TUTTE LE POESIE, di Alessandro Manzoni - pagina 4
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Ma quali veggio a le pareti appese
Nove immagini, tetri simulacri
D'occhi incavati, e di compunti visi?
50 Oh strano cangiamento! or finta in tela
La penitente grotta di Marsiglia
Sostiene il chiodo, onde pendea dipinto
Il Latmio bosco e la Vulcania rete.
Addio pertanto, o meste stanze! A voi
55 Ritornerò quando novella Nuora
Venga a mutar le imagini e gli arredi;
E dato esiglio a le canute chierche,
I bei tumulti e i giochi e me richiami
E la letizia, di giocondi amici
60 Popolando la casa del marito.
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Già i Parenti e i Congiunti e i fidi Amici
Van disegnando ne lo stuol crescente
Di te degno e di lor Genero, cui
Nuova cura di pubbliche faccende
65 E veste di pretorio oro insignita
Faccia illustre, o i non ben dimenticati,
Con l'arse pergamene e con le rase
Da l'alte porte e dai lucenti cocchi
Mistiche insegne, titoli vetusti.
70 Ben nel mio Regno inviolata io serbo
Equalitade; io spesso anche al sublime
Talamo esalto del Signor beato
Il rude Servo, a lui per indomata
Fedeltade e destrezza e pronto ingegno,
75 E a la sposa di lui per giovanili
Membra caro e per inguine possente.
Anco avran caro, a cui rivestan molti
Le Briantee colline arsi racemi,
Onor d'Insubri mense: e molti buoi
80 Rompan le pingui Lodigiane glebe
E chiomate cavalle, e quel che il latte
Dona armento minor pascan gli acquosi
Immensi prati, onde lo sguardo è vinto.
Perché tai cure oggi al giurato altare
85 Conducano i garzoni e le nolenti
Donzelle, ascolta.
Acerba lite un giorno
Ebbi con Pluto; ei per vendetta Imene
D'una catena d'or tutto ricinse
E lo trasse con seco e sel fe' schiavo.
90 Ma il favor de l'eterne ali avea tolto
A sue ricerche.
Egli al sacrato patto
Solo presieder volle.
Io con la stessa
Catena ambo gli avvinsi, e donno e servo
Sottoposi a mia legge.
Indi ei sovente
95 A viso aperto e con mentite forme
In mio favor combatte.
Ei ne le ricche
Officine s'innoltra, e di lucente
Crisolito o di limpido adamante
In aureo anello o di gemmata cifra,
100 Quasi Proteo novel, prende l'aspetto.
Come talor quel che non fecer preghi
E sospiri e bellezza, egli m'ottenne!
E spesso ne' tuguri anco il condussi
Col villeggiante Cittadin, che sazio
105 Di profumate mogli, ebbe disio
Di Venere silvestre; ivi la dura
Per più Lune ad un sol serbata fede
Ruppe il fulgor del magico metallo.
Così dopo gran pugna il buon Atlante
110 A lo scudo fatal toglieva il velo,
Ricorso estremo ne le dubbie cose;
E abbagliati i Cavalli e i Cavallieri,
Facendo agli occhi de la destra schermo,
Lasciate l'arme al suol, cadean prostesi,
115 Abbandonando l'ostinato arcione.
Già intorno a te molta oziosa turba
Di Giovani s'aggira, e parte, e torna,
Come a rosa sbucciante in sul mattino
Ronzanti pecchie.
Altri agli esperti inchini
120 E a le accorte parole assai più grato
Ti fia degli altri tutti; a cui matura
Gioventude le gote orna di folta
Gemina striscia, che il cammin del mento
Segna a l'orecchio.
Ah fuggi, incauta, il troppo
125 Dolce periglio.
Egli ne' miei misteri
Già troppo è dotto, ei sa l'ore diverse,
Che al Castaldo ed al Tempio ed a Licori
Sacre ha più d'un Marito; ei le secrete,
Non da profano pie' trite, conosce
130 Anguste scale, onde ai beati vassi
Aditi de le mogli mattutine.
Ivi è Signor, fin che di nuovo giunto
Seguace di Gradivo indi nol cacci,
Che da l'Alpi a bear venne la ricca
135 Di messi Insubria e d'uomini sinceri;
Senza cura o timor, che il mal mentito
Guascone inviso accento, onde cotanto
In fine orecchio Parigin s'offende,
I titoli smentisca, e l'ampie case,
140 Che in Lutezia ei possiede, e le cagioni
Ond'ei di Marte le abborrite insegne
Prima seguì, per evitar la cieca
Famosa falce, che trovò l'acuto
Gallico ingegno, onde accorciar con arte
145 La troppo lunga in pria strada di Lete,
E la curva strisciante in su le selci
Stridula scimitarra in rilucente
Breve spadina, ed il calzar ferrato
In nitida calzetta, che il colore
150 Agguaglia de le perle, onde Amfitrite
Il sen s'adorna e la stillante treccia,
Cangiò, come a me piacque e a l'alma Pace.
Quei de' mutati sguardi e del rivolto
Viso intende il linguaggio, e si ritira
155 Quasi Marito, ma nel cor fremendo.
E cangiato sentier, giù per le late
Scale vien saltellando, e per le vie
Cercando va col curioso sguardo
Qual fra le case abbandonata Moglie
160 Rinchiuda; ed anco da maligno Genio
Spinto, a le incaute Vergini s'appiglia,
A lor tentando il cor, non senza qualche
Sguardo a la madre e a la fedele Ancella.
XVI
II - [CONTRO I POETASTRI]
Se alcun da furia d'irritato nervo
O da grave Ciprigna o da loquace
Tosse dannato a l'odiosa coltre
Me sanator volesse, il poverello,
5 Cred'io, n'andrebbe a giudicar se vera
D'Aristippo o di Plato è la sentenza.
Venga un altro e mi dica: Il mal vicino
Deviò l'acqua dal mio fondo: a lui
Vo' mover piato e mio legal t'eleggo.
10 Fingi che, posto il trito Flacco, io tenti
Con l'inesperta man scotere il dritto
Fuor de la polve de l'enorme Baldo.
