TUTTE LE POESIE, di Alessandro Manzoni - pagina 8
...
.
85 O tu, diss'io, che sì contra l'indegna
Ardi, che in crudeltate al mondo è sola,
Spiegami il duol che sì l'alma t'impregna.
Più volte egli tentò formar parola,
Ma sul cor ripiombò tronca la voce;
90 Che 'l duol la sospingeva ne la gola;
Sì come arretra il suo corso veloce,
E spumeggia e gorgoglia onda restia,
Se impedimento incontra in su la foce.
Ma poi che vinse il duol la cortesia,
95 E per le secche fauci il varco aperse,
E fu spianata al ragionar la via,
Gridò: Tu vuoi ch'io fuor dal seno verse
Il duol, che tanto già mi punse e punge,
Se pur si puote anco qua su dolerse.
100 Ma in quale arena mai grido non giunge [13]
Di sua nequizia e de' fatti empi e rei?
E sia pur, quanto esser si voglia, lunge.
Io di sua crudeltà la prova fei,
E giacqui ostia innocente in su l'arena,
105 Per amor de la Patria e di Costei,
Di ciò l'alma e la bocca ebbi ognor piena,
Che a me fu sempre fida stella e duce,
Ed or mi paga la sofferta pena.
Poi che apparve un'incerta e dubbia luce
110 Sovra l'Italia addormentata, e sparve,
Onde la notte nereggiò più truce,
E una benigna Libertade apparve,
Che al duro appena ci rapì servaggio,
Indi sparì come notturne larve,
115 Io corsi là, com'a un lontano raggio
Correndo e ansando il pellegrin s'affretta,
Smarrito fra 'l notturno ermo viaggio.
Ahi breve umana gioja ed imperfetta!
Venne, con l'armi no, con le catene
120 Una ciurma di schiavi maladetta.
E gli abeti secati a le Rutene
Canute selve del Cumeo Nettuno
Gravaro il dorso, e ne radean le arene.
Corse fremendo ed ululando il bruno
125 Tartaro antropofàgo, che per fame
Spalanca l'atro gorgozzul digiuno.
E l'Anglo avaro, che mercato infame
Fa de le umane vite, e in quella sciarra
Lo spinsero de l'or le ingorde brame.
130 Né più i solchi radea sicula marra,
Né più la falce, ma le verdi biade
Mieteva la cosacca scimitarra.
E non bastar le peregrine spade;
Ché la Patria ancor essa, ahi danno estremo!
135 Vomitò contra sé fiere masnade.
Ahi che in pensando ancor ne scoppio e fremo!
Qual dal carcer sboccato e qual dal chiostro,
Qual tolto al pastorale e quale al remo.
Oh ciurma infame! e un porporato mostro
140 Duce si fe' de le ribelli squadre,
Celando i ferri sotto al fulgid'ostro.
Costor le mani violente e ladre
Commiser ne la Patria, e tutta quanta
D'empie ferite ricovrir la madre.
145 Di Libertà la tenerella pianta
Crollar, sì come d'Eolo irato il figlio
L'aereo pin da le radici schianta.
Poscia un confuso regnava bisbiglio,
Un sordo mormorar fra denti ed una
150 Paura, un cupo sovvolger di ciglio;
Come allor che da lunge il ciel s'imbruna,
Siede sul mar, che a poco a poco s'ange,
Una calma che annunzia la fortuna;
Mentre cigola il vento, che si frange
155 Tra le canne palustri, e cupo e fioco
Rotto dai duri massi il fiotto piange.
Ma surse irata la procella, poco
Durò la calma e quel servir tranquillo;
Sangue al pianto successe e ferro e foco.
160 E l'aer muto ruppe acuto squillo
Annunziator di stragi, e sulla torre
L'atro di morte sventolò vessillo.
Il furor per le vie rabido scorre,
E con grida i satelliti, e con cenni
165 Incora e sprona, e a nova strage corre.
Allor s'ode uno strider di bipenni,
Un cupo scroscio di mannaje.
Ahi come
Oltre veder con questi occhi sostenni!
Chi solo amò di Libertate il nome,
170 O appena il proferì, dai sacri lari
Strappato e strascinato è per le chiome.
Ai casti letti venian que' sicari,
Qual di lupi digiuni atro drappello,
D'oro e di sangue e di null'altro avari.
175 E invan le spose al violato ostello,
Di lagrime bagnando il sen discinto,
Fean con la debil man vano puntello;
Ché fin fu il ferro, ahimè! cacciato e spinto
Entro il seno pregnante: oh scelleranza!
180 E il ferro, il ferro da l'orror fu vinto.
Gli empj no, che con fiera dilettanza
Pascean gli sguardi disiosi e cupi,
E fean periglio di crudel costanza.
E i pargoletti a que' feroci lupi
185 Con un sorriso protendean le mani,
Con un sorriso da spetrar le rupi.
Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani
Tigri! col ferro rimovean l'amplesso,
E fean le membra tenerelle a brani.
190 Non era il grido ed il sospir concesso;
Era delitto il lagrimar, delitto
Un detto, un guardo ed il silenzio istesso.
Morte gridava irrevocando editto.
La coronata e la mitrata stizza
195 L'avean col sangue d'innocenti scritto.
Intanto a mille eroi l'anima schizza
Dal gorgozzule oppresso, e brancolando
Il tronco informe su l'arena guizza.
Anelando, fremendo, mugolando
200 Gli spirti uscien da' straziati tronchi,
Non il lor danno, ma il comun plorando.
Ivi sorgean due smisurati tronchi,
Cui l'adunato sangue era lavacro,
E d'intorno eran membri e capi cionchi.
205 Quinci era il tronco infame a morte sacro,
Irto e spumoso di sanguigna gruma,
Quindi stava di Cristo il simulacro;
E il percotea la fluttuante schiuma,
Che fea del sangue e de la tabe il lago,
210 Che ferve e bolle e orrendamente fuma.
Fiero portento allor si vide, un vago
Spettro spinto da voglia empia ed infame
Lieto aggirarsi intorno al tristo brago.
Avidamente pria fiutò il carname,
215 E rallegrossi, e poi con un sogghigno
Guatò de' semivivi il bulicame.
Quindi il muso tuffò smilzo ed arcigno,
E il diguazzò per entro a la fiumana,
E il labbro si lambì gonfio e sanguigno.
220 Come rabido lupo si distana,
Se a le nari gli vien di sangue puzza,
E ringhia e arrota la digiuna scana,
E guata intorno sospicando, e aguzza
Gli orecchi e ognor s'arretra in su i vestigi,
225 Così colei, che di sua salma appuzza
Le viscere cruente di Parigi,
Rigurgitando velenosa bava,
La barbara consorte di Luigi,
Venia gridando: Insana ciurma e prava,
230 Che noi di crudi e di Tiranni incolpe,
E al regno agogni, nata ad esser schiava,
Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe
Il fio tu paga, e sì dicendo morse
Le membra, e rosicchiò l'ossa e le polpe.
235 Indi da l'atro desco il grifo torse
Gonfia di sangue già, ma non satolla,
Quando novo spettacolo si scorse.
Venia uno stuolo di Leviti, colla
Faccia di rabbia e di furor bollente,
240 E inzuppata di sangue la cocolla.
Ciascun reca una coppa, e d'innocente
Sangue l'empiero, e le posar su l'ara.
E lo vide e 'l soffrì l'Onnipossente!
E disser: Bevi, e fean quegli empj a gara.
245 Danzava intorno oscenamente Erinni,
E scoteva la cappa e la tiara.
E i profani s'udian rochi tintinni
De' bronzi, e l'aria, con le negre penne,
Gl'infernali scotean diabolic'inni.
250 Bramata alfine ed aspettata venne
A me la morte, ed il supremo sfogo
Compì su la mia spoglia la bipenne.
Allora scossi l'abborrito giogo,
E, l'ali aprendo a la seconda vita,
255 Rinacqui alfin, come fenice in rogo.
Ed ancor tace il mondo? ed impunita
È la Tigre inumana, anzi felice,
E temuta dal mondo e riverita?
Deh! vomiti l'accesa Etna [14] l'ultrice
260 Fiamma, che la città fetente copra,
E la penetri fino a la radice.
Ma no: sol pera il delinquente, sopra
Lei cada il divo sdegno e sui diademi,
Autori infami de l'orribil'opra.
265 E fin da lunge ne' recessi estremi,
Ove s'appiatta, e ne' covigli occulti
L'oda l'empia Tiranna, odalo e tremi.
E disperata mora, e ai suoi singulti
Non sia che cor s'intenerisca e pieghi,
270 E agli strazj perdoni ed a gli insulti,
O dal Ciel pace a l'empia spoglia preghi;
Ma l'universo al suo morir tripudi,
E poca polve a l'ossa infami neghi.
E l'alma dentro a le negre paludi
275 Piombi, e sien rabbia assenzio e fel sua dape,
E tutto Inferno a tormentarla sudi,
Se pur tanta nequizia entro vi cape.
CANTO QUARTO
Tacque ciò detto, e su l'enfiate labbia
Gorgogliava un suon muto di vendetta,
Un fremer sordo d'intestina rabbia.
E le affollate intorno ombre, "vendetta"
5 Gridar, "vendetta", e la commossa riva
Inorridita replicò "vendetta".
I torbid'occhi il crino a lui copriva;
Fascio parea di vepri o di gramigna,
Onde un'atra erompea luce furtiva;
10 Come veggiamo il sol, se una sanguigna
Nugola il raggio ne rinfrange, obbliqua
Vibrar l'incerta luce e ferrugigna.
Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,
De gli uomini nimica e di natura,
15 Or hai pur spenta l'empia sete antiqua!
Gonfia di sangue la corrente e impura
Portò l'umil Sebeto, e de la cruda
Novella Tebe flagellò le mura.
Tigre inumana di pietate ignuda,
20 Tu sopravvivi a' tuoi delitti? un Bruto
Dov'è? chi 'l ferro a trucidarti snuda?
Questi sensi io volgea per entro al muto
Pensier, che tutto in quell'orror s'affisse,
Allor che venne al mio veder veduto
25 D'Insubria il Genio, che le luci fisse
In me tenendo, armoniosa e scorta
Voce disciolse, e scintillando disse:
Mortal, quello che udrai là giuso porta.
Deh! gli alti detti a la mal ferma e stanca
30 Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta.
Tu la cadente poesia rinfranca,
Tu la rivesti d'armonia beata,
E tu sostieni la virtù, che manca;
Tu l'ali al pensier presta, o Diva nata
35 Di Mnemosine, e fa' che del mio plettro
Esca la voce ai colti orecchi grata,
E spargi i detti miei d'eterno elettro.
Già, proseguiva, del real potere
Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l'empio scettro.
40 Ché gli ubertosi colli e le riviere,
Ove Natura a se medesma piace,
No, che non son per le Tedesche fiere.
Pace altra volta tu le desti, pace,
O Tiranno, giurasti, e udir le genti
45 Il real giuro, e lo credean verace.
Ma di Tiranno fede i sacramenti
Frange e calpesta, e la legge de' troni
Son gl'inganni, i spergiuri, i tradimenti.
Venne in fin dai settemplici trioni,
50 Da te chiamato, e da le fredde rupi
Un torrente di bruti e di ladroni.
Come in aperto ovile iberni lupi,
Tal su l'Insubria si gittar quegli empi,
Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.
55 Fino i sacri vestibuli di scempi
Macchiaro e d'adulteri.
Oh quali etati
Fur mai feconde di siffatti esempi?
Ma non fur quegli insulti invendicati,
Né il vizio trionfò: l'infame tresca
60 Franse il ferro e 'l valor: gli addormentati
Spirti destarsi alfin, e la Tedesca
Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna
La virtù Cisalpina e la Francesca.
Torna, arrogante a questi lidi, torna;
65 Qui roco ancor di morte il telo romba,
Qui la tua morte appiattata soggiorna.
Qui il cavo suol de' sepolcri rimbomba
De la tua pube, che ancor par che gema:
Vieni in Italia, e troverai la tomba.
70 Altra volta scendesti avido, e scema
Ti fu l'audacia temeraria e sciocca:
Rammenta i campi di Marengo, e trema.
Ché la fatal misura ancor trabocca;
Non affrettar de la vendetta il die,
75 Il dì che impaziente è su la cocca.
Pace avesti pur anco, e questa fie
La novissima volta; in l'alemanno
Confin le tigri tue frena e le arpie.
Ma tu, misera Insubria, d'un Tiranno
80 Scotesti il giogo, ma t'opprimon mille.
Ahi che d'uno passasti in altro affanno!
Gentili masnadieri in le tue ville
Succedettero ai fieri, e a genti estrane
Son le tue voglie e le tue forze ancille.
85 Langue il popol per fame, e grida: "pane";
E in gozzoviglia stansi e in esultanza
Le Frini e i Duci, turba, che di vane
Larve di fasto gonfia e di burbanza,
Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,
90 A piena bocca sclamando: Eguaglianza;
Il volgo, che i delitti e la nefanda
Vita vedendo, le prime catene
Sospira, e 'l suo Tiranno al ciel domanda.
De l'inope e del ricco entro le vene
95 Succian l'adipe e 'l sangue, onde Parigi
Tanto s'ingrassa, e le midolle ha piene.
E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi
Strisciangli intorno in atto umile e chino.
E tal di risse amante e di litigi
100 D'invido morso addenta il suo vicino,
Contra il nemico timido e vigliacco,
Ma coraggioso incontro al cittadino.
Tal ne' vizj s'avvolge, come ciacco
Nel lordo loto fa; soldato esperto
105 Ne' conflitti di Venere e di Bacco.
E tal di mirto al vergognoso serto
Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,
Ricco d'audacia, e povero di merto.
Tal pasce il volgo di sonanti fole:
110 Vile! e di patrio amor par tutto accenso,
E liberal non è che di parole.
E questi studio d'allargare il censo
Avito rode, e quel tal altro brama
Di farsi ricco di tesoro immenso.
115 Senti costui, che "morte, morte" esclama,
E le vie scorre, furibonda Erinni,
Di sangue ingordo, e dove può si sfama.
Vedi quei, che sua gloria nei concinni
Capei ripone.
Oh generosi Spirti
120 Degni del giogo estranio e de' cachinni!
Odimi, Insubria.
I dormigliosi spirti
Risveglia alfine, e da l'olente chioma
Getta sdegnosa gli Acidalj mirti.
Ve' come t'hanno sottomessa e doma,
125 Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi
La Tirannia, che Libertà si noma.
Mira le membra illividite e i tuoi
Antichi lacci; l'armi, l'armi appresta,
Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.
E a l'elmo antico la dimessa cresta
130 Rimetti, e accendi i neghittosi cori,
E stringi l'asta ai regnator funesta;
Come destrier, che fra l'erbette e i fiori,
Placido, in diuturno ozio recuba,
135 Sol meditando vergognosi amori,
Scote nitrendo la nitente giuba,
Se il torpido a ferirlo orecchio giugne
Cupo clangor di bellicosa tuba,
E stimol fiero di gloria lo pugne,
140 Drizza il capo, e l'orecchio al suono inchina,
E l'indegno terren scalpe con l'ugne.
Contra i Tiranni sol la cittadina
Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso,
Che fosti serva, ed or sarai reina.
145 Disse e tacque, raggiandomi d'un riso,
Che del mio spirto superò la forza,
Così ch'io ne restai vinto e conquiso.
Mi scossi, e la rapita anima a forza,
Come chi tenta fuggire e non puote,
150 Cacciata fu ne la mortale scorza.
Io restai come quel che si riscote
Da mirabile sogno, che pon mente
Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote.
O Pieride Dea, che 'l foco ardente
155 Ispirasti al mio petto, e i sempiterni
Vanni ponesti a la gagliarda mente,
Tu, Dea, gl'ingegni e i cor reggi e governi,
E i nomi incidi nel Pierio legno,
Che non soggiace al variar de' verni.
160 Tu l'ali impenni al Ferrarese ingegno,
Tu co' suoi divi carmi il vizio fiedi,
E volgi l'alme a glorioso segno.
Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
Fai de' tuoi carmi, e trapassando pungi
165 La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.
Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi,
E l'avanzi talor; d'invidia piene
Ti rimiran le felle alme da lungi,
Che non bagnar le labbia in Ippocrene,
170 Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,
Onde tal puzzo da' lor carmi viene.
Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
De l'arte sacra! Augei palustri e bassi;
Cigni non già, ma Corvi da carogne.
175 Ma tu l'invida turba addietro lassi,
E le robuste penne ergendo, come
Aquila altera, li compiangi, e passi.
Invano atro velen sovra il tuo nome
Sparge l'invidia, al proprio danno industre,
180 Da le inquiete sibilanti chiome.
Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,
Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume
A me fo scorta ne l'arringo illustre.
E te veggendo su l'erto cacume
185 Ascender di Parnaso alma spedita,
Già sento al volo mio crescer le piume.
Forse, oh che spero! io la seconda vita
Vivrò, se a le mie forze inferme e frali
Le nove Suore porgeranno aita.
190 Ma dove mi trasporti, estro? mortali
Son le mie penne, e periglioso il volo,
Alta e sublime è la caduta; l'ali
Però raccogli, e riposiamci al suolo [15].
XX
URANIA
POEMETTO
[1809]
Su le populee rive e sul bel piano
Da le insubri cavalle esercitato,
Ove di selva coronate attolle
La mia città le favolose mura,
5 Prego, suoni quest'Inno: e se pur degna
Penne comporgli di più largo volo
La nostra Musa, o sacri colli, o d'Arno
Sposa gentil, che a te gradito ei vegna
Chieggo a le Grazie.
Ché dai passi primi
10 Nel terrestre viaggio, ove il desio
Crudel compagno è de la via, profondo
Mi sollecita amor che Italia un giorno
Me de' suoi vati al drappel sacro aggiunga,
Italia, ospizio de le Muse antico.
15 Né fuggitive dai laureti achei
Altrove il seggio de l'eterno esiglio
Poser le Dive; e quando a la latina
Donna si feo l'invendicato oltraggio,
Dal barbaro ululato impaurite
20 Tacquero, è ver, ma l'infelice amica
Mai non lasciar; ché ad alte cose al fine
L'itala Poesia, bella, aspettata,
Mirabil virgo, da le turpi emerse
Unniche nozze.
E tu le bende e il manto
25 Primo le desti, e ad illibate fonti
La conducesti; e ne le danze sacre
Tu le insegnasti ad emular la madre,
Tu de l'ira maestro e del sorriso,
Divo Alighier, le fosti.
In lunga notte
30 Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
Tu nostro: e tale, allor che il guardo primo
Su la vedova terra il sole invia,
Nol sa la valle ancora e la cortese
Vital pioggia di luce ancor non beve,
35 E già dorata il monte erge la cima.
A queste alme d'Italia abitatrici
Di lodi un serto in pria non colte or tesso;
Ché vil fra 'l volgo odo vagar parola
Che le Dive sorelle osa insultando
40 Interrogar che valga a l'infelice
Mortal del canto il dono.
Onde una brama
In cor mi sorge di cantar gli antichi
Beneficj che prodighe a l'ingrato
Recar le Muse.
Urania al suo diletto
45 Pindaro li cantò.
Perché di tanto
Degnò la Dea l'alto poeta e come,
Dirò da prima; indi i celesti accenti
Ricorderò, se amica ella m'ispira.
Fama è che a lui ne la vocal tenzone
50 Rapisse il lauro la minor Corinna
Misero! e non sapea di quanto dio
L'ira il premea; ché a la famosa Delfo
Venendo, i poggi d'Elicona e il fonte
Del bel Permesso ei salutando ascese;
55 Ma d'Orcomene, ove le Grazie han culto,
Il cammin sacro omise.
Il dévio passo
Vider da lunge e il non curar superbo
Del fatal giovanetto le Immortali,
E promiser vendetta.
Al meditato
60 Inno di lode liberato il volo
Pindaro avea, quando le belle irate,
Aerie forme a mortal guardo mute,
Venner seconde di Corinna al fianco.
Aglaja in pria su la virginea gota
65 Sparse un fulgor di rosea luce, e un mite
Raggio di gioja le diffuse in fronte:
Ma la fragranza de' castalj fiori
Che fanno l'opra de l'ingegno eterna,
Eufrosine le diede; e tu pur anco,
70 Dolce qual tibia di notturno amante,
Lene Talia, le modulasti il canto.
Di tanti doni avventurata in mezzo
Corinna assurse: il portamento e il volto
Stupia la turba, e il dubitar leggiadro
75 E il bel rossor con che tremando al seno
Posò la cetra; e, sotto la palpebra
Mezza velando la pupilla bruna,
Soave incominciò.
Volava intorno
La divina armonia che, con le molli
80 Ale i cupidi orecchi accarezzando,
Compungea gl'intelletti, e di giocondo
Brivido i cori percotea.
Rapito
L'emulo anch'ei, non alito, non ciglio
Movea, né pria de' sensi ebbe ripresa
85 La signoria, che verdeggiar la fronda
Invidiata vide in su le nere
Trecce di lei, che fra il romor del plauso
Chinò la bella gota ove salia
Del gaudio mista e del pudor la fiamma.
90 Di dolor punto e di vergogna, al volgo
L'egregio vinto si sottrasse, e solo
Sul verde clivo, onde l'aeria fronte
Spinge il Parnaso, s'avviò.
Dolente
Errar da l'alto Licoreo lo scòrse
95 Urania Dea, cui fu diletto il fato
Del giovanetto, e di blandir sua cura
Nel pio voler propose.
È nei riposti
Del sacro monte avvolgimenti un bosco
Romito, opaco, ove talor le Muse,
100 Sotto il tremolo rezzo esercitando
L'ambrosio piè, ringioviniscon l'erbe
Da mortal orma non offese ancora.
A l'entrar de la selva, e sovra il lembo
Del vel che la tacente ombra distende,
105 Balza l'Estro animoso, e de le accese
Menti il Diletto, e, ne la palma alzata
Dimettendo la fronte, il Pensamento
Sta col Silenzio, che per man lo tiene.
Bella figlia del Tempo e di Minerva
110 V'è la Gloria, sospir di mille amanti:
Vede la schiva i mille, e ad un sorride.
Ivi il trasse la Diva.
A l'appressarsi,
De l'aura sacra a l'aspirar, di lieto
Orror compreso in ogni vena il sangue
115 Sentia l'eletto, ed una fiamma leve
Lambir la fronte ed occupar l'ingegno.
Poi che ne l'alto de la selva il pose
Non conscio passo, abbandonò l'altezza
Del solitario trono, e nel segreto
120 Asilo Urania il prode alunno aggiunse.
Come tal volta ad uom rassembra in sogno,
Su lunga scala o per dirupo, lieve
Scorrer col piè non alternato a l'imo,
Né mai grado calcar né offender sasso;
125 Tal su gli aerei gioghi sorvolando,
Discendea la celeste.
Indi la fronte
Spoglia di raggi, e d'ale il tergo, e vela
D'umana forma il dio; Mirtide fassi,
Mirtide già de' carmi e de la lira
130 A Pindaro maestra; e tal repente
A lui s'offerse.
Ei di rossor dipinto,
A che, disse, ne vieni? a mirar forse
Il mio rossore? o madre, oh! perché tanta
Speme d'onor mi lusingasti in vano?
135 Come la madre al fantolin caduto,
Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
Che guata impaurito, e già sul ciglio
Turgida appar la lagrimetta, ed ella
Nel suo trepido cor contiene il grido,
140 E blandamente gli sorride in volto
Perch'ei non pianga; un tal divino riso,
Con questi detti, a lui la Musa aperse:
A confortarti io vegno.
Onde sì ratto
"L'anima tua è da viltate offesa"?
145 Non senza il nume de le Muse, o figlio,
Di te tant'alto io promettea.
Deh! come,
Pindaro rispondea, cura dei vati
Aver le Muse io crederò? Se culto
Placabil mai de gl'Immortali alcuno
150 Rendesse a l'uom, chi mai d'ostie e di lodi,
Chi più di me di preci e di cor puro
Venerò le Camene? Or se del mio
Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli
L'egro mio spirto consolar col canto.
155 Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,
Qual d'uom che d'udire arda, e fra sé tema
Di far parlando a la risposta indugio.
Allor su l'erba s'adagiaro: il plettro
Urania prese, e gli accordò quest'Inno
160 Che in minor suono il canto mio ripete.
?? Fra le tazze d'ambrosia imporporate,
Concittadine degli Eterni e gioja
De' paterni conviti eran le Muse
Ne' palagi d'Olimpo, e le terrene
165 Valli non use a visitar; ma primo,
Scola e conforto de la vita, in terra
Di Giove il cenno le inviò.
Vedea
Giove da l'alto serpeggiar già folta
La vaga mortale orma, e sotto il pondo
170 Di tutti i mali andar curvata e cieca
L'umana stirpe: del rapito foco
Piena gli parve la vendetta; e a l'ira
Spuntate avea l'acri saette il tempo.
Alfin più mite ne l'eterno senno
175 Consiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse,
E troppo omai le Dire empio governo
Fer de la terra; assai ne' petti umani
Commiser d'odj, e volser prone al peggio
Le mortali sentenze.
Di felici
180 Genj una schiera al Dio facea corona,
Inclita schiera di Virtù (ché tale
Suona qua giù lor nome).
A questi in pria
Scorrer la terra e perseguir le crude
De l'uom nemiche ed a più miti voglie
185 Ricondur l'infelice, impose il Dio.
Al basso mondo ove la luce alterna,
Sceser gli spirti obbedienti, e tutto
Ricercarlo, ma in van; ché non levossi
A tanto raggio de' mortali il guardo;
190 E di Giove il voler non s'adempìa.
Però baldanza a quel voler non tolse
Difficoltà che a l'impotente è freno,
Stimolo al forte; essa al pensier di Giove
Novo propose esperimento.
Al desco
195 Del Tonante le Muse una concorde
Movean d'inni esultanza; inebriate
Tacean le menti de gli Dei; fe' cenno
Ei la destra librando; e la crescente
Del volubile canto onda ristette
200 Improvviso.
Raggiò pacato il guardo
A le Vergini il Padre; e questo ad elle
D'amor temprato fe' volar comando,
Figlie, a bell'opra il mio voler ministre
Elegge or voi.
Non conosciute ancora
205 Errar vedete le Virtù fra i ciechi
Figli di Pirra: d'amor santo indarno
Arder tentaro i duri petti, e vinte
Farsi de l'ardue menti aprir le porte:
La forza sol de l'arti vostre il puote:
210 Là giù dunque movete: a voi seguaci
Vengan le Grazie; e senza voi men bella
Già la mia reggia il tornar vostro attende.
Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremi
Detti, dal ciglio e da le labra rise
215 Blandamente.
Al divino atto commossa
Balzò l'eterea vetta, e d'improvviso
Di tutta luce biondeggiò l'Olimpo.
Nel primo aspetto de la terra intanto
Il lungo duol de le Virtù neglette
220 Vider le Muse: ma di lor la prima
Chi fu che volse le propizie cure
I bei precetti ad avverar del Padre?
Calliope fu che fra i mortali accorta
Orfeo trascelse; e sì l'amò che il nome
225 A lui di figlio non negò.
Vicina
A l'orecchio di lui, ma non veduta,
Stette la Diva, e de l'alunno al core
Sciolse la bella voce onde si noma.
Il bel consiglio di Calliope tutte
230 Imitar le sorelle; e d'un eletto
Mortal maestra al par fatta ciascuna,
L'alme col canto ivan tentando, e l'ira
Vincea quel canto de le ferree menti.
Così dal sangue e dal ferino istinto
235 Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo
Di lor, che a terra ancor tenea il costume
Che del passato l'avvenir fa servo,
Levar di nova forza avvalorato.
E quei gli occhi giraro, e vider tutta
240 La compagnia de gli stranier divini,
Che a le Dire fea guerra.
Ove furente
Imperversar la Crudeltà solea,
Orribil mostro che ferisce e ride,
Vider Pietà che, mollemente intorno
245 Ai cor fremendo, dei veduti mali
Dolor chiedea; Pietà, de gl'infelici
Sorriso, amabil Dea.
Feroce e stolta
Con alta fronte passeggiar l'Offesa
Vider, gl'ingegni provocando, e mite
250 Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,
Lo spontaneo Perdon che con la destra
Cancella il torto e nella manca reca
Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia.
Blando a la Dira ei s'offeria: seguace
255 Lenta ma certa, l'orme sue ricalca
Nemesi, e quando inesaudito il vede,
Non fa motto, ed aspetta.
Un giorno al fine
Ne gl'iterati giri, orba dinanzi
Le vien l'Offesa: al tacit' arco impone
260 Nemesi allor l'amata pena; aggiunge
L'aerea punta impreveduta il fianco,
E l'empio corso allenta.
Inonorata
La Fatica mirar, che gli ermi intorno
Campi invano additava, a cui per anco
265 Non chiedea de la messe il pigro ferro
Gli aurei doni dovuti: a lei compagno
L'Onor si fea; se forse a la sua luce
Più cara a l'occhio del mortal venisse
L'utile Dea.
Vider la Fede, immota
270 Servatrice dei giuri, e l'arridente
Ospital Genio che gl'ignoti astringe
Di fraterna catena; e tutta in fine
La schiera dia ne l'opra affaticarsi.
Videro, e novo di pietà, d'amore
275 Ne gli attoniti surse animi un senso,
Che infiammando occupolli.
E già de' lieti
Principj in cor secure, il plettro e l'arte
Sacra del plettro ai figli lor le Muse
Donar, le Grazie il dilettar donaro
280 E il suader potente.
Essi a la turba
Dei vaganti fratelli ivan cantando
Le vedute bellezze.
Al suon che primo
Si sparse a l'aura, dispogliò l'antico
Squallor la terra, e rise: e tu qual fosti,
285 Che provasti, o mortal, quando sul core
La prima stilla d'armonia ti scese?
Quale a l'ara de' Numi allor che il sacro
Tripode ferve, e tremolando rosse
Su le brage stridenti erran le fiamme,
290 Se la man pia del sacerdote in esse
Versi copia d'incenso, ecco di bruno
Pallor vestirsi il foco, e dal placato
Ardor repente un vortice s'innalza
Tacito, e tutto d'odorata nebbia
295 Turba l'etere intorno e lo ricrea;
Tal su i cori cadea rorido, e l'ira
V'ammorzava quel canto, e dolce, in vece,
Di carità, di pace vi destava
Ignota brama.
A l'uom così le prime
300 Virtù fur conosciute onde beata,
Quanto ad uom lice, e riposata e bella
Fassi la vita.
Allor in cor portando
Il piacer de l'evento, e la divina
Giocondità del beneficio in fronte,
305 A l'auree torri de l'Olimpo il volo
Rialzar le Camene.
Ivi le prove
De l'alma impresa e le fatiche e il fine
Dissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,
Da la bocca di lui scorrea quel dolce
310 Canto a l'orecchio dei miglior, la lode.
Ma stagion lunga ancor volta non era,
Che ne le Nove ritornate un caro
De la terra desio nacque; ché ