819]
On badée, che voeur fa da sapienton,
El se toeu subet via par on badée;
Ma on omm de coo, che voeur parè mincion,
El se mett anca lù in d'on bell cuntée.
XLIV
AL SIGNOR FRANCESCO HAYEZ
L'AUTORE
[1822?]
Già vivo al guardo la tua man pingea
Un che in nebbia m'apparve all'intelletto:
Altra or fugace e senza forme idea
Timida accede all'alto tuo concetto:
5 Lieto l'accoglie, e un immortal ne crea
Di maraviglia e di pietade oggetto;
Mentre aver sol potea dal verso mio
Pochi giorni di spregio, e poi l'oblio.
XLV
AD ANGELICA PALLI
[Agosto 1827]
Prole eletta dal Ciel, Saffo novella
Che la prisca Sorella
Di tanto avanzi in bei versi celesti
E in santi modi onesti,
5 Canti della infelice tua rivale,
Del Siculo sleale
Nello scoglio fatal, m'attristi; ed io
Ai numeri dolenti
T'offro il plauso migliore, il pianto mio.
10 Ma tu credilo intanto ad alma schietta,
Che d'insigne vendetta
L'ombra illustre per te placata fora,
Se il villano amator vivesse ancora.
XLVI
PER VINCENZO MONTI
[1828]
Salve, o divino, cui largì Natura
Il cor di Dante e del suo Duca il canto!
Questo fia il grido dell'età futura;
Ma l'età che fu tua tel dice in pianto.
DISTICI LATINI
XLVII
VOLUCRES
[1868]
Fortunatae anates quibus aether ridet apertus,
Libera in lato margine stagna patent!
Nos hic intexto concludunt retia ferro,
Et superum prohibent invida tecta diem.
5 Cernimus, heu! frondes et non adeunda vireta
Et queis misceri non datur alitibus.
Si quando immemores auris expandimus alas
Tristibus a clathris penna repulsa cadit.
Nullos ver lusus dulcesve reducit amores,
10 Nulli nos nidi, garrula turba, cient.
Pro latice irriguo, laeto pro murmure fontis,
Exhibet ignavas alveus arctus aquas.
Crudeles escae, vestra dulcedine captae
Ducimus aeternis otia carceribus!
XLVIII
AD MICHAËLEM FERRUCIUM
V.
CL.
ALEXANDER MANZONI
[26 dicembre 1869]
Sunt qui fidenter venia vix hercule dignis
Deposcunt laudum proemia carminibus:
Tu, pro laudandis, veniam, Vir docte, precaris:
Error utrimque; sed hic nobilis, ille miser.
Mediolani.
a.
d.
VII calend.
Januar.
A.
MDCCCLXX.
POESIE D'INCERTA ATTRIBUZIONE
XLIX
[PER UN PRELATO]
Non il favor de' salutati regi,
Ne il tollerato col roman Nocchiero
Mar tempestoso a te il difficil diero
Onor dell'Ostro e i pontificj fregi;
5 Ma ben maggiore di tutt'altri pregi,
Zelo dell'alme, ed incorrotto, austero
Costume in anni verdi, e in lusinghiero
Secolo, distruttor de' studj egregi.
Tali vedeva dalla greggia umile
10 Sorgere i suoi Pastor la prisca etate
A reggere di Cristo il santo Ovile.
E le gemme a que' dì meno onorate
E il fulgid'Ostro eran compenso vile
E prezzo ingiusto alla maggior pietate.
L
[ANACREONTICA]
Mi disse un pastore,
Quand'ero bambina,
Che un serpe era Amore,
Che morde se può.
5 E il core molti anni
Le insidie e gl'inganni
Del serpe schivò.
Ma quando improvviso
Apparvemi al fonte
10 Il giovane Euriso
Giurandomi fe',
Fra palpiti il core
Si accorse che Amore
Un serpe non è.
LI
L'APPARIZION DEL TASS
FRAMMENT
[1817]
Fura de porta Ludoviga on mia,
Su la sinistra, in tra duu fontanin
E in tra dò fil de piant che ghe fa ombria,
El gh'è on sentirolin
5 Solitari, patetegh, deliziôs
Che 'l se perd a zicch zacch dent per i praa,
E ch'el par giusta faa
Per i malinconij d'on penserôs.
Là inscì, via del piss piss
10 D'on quaj sbilz d'acqua, che sbottiss di us'ciu,
Via d'on quaj gorgheg d'on rosignu,
O de quaj vers lontan lontan lontan
D'on manzett, o d'on can,
No se ghe sent on ett
15 Che rompa la quiett.
Tuttcoss, là inscì, l'aiutta la passion,
Ne s'à nanch faa duu pass
Tra quij acqu, tra quij piant, tra quell'ombria,
Che se sent a quattass d'on cert magon,
20 Se sent a trasportass
D'ona certa èstes de malinconia,
Che sgonfia i ucc senza savè el perchè,
E sforza a piang, d'on piang che fa piasè.
Appont in de sto stat de scoldament
25 Seva jer sol solett in sta stradella.
Gh'aveva el Tass sott sella
E i su disgrazi in ment:
Quand tutt'on tratt dove pù scur e fosch
E pù suturno per el folt di ramm
30 Fan i arbor on bosch,
Me senti a succudì
Da on streppet improvvis in di fojamm;
Me se scuriss el dì,
Me traballa la terra sott i pee,
35 Starluscia, donda i piant, scolti on lument
Sord sord, tegnù tegnù, come d'on vent
Che brontolla s'cincaa tra i filidur,
Come el lument di mort e di pagur.
E vedi a spôntà sù, Gesus Maria!,
40 Tra i rover e i fojasc
Longa longa on ombria
Che me varda e me slonga incontra i brasc.
Foo per scappà...
foo per sgarì...
no poss...
Me se instecchiss i pee, voo in convulsion,
45 E el pocch fiaa di polmon
El rantéga, el se perd dent per el goss.
I pols, i laver, i palper, i dent,
I mascell, i naris
Solten, batten, hin tucc in moviment;
50 Già brancolli...
già svegni...
borli giò.
E in quella che bicocchi, on ton de vôs
Affabel e pietôs
El me rinfranca con premura, e el dis:
- Spiret, Carlin! te me cognosset no?
55 Vardem...
cognossem...
sont on galantomm.
-
Sbaratti i ucc...
i fissi in quell'ombria,
E no l'è pù on'ombria, ma l'è on bell'omm
D'oss, de carna, de pell,
Che me varda in d'on att de cortesia,
60 E el sporg el volt vers mì
Come sarant a dì...
- E inscì mo adess
Son quell o no sont quell? parla, di su.
-
L'eva volt, compless, ben fa de la personna,
Magher puttost che grass,
65 L'ha el front quadraa, spaziôs;
Arcaa, distint i zij;
Barba, baffi, cavij
Tacaa insemm, folt e bisc, tra el scur e el biond:
ucc viv, celest, redond,
70 Sguard poetich, penserôs,
Pell bianca, nâs grandott, laver suttil,
Bocca larga; dò fil
De dent piccol e spess, candidi, inguai,
Barbozz sporgent in fura;
75 Manegh, corpett, goriglia alla spagnura...
- Dio! chi vedi mì...
saravel mai,
Saravel mai - dighi tremant - el Tass?...
-
E lù cerôs, fasent i dò foppell
In mezz ai dò ganass
80 - Sì - el me respond - sont quell, sont propi quell!
A sto gran nomm, me butti genoggion
Per adorall de cur, per ringraziall
De tanta degnazion...
- Lù - sclammi - on poetton de quella sort,
85 L'onor di Italian,
Tuss st'incommed per mì, lassà i su mort
Per vegnì chi in personna
A parlà cont on tangher de Milan?...
Ma in dov'ela, sur Tass, quella coronna,
90 Che ghe stava inscì ben su quella front? -
- Ah! Carlo - el me respond,
Tirand su dai polmon
On sospiron patetegh e profond -
Ah! Carlo, la coronna strapazzada
95 No la ghè pù per mi...
che on tal Manzon,
On tal Ermes Viscont
Me l'han tolta del coo, me l'han strasciada
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[1] E mi ferì le luci etc.
Sonò dentro a un lume che lì era
Tai, che mi vinse, e guardar nol potei.
Disse con grande forza Dante.
[2] Non era l'andar suo.
Verso del grande Petrarca nel maraviglioso sonetto: Erano i capei d'oro.
[3] Dagli antichi fu sempre attribuita a Giunone la maestà.
Leggansi i Poeti Greci e Latini.
[4] E se morire è forza.
Il ripetere tre volte la stessa parola in fine del verso fu già usato dall'Ariosto.
Dante l'adoperò colla parola Cristo e il suo grande emulatore l'usò tre volte certamente; una volta con la parola perdona nella Bassvilliana, un'altra colla parola spada in un Capitolo d'Emenda, e finalmente colla parola pare nel secondo Canto della Mascheroniana.
[5] Contra miglior voler voler mal pugna.
Verso significantissimo di Dante.
[6] La Dea mirolle, e rise un cotal riso.
Non vorrei che alcuno trovasse troppo ardita questa espressione.
Un gran Poeta de' nostri tempi non si fece scrupolo di dire: E in quel sospetto sospettò...
selva selvaggia...
Delle tre parti in che si parte il giorno.
Il grande Alighieri si lasciò sfuggire, non so se a caso o per vezzo nel Purgatorio:
Ch'a farsi quelle per le vene vane.
E:
Che s'imbestiò nelle 'mbestiate schegge.
E nel Paradiso:
...perché fur negletti
Li nostri voti, e voti in alcun canto.
E:
Nel modo, che 'I seguente Canto canta.
[7] Il furente.
In Poesia talvolta vale ispirato, e magiche val divine.
[8] Fe' la vendetta del superbo strupo.
Verso usato da Dante in tutt'altro significato:
Vuolsi nell'alto, là dove Michele
Fe' la vendetta del superbo strupo.
[9] E maritolla ai suoi nefandi Drudi.
Io protesto, che qui e dovunque parlo degli abusi.
Diffatti ognun vede che qui non si toccan principj di sorte alcuna.
Altronde il Vangelo istima la mansuetudine, il dispregio delle ricchezze e del comando, cose tutte, che diametralmente s'oppongono a que' principj, ai quali per conseguenza diametralmente s'opposero e s'oppongono coloro che qui sono descritti.
Quindi a coloro, che vedendosi puniti, o a cui vantaggiosi essendo questi abusi, volessero al volgo e alle persone dabbene...
[10] Come fra 'l salcio umile e l'orno
Quantum lenta solent inter viburna cupressi
(Virg.)
[11] ...e l'alma fugge
Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.
Maravigliosamente espresse questo effetto il Petrarca in quella terzina:
Come chi smisuratamente vole,
Ch'ha scritto innanzi che a parlar cominci,
Ne gli occhi, e nella (sic) fronte le parole.
[12] E 'l dolce lume ancor per gli occhi sugge?
Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?
disse Dante.
[13] In quale arena mai etc.
Leggasi l'energico, e veramente Vesuviano Rapporto fatto da Francesco Lomonaco, Patriotta Napoletano.
[14] Deh vomiti l'accesa Etna etc.
Questo sentimento fu già adoperato dal celebre Vincenzo Monti nell'Inno per la caduta dell'ultimo Tiranno di Francia, laddove dice:
Versa, o monte, dall'arsa tua gola
Tuoni e fiamme, onde l'empio punir.
[15] Questi versi scriveva io Alessandro Manzoni nell'anno quindicesimo dell'età mia, non senza compiacenza, e presunzione di nome di Poeta, i quali ora con miglior consiglio, e forse con più fine occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non casa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e virile animo.
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