TUTTE LE POESIE, di Alessandro Manzoni - pagina 6
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Ospite muro
Né certa patria a lui concesse il fato,
Né d'altro avea del suo fuor che la lira.
160 Tal che il sommo poeta, ohimè! vergogna!
Fu costretto a varcar le iberne cime;
E in man recando la frassinea cetra
Ed il Dircio turcasso, andò gli orecchi
A lusingar de gli unguentati eroi
165 E del Mavorzio mercator britanno.
Poi che la sorte e l'onorate prove
Di Guerrino ei cantava, e i detti alteri,
Gl'incantati palagi e l'aste infrante,
Gli arcion vuotati e le guerriere vergini
170 Dei convivi d'Artur.
Né tu, ch'io creda,
A contesa verrai, benché ti vanti
Secondo ad Alighier, primo ad ogni altro,
Eridanio cantore.
I merti e l'opre
Di quella tacerò che a lui fu sposa,
175 Madre a Trimalcion.
Che non, se cento
Bocche a voce di bronzo in petto avessi,
Potrei dir tanto che il soggetto adegui.
Sol questo io canterò, ch'ella fu prima
Di Venere ministra e dei suoi doni
180 Larga dispensatrice: e se null'altra
Luce di padri e nobiltà di sangue
Ell'avesse quaggiù, ciò fora assai
Per collocarla infra l'eccelse dame.
Or chi m'apre il futuro? Oh qual vegg'io
185 Schiera d'eroi non nati! Ecco togati
Vindici de le leggi e d'oro aspersi
Correttori di popoli.
Tremate,
Barbare madri: ecco i guerrier di Marte.
Oh quanto sangue a voi sovrasta! Oh quanto
190 Pianger pe' figli in stranio suol sepolti!
Ma dove siamo, o Febo? Io te sì ratto
Seguia con l'ale del pensier su l'alte
Cime di Pindo, che sul desco adorno
Il fagian si raffredda, ed il valletto
195 Toglier l'onor già de la mensa anela;
E me a l'usato uffizio e al lavor dolce
Chiama il rinato lamentar del ventre.
POEMETTI
XIX
DEL TRIONFO DELLA LIBERTÀ
[1801]
CANTO PRIMO
Coronata di rose e di viole
Scendea di Giano a rinserrar le porte
La bella Pace pel cammin del sole,
E le spade stringea d'aspre ritorte,
5 E cancellava con l'orme divine
I luridi vestigi de la morte;
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
Si rivestian le valli e le colline;
10 Quand'io fui tratto in parte, io non so come,
Io non so con qual possa o con quai piume,
Quasi sgravato da le terree some.
E mi ferì le luci un vivo lume [1],
Ove non potea l'occhio essere inteso,
15 E vinto fu del mio veder l'acume,
Com'uom che da profondo sonno è preso,
Se una vivida luce lo percote,
Onde subitamente è l'occhio offeso,
Le confuse palpebre agita e scote,
20 Né può serrarle, né fissarle in lei,
Che sua virtute sostener non puote;
Così vinti cadevan gli occhi miei,
Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,
Da sostener la vista de gli Dei.
25 Non cred'io già che fosser questi frali
Occhi deboli e corti e spesso infidi,
Cui non lice fissar cose immortali.
Forse fu, s'egli è ver che in noi s'annidi,
Parte miglior che de le membra è donna;
30 Onde come io non so, so ben ch'io vidi.
Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,
Non era l'andar suo cosa mortale [2],
Né mai fu tale che vestisse gonna.
Di portamento altera [3], e quanta e quale
35 Su gli astri incede quella al maggior Dio
Del talamo consorte e del natale.
Nobile, umano, maestoso e pio
Era lo sguardo, e l'armonia celeste
Comprenderla non può chi non l'udio.
40 Sovra l'uso mortal fulgida veste
Copre le sante immacolate membra,
E svela in parte le fattezze oneste.
Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;
Ma a tanto già non giunge uman lavoro;
45 Oh con quanto stupor me ne rimembra!
Siede su cocchio di finissim'oro
Umilemente altera, ed il decenne
Berretto il crine affrena, aureo decoro.
Stringe la manca la fatal bipenne,
50 E l'altra il brando scotitor de' troni,
Onde a cotanta altezza e poter venne
La gran madre de' Fabj e de' Scipioni;
Sotto cui vide i Regi incatenati
Curvar l'alte cervici umili e proni.
55 Pronte a' suoi cenni stanle d'ambo i lati
Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso
Pendon de l'universo incerti i fati.
L'una è soave e mansueta in viso,
E stringe con la destra il santo ulivo,
60 E il mondo rasserena d'un sorriso.
E l'altra è la ministra di Gradivo,
Che si pasce di gemiti e d'affanni,
E tinge il lauro in sanguinoso rivo.
Due bandiere scotean de l'aure i vanni;
65 Su l'una scritto sta: Pace a le genti,
Su l'altra si leggea: Guerra ai Tiranni.
Taceano al lor passar l'ire de' venti,
Che, survolando intorno al sacro scritto,
Lo baciavano umili e reverenti.
70 Quinci è Colei, che del comun diritto
Vindice, a l'ima plebe i grandi agguaglia,
Sol diseguai per merto o per delitto;
E se vede che un capo in alto saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
75 Alza la scure adeguatrice, e taglia.
E con la destra alto sospende e libra
L'intatta inesorabile bilancia,
Ove merto e virtù si pesa e libra.
Non del sangue il valor, ch'è lieve ciancia,
80 E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;
E sal Lamagna, e 'l seppe Italia e Francia.
Dolce in vista ed umano e in un feroce
Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi
Il cor con l'alma face infiamma e cuoce;
85 E i servi trasformar puote in Eroi,
E non teme il fragor di tue ritorte,
O Tirannia, né de' metalli tuoi;
Non quella cieca che si chiama sorte,
Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;
90 E scritto ha in petto: O Libertate o morte.
D'ogn'intorno commosso il suol fioriva,
L'aura si fea più pura e più serena,
E sorridea la fortunata riva.
E a color che fuggir l'aspra catena,
95 Prorompeva su gli occhi e su le labbia
Impetuosa del piacer la piena;
Come augel, che fuggì l'antica gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.
100 Quindi s'udian romor cupi e profondi,
Un franger di corone e di catene,
Un fremer di Tiranni moribondi.
Impugnando un flagel d'anfesibene
La Tirannia giacevasi da canto,
105 E si graffiava le villose gene.
E i torbid'occhi si copria col manto;
Ché la luce vincea l'atre palpebre,
E le spremea da le pupille il pianto;
Come notturno augel, che le latebre
110 Ospiti cerca allor che il Sole incalza
Ne' buj recinti l'orride tenebre.
Èvvi una cruda, che uno stile innalza,
E 'l caccia in mano a l'uomo e dice: Scanna,
E forsennata va di balza in balza.
115 Nera coppa di sangue ella tracanna,
E lacerando umane membra a brani,
Le spinge dentro a l'insaziabil canna.
E con tabe-grondanti orride mani
I sacrileghi don su l'ara pone,
120 E osa tendere al Ciel gli occhi profani.
Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,
E fa ministro il Ciel di sue vendette;
E il volgo la chiamò Religione.
Si scolorar le faccie maledette,
125 E l'una a l'altra larva s'avviticchia,
E stan fra lor sì avviluppate e strette,
Che il cor de l'una al sen de l'altra picchia,
Ansando in petto, e trabalzando, e poscia
La coppia abbominosa si rannicchia.
130 Qual'è lo can che tremando s'accoscia,
Se il signor con la verga alto il minaccia,
Tal ristrinsersi i mostri per l'angoscia.
Ma poi che di quell'altra in su la faccia
Vide languir la moribonda speme,
135 Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,
Incorolla dicendo: E mute insieme
Morremo e inoperose? e il nostro lutto
Fia di letizia a chi 'l procaccia seme?
Tutto si tenti e si ritenti tutto;
140 E se morire è forza pur, si moja [4],
Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.
Qualunque aspira a Libertate moja,
Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.
E l'altra surse e gorgogliava: Moja.
145 Moja, sì moja, e temerario e baldo
Cerchi in Inferno Libertade; il fio
Paghi col sangue fumeggiante e caldo.
Acuto allor s'intese un sibilio
Via per le chiome ed un divincolarsi
150 E di morsi e percosse un mormorio.
Poscia terribilmente sollevarsi
E un barlume di speme fu veduto
Brillar sui ceffi lividi e riarsi;
Come allor che nel fosco aer sparuto
155 In fra 'l notturno vel si mostra e fugge
Un focherello passeggiero e muto.
L'infame coppia si rosicchia e sugge
Di preda ingorda la terribil ugna,
Si picchia i lombi risonanti e rugge.
160 Contra miglior voler voler mal pugna [5];
E fra la vil perfidia e la virtute
Secura è sempre e disegual la pugna.
Ma stavan l'aure pensierose e mute,
E il Ciel di brama e di timor conquiso,
165 E pendevan le rive irresolute.
La Dea mirolle, e rise un cotal riso [6]
Di scherno e di disdegno, che dipinge
Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.
E immobile in suo seggio il cocchio spinge
170 Su le attonite larve, e le fracassa,
E l'auree rote del lor sangue tinge.
Né per timore o per desio s'abbassa,
Ma disdegnosa e nobile in sua possa
Alteramente le sogguarda, e passa.
175 Fumò la terra di quel sangue rossa,
Ond'esalava abbominoso lezzo,
E da l'ime radici ne fu scossa.
Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo
Apre del sen tenebricoso, e ingoja
180 Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.
Quinci acuto s'udì grido di gioja,
E quindi un fioco rimbombar di duolo,
Simile a rugghio di Leon che moja.
S'alzò tre volte, e tre ricadde al suolo
185 Spossata e vinta l'Aquila grifagna,
Ché l'arse penne ricusaro il volo.
Alfin, strisciando dietro a la campagna,
Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio
A gl'intimi recessi di Lamagna.
190 Allor prese i Tiranni un brividio,
Che gli fe' paventar de la lor sorte,
E mal frenato in su le gote uscio,
E gliele tinse d'un color di morte.
CANTO SECONDO
Col pensier, con gli orecchi e con le ciglia
I' era immerso in quell'altera vista,
Come colui che tace e maraviglia;
Qual dicon che de' Spirti in fra la lista,
5 Stette mirando le magiche note
Il furente [7] di Patmo Evangelista.
Quand'io vidi la Dea, che su l'immote
Maladette sorelle il cocchio spinse,
E su le infami cigolar le rote,
10 Primamente un terror freddo mi strinse,
Poi surse in petto con subita forza
La letizia, che l'altro affetto estinse.
Qual se fiamma divora arida scorza
Avidamente, e d'improvviso d'acque
15 Talun l'inonda, subito s'ammorza,
Così sotto la gioja il timor giacque;
Poi surse un novo di stupore affetto,
E l'uno e l'altro moto in sen mi tacque.
Però ch'io vidi un bel drappello eletto
20 Di Lor che sordi furo al proprio danno,
Caldi d'amor di Libertade il petto.
Vidi colui che contro al rio Tiranno
Fe' la vendetta del superbo strupo [8],
Poi che s'avvide del lascivo inganno,
25 E corse furioso, come lupo,
Se mai rapace cacciator gli fura
I cari figli dal natio dirupo.
E seco è Lei, che d'alma intatta e pura,
Benché polluta ne la spoglia in vita,
30 Lavò col sangue la non sua lordura.
Quei che ritolse ai figli suoi la vita,
Poi che ne fero uso malvagio e rio,
Immolando a la Patria, ostia gradita,
L'affetto di parente, e dir s'udio:
35 Quei che di fede a la sua patria manca
Non è figlio di Roma, e non è mio.
Siegue Quei che la destra ardita e franca
Cacciò fremendo ne le fiamme pie,
E fe' tremar Porsenna colla manca.
40 Ve' la Vergin che corse a le natie
Piaggie, fuggendo del Tiranno l'onte,
Per le amiche del Tebro ospite vie.
Ecco quel forte, che al famoso ponte
Contra l'Etruria congiurata tenne
45 Ferme le piante e immobile la fronte.
E l'urto d'un esercito sostenne,
E contra mille e mille lancie stette,
Onde immortale a' posteri divenne.
Ma ben poria le più sottili erbette
50 Annoverar nel prato e 'n ciel le stelle
E le arene nel mar minute e strette
Chi noverar volesse l'alme belle
Ch'ivi eran, di valore inclito speglio,
Sol de la Patria e di Virtute ancelle.
55 Sorgea fra gli altri il generoso Veglio,
Che involò del Tiranno ai sozzi orgogli
La figlia intatta, e ben fu morte il meglio.
Fu la figlia che disse al padre: Cogli
Questo immaturo fior: tu mi donasti
60 Queste misere membra, e tu le togli,
Pria che impudico ardir le incesti e guasti;
E in quello cadde il colpo, e impallidiro
Le guancie e i membri intemerati e casti,
E uscì dal puro sen l'ultimo spiro,
65 Ed a la vista orribile fremea
Il superbo e deluso Decemviro,
Cui stimolava la digiuna e rea
Libidine, e struggea l'insana rabbia,
Che i già protesi invan nervi rodea;
70 Qual lupo, che la preda perdut'abbia,
Batte per fame l'avida mascella,
Rugge, e s'addenta le digiune labbia.
Quindi segue una coppia rara e bella,
Che ria di ben oprar mercede colse
75 Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella.
V'è quel grande che Roma ai ceppi tolse,
Indi de l'Afro le superbe mine
E le audaci speranze in lui rivolse:
Per cui sovra le libiche ruine
80 Vide Roma discesa al gran tragitto
Il fulgor de le fiaccole Latine.
E quei che Magno detto era ed invitto,
Che, insiem con Libertà, spoglia schernita
Giacque su l'infedel sabbia d'Egitto.
85 V'era la non mai doma Alma, che ardita
Temé la servitù più de la morte,
Amò la Libertà più de la vita;
Dicendo: Poi che la nimica sorte
Tanto è contraria a Libertate, e invano
90 La terribile armò destra quel forte,
Alzisi omai la generosa mano,
E l'alma fugga pria che servir l'empio,
Ch'io nacqui e vissi e vo' morir Romano.
E seco è Lei, che con novello scempio
95 Dietro la fuggitiva Libertate
Corse animata dal paterno esempio.
Quindi un drappel venia d'ombre onorate
Sacre a la patria, che di sangue diro
Ne spruzzar le ruine inonorate.
100 Bruto primo sorgea, che torvi in giro
Pria torse i lumi, indi a Roma gli volse,
E da l'imo del cor trasse un sospiro.
E a l'ombre circostanti si rivolse,
In cui non fu la virtù patria doma,
105 Indi la lingua in tai parole sciolse:
Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma,
Or che strappotti il glorioso lauro
Invida man da la vittrice chioma.
Ov'è l'antico di virtù tesauro?
110 Ove, ove una verace alma Latina?
Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?
Ahi! de la Libertà l'ampia ruina
Tutto si trasse ne la notte eterna,
Ed or serva sei fatta di reina;
115 Ché il celibe Levita ti governa
Con le venali chiavi, ond'ei si vanta
Chiuder la porta e disserrar superna.
E i Druidi porporati: oh casta, oh santa
Turba di Lupi mansueti in mostra,
120 Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta!
E il popol reverente a lor si prostra
In vile atto sommesso, e quasi Dii
Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!
Che valse a me di sacri ferri e pii
125 Armar le destre, e franger la catena?
Lasso! e per chi la grande impresa ardii?
Spento un Tiranno, un altro surse, piena
Di schiavi de la terra era la Donna,
Infin che strinse la temuta abena
130 Quei che la Galilea dimessa donna
Trasse dal fango, e i membri sozzi e nudi
Vestì di tolta altrui fulgida gonna;
E maritolla a' suoi nefandi Drudi [9]
Incestamente, e al vecchio Sacerdote
135 A la canna scappato e a le paludi,
Che infallibil divino a le devote
Genti s'infinse, che a la Putta astuta
Prestaro omaggio e le fornir la dote.
E nel Roman bordello prostituta,
140 Vile, superba, sozza e scellerata
Al maggior offerente era venduta.
Ivi un postribol fece, ove sfacciata
Facea di sé mercato, ed a' suoi Proci
Dispensava ora un detto, ora un'occhiata.
145 Ma poi che ferma in trono fu, feroci
Sensi vestì, l'armi si cinse, e infece
D'innocuo sangue le mal compre croci.
E sue ministre ira e vendetta fece,
L'inganno, la viltà, la scelleranza,
150 E fe' sua legge: Quel che giova lece.
Quindi la maladetta Intolleranza
Del detto e del pensier, quindi Sofia
Stretta in catene, e in trono l'Ignoranza.
O ditel voi, che di saver sì ria
155 Mercede aveste di sospiri e pianto
Da l'empia de l'ingegno tirannia.
O ditel voi, ch'io già non son da tanto;
Gridino l'ossa inonorate, e il suono
A l'Indo ne pervenga e al Garamanto.
160 Questi i diletti de l'Eterno sono?
Questi i ministri del divin volere?
E questi è un Dio di pace e di perdono?
Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spere
Librasti il moto, e a' tuoi nepoti un varco
165 Di veritate apristi e di sapere.
Contra te i dardi dal diabolic'arco
Sfrenò l'invidia, e contra i tuoi sistemi
Indarno trasse in campo e Luca e Marco.
Empj! che di ragione i divi semi
170 Spegner tentaro ne gli umani petti,
E colpirono il ver con gli anatemi.
Van predicando un Nume, e a' suoi precetti
Fan fronte apertamente, e a chi gl'imita
Fulminan le censure e gl'interdetti.
175 Povera, disprezzata, umil la vita
Quel che tu adori in Galilea menava,
E tu suo servo in Roma un Sibarita.
O greggia stolta, temeraria e prava,
Che col suo Nume e con se stessa pugna;
180 Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.
Altri nemico di se stesso impugna
Crudo flagello, e il sangue fonde, e 'l fura,
A la Patria, e de' suoi dritti a la pugna,
Devoto suicida, ed a la dura
185 Verginità consacrasi, i desiri
Soffocando e le voci di natura.
Stolto crudel, che fai? de' tuoi martiri
Forse l'amante comun Padre frue?
O si pasce di sangue e di sospiri?
190 Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sue
Dita divine la diversa brama
Pose Colui, che disse "sia", e fue.
Ei con la voce di natura chiama
Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna,
195 E va d'ognuno al cor ripetendo: Ama.
E tu fuggi colei che per compagna
Ei ti diede, e i fratei credi nemici,
E invan natura, invan grida e si lagna.
E tal sotto i flagelli ed i cilici
200 Cela i pugnali, e vassi a capo chino
Meditando veleni e malefici.
O degenere figlia di Quirino,
Che i tuoi prodi obliando, al Galileo
Cedesti i fasci del valor Latino,
205 Questi sono i tuoi Cati, e in sul Tarpeo
Dei nostri figli si fan scherno e gioco...
Ma qui si tacque, e dir più non poteo;
Ché tal la carità del natio loco
Lo strinse, e sì l'oppresse, che morio
210 La voce in un sospir languido e fioco.
Quindi tra le commosse ombre s'udio
Sorgere un roco ed indistinto gemito,
Poscia un cupo e profondo mormorio;
Sì come allor che con interno tremito
215 Quassano i venti il suol che ne rimbomba,
S'ode sonar da lunge un sordo fremito,
Che tra le foglie via mormora e romba.
CANTO TERZO
I tronchi detti e il lagrimoso volto
Di quella generosa Anima bella
Avean là tutto il mio pensier raccolto,
Quando tutto a sé 'l trasse una novella
5 Turba, che di rincontro a me venia,
D'abito più recente e di favella.
Confuso e irresoluto io me ne gìa,
Com'uom che in terra sconosciuta mova,
Che lento lento dubbiando s'avvia.
10 Ed erano color che per la nova
Libertade s'alzar fra l'alme prime,
Di sé lasciando memoranda prova.
Grandeggiava fra queste una sublime
Alma, come fra 'l salcio umile e l'orno [10]
15 Torreggian de' cipressi alto le cime.
Avea di belle piaghe il seno adorno,
Che vibravan di luce accesa lampa,
E fean più chiaro quel sereno giorno;
Ché men rifulge il sol quando più avvampa,
20 E sovra noi da lo stellato arringo
L'orme fiammanti più diritte stampa.
Allor ch'egli me vide il pie' ramingo
Traggere incerto per l'ignota riva,
Meditabondo, tacito e solingo,
25 A me corse, gridando: Anima viva,
Che qua se' giunta, u' solo per virtute,
E per amor di Libertà s'arriva;
Italia mia che fa? di sue ferute
È sana alfine? è in Libertate? è in calma?
30 O guerra ancor la strazia e servitute?
Io prodigo le fui di non vil alma,
E nel cruento suo grembo ospitale
Giacqui barbaro pondo, estrania salma.
35 Né m'accolse nel seno il suol natale,
Né dolce in su le ceneri agghiacciate
Il suon discese del materno vale.
Barbaro estranio tu? non son sì ingrate
L'anime Italiane, e non è spento
L'antico senso in lor de la pietate.
40 Oh qual non fece Insubria mia lamento
Più sul tuo fato, che sul suo periglio!
Ahi! con lagrime ancor me ne rammento.
E te, discinta e scarmigliata, figlio
Chiamò, baciando il tronco amato e santo,
45 E con la destra ti compose il ciglio.
E adorò 'l tuo cipresso al quale accanto
Il caro germogliò lauro e l'ulivo,
Che i rai le terse del bilustre pianto.
Li terse? Ahi no! ché a lei costonne un rivo,
50 Che inondò i membri inanimati e rubri
Di te, che 'n cielo e ne' bei cor se' vivo.
Deh! resti a noi, dicean le rive Insubri,
Deh! resti a noi, ma l'onorata spoglia
Trasse Francia gelosa a' suoi delubri.
55 Ma de l'itala sorte, onde t'invoglia
Tanto desio, come farò parola?
Ché un seme di Tiranni vi germoglia.
E sotto al giogo de la greve stola
La gran Donna del Lazio il collo spinse,
60 E guata le catene, e si consola.
E Partenope serve a lei, che vinse
In crudeltà la Maga empia di Colco,
E de' più disumani il grido estinse.
Ed il Siculo e 'l Calabro bifolco
65 Frange a crudo signor le dure glebe,
E riga di sudore il non suo solco.
Al mio dir disiosa urtò la plebe
Un'ombra, sì com'irco spinge e cozza
In su l'uscita le ammucchiate zebe.
70 Avea i luridi solchi in su la strozza
Del capestro, e la guancia scarna e smunta,
E la chioma di polve e sangue sozza.
E' surse de le piante in su la punta,
Come chi brama violenta tocca,
75 E uno sciame d'affetti in sen gli spunta,
Ed il cor sopraffatto ne trabocca
Inondato e sommerso, e l'alma fugge [11]
Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.
Poi gridò: L'empia vive, e non l'adugge
80 Il telo, che temuto è sì là giue?
E 'l dolce lume ancor per gli occhi sugge? [12]
Né pur la pena di sue colpe lue,
Ma vive, e vive trionfante, e regna:
Regna, e del frutto di sue colpe frue.
85 O tu, diss'io, che sì contra l'indegna
Ardi, che in crudeltate al mondo è sola,
Spiegami il duol che sì l'alma t'impregna.
Più volte egli tentò formar parola,
Ma sul cor ripiombò tronca la voce;
90 Che 'l duol la sospingeva ne la gola;
Sì come arretra il suo corso veloce,
E spumeggia e gorgoglia onda restia,
Se impedimento incontra in su la foce.
Ma poi che vinse il duol la cortesia,
95 E per le secche fauci il varco aperse,
E fu spianata al ragionar la via,
Gridò: Tu vuoi ch'io fuor dal seno verse
Il duol, che tanto già mi punse e punge,
Se pur si puote anco qua su dolerse.
100 Ma in quale arena mai grido non giunge [13]
Di sua nequizia e de' fatti empi e rei?
E sia pur, quanto esser si voglia, lunge.
Io di sua crudeltà la prova fei,
E giacqui ostia innocente in su l'arena,
105 Per amor de la Patria e di Costei,
Di ciò l'alma e la bocca ebbi ognor piena,
Che a me fu sempre fida stella e duce,
Ed or mi paga la sofferta pena.
Poi che apparve un'incerta e dubbia luce
110 Sovra l'Italia addormentata, e sparve,
Onde la notte nereggiò più truce,
E una benigna Libertade apparve,
Che al duro appena ci rapì servaggio,
Indi sparì come notturne larve,
115 Io corsi là, com'a un lontano raggio
Correndo e ansando il pellegrin s'affretta,
Smarrito fra 'l notturno ermo viaggio.
Ahi breve umana gioja ed imperfetta!
Venne, con l'armi no, con le catene
120 Una ciurma di schiavi maladetta.
E gli abeti secati a le Rutene
Canute selve del Cumeo Nettuno
Gravaro il dorso, e ne radean le arene.
Corse fremendo ed ululando il bruno
125 Tartaro antropofàgo, che per fame
Spalanca l'atro gorgozzul digiuno.
E l'Anglo avaro, che mercato infame
Fa de le umane vite, e in quella sciarra
Lo spinsero de l'or le ingorde brame.
130 Né più i solchi radea sicula marra,
Né più la falce, ma le verdi biade
Mieteva la cosacca scimitarra.
E non bastar le peregrine spade;
Ché la Patria ancor essa, ahi danno estremo!
135 Vomitò contra sé fiere masnade.
Ahi che in pensando ancor ne scoppio e fremo!
Qual dal carcer sboccato e qual dal chiostro,
Qual tolto al pastorale e quale al remo.
Oh ciurma infame! e un porporato mostro
140 Duce si fe' de le ribelli squadre,
Celando i ferri sotto al fulgid'ostro.
Costor le mani violente e ladre
Commiser ne la Patria, e tutta quanta
D'empie ferite ricovrir la madre.
145 Di Libertà la tenerella pianta
Crollar, sì come d'Eolo irato il figlio
L'aereo pin da le radici schianta.
Poscia un confuso regnava bisbiglio,
Un sordo mormorar fra denti ed una
150 Paura, un cupo sovvolger di ciglio;
Come allor che da lunge il ciel s'imbruna,
Siede sul mar, che a poco a poco s'ange,
Una calma che annunzia la fortuna;
Mentre cigola il vento, che si frange
155 Tra le canne palustri, e cupo e fioco
Rotto dai duri massi il fiotto piange.
Ma surse irata la procella, poco
Durò la calma e quel servir tranquillo;
Sangue al pianto successe e ferro e foco.
160 E l'aer muto ruppe acuto squillo
Annunziator di stragi, e sulla torre
L'atro di morte sventolò vessillo.
Il furor per le vie rabido scorre,
E con grida i satelliti, e con cenni
165 Incora e sprona, e a nova strage corre.
Allor s'ode uno strider di bipenni,
Un cupo scroscio di mannaje.
Ahi come
Oltre veder con questi occhi sostenni!
Chi solo amò di Libertate il nome,
170 O appena il proferì, dai sacri lari
Strappato e strascinato è per le chiome.
Ai casti letti venian que' sicari,
Qual di lupi digiuni atro drappello,
D'oro e di sangue e di null'altro avari.
175 E invan le spose al violato ostello,
Di lagrime bagnando il sen discinto,
Fean con la debil man vano puntello;
Ché fin fu il ferro, ahimè! cacciato e spinto
Entro il seno pregnante: oh scelleranza!
180 E il ferro, il ferro da l'orror fu vinto.
Gli empj no, che con fiera dilettanza
Pascean gli sguardi disiosi e cupi,
E fean periglio di crudel costanza.
E i pargoletti a que' feroci lupi
185 Con un sorriso protendean le mani,
Con un sorriso da spetrar le rupi.
Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani
Tigri! col ferro rimovean l'amplesso,
E fean le membra tenerelle a brani.
190 Non era il grido ed il sospir concesso;
Era delitto il lagrimar, delitto
Un detto, un guardo ed il silenzio istesso.
Morte gridava irrevocando editto.
La coronata e la mitrata stizza
195 L'avean col sangue d'innocenti scritto.
Intanto a mille eroi l'anima schizza
Dal gorgozzule oppresso, e brancolando
Il tronco informe su l'arena guizza.
Anelando, fremendo, mugolando
200 Gli spirti uscien da' straziati tronchi,
Non il lor danno, ma il comun plorando.
Ivi sorgean due smisurati tronchi,
Cui l'adunato sangue era lavacro,
E d'intorno eran membri e capi cionchi.
205 Quinci era il tronco infame a morte sacro,
Irto e spumoso di sanguigna gruma,
Quindi stava di Cristo il simulacro;
E il percotea la fluttuante schiuma,
Che fea del sangue e de la tabe il lago,
210 Che ferve e bolle e orrendamente fuma.
Fiero portento allor si vide, un vago
Spettro spinto da voglia empia ed infame
Lieto aggirarsi intorno al tristo brago.
Avidamente pria fiutò il carname,
215 E rallegrossi, e poi con un sogghigno
Guatò de' semivivi il bulicame.
Quindi il muso tuffò smilzo ed arcigno,
E il diguazzò per entro a la fiumana,
E il labbro si lambì gonfio e sanguigno.
220 Come rabido lupo si distana,
Se a le nari gli vien di sangue puzza,
E ringhia e arrota la digiuna scana,
E guata intorno sospicando, e aguzza
Gli orecchi e ognor s'arretra in su i vestigi,
225 Così colei, che di sua salma appuzza
Le viscere cruente di Parigi,
Rigurgitando velenosa bava,
La barbara consorte di Luigi,
Venia gridando: Insana ciurma e prava,
230 Che noi di crudi e di Tiranni incolpe,
E al regno agogni, nata ad esser schiava,
Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe
Il fio tu paga, e sì dicendo morse
Le membra, e rosicchiò l'ossa e le polpe.
235 Indi da l'atro desco il grifo torse
Gonfia di sangue già, ma non satolla,
Quando novo spettacolo si scorse.
Venia uno stuolo di Leviti, colla
Faccia di rabbia e di furor bollente,
240 E inzuppata di sangue la cocolla.
Ciascun reca una coppa, e d'innocente
Sangue l'empiero, e le posar su l'ara.
E lo vide e 'l soffrì l'Onnipossente!
E disser: Bevi, e fean quegli empj a gara.
245 Danzava intorno oscenamente Erinni,
E scoteva la cappa e la tiara.
E i profani s'udian rochi tintinni
De' bronzi, e l'aria, con le negre penne,
Gl'infernali scotean diabolic'inni.
250 Bramata alfine ed aspettata venne
A me la morte, ed il supremo sfogo
Compì su la mia spoglia la bipenne.
Allora scossi l'abborrito giogo,
E, l'ali aprendo a la seconda vita,
255 Rinacqui alfin, come fenice in rogo.
Ed ancor tace il mondo? ed impunita
È la Tigre inumana, anzi felice,
E temuta dal mondo e riverita?
Deh! vomiti l'accesa Etna [14] l'ultrice
260 Fiamma, che la città fetente copra,
E la penetri fino a la radice.
Ma no: sol pera il delinquente, sopra
Lei cada il divo sdegno e sui diademi,
Autori infami de l'orribil'opra.
265 E fin da lunge ne' recessi estremi,
Ove s'appiatta, e ne' covigli occulti
L'oda l'empia Tiranna, odalo e tremi.
E disperata mora, e ai suoi singulti
Non sia che cor s'intenerisca e pieghi,
270 E agli strazj perdoni ed a gli insulti,
O dal Ciel pace a l'empia spoglia preghi;
Ma l'universo al suo morir tripudi,
E poca polve a l'ossa infami neghi.
E l'alma dentro a le negre paludi
275 Piombi, e sien rabbia assenzio e fel sua dape,
E tutto Inferno a tormentarla sudi,
Se pur tanta nequizia entro vi cape.
CANTO QUARTO
Tacque ciò detto, e su l'enfiate labbia
Gorgogliava un suon muto di vendetta,
Un fremer sordo d'intestina rabbia.
E le affollate intorno ombre, "vendetta"
5 Gridar, "vendetta", e la commossa riva
Inorridita replicò "vendetta".
I torbid'occhi il crino a lui copriva;
Fascio parea di vepri o di gramigna,
Onde un'atra erompea luce furtiva;
10 Come veggiamo il sol, se una sanguigna
Nugola il raggio ne rinfrange, obbliqua
Vibrar l'incerta luce e ferrugigna.
Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,
De gli uomini nimica e di natura,
15 Or hai pur spenta l'empia sete antiqua!
Gonfia di sangue la corrente e impura
Portò l'umil Sebeto, e de la cruda
Novella Tebe flagellò le mura.
Tigre inumana di pietate ignuda,
20 Tu sopravvivi a' tuoi delitti? un Bruto
Dov'è? chi 'l ferro a trucidarti snuda?
Questi sensi io volgea per entro al muto
Pensier, che tutto in quell'orror s'affisse,
Allor che venne al mio veder veduto
25 D'Insubria il Genio, che le luci fisse
In me tenendo, armoniosa e scorta
Voce disciolse, e scintillando disse:
Mortal, quello che udrai là giuso porta.
Deh! gli alti detti a la mal ferma e stanca
30 Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta.
Tu la cadente poesia rinfranca,
Tu la rivesti d'armonia beata,
E tu sostieni la virtù, che manca;
Tu l'ali al pensier presta, o Diva nata
35 Di Mnemosine, e fa' che del mio plettro
Esca la voce ai colti orecchi grata,
E spargi i detti miei d'eterno elettro.
Già, proseguiva, del real potere
Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l'empio scettro.
40 Ché gli ubertosi colli e le riviere,
Ove Natura a se medesma piace,
No, che non son per le Tedesche fiere.
Pace altra volta tu le desti, pace,
O Tiranno, giurasti, e udir le genti
45 Il real giuro, e lo credean verace.
Ma di Tiranno fede i sacramenti
Frange e calpesta, e la legge de' troni
Son gl'inganni, i spergiuri, i tradimenti.
Venne in fin dai settemplici trioni,
50 Da te chiamato, e da le fredde rupi
Un torrente di bruti e di ladroni.
Come in aperto ovile iberni lupi,
Tal su l'Insubria si gittar quegli empi,
Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.
55 Fino i sacri vestibuli di scempi
Macchiaro e d'adulteri.
Oh quali etati
Fur mai feconde di siffatti esempi?
Ma non fur quegli insulti invendicati,
Né il vizio trionfò: l'infame tresca
60 Franse il ferro e 'l valor: gli addormentati
Spirti destarsi alfin, e la Tedesca
Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna
La virtù Cisalpina e la Francesca.
Torna, arrogante a questi lidi, torna;
65 Qui roco ancor di morte il telo romba,
Qui la tua morte appiattata soggiorna.
Qui il cavo suol de' sepolcri rimbomba
De la tua pube, che ancor par che gema:
Vieni in Italia, e troverai la tomba.
70 Altra volta scendesti avido, e scema
Ti fu l'audacia temeraria e sciocca:
Rammenta i campi di Marengo, e trema.
Ché la fatal misura ancor trabocca;
Non affrettar de la vendetta il die,
75 Il dì che impaziente è su la cocca.
Pace avesti pur anco, e questa fie
La novissima volta; in l'alemanno
Confin le tigri tue frena e le arpie.
Ma tu, misera Insubria, d'un Tiranno
80 Scotesti il giogo, ma t'opprimon mille.
Ahi che d'uno passasti in altro affanno!
Gentili masnadieri in le tue ville
Succedettero ai fieri, e a genti estrane
Son le tue voglie e le tue forze ancille.
85 Langue il popol per fame, e grida: "pane";
E in gozzoviglia stansi e in esultanza
Le Frini e i Duci, turba, che di vane
Larve di fasto gonfia e di burbanza,
Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,
90 A piena bocca sclamando: Eguaglianza;
Il volgo, che i delitti e la nefanda
Vita vedendo, le prime catene
Sospira, e 'l suo Tiranno al ciel domanda.
De l'inope e del ricco entro le vene
95 Succian l'adipe e 'l sangue, onde Parigi
Tanto s'ingrassa, e le midolle ha piene.
E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi
Strisciangli intorno in atto umile e chino.
E tal di risse amante e di litigi
100 D'invido morso addenta il suo vicino,
Contra il nemico timido e vigliacco,
Ma coraggioso incontro al cittadino.
Tal ne' vizj s'avvolge, come ciacco
Nel lordo loto fa; soldato esperto
105 Ne' conflitti di Venere e di Bacco.
E tal di mirto al vergognoso serto
Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,
Ricco d'audacia, e povero di merto.
Tal pasce il volgo di sonanti fole:
110 Vile! e di patrio amor par tutto accenso,
E liberal non è che di parole.
E questi studio d'allargare il censo
Avito rode, e quel tal altro brama
Di farsi ricco di tesoro immenso.
115 Senti costui, che "morte, morte" esclama,
E le vie scorre, furibonda Erinni,
Di sangue ingordo, e dove può si sfama.
Vedi quei, che sua gloria nei concinni
Capei ripone.
Oh generosi Spirti
120 Degni del giogo estranio e de' cachinni!
Odimi, Insubria.
I dormigliosi spirti
Risveglia alfine, e da l'olente chioma
Getta sdegnosa gli Acidalj mirti.
Ve' come t'hanno sottomessa e doma,
125 Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi
La Tirannia, che Libertà si noma.
Mira le membra illividite e i tuoi
Antichi lacci; l'armi, l'armi appresta,
Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.
E a l'elmo antico la dimessa cresta
130 Rimetti, e accendi i neghittosi cori,
E stringi l'asta ai regnator funesta;
Come destrier, che fra l'erbette e i fiori,
Placido, in diuturno ozio recuba,
135 Sol meditando vergognosi amori,
Scote nitrendo la nitente giuba,
Se il torpido a ferirlo orecchio giugne
Cupo clangor di bellicosa tuba,
E stimol fiero di gloria lo pugne,
140 Drizza il capo, e l'orecchio al suono inchina,
E l'indegno terren scalpe con l'ugne.
Contra i Tiranni sol la cittadina
Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso,
Che fosti serva, ed or sarai reina.
145 Disse e tacque, raggiandomi d'un riso,
Che del mio spirto superò la forza,
Così ch'io ne restai vinto e conquiso.
Mi scossi, e la rapita anima a forza,
Come chi tenta fuggire e non puote,
150 Cacciata fu ne la mortale scorza.
Io restai come quel che si riscote
Da mirabile sogno, che pon mente
Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote.
O Pieride Dea, che 'l foco ardente
155 Ispirasti al mio petto, e i sempiterni
Vanni ponesti a la gagliarda mente,
Tu, Dea, gl'ingegni e i cor reggi e governi,
E i nomi incidi nel Pierio legno,
Che non soggiace al variar de' verni.
160 Tu l'ali impenni al Ferrarese ingegno,
Tu co' suoi divi carmi il vizio fiedi,
E volgi l'alme a glorioso segno.
Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
Fai de' tuoi carmi, e trapassando pungi
165 La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.
Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi,
E l'avanzi talor; d'invidia piene
Ti rimiran le felle alme da lungi,
Che non bagnar le labbia in Ippocrene,
170 Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,
Onde tal puzzo da' lor carmi viene.
Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
De l'arte sacra! Augei palustri e bassi;
Cigni non già, ma Corvi da carogne.
175 Ma tu l'invida turba addietro lassi,
E le robuste penne ergendo, come
Aquila altera, li compiangi, e passi.
Invano atro velen sovra il tuo nome
Sparge l'invidia, al proprio danno industre,
180 Da le inquiete sibilanti chiome.
Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,
Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume
A me fo scorta ne l'arringo illustre.
E te veggendo su l'erto cacume
185 Ascender di Parnaso alma spedita,
Già sento al volo mio crescer le piume.
Forse, oh che spero! io la seconda vita
Vivrò, se a le mie forze inferme e frali
Le nove Suore porgeranno aita.
190 Ma dove mi trasporti, estro? mortali
Son le mie penne, e periglioso il volo,
Alta e sublime è la caduta; l'ali
Però raccogli, e riposiamci al suolo [15].
XX
URANIA
POEMETTO
[1809]
Su le populee rive e sul bel piano
Da le insubri cavalle esercitato,
Ove di selva coronate attolle
La mia città le favolose mura,
5 Prego, suoni quest'Inno: e se pur degna
Penne comporgli di più largo volo
La nostra Musa, o sacri colli, o d'Arno
Sposa gentil, che a te gradito ei vegna
Chieggo a le Grazie.
Ché dai passi primi
10 Nel terrestre viaggio, ove il desio
Crudel compagno è de la via, profondo
Mi sollecita amor che Italia un giorno
Me de' suoi vati al drappel sacro aggiunga,
Italia, ospizio de le Muse antico.
15 Né fuggitive dai laureti achei
Altrove il seggio de l'eterno esiglio
Poser le Dive; e quando a la latina
Donna si feo l'invendicato oltraggio,
Dal barbaro ululato impaurite
20 Tacquero, è ver, ma l'infelice amica
Mai non lasciar; ché ad alte cose al fine
L'itala Poesia, bella, aspettata,
Mirabil virgo, da le turpi emerse
Unniche nozze.
E tu le bende e il manto
25 Primo le desti, e ad illibate fonti
La conducesti; e ne le danze sacre
Tu le insegnasti ad emular la madre,
Tu de l'ira maestro e del sorriso,
Divo Alighier, le fosti.
In lunga notte
30 Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
Tu nostro: e tale, allor che il guardo primo
Su la vedova terra il sole invia,
Nol sa la valle ancora e la cortese
Vital pioggia di luce ancor non beve,
35 E già dorata il monte erge la cima.
A queste alme d'Italia abitatrici
Di lodi un serto in pria non colte or tesso;
Ché vil fra 'l volgo odo vagar parola
Che le Dive sorelle osa insultando
40 Interrogar che valga a l'infelice
Mortal del canto il dono.
Onde una brama
In cor mi sorge di cantar gli antichi
Beneficj che prodighe a l'ingrato
Recar le Muse.
Urania al suo diletto
45 Pindaro li cantò.
Perché di tanto
Degnò la Dea l'alto poeta e come,
Dirò da prima; indi i celesti accenti
Ricorderò, se amica ella m'ispira.
Fama è che a lui ne la vocal tenzone
50 Rapisse il lauro la minor Corinna
Misero! e non sapea di quanto dio
L'ira il premea; ché a la famosa Delfo
Venendo, i poggi d'Elicona e il fonte
Del bel Permesso ei salutando ascese;
55 Ma d'Orcomene, ove le Grazie han culto,
Il cammin sacro omise.
Il dévio passo
Vider da lunge e il non curar superbo
Del fatal giovanetto le Immortali,
E promiser vendetta.
Al meditato
60 Inno di lode liberato il volo
Pindaro avea, quando le belle irate,
Aerie forme a mortal guardo mute,
Venner seconde di Corinna al fianco.
Aglaja in pria su la virginea gota
65 Sparse un fulgor di rosea luce, e un mite
Raggio di gioja le diffuse in fronte:
Ma la fragranza de' castalj fiori
Che fanno l'opra de l'ingegno eterna,
Eufrosine le diede; e tu pur anco,
70 Dolce qual tibia di notturno amante,
Lene Talia, le modulasti il canto.
Di tanti doni avventurata in mezzo
Corinna assurse: il portamento e il volto
Stupia la turba, e il dubitar leggiadro
75 E il bel rossor con che tremando al seno
Posò la cetra; e, sotto la palpebra
Mezza velando la pupilla bruna,
Soave incominciò.
Volava intorno
La divina armonia che, con le molli
80 Ale i cupidi orecchi accarezzando,
Compungea gl'intelletti, e di giocondo
Brivido i cori percotea.
Rapito
L'emulo anch'ei, non alito, non ciglio
Movea, né pria de' sensi ebbe ripresa
85 La signoria, che verdeggiar la fronda
Invidiata vide in su le nere
Trecce di lei, che fra il romor del plauso
Chinò la bella gota ove salia
Del gaudio mista e del pudor la fiamma.
90 Di dolor punto e di vergogna, al volgo
L'egregio vinto si sottrasse, e solo
Sul verde clivo, onde l'aeria fronte
Spinge il Parnaso, s'avviò.
Dolente
Errar da l'alto Licoreo lo scòrse
95 Urania Dea, cui fu diletto il fato
Del giovanetto, e di blandir sua cura
Nel pio voler propose.
È nei riposti
Del sacro monte avvolgimenti un bosco
Romito, opaco, ove talor le Muse,
100 Sotto il tremolo rezzo esercitando
L'ambrosio piè, ringioviniscon l'erbe
Da mortal orma non offese ancora.
A l'entrar de la selva, e sovra il lembo
Del vel che la tacente ombra distende,
105 Balza l'Estro animoso, e de le accese
Menti il Diletto, e, ne la palma alzata
Dimettendo la fronte, il Pensamento
Sta col Silenzio, che per man lo tiene.
Bella figlia del Tempo e di Minerva
110 V'è la Gloria, sospir di mille amanti:
Vede la schiva i mille, e ad un sorride.
Ivi il trasse la Diva.
A l'appressarsi,
De l'aura sacra a l'aspirar, di lieto
Orror compreso in ogni vena il sangue
115 Sentia l'eletto, ed una fiamma leve
Lambir la fronte ed occupar l'ingegno.
Poi che ne l'alto de la selva il pose
Non conscio passo, abbandonò l'altezza
Del solitario trono, e nel segreto
120 Asilo Urania il prode alunno aggiunse.
Come tal volta ad uom rassembra in sogno,
Su lunga scala o per dirupo, lieve
Scorrer col piè non alternato a l'imo,
Né mai grado calcar né offender sasso;
125 Tal su gli aerei gioghi sorvolando,
Discendea la celeste.
Indi la fronte
Spoglia di raggi, e d'ale il tergo, e vela
D'umana forma il dio; Mirtide fassi,
Mirtide già de' carmi e de la lira
130 A Pindaro maestra; e tal repente
A lui s'offerse.
Ei di rossor dipinto,
A che, disse, ne vieni? a mirar forse
Il mio rossore? o madre, oh! perché tanta
Speme d'onor mi lusingasti in vano?
135 Come la madre al fantolin caduto,
Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
Che guata impaurito, e già sul ciglio
Turgida appar la lagrimetta, ed ella
Nel suo trepido cor contiene il grido,
140 E blandamente gli sorride in volto
Perch'ei non pianga; un tal divino riso,
Con questi detti, a lui la Musa aperse:
A confortarti io vegno.
Onde sì ratto
"L'anima tua è da viltate offesa"?
145 Non senza il nume de le Muse, o figlio,
Di te tant'alto io promettea.
Deh! come,
Pindaro rispondea, cura dei vati
Aver le Muse io crederò? Se culto
Placabil mai de gl'Immortali alcuno
150 Rendesse a l'uom, chi mai d'ostie e di lodi,
Chi più di me di preci e di cor puro
Venerò le Camene? Or se del mio
Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli
L'egro mio spirto consolar col canto.
155 Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,
Qual d'uom che d'udire arda, e fra sé tema
Di far parlando a la risposta indugio.
Allor su l'erba s'adagiaro: il plettro
Urania prese, e gli accordò quest'Inno
160 Che in minor suono il canto mio ripete.
?? Fra le tazze d'ambrosia imporporate,
Concittadine degli Eterni e gioja
De' paterni conviti eran le Muse
Ne' palagi d'Olimpo, e le terrene
165 Valli non use a visitar; ma primo,
Scola e conforto de la vita, in terra
Di Giove il cenno le inviò.
Vedea
Giove da l'alto serpeggiar già folta
La vaga mortale orma, e sotto il pondo
170 Di tutti i mali andar curvata e cieca
L'umana stirpe: del rapito foco
Piena gli parve la vendetta; e a l'ira
Spuntate avea l'acri saette il tempo.
Alfin più mite ne l'eterno senno
175 Consiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse,
E troppo omai le Dire empio governo
Fer de la terra; assai ne' petti umani
Commiser d'odj, e volser prone al peggio
Le mortali sentenze.
Di felici
180 Genj una schiera al Dio facea corona,
Inclita schiera di Virtù (ché tale
Suona qua giù lor nome).
A questi in pria
Scorrer la terra e perseguir le crude
De l'uom nemiche ed a più miti voglie
185 Ricondur l'infelice, impose il Dio.
Al basso mondo ove la luce alterna,
Sceser gli spirti obbedienti, e tutto
Ricercarlo, ma in van; ché non levossi
A tanto raggio de' mortali il guardo;
190 E di Giove il voler non s'adempìa.
Però baldanza a quel voler non tolse
Difficoltà che a l'impotente è freno,
Stimolo al forte; essa al pensier di Giove
Novo propose esperimento.
Al desco
195 Del Tonante le Muse una concorde
Movean d'inni esultanza; inebriate
Tacean le menti de gli Dei; fe' cenno
Ei la destra librando; e la crescente
Del volubile canto onda ristette
200 Improvviso.
Raggiò pacato il guardo
A le Vergini il Padre; e questo ad elle
D'amor temprato fe' volar comando,
Figlie, a bell'opra il mio voler ministre
Elegge or voi.
Non conosciute ancora
205 Errar vedete le Virtù fra i ciechi
Figli di Pirra: d'amor santo indarno
Arder tentaro i duri petti, e vinte
Farsi de l'ardue menti aprir le porte:
La forza sol de l'arti vostre il puote:
210 Là giù dunque movete: a voi seguaci
Vengan le Grazie; e senza voi men bella
Già la mia reggia il tornar vostro attende.
Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremi
Detti, dal ciglio e da le labra rise
215 Blandamente.
Al divino atto commossa
Balzò l'eterea vetta, e d'improvviso
Di tutta luce biondeggiò l'Olimpo.
Nel primo aspetto de la terra intanto
Il lungo duol de le Virtù neglette
220 Vider le Muse: ma di lor la prima
Chi fu che volse le propizie cure
I bei precetti ad avverar del Padre?
Calliope fu che fra i mortali accorta
Orfeo trascelse; e sì l'amò che il nome
225 A lui di figlio non negò.
Vicina
A l'orecchio di lui, ma non veduta,
Stette la Diva, e de l'alunno al core
Sciolse la bella voce onde si noma.
Il bel consiglio di Calliope tutte
230 Imitar le sorelle; e d'un eletto
Mortal maestra al par fatta ciascuna,
L'alme col canto ivan tentando, e l'ira
Vincea quel canto de le ferree menti.
Così dal sangue e dal ferino istinto
235 Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo
Di lor, che a terra ancor tenea il costume
Che del passato l'avvenir fa servo,
Levar di nova forza avvalorato.
E quei gli occhi giraro, e vider tutta
240 La compagnia de gli stranier divini,
Che a le Dire fea guerra.
Ove furente
Imperversar la Crudeltà solea,
Orribil mostro che ferisce e ride,
Vider Pietà che, mollemente intorno
245 Ai cor fremendo, dei veduti mali
Dolor chiedea; Pietà, de gl'infelici
Sorriso, amabil Dea.
Feroce e stolta
Con alta fronte passeggiar l'Offesa
Vider, gl'ingegni provocando, e mite
250 Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,
Lo spontaneo Perdon che con la destra
Cancella il torto e nella manca reca
Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia.
Blando a la Dira ei s'offeria: seguace
255 Lenta ma certa, l'orme sue ricalca
Nemesi, e quando inesaudito il vede,
Non fa motto, ed aspetta.
Un giorno al fine
Ne gl'iterati giri, orba dinanzi
Le vien l'Offesa: al tacit' arco impone
260 Nemesi allor l'amata pena; aggiunge
L'aerea punta impreveduta il fianco,
E l'empio corso allenta.
Inonorata
La Fatica mirar, che gli ermi intorno
Campi invano additava, a cui per anco
265 Non chiedea de la messe il pigro ferro
Gli aurei doni dovuti: a lei compagno
L'Onor si fea; se forse a la sua luce
Più cara a l'occhio del mortal venisse
L'utile Dea.
Vider la Fede, immota
270 Servatrice dei giuri, e l'arridente
Ospital Genio che gl'ignoti astringe
Di fraterna catena; e tutta in fine
La schiera dia ne l'opra affaticarsi.
Videro, e novo di pietà, d'amore
275 Ne gli attoniti surse animi un senso,
Che infiammando occupolli.
E già de' lieti
Principj in cor secure, il plettro e l'arte
Sacra del plettro ai figli lor le Muse
Donar, le Grazie il dilettar donaro
280 E il suader potente.
Essi a la turba
Dei vaganti fratelli ivan cantando
Le vedute bellezze.
Al suon che primo
Si sparse a l'aura, dispogliò l'antico
Squallor la terra, e rise: e tu qual fosti,
285 Che provasti, o mortal, quando sul core
La prima stilla d'armonia ti scese?
Quale a l'ara de' Numi allor che il sacro
Tripode ferve, e tremolando rosse
Su le brage stridenti erran le fiamme,
290 Se la man pia del sacerdote in esse
Versi copia d'incenso, ecco di bruno
Pallor vestirsi il foco, e dal placato
Ardor repente un vortice s'innalza
Tacito, e tutto d'odorata nebbia
295 Turba l'etere intorno e lo ricrea;
Tal su i cori cadea rorido, e l'ira
V'ammorzava quel canto, e dolce, in vece,
Di carità, di pace vi destava
Ignota brama.
A l'uom così le prime
300 Virtù fur conosciute onde beata,
Quanto ad uom lice, e riposata e bella
Fassi la vita.
Allor in cor portando
Il piacer de l'evento, e la divina
Giocondità del beneficio in fronte,
305 A l'auree torri de l'Olimpo il volo
Rialzar le Camene.
Ivi le prove
De l'alma impresa e le fatiche e il fine
Dissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,
Da la bocca di lui scorrea quel dolce
310 Canto a l'orecchio dei miglior, la lode.
Ma stagion lunga ancor volta non era,
Che ne le Nove ritornate un caro
De la terra desio nacque; ché ameno
Oltre ogni loco a rivedersi è quello
315 Che un gentil fatto ti rimembri: e questa
Elesser sede che secreta intorno
Religion circonda, e, l'arti antiche
Esercitando ancor, l'aura divina
Spirano a pochi in fra i viventi, e dànno
320 Colpir le menti d'immortal parola.
E te dal nascer tuo benigna in cura
Ebbe, o Pindaro, Urania.
E s'oggi, o figlio,
Tanto amor non ti valse, ell'è d'un Nume
Vendetta: incauto, che a le Grazie il culto
325 Negasti, a l'alme del favor ministre
Dee, senza cui né gl'Immortai son usi
Mover mai danza o moderar convito.
Da lor sol vien se cosa in fra i mortali
È di gentile, e sol qua giù nel canto
330 Vivrà che lingua dal pensier profondo
Con la fortuna de le Grazie attinga;
Queste implora coi voti, ed al perdono
Facili or piega.
E la rapita lode
Più non ti dolga.
A giovin quercia accanto
335 Talor felce orgogliosa il suolo usurpa,
E cresce in selva, e il gentil ramo eccede
Col breve onor de le digiune frondi:
Ed ecco il verno la dissipa; e intanto
Tacitamente il solitario arbusto
340 Gran parte abbranca di terreno, e, mille
Rami nutrendo nel felice tronco,
Al grato pellegrin l'ombra prepara.
Signor così de gl'inni eterni, un giorno,
Solo in Olimpia regnerai: compagna
345 Questa lira al tuo canto, a te sovente
Il tuo destino e l'amor mio rimembri.
?
Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,
Candida luce la ricinse: aperte
Le azzurre penne s'agitar sul tergo,
350 Mentre nel folto de la selva al guardo
Del suo Poeta s'involò.
La Diva
Ei riconobbe, e di terror, di lieta
Maraviglia compunto, il prezioso
Dono tenea: ne l'infiammata fronte
355 Fremean d'Urania le parole e l'alta
Promessa e il fato: e la commossa corda,
Memore ancor del pollice divino,
Con lungo mormorar gli rispondea.
XXI
[IL MIO GENIO]
Frammenti di LE VISIONI POETICHE
[1809-1810]
I
In quella età che, di veder bramoso,
Ancor l'ingegno a le cagioni è cieco,
Ascoso un Genio, anco a me stesso ascoso,
Disse improvviso al mio pensier: Son teco.
5 Ei le cose mi mostra che animoso
Primier, siccome io valgo, in luce io reco;
Sicché da lui le tenga ogni cortese
Cui non incresca de l'averle intese.
II
Qual compagno s'avesse a la sua via
10 Infin d'allora il giovinetto acerbo,
Tal savio il vide, e a lui ne presagia
Cose che or fora il rammentar superbo;
Ben di poche memorie in compagnia
Ne la custodia del mio cor le serbo;
15 Dubbio le serbo al paragon sincero
Del Tempo, certo testimon del vero.
III
Questo Genio talor de la mia mente
I freni abbandonati in man si piglia,
E volge ove a lui piaccia obbediente
20 Tutta l'alata dei pensier famiglia;
Tal che dal petto interno odo sovente
Una voce, che irata mi consiglia,
Che almen fra tanti il primo mio concetto
Torni al Fonte Divin d'ogni intelletto.
IV
25 Ei fra le piante, ove più spesso io sono
Di campi lodator non cittadino,
A visitarmi appare, e porta in dono
Le visioni ed il furor divino;
Ben talor fra le cure ed il frastuono
30 De la cittade a me vien pellegrino:
Dissimulando io nel mio cor l'accolgo:
L'alta presenza sua non sente il volgo.
V
Ma nel mistico punto allor che l'alma
Dai pigri nodi del sopor si scote,
35 Che sol di sé s'accorge, e lieve in calma,
Il soffio de la vita la percote;
Né giunta a soverchiarla ancor la salma
È de le cure e de le voglie note,
Sì che il pensier disprigionato e solo
40 Batte per aria più celeste il volo;
VI
Sempre in quell'ora il veggio, e risplendenti
Schiere ha con sè d'aerei simolacri;
Quai muovon per lo spazio i passi lenti,
E quai festivi ed in lor luce alacri;
45 E fan motti fra loro e parlamenti
Misteriosi, e balli ordiscon sacri:
Il Genio li governa; io stommi e guato
In tanta pompa di veder beato.
VII
Ma se le viste cose a narrar prendo,
50 Gran parte la memoria m'abbandona,
Ché, i terrestri pensier sopravvegnendo,
Al primo tocco di leggier s'adona;
E quel pur, che a fatica in carte io stendo,
Del concetto minor troppo mi suona,
55 Ch'io sento come il più divin s'invola,
Né può il giogo patir de la parola.
VIII
Lui che di tanto il guardo mio fe' degno
Io prego or che anco al dir siemi in aiuto,
Perch' egli è sacro e fuor del mortal regno
60 E troppo oltre il narrar quel che ho veduto.
Ei regga l'ali mie; da lui l'ingegno
Ne l'alta region sia sostenuto
Tanto che per la via novella e lunga
L'alto argomento del mio canto aggiunga.
IX
65 L'alto argomento del mio canto io dico,
Ben che tal volgo il chiamerà volgare
.
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DOPO LA CONVERSIONE
CANZONI E ODI CIVILI
XXII
[APRILE 1814]
[22 Aprile 1814]
Fin che il ver fu delitto, e la Menzogna
Corse gridando, minacciosa il ciglio:
"Io son sola che parlo, io sono il vero",
Tacque il mio verso, e non mi fu vergogna,
5 Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
Ché non è sola lode esser sincero,
Né rischio è bello senza nobil fine.
Or che il superbo morso
Ad onesta parola è tolto alfine,
10 Ogni compresso affetto al labbro è corso;
Or s'udrà ciò che, sotto il giogo antico,
Sommesso appena esser potea discorso
Al cauto orecchio di privato amico.
Toglier lo scudo de le Leggi antique
15 E le da lor create, e il sacro patto
Mutar come si muta un vestimento;
O non mutate non serbarle, e inique
Farle serbar benché segrete, e in atto
Di chi pensa, tacendo, al tradimento;
20 E novi statuir padri alla legge,
E, perché amici ai buoni,
Sperderli a guisa di spregiato gregge:
Questi de' salvatori erano i doni;
Questo dicean fondarne a civil vita;
25 Qual se Italia, al chiamar d'esti Anfioni
Fosse dei boschi e de le tane uscita.
Anzi, fatta da lor donna e reina
La salutaro, o fosse frode o scherno:
D'armi reina, io dico, e di consigli;
30 Essa che ai piè de la imperante inchina
Stavasi, e fea di sue ricchezze eterno
Censo agli estranei, e de gli estrani al figli;
Che regger si dovea con l'altrui cenno;
Che ogni anno il suo tesoro
35 Su l'avara ponea lance di Brenno.
È ver; tributo nol dicean costoro,
Men turpe nome il vincitor foggiava.
Ma che monta, per Dio! Terra che l'oro
Porta, costretta, allo straniero, è schiava.
40 E svelti i figli al genitor dal fianco,
E aprir loro le porte, ed esser padre
Delitto, e quasi anco i sospir nocenti;
E tratti in ceppi, e noverati a branco,
Spinti ad offesa d'innocenti squadre
45 Con cui meglio starieno abbracciamenti.
Oh giorni! oh campi che nomar non oso!
Deh! per chi mai scorrea
Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?
O madri orbate, o spose, a chi crescea
50 Nel sen custode ogni viril portato?
Era tristezza esser feconde, e rea
Novella il dirvi: un pargoletto è nato!
Né gente or voglio cagionar de' mali
Che lo stesso bevea calice d'ira,
55 Né infonder tosco ne le piaghe aperte;
Ma dico sol ch'è da pensar da quali
Strette il perdono del Signor ne tira,
Perché sien maggior grazie a Lui riferte.
Ché quando eran più l'onte aspre ed estreme,
60 E al veder nostro, estinto
Ogni raggio parea d'umana speme;
Allor fuor de la nube arduo ed accinto,
Tuonando, il braccio salvator s'è mostro;
Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;
65 Che a ragion si rallegra il popol nostro.
Bel mirar da le inospiti latebre
Giovin raminghi al sospirato tetto
Correr securi, ed a le braccia pie;
E quei che in ferri astrinse ed in tenebre
70 L'odio potente, un motto od un sospetto
Al soavi tornar colloquj e al die;
E un favellar di gioja e di speranza,
E su le fronti scolta
De' concordi pensier l'alma fidanza;
75 E il nobil fior de' generosi a scolta
Durar ne l'armi e vigilar, mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando;
E quel che a dir le sue ragioni or chiama
80 Lunge da basso studio e da contesa,
Parlar per lei com'ella è desiosa,
E l'antica far chiara itala brama;
Che sarà, spero, a quei possenti intesa
Cui par che piaccia ogni più nobil cosa.
85 Vedi il drappello che al governo è sopra,
Animoso e guardingo,
Al ben di tutti aver rivolta ogni opra;
E i ministri di Dio dal mite aringo
Nel dritto calle ragunar la greggia.
Molte e gran cose in picciol fascio io stringo;
Ma qual parlar sì belle opre pareggia?
XXIII
IL PROCLAMA DI RIMINI
Frammento
[5] Aprile 1815
O delle imprese alla più degna accinto,
Signor che la parola hai proferita,
Che tante etadi indarno Italia attese;
Ah! quando un braccio le teneano avvinto
5 Genti che non vorrian toccarla unita,
E da lor scissa la pascean d'offese;
E l'ingorde udivam lunghe contese
Dei re tutti anelanti a farle oltraggio;
In te sol uno un raggio
10 Di nostra speme ancor vivea, pensando
Ch'era in Italia un suol senza servaggio,
Ch'ivi slegato ancor vegliava un brando.
Sonava intanto d'ogni parte un grido,
Libertà delle genti e gloria e pace!
15 Ed aperto d'Europa era il convito,
E questa donna di cotanto lido,
Questa antica, gentil, donna pugnace
Degna non la tenean dell'alto invito:
Essa in disparte, e posto al labbro il dito,
20 Dovea il fato aspettar dal suo nemico,
Come siede il mendico
Alla porta del ricco in sulla via;
Alcun non passa che lo chiami amico,
E non gli far dispetto è cortesia.
25 Forse infecondo di tal madre or langue
Il glorioso fianco? o forse ch'ella
Del latte antico oggi le vene ha scarse?
O figli or nutre, a cui per essa il sangue
Donar sia grave? o tali a cui più bella
30 Pugna sembri tra loro ingiuria farse?
Stolta bestemmia! eran le forze sparse,
E non le voglie; e quasi in ogni petto
Vivea questo concetto:
Liberi non sarem se non siam uni;
35 Ai men forti di noi gregge dispetto,
Fin che non sorga un uom che ci raduni.
Egli è sorto, per Dio! Sì, per Colui
Che un dì trascelse il giovinetto ebreo
Che del fratello il percussor percosse;
40 E fattol duce e salvator de' sui
Degli avari ladron sul capo reo
L'ardua furia soffiò dell'onde rosse;
Per quel Dio che talora a stranie posse,
Certo in pena, il valor d'un popol trade;
45 Ma che l'inique spade
Frange una volta, e gli oppressor confonde;
E all'uom che pugne per le sue contrade
L'ira e la gioia de' perigli infonde.
Con Lui, signor, dell'Itala fortuna
50 Le sparse verghe raccorrai da terra,
E un fascio ne farai ne la tua mano
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XXIV
MARZO 1821
ODE
Alla illustre memoria
di
TEODORO KOERNER
poeta e soldato
della indipendenza germanica
morto sul campo di Lipsia
il giorno XVIII d'Ottobre MDCCCXIII
nome caro a tutti i popoli
che combattono per difendere
o per riconquistare
una patria.
[marzo 1821]
Soffermati sull'arida sponda,
Vòlti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel novo destino,
Certi in cor dell'antica virtù,
5 Han giurato: Non fia che quest'onda
Scorra più tra due rive straniere;
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l'Italia e l'Italia, mai più!
L'han giurato: altri forti a quel giuro
10 Rispondean da fraterne contrade,
Affilando nell'ombra le spade
Che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno stretto le destre;
Già le sacre parole son porte:
15 O compagni sul letto di morte,
O fratelli su libero suol.
Chi potrà della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
Del Ticino e dell'Orba selvosa
20 Scerner l'onde confuse nel Po;
Chi stornargli del rapido Mella
E dell'Oglio le miste correnti,
Chi ritogliergli i mille torrenti
Che la foce dell'Adda versò,
25 Quello ancora una gente risorta
Potrà scindere in volghi spregiati,
E a ritroso degli anni e dei fati,
Risospingerla ai prischi dolor:
Una gente che libera tutta,
30 O fia serva tra l'Alpe ed il mare;
Una d'arme, di lingua, d'altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
Con quel volto sfidato e dimesso,
Con quel guardo atterrato ed incerto,
35 Con che stassi un mendico sofferto
Per mercede nel suolo stranier,
Star doveva in sua terra il Lombardo;
L'altrui voglia era legge per lui;
Il suo fato, un segreto d'altrui;
40 La sua parte, servire e tacer.
O stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia, e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v'è.
45 Non vedete che tutta si scote,
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
Sotto il peso de' barbari piè?
O stranieri! sui vostri stendardi
50 Sta l'obbrobrio d'un giuro tradito;
Un giudizio da voi proferito
V'accompagna all'iniqua tenzon;
Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;
55 Ogni gente sia libera, e pera
Della spada l'iniqua ragion.
Se la terra ove oppressi gemeste
Preme i corpi de' vostri oppressori,
Se la faccia d'estranei signori
60 Tanto amara vi parve in quei dì;
Chi v'ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell'itale genti?
Chi v'ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v'udì?
65 Sì, quel Dio che nell'onda vermiglia
Chiuse il rio che inseguiva Israele,
Quel che in pugno alla maschia Giaele
Pose il maglio, ed il colpo guidò;
Quel che è Padre di tutte le genti,
70 Che non disse al Germano giammai:
Va', raccogli ove arato non hai;
Spiega l'ugne; l'Italia ti do.
Cara Italia! dovunque il dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio;
75 Dove ancor dell'umano lignaggio
Ogni speme deserta non è;
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura,
Dove ha lacrime un'alta sventura,
80 Non c'è cor che non batta per te.
Quante volte sull'Alpe spiasti
L'apparir d'un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne' deserti del duplice mar!
85 Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
Stretti intorno a' tuoi santi colori,
Forti, armati de' propri dolori,
I tuoi figli son sorti a pugnar.
Oggi, o forti, sui volti baleni
90 Il furor delle menti segrete:
Per l'Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
Al convito de' popoli assisa,
95 O più serva, più vil, più derisa
Sotto l'orrida verga starà.
Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d'altrui,
100 Come un uomo straniero, le udrà!
Che a' suoi figli narrandole un giorno,
Dovrà dir sospirando: io non c'era;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata quel dì non avrà.
XXV
IL CINQUE MAGGIO
[17-19 luglio 1821]
Ei fu.
Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore,
Orba di tanto spiro,
5 Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all'ultima
Ora dell'uom fatale;
Né sa quando una simile
10 Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio, e tacque;
15 Quando con vece assidua
Cadde, risorse, e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:
Vergin di servo encomio
20 E di codardo o
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