Che fia? Con danno il misero cliente,
Io con vergogna fuggirem dal Fòro,
15 Molto ridendo l'avversario e Temi.
Or d'onde è mai che il medico e il perito
Di legge osin far versi? Anzi non sia
Chi, dotto appena ad allogare un tempo
Le sparse membra di Maron, che a lui
20 Disgiunse ad arte il precettor, non creda
Poter, quando che voglia, esser poeta.
Nulla di questo appar più lieve: eppure
Tal vinse acri nemici e tenne il morso
A genti ardite, che domar non seppe
25 I numeri ritrosi: ed io conosco
Di questa plebe indocile i tumulti.
Tu, di cui su quel carme io leggo il nome,
Se onesto interrogar non è conteso,
Dimmi, sei tu poeta? - Il ciel mi guardi.
30 - Perché dunque far versi? - A le preghiere
E a lo sponsal solenne di un amico
Quattro versi negar come potea?
E sai che a figlia d'incolpato padre
Non è minor vergogna al santo giuro
35 Senza un sonetto andar, che se indotata
Porti a l'avaro conjugal piattello
La man rapace e l'affamato ventre.
Amico tal non credere che possa
Vantar l'antica età; poi che se Oreste,
40 Quando le Dire aveangli guasto il senno,
A quel suo fido d'amicizia specchio
Detto avesse: Fa' versi, io non saprei
Se quel Pilade saggio avria potuto
Al matto amico compiacer.
Ma dimmi:
45 Se per nuovo pensier questo marito
Sì t'avesse parlato: Io bramo, o caro,
Che la mia Betta o Maddalena o quale
Ch'ella si sia, come conviensi a sposa,
Esca in publico ornata; ond'io ti prego
50 Che tu con le tue man, se non ti grava,
A lei la vesta nuzial lavori:
Che detto avresti? - A le lattughe, ai bagni
Io mandato l'avrei con tanta fune,
Quanta al più pingue figlio di Francesco
55 Cinger potria l'incastigato addome.
Che se avessi obbedito, a me tal pena
Non converrebbe? Un che sartor non sia,
Se la rapace forbice e le spille
Osa trattar con le profane dita,
60 Stolto nol dici? - E chi non è poeta,
Se mai fa versi, con che nome il chiami?
O cucir drappi è più difficil opra
Che concluder poemi? A te vergogna
Sarà, se donna in publico apparisca
65 Abbigliata da te, sì che i fanciulli
Petulanti del trivio a lei d'intorno
Scaglin, gridando, i mezzi pomi e l'altre
Tante reliquie de la samia cena:
Ma onor sarà, quando a l'udir tue rime
70 Vanno in fuga le Muse, e al casto orecchio
De l'indice vocal si fanno scudo?
Io non dirò, come vantar da molti
Con riso udii, che l'arte del poeta
Sia necessaria e sacra.
A l'arte prima,
75 Che dal sen de la terra a trarre insegna
Onde il mondo si nutra; a quella ond'hanno
Freno i ribaldi e sicurezza i buoni,
Tanto nome si dia.
Ciò solo affermo,
Che un'arte ell'è, qual ch'ella siasi un'arte.
80 Or quale è mai scienza o disciplina
Tanto volgar, che da se stessa informi
Non sudato cerebro? Eppur non manca
Chi fogli empia di versi, onde la mente
Riposar da le pubbliche faccende
85 E dai privati affari, e per sollievo
Canti amori o battaglie, o lei che meglio
Suol gorgheggiar da l'alta scena, o quella
Che sa dir con le gambe: idolo mio.
Quando su l'orme de l'immenso Flacco
90 Con italico pie' correr volevi,
E de' potenti maledir l'orgoglio,
Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne,
Al crin mentito ed a la calva nuca
Facessi oltraggio.
Indi è che, dopo cento
95 E cento lustri, il postero fanciullo
Con balba cantilena al pedagogo
Reciterà: Torna a fiorir la rosa.
Ma Labeone al truce pedagogo
Trattar la verga non farà, né Codro
100 Al putto ignaro ruberà la cena.
La ruota, i serpi e la forata secchia,
O Pluto, a quel che col dannoso acume
Primo il tipo scoverse.
A lui, di quanti
Versi in onta d'Apollo uscir da quella
105 Sua macchina infernal, rogo si faccia
D'eterne fiamme; o per maggior tormento,
Stretto a leggerli sia.
Ché asciutto ancora
Su le carte febee non è l'inchiostro,
Che al torchio illustrator vanno.
Ed omai
110 Tante fronde l'Aprile, e tanti sofi
L'Europa oggi non ha, né tante leggi
Già in venti lune partorì l'invitto
Senno e polmon degl'Insubri Licurghi,
115 Quanti ogni dì veggo apparir poeti.
Quando poi da lo scrigno e da le miti
Orecchie degli amici al banco aperto
De l'avaro librar passano i versi
E a le mani del volgo, a cui non lice
Dannar Flacco e Maron, laudar Pantilio,
120 E al crin di Mevio decretar corona?
Che dirò dei teatri? O sii tu servo
O duro fabbro, o venda in sui quadrivi
Castagne al volgo, un quarto di Filippo
Ti fa Visco e Quintilio.
Entra e decidi.
125 Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
Alto minaccia, o la viril sua fiamma
Ad Antigone svela, o con l'armata
Destra l'infame reggia e il cielo accenna,
Odi sclamar dai palchi: Oh duri versi!
130 Oh duro amante! Dal suo fero labbro
Un ben mio! non s'ascolta.
Oh quanto meglio
Megacle ed Aristea, Clelia ad Orazio!
Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima,
Primo signor de l'Italo coturno?
135 Te ad imparar come si faccia il verso
De gl'Itali Aristarchi il popol manda.
Mirabil mostro in su le Ausonie scene
Or giganteggia.
Al destro pie' si calza
L'alto coturno, e l'umil socco al manco;
140 Quindi va zoppicando.
Informe al volto
Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno
Grondan lagrime e sangue.
Allor che al denso
Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
Di voci e palme un suon, che, per le cave
145 Volte romoreggiando, i lati fianchi
Scote al teatro, e fa restar per via
Maravigliato il passaggier notturno.
Io, perché de la plebe il grido insano
Non mi fieda l'orecchio, in questa cella
150 Mi chiudo, e meco i miei pensieri e libri,
Quanti con l'occhio annoverar tu possa.
Ché se alcuno è tra lor che ponga in mostra
Maldigesta dottrina o versi inetti,
Nel vimine ibernal presso al camino
155 O in loco va, che nel purgato verso
Nega pudica rammentar Talia.
XVII
III - A GIO.
BATTISTA PAGANI
Saepe stylum vertas
Venezia, 25 marzo 1804
Perché, Pagani, de l'assente amico
Non immemore vivi, il ciel ti serbi
Sano e celibe sempre: or breve al tuo
Di me benigno interrogar rispondo.
5 Valido è il corpo in prima, e tal che l'opra
Non chiegga di Galen; men sano alquanto
Il frammento di Giove; e non è rado
Che a purgar quei due morbi, ira ed amore,
O la smania d'onor mi giovin l'erbe
10 De l'orto Epicureo.
Che se mi chiedi
A che l'ingegno giovanetto educhi:
Non a cercar come si possa in campo
Mandar più vivi a Dite, o con la forza
Nel robusto cerebro ad un volere
15 Ridur le mille volontà del volgo;
Ma misurar parole, e i miei pensieri
Chiuder con certo pie', questa è la febre,
Da cui virtù di Farmaco o di voto
Non ho speranza che sanar mi possa.
20 Pensier null'altro io m'ebbi in fin d'allora
Che a me tremante il precettor severo
Segnava l'arte, onde in parole molte
Poco senso si chiuda; ed io, vestita
La gonna di Vetturia, al figlio irato
25 Persuadea coi gonfi sillogismi
Che, posto il ferro parricida, amico
E umil tornasse e ripentito a Roma,
Allor sol degno del materno amplesso.
Me da la palla spesso e da le noci
30 Chiamava Euterpe al pollice percosso
Undici volte; né giammai di verga
Mi rosseggiò la man perché di Flacco
Recitar non sapessi i molli scherzi
O le gare di Mopso, o quel dolente:
35 "Voi che ascoltate in rime sparse il suono".
Ed or, di pel già asperso il volto e quasi
Fra i coscritti censito, in quella mente
Vivo; e quant'ozio il fato e i tempi iniqui
A me concederanno ho stabilito
40 Consecrarlo a le Muse.
Or come il mio
Furor difenda, o dolce amico, ascolta.
"Il Savio è re, libero, bello e Giove",
Zenon barbato insegna; or, perché pari
Temeaci a lui, quel buon Figliuol di Rea
45 Temprò di molta insania il divo foco,
Onde il Deucalioneo selce s'informa.
Quindi brama talun che dal suo muro
pendan avi dipinti; altri che a lui
Ridan da l'arca impenetrabil molti
50 Cesari fulvi; altri a l'avita Pale
Nato in capanna umil vorria la veste
Sparger d'oro pretorio.
Odi quest'altro:
Oh s'io posso il mio tetto alzar sul fumo
De l'umile vicino, e nel palagio
55 Entrar da quattro porte! E quei che tenta
Eccelsi fatti, onde del figlio il figlio
Di lui favelli; e seminar s'affanna
Ciò che raccolga ne la tomba? E sano
Direm colui, che di precetti spera
60 Far sano il mondo? A me più mite forse
Giove impose il far versi; a che la mente
Di sì bella follia purgar mi curo,
Onde ad altra nocente, o men soave
Dare il voto cerebro e il docil petto?
65 Or ti dirò perché piuttosto io scelga
Notar la plebe con sermon pedestre,
Che far soggetto ai numeri sonanti
Opre d'antichi eroi.
Fatti e costumi
Altri da quel ch'io veggio a me ritrosa
70 Nega esprimer Talia.
Che se propongo
Dir Penelope fida e il letto intatto
De l'aspettato Ulisse, ecco a la mente
Lidia m'occorre, che di frutti estrani
Feconda l'orto del marito, cui
75 Non Ilio pertinace o il vento avverso,
Ma il prego mattutino o l'affrettata
Visita de l'amico, o il diligente
Mercurio tiene ad ingrassare il censo
De l'erede non suo.
L'imprese appena
80 Tento di Cincinnato e il glorioso
Ferro alternato alla callosa destra
O i Legati di Pirro innanzi al duro
Mangiator del magnanimo Legume,
Tosto Fulvio rammento, il qual pur jeri
85 Villano, oggi pretor, poco si stima
Minor di Giove, e spaventarmi crede
Con la forzata maestà del guardo.
Che se dirai, che di famose gesta
Non men che al tempo di quei prischi grandi
90 Abbonda il secol nostro, io lo confesso:
Ma non ho voce onde a cantare io vaglia
Le battaglie, le Leggi, e i rinnovati
Fra noi Greci e Quiriti, e quella cieca
Famosa falce, che trovò l'acuto
95 Gallico ingegno, onde accorciar con arte
La troppo lunga in pria strada di Lete.
XVIII
IV - PANEGIRICO A TRIMALCIONE
Poi che sdegnato dai patrizi deschi
Partissi Como, ed a la sua nemica
Temperanza diè loco, a nove mense
Bacco recando e la seguace Gioja
5 E i rari augelli e i preziosi parti
De la greggia di Proteo e i macri servi
Del biondo nume, io, del bel numer uno,
A la tua ricca mensa, o generoso
Trimalcione, lo seguo, e a l'affollata
10 Cena il mio ventre e la mia lira aggiungo.
Ma che dirò che dal tuo divo ingegno
Merti plauso indulgente? Ed al conviva
Faccia dal caro piatto ergere il grifo,
E strappi un bravo, al qual confuso e rotto
15 Contenda il varco l'occupata bocca?
Cui di tuo cuor l'altezza, e di tua mente
Non è noto l'acume? E l'infinito
Favor di Pluto e i greggi e i lati campi,
Che apprestavano un tempo al cocollato
20 Figliuol di Benedetto e di Bernardo
Gli squisiti digiuni? Io de' tuoi pregi
Il men noto finor, forse il più grande,
Farò soggetto al canto.
Io di tua stirpe
Porrò in luce i gran fatti, e torrò il velo
25 A le origini auguste, a cui non giunse
Occhio profano mai; siccome un tempo
Negava il Nil le mistiche sorgenti
Al curioso adorator d'Osiri.
L'origin, dunque, gl'incrementi e i casi
30 Dimmi, immortal Camena, onde l'egregio
Trimalcion da l'occupata mente
Di Giove e da l'inglorio ozio del caos
Venne a l'onor de la beata mensa.
A quel che primo a me rammenta Euterpe
35 Piacquer l'armi eleusine e la divina
Gloria del campo: come un tempo è fama
Che profugo dal ciel di Giove il padre
Col ferro il grembo conjugal fendesse
De la gran madre de gli Dei Tellure.
40 Ma il pacifico solco e le modeste
Arti del padre fastidì l'ardente
Spirto del figlio, e salutato il tetto
Ed il natal suo regno, andò cercando
Novo campo d'onor sott'altro cielo.
45 Quei che da Troja fuggitivo e spinto
Da l'iniqua Giunon tanti anni corse
Ver la fuggente Italia, ov'ebbe alfine
L'impero e il tempio e di Maron la tromba,
Taccio innanzi a costui ch'esule, inerme,
50 Sempre in guerra con Pluto, in terre estrane
Portò su le pie spalle i Lari algenti.
Taccio Creusa e l'infelice Elissa;
Né a sue gran genti aggiungerò l'immenso
Stuol de' piccioli Ascanii, ond'egli accrebbe
55 Le discorse città.
Te sol rammento,
Vergin bella e pudica, unico frutto
Di stabile Imeneo, te che sdegnasti
Giunger tua destra a mortal destra, e il Divo
Nome sacro de' tuoi cedere al nome
60 Di terrestre marito.
Ohimè! recisa
Dunque è l'augusta pianta! Or dove sono
Gli sperati nipoti ed il promesso
Trimalcione? E tu il comporti, o Giove?
Ma che favello io stolto? Ecco, oh stupore!
65 Sotto la zona verginal, che appesa
Al profano sacello Amor non vide,
Crescer l'intatto grembo; e viva e vera
Uscirne al mondo l'insperata prole.
Di qual semenza, di qual gente assai
70 Fu contesa fra il volgo.
A me, dal volgo
Tratto in disparte, la fatal cortina
Rimove Apollo, ove i gran fatti ei cela.
E m'accenna col dito il ferreo Marte
Che in remota selvetta il santo rito
75 d'Ilia rinnova, e l'atterrita virgo
Che per fuggir s'affanna, rispingendo
L'istante Nume, e fassi invano usbergo
Le inviolate bende, e scuoter tenta
Il futuro Quirin, che il destinato
80 Alvo ricerca, e il puro seggio occupa;
E Amor che sorridendo i rami affolta,
Ed intricando i pronubi virgulti
Fa siepe intorno, e la facella ammorza,
Perché maligno non penetri il guardo!
85 Tanta agli Dei di sì gran gente è cura!
Né il sangue avito ed il natal divino
Smentì il marzio fanciullo; anzi l'antico
Padre emulando dei rettor del mondo
Sparse il fraterno sangue, e quanti e quali
90 Entro il solco fatal Romolo accolse
Volle compagni al fianco.
Oh! qual s'avanza
D'amore esemplo e di gentili studj
Nobilissima coppia? Io vi saluto,
Chiari gemelli, onde la fama è vinta
95 Del prisco ovo di Leda: e te cui piacque
Impor cavalli al cocchio: e te che amasti
Nei fori e ne le vie sacre a Diana
Scagliar pietre volanti, ed incombente
Corpo atterrar di poderoso atleta.
100 Che più vi resta? Alti nel ciel locarvi
Fra il Cancro ardente e il rapitor d'Europa.
Raggio invocato ai pallidi nocchieri,
E accoglier miti con sereno volto
Da le salvate prore inni votivi.
105 Spesso Saturnio e il popol suo degnaro,
Velato intorno di mortal sembianza
L'inostensibil Dio, scender dal cielo
A popolar la terra.
Il sa di Acrisio
La invan triplice torre: il sa la bella
110 Sicula piaggia che mirò presente
L'amante Pluto e vide il puro cielo
Contaminato d'infernal tenebra
Ed immonda favilla, e allividite
L'erbe e i fior pesti da l'ugne fuggenti
115 Dei corsieri d'Averno, e i chiari fonti
Arsi al passar de le roventi rote.
Né pochi eroi di sempiterno seme
Creati o di divin concepimento
Vanta l'evo primier; ma poi che mista,
120 E adulterata di mortal semenza
Cresce la stirpe, ne la turba immensa
Dei morituri si confonde, e accusa
La comun pasta del Giapezio loto.
Non così l'alta stirpe, onde cantiamo,
125 Muse figlie di Giove; anzi dal suolo
Poggia a le sfere, e per sublimi gradi
De' semidei terrestri ascende ai Numi.
Ché un Dio ben è colui che segue, al pari
Del facondo Cillenio abil messaggio
130 Di nunzi arcani e con giocoso furto
Al par destro a celar quanto gli piacque.
Quale stupor se a tanto senno, a tanta
Virtù mercede infami ceppi e dira
Croce donar di Pirra i ciechi figli!
135 O degnato abitar l'ingrata terra,
Perché, divo immortal, perché patisti
Sì ratto esserci tolto? Oh se a la nostra
Età più saggia eri servato, allora
Che i primi fasci a noi recò Sofia,
140 Te gran lator di legge e del comune
Dritto tutor sui clamorosi scanni
Mirato avria lo stupefatto volgo.
Or m'aprite Elicona, o Dee sorelle,
Abitatrici dell'Olimpia rocca
145 Che alta la cima infra le nubi asconde,
Ov'io poeta or salgo.
Tant'alto il canto mio sciorrà, ch'io vaglia
Con degno verso celebrar, se tanto
Lice a lingua mortal, de l'arbor sacro
150 L'estreme frondi, onde il gran frutto è nato
Ch'io qui presente adoro? Ei l'arti vostre
Seguir degnossi, e il nome suo risplende
Negli annali di Pindo.
Ei sol potea
Cantar se stesso; io le famose gesta
155 Di tenue Musa adombrerò qual posso.
E certo al nascer suo l'acuto ingegno
Invase auspice Febo.
Ospite muro
Né certa patria a lui concesse il fato,
Né d'altro avea del suo fuor che la lira.
160 Tal che il sommo poeta, ohimè! vergogna!
Fu costretto a varcar le iberne cime;
E in man recando la frassinea cetra
Ed il Dircio turcasso, andò gli orecchi
A lusingar de gli unguentati eroi
165 E del Mavorzio mercator britanno.
Poi che la sorte e l'onorate prove
Di Guerrino ei cantava, e i detti alteri,
Gl'incantati palagi e l'aste infrante,
Gli arcion vuotati e le guerriere vergini
170 Dei convivi d'Artur.
Né tu, ch'io creda,
A contesa verrai, benché ti vanti
Secondo ad Alighier, primo ad ogni altro,
Eridanio cantore.
I merti e l'opre
Di quella tacerò che a lui fu sposa,
175 Madre a Trimalcion.
Che non, se cento
Bocche a voce di bronzo in petto avessi,
Potrei dir tanto che il soggetto adegui.
Sol questo io canterò, ch'ella fu prima
Di Venere ministra e dei suoi doni
180 Larga dispensatrice: e se null'altra
Luce di padri e nobiltà di sangue
Ell'avesse quaggiù, ciò fora assai
Per collocarla infra l'eccelse dame.
Or chi m'apre il futuro? Oh qual vegg'io
185 Schiera d'eroi non nati! Ecco togati
Vindici de le leggi e d'oro aspersi
Correttori di popoli.
Tremate,
Barbare madri: ecco i guerrier di Marte.
Oh quanto sangue a voi sovrasta! Oh quanto
190 Pianger pe' figli in stranio suol sepolti!
Ma dove siamo, o Febo? Io te sì ratto
Seguia con l'ale del pensier su l'alte
Cime di Pindo, che sul desco adorno
Il fagian si raffredda, ed il valletto
195 Toglier l'onor già de la mensa anela;
E me a l'usato uffizio e al lavor dolce
Chiama il rinato lamentar del ventre.
POEMETTI
XIX
DEL TRIONFO DELLA LIBERTÀ
[1801]
CANTO PRIMO
Coronata di rose e di viole
Scendea di Giano a rinserrar le porte
La bella Pace pel cammin del sole,
E le spade stringea d'aspre ritorte,
5 E cancellava con l'orme divine
I luridi vestigi de la morte;
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
Si rivestian le valli e le colline;
10 Quand'io fui tratto in parte, io non so come,
Io non so con qual possa o con quai piume,
Quasi sgravato da le terree some.
E mi ferì le luci un vivo lume [1],
Ove non potea l'occhio essere inteso,
15 E vinto fu del mio veder l'acume,
Com'uom che da profondo sonno è preso,
Se una vivida luce lo percote,
Onde subitamente è l'occhio offeso,
Le confuse palpebre agita e scote,
20 Né può serrarle, né fissarle in lei,
Che sua virtute sostener non puote;
Così vinti cadevan gli occhi miei,
Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,
Da sostener la vista de gli Dei.
25 Non cred'io già che fosser questi frali
Occhi deboli e corti e spesso infidi,
Cui non lice fissar cose immortali.
Forse fu, s'egli è ver che in noi s'annidi,
Parte miglior che de le membra è donna;
30 Onde come io non so, so ben ch'io vidi.
Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,
Non era l'andar suo cosa mortale [2],
Né mai fu tale che vestisse gonna.
Di portamento altera [3], e quanta e quale
35 Su gli astri incede quella al maggior Dio
Del talamo consorte e del natale.
Nobile, umano, maestoso e pio
Era lo sguardo, e l'armonia celeste
Comprenderla non può chi non l'udio.
40 Sovra l'uso mortal fulgida veste
Copre le sante immacolate membra,
E svela in parte le fattezze oneste.
Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;
Ma a tanto già non giunge uman lavoro;
45 Oh con quanto stupor me ne rimembra!
Siede su cocchio di finissim'oro
Umilemente altera, ed il decenne
Berretto il crine affrena, aureo decoro.
Stringe la manca la fatal bipenne,
50 E l'altra il brando scotitor de' troni,
Onde a cotanta altezza e poter venne
La gran madre de' Fabj e de' Scipioni;
Sotto cui vide i Regi incatenati
Curvar l'alte cervici umili e proni.
55 Pronte a' suoi cenni stanle d'ambo i lati
Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso
Pendon de l'universo incerti i fati.
L'una è soave e mansueta in viso,
E stringe con la destra il santo ulivo,
60 E il mondo rasserena d'un sorriso.
E l'altra è la ministra di Gradivo,
Che si pasce di gemiti e d'affanni,
E tinge il lauro in sanguinoso rivo.
Due bandiere scotean de l'aure i vanni;
65 Su l'una scritto sta: Pace a le genti,
Su l'altra si leggea: Guerra ai Tiranni.
Taceano al lor passar l'ire de' venti,
Che, survolando intorno al sacro scritto,
Lo baciavano umili e reverenti.
70 Quinci è Colei, che del comun diritto
Vindice, a l'ima plebe i grandi agguaglia,
Sol diseguai per merto o per delitto;
E se vede che un capo in alto saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
75 Alza la scure adeguatrice, e taglia.
E con la destra alto sospende e libra
L'intatta inesorabile bilancia,
Ove merto e virtù si pesa e libra.
Non del sangue il valor, ch'è lieve ciancia,
80 E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;
E sal Lamagna, e 'l seppe Italia e Francia.
Dolce in vista ed umano e in un feroce
Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi
Il cor con l'alma face infiamma e cuoce;
85 E i servi trasformar puote in Eroi,
E non teme il fragor di tue ritorte,
O Tirannia, né de' metalli tuoi;
Non quella cieca che si chiama sorte,
Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;
90 E scritto ha in petto: O Libertate o morte.
D'ogn'intorno commosso il suol fioriva,
L'aura si fea più pura e più serena,
E sorridea la fortunata riva.
E a color che fuggir l'aspra catena,
95 Prorompeva su gli occhi e su le labbia
Impetuosa del piacer la piena;
Come augel, che fuggì l'antica gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.
100 Quindi s'udian romor cupi e profondi,
Un franger di corone e di catene,
Un fremer di Tiranni moribondi.
Impugnando un flagel d'anfesibene
La Tirannia giacevasi da canto,
105 E si graffiava le villose gene.
E i torbid'occhi si copria col manto;
Ché la luce vincea l'atre palpebre,
E le spremea da le pupille il pianto;
Come notturno augel, che le latebre
110 Ospiti cerca allor che il Sole incalza
Ne' buj recinti l'orride tenebre.
Èvvi una cruda, che uno stile innalza,
E 'l caccia in mano a l'uomo e dice: Scanna,
E forsennata va di balza in balza.
115 Nera coppa di sangue ella tracanna,
E lacerando umane membra a brani,
Le spinge dentro a l'insaziabil canna.
E con tabe-grondanti orride mani
I sacrileghi don su l'ara pone,
120 E osa tendere al Ciel gli occhi profani.
Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,
E fa ministro il Ciel di sue vendette;
E il volgo la chiamò Religione.
Si scolorar le faccie maledette,
125 E l'una a l'altra larva s'avviticchia,
E stan fra lor sì avviluppate e strette,
Che il cor de l'una al sen de l'altra picchia,
Ansando in petto, e trabalzando, e poscia
La coppia abbominosa si rannicchia.
130 Qual'è lo can che tremando s'accoscia,
Se il signor con la verga alto il minaccia,
Tal ristrinsersi i mostri per l'angoscia.
Ma poi che di quell'altra in su la faccia
Vide languir la moribonda speme,
135 Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,
Incorolla dicendo: E mute insieme
Morremo e inoperose? e il nostro lutto
Fia di letizia a chi 'l procaccia seme?
Tutto si tenti e si ritenti tutto;
140 E se morire è forza pur, si moja [4],
Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.
Qualunque aspira a Libertate moja,
Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.
E l'altra surse e gorgogliava: Moja.
145 Moja, sì moja, e temerario e baldo
Cerchi in Inferno Libertade; il fio
Paghi col sangue fumeggiante e caldo.
Acuto allor s'intese un sibilio
Via per le chiome ed un divincolarsi
150 E di morsi e percosse un mormorio.
Poscia terribilmente sollevarsi
E un barlume di speme fu veduto
Brillar sui ceffi lividi e riarsi;
Come allor che nel fosco aer sparuto
155 In fra 'l notturno vel si mostra e fugge
Un focherello passeggiero e muto.
L'infame coppia si rosicchia e sugge
Di preda ingorda la terribil ugna,
Si picchia i lombi risonanti e rugge.
160 Contra miglior voler voler mal pugna [5];
E fra la vil perfidia e la virtute
Secura è sempre e disegual la pugna.
Ma stavan l'aure pensierose e mute,
E il Ciel di brama e di timor conquiso,
165 E pendevan le rive irresolute.
La Dea mirolle, e rise un cotal riso [6]
Di scherno e di disdegno, che dipinge
Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.
E immobile in suo seggio il cocchio spinge
170 Su le attonite larve, e le fracassa,
E l'auree rote del lor sangue tinge.
Né per timore o per desio s'abbassa,
Ma disdegnosa e nobile in sua possa
Alteramente le sogguarda, e passa.
175 Fumò la terra di quel sangue rossa,
Ond'esalava abbominoso lezzo,
E da l'ime radici ne fu scossa.
Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo
Apre del sen tenebricoso, e ingoja
180 Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.
Quinci acuto s'udì grido di gioja,
E quindi un fioco rimbombar di duolo,
Simile a rugghio di Leon che moja.
S'alzò tre volte, e tre ricadde al suolo
185 Spossata e vinta l'Aquila grifagna,
Ché l'arse penne ricusaro il volo.
Alfin, strisciando dietro a la campagna,
Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio
A gl'intimi recessi di Lamagna.
190 Allor prese i Tiranni un brividio,
Che gli fe' paventar de la lor sorte,
E mal frenato in su le gote uscio,
E gliele tinse d'un color di morte.
CANTO SECONDO
Col pensier, con gli orecchi e con le ciglia
I' era immerso in quell'altera vista,
Come colui che tace e maraviglia;
Qual dicon che de' Spirti in fra la lista,
5 Stette mirando le magiche note
Il furente [7] di Patmo Evangelista.
Quand'io vidi la Dea, che su l'immote
Maladette sorelle il cocchio spinse,
E su le infami cigolar le rote,
10 Primamente un terror freddo mi strinse,
Poi surse in petto con subita forza
La letizia, che l'altro affetto estinse.
Qual se fiamma divora arida scorza
Avidamente, e d'improvviso d'acque
15 Talun l'inonda, subito s'ammorza,
Così sotto la gioja il timor giacque;
Poi surse un novo di stupore affetto,
E l'uno e l'altro moto in sen mi tacque.
Però ch'io vidi un bel drappello eletto
20 Di Lor che sordi furo al proprio danno,
Caldi d'amor di Libertade il petto.
Vidi colui che contro al rio Tiranno
Fe' la vendetta del superbo strupo [8],
Poi che s'avvide del lascivo inganno,
25 E corse furioso, come lupo,
Se mai rapace cacciator gli fura
I cari figli dal natio dirupo.
E seco è Lei, che d'alma intatta e pura,
Benché polluta ne la spoglia in vita,
30 Lavò col sangue la non sua lordura.
Quei che ritolse ai figli suoi la vita,
Poi che ne fero uso malvagio e rio,
Immolando a la Patria, ostia gradita,
L'affetto di parente, e dir s'udio:
35 Quei che di fede a la sua patria manca
Non è figlio di Roma, e non è mio.
Siegue Quei che la destra ardita e franca
Cacciò fremendo ne le fiamme pie,
E fe' tremar Porsenna colla manca.
40 Ve' la Vergin che corse a le natie
Piaggie, fuggendo del Tiranno l'onte,
Per le amiche del Tebro ospite vie.
Ecco quel forte, che al famoso ponte
Contra l'Etruria congiurata tenne
45 Ferme le piante e immobile la fronte.
E l'urto d'un esercito sostenne,
E contra mille e mille lancie stette,
Onde immortale a' posteri divenne.
Ma ben poria le più sottili erbette
50 Annoverar nel prato e 'n ciel le stelle
E le arene nel mar minute e strette
Chi noverar volesse l'alme belle
Ch'ivi eran, di valore inclito speglio,
Sol de la Patria e di Virtute ancelle.
55 Sorgea fra gli altri il generoso Veglio,
Che involò del Tiranno ai sozzi orgogli
La figlia intatta, e ben fu morte il meglio.
Fu la figlia che disse al padre: Cogli
Questo immaturo fior: tu mi donasti
60 Queste misere membra, e tu le togli,
Pria che impudico ardir le incesti e guasti;
E in quello cadde il colpo, e impallidiro
Le guancie e i membri intemerati e casti,
E uscì dal puro sen l'ultimo spiro,
65 Ed a la vista orribile fremea
Il superbo e deluso Decemviro,
Cui stimolava la digiuna e rea
Libidine, e struggea l'insana rabbia,
Che i già protesi invan nervi rodea;
70 Qual lupo, che la preda perdut'abbia,
Batte per fame l'avida mascella,
Rugge, e s'addenta le digiune labbia.
Quindi segue una coppia rara e bella,
Che ria di ben oprar mercede colse
75 Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella.
V'è quel grande che Roma ai ceppi tolse,
Indi de l'Afro le superbe mine
E le audaci speranze in lui rivolse:
Per cui sovra le libiche ruine
80 Vide Roma discesa al gran tragitto
Il fulgor de le fiaccole Latine.
E quei che Magno detto era ed invitto,
Che, insiem con Libertà, spoglia schernita
Giacque su l'infedel sabbia d'Egitto.
85 V'era la non mai doma Alma, che ardita
Temé la servitù più de la morte,
Amò la Libertà più de la vita;
Dicendo: Poi che la nimica sorte
Tanto è contraria a Libertate, e invano
90 La terribile armò destra quel forte,
Alzisi omai la generosa mano,
E l'alma fugga pria che servir l'empio,
Ch'io nacqui e vissi e vo' morir Romano.
E seco è Lei, che con novello scempio
95 Dietro la fuggitiva Libertate
Corse animata dal paterno esempio.
Quindi un drappel venia d'ombre onorate
Sacre a la patria, che di sangue diro
Ne spruzzar le ruine inonorate.
100 Bruto primo sorgea, che torvi in giro
Pria torse i lumi, indi a Roma gli volse,
E da l'imo del cor trasse un sospiro.
E a l'ombre circostanti si rivolse,
In cui non fu la virtù patria doma,
105 Indi la lingua in tai parole sciolse:
Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma,
Or che strappotti il glorioso lauro
Invida man da la vittrice chioma.
Ov'è l'antico di virtù tesauro?
110 Ove, ove una verace alma Latina?
Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?
Ahi! de la Libertà l'ampia ruina
Tutto si trasse ne la notte eterna,
Ed or serva sei fatta di reina;
115 Ché il celibe Levita ti governa
Con le venali chiavi, ond'ei si vanta
Chiuder la porta e disserrar superna.
E i Druidi porporati: oh casta, oh santa
Turba di Lupi mansueti in mostra,
120 Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta!
E il popol reverente a lor si prostra
In vile atto sommesso, e quasi Dii
Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!
Che valse a me di sacri ferri e pii
125 Armar le destre, e franger la catena?
Lasso! e per chi la grande impresa ardii?
Spento un Tiranno, un altro surse, piena
Di schiavi de la terra era la Donna,
Infin che strinse la temuta abena
130 Quei che la Galilea dimessa donna
Trasse dal fango, e i membri sozzi e nudi
Vestì di tolta altrui fulgida gonna;
E maritolla a' suoi nefandi Drudi [9]
Incestamente, e al vecchio Sacerdote
135 A la canna scappato e a le paludi,
Che infallibil divino a le devote
Genti s'infinse, che a la Putta astuta
Prestaro omaggio e le fornir la dote.
E nel Roman bordello prostituta,
140 Vile, superba, sozza e scellerata
Al maggior offerente era venduta.
Ivi un postribol fece, ove sfacciata
Facea di sé mercato, ed a' suoi Proci
Dispensava ora un detto, ora un'occhiata.
145 Ma poi che ferma in trono fu, feroci
Sensi vestì, l'armi si cinse, e infece
D'innocuo sangue le mal compre croci.
E sue ministre ira e vendetta fece,
L'inganno, la viltà, la scelleranza,
150 E fe' sua legge: Quel che giova lece.
Quindi la maladetta Intolleranza
Del detto e del pensier, quindi Sofia
Stretta in catene, e in trono l'Ignoranza.
O ditel voi, che di saver sì ria
155 Mercede aveste di sospiri e pianto
Da l'empia de l'ingegno tirannia.
O ditel voi, ch'io già non son da tanto;
Gridino l'ossa inonorate, e il suono
A l'Indo ne pervenga e al Garamanto.
160 Questi i diletti de l'Eterno sono?
Questi i ministri del divin volere?
E questi è un Dio di pace e di perdono?
Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spere
Librasti il moto, e a' tuoi nepoti un varco
165 Di veritate apristi e di sapere.
Contra te i dardi dal diabolic'arco
Sfrenò l'invidia, e contra i tuoi sistemi
Indarno trasse in campo e Luca e Marco.
Empj! che di ragione i divi semi
170 Spegner tentaro ne gli umani petti,
E colpirono il ver con gli anatemi.
Van predicando un Nume, e a' suoi precetti
Fan fronte apertamente, e a chi gl'imita
Fulminan le censure e gl'interdetti.
175 Povera, disprezzata, umil la vita
Quel che tu adori in Galilea menava,
E tu suo servo in Roma un Sibarita.
O greggia stolta, temeraria e prava,
Che col suo Nume e con se stessa pugna;
180 Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.
Altri nemico di se stesso impugna
Crudo flagello, e il sangue fonde, e 'l fura,
A la Patria, e de' suoi dritti a la pugna,
Devoto suicida, ed a la dura
185 Verginità consacrasi, i desiri
Soffocando e le voci di natura.
Stolto crudel, che fai? de' tuoi martiri
Forse l'amante comun Padre frue?
O si pasce di sangue e di sospiri?
190 Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sue
Dita divine la diversa brama
Pose Colui, che disse "sia", e fue.
Ei con la voce di natura chiama
Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna,
195 E va d'ognuno al cor ripetendo: Ama.
E tu fuggi colei che per compagna
Ei ti diede, e i fratei credi nemici,
E invan natura, invan grida e si lagna.
E tal sotto i flagelli ed i cilici
200 Cela i pugnali, e vassi a capo chino
Meditando veleni e malefici.
O degenere figlia di Quirino,
Che i tuoi prodi obliando, al Galileo
Cedesti i fasci del valor Latino,
205 Questi sono i tuoi Cati, e in sul Tarpeo
Dei nostri figli si fan scherno e gioco...
Ma qui si tacque, e dir più non poteo;
Ché tal la carità del natio loco
Lo strinse, e sì l'oppresse, che morio
210 La voce in un sospir languido e fioco.
Quindi tra le commosse ombre s'udio
Sorgere un roco ed indistinto gemito,
Poscia un cupo e profondo mormorio;
Sì come allor che con interno tremito
215 Quassano i venti il suol che ne rimbomba,
S'ode sonar da lunge un sordo fremito,
Che tra le foglie via mormora e romba.
CANTO TERZO
I tronchi detti e il lagrimoso volto
Di quella generosa Anima bella
Avean là tutto il mio pensier raccolto,
Quando tutto a sé 'l trasse una novella
5 Turba, che di rincontro a me venia,
D'abito più recente e di favella.
Confuso e irresoluto io me ne gìa,
Com'uom che in terra sconosciuta mova,
Che lento lento dubbiando s'avvia.
10 Ed erano color che per la nova
Libertade s'alzar fra l'alme prime,
Di sé lasciando memoranda prova.
Grandeggiava fra queste una sublime
Alma, come fra 'l salcio umile e l'orno [10]
15 Torreggian de' cipressi alto le cime.
Avea di belle piaghe il seno adorno,
Che vibravan di luce accesa lampa,
E fean più chiaro quel sereno giorno;
Ché men rifulge il sol quando più avvampa,
20 E sovra noi da lo stellato arringo
L'orme fiammanti più diritte stampa.
Allor ch'egli me vide il pie' ramingo
Traggere incerto per l'ignota riva,
Meditabondo, tacito e solingo,
25 A me corse, gridando: Anima viva,
Che qua se' giunta, u' solo per virtute,
E per amor di Libertà s'arriva;
Italia mia che fa? di sue ferute
È sana alfine? è in Libertate? è in calma?
30 O guerra ancor la strazia e servitute?
Io prodigo le fui di non vil alma,
E nel cruento suo grembo ospitale
Giacqui barbaro pondo, estrania salma.
35 Né m'accolse nel seno il suol natale,
Né dolce in su le ceneri agghiacciate
Il suon discese del materno vale.
Barbaro estranio tu? non son sì ingrate
L'anime Italiane, e non è spento
L'antico senso in lor de la pietate.
40 Oh qual non fece Insubria mia lamento
Più sul tuo fato, che sul suo periglio!
Ahi! con lagrime ancor me ne rammento.
E te, discinta e scarmigliata, figlio
Chiamò, baciando il tronco amato e santo,
45 E con la destra ti compose il ciglio.
E adorò 'l tuo cipresso al quale accanto
Il caro germogliò lauro e l'ulivo,
Che i rai le terse del bilustre pianto.
Li terse? Ahi no! ché a lei costonne un rivo,
50 Che inondò i membri inanimati e rubri
Di te, che 'n cielo e ne' bei cor se' vivo.
Deh! resti a noi, dicean le rive Insubri,
Deh! resti a noi, ma l'onorata spoglia
Trasse Francia gelosa a' suoi delubri.
55 Ma de l'itala sorte, onde t'invoglia
Tanto desio, come farò parola?
Ché un seme di Tiranni vi germoglia.
E sotto al giogo de la greve stola
La gran Donna del Lazio il collo spinse,
60 E guata le catene, e si consola.
E Partenope serve a lei, che vinse
In crudeltà la Maga empia di Colco,
E de' più disumani il grido estinse.
Ed il Siculo e 'l Calabro bifolco
65 Frange a crudo signor le dure glebe,
E riga di sudore il non suo solco.
Al mio dir disiosa urtò la plebe
Un'ombra, sì com'irco spinge e cozza
In su l'uscita le ammucchiate zebe.
70 Avea i luridi solchi in su la strozza
Del capestro, e la guancia scarna e smunta,
E la chioma di polve e sangue sozza.
E' surse de le piante in su la punta,
Come chi brama violenta tocca,
75 E uno sciame d'affetti in sen gli spunta,
Ed il cor sopraffatto ne trabocca
Inondato e sommerso, e l'alma fugge [11]
Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.
Poi gridò: L'empia vive, e non l'adugge
80 Il telo, che temuto è sì là giue?
E 'l dolce lume ancor per gli occhi sugge? [12]
Né pur la pena di sue colpe lue,
Ma vive, e vive trionfante, e regna:
Regna, e del frutto di sue colpe frue.
85 O tu, diss'io, che sì contra l'indegna
Ardi, che in crudeltate al mondo è sola,
Spiegami il duol che sì l'alma t'impregna.
Più volte egli tentò formar parola,
Ma sul cor ripiombò tronca la voce;
90 Che 'l duol la sospingeva ne la gola;
Sì come arretra il suo corso veloce,
E spumeggia e gorgoglia onda restia,
Se impedimen
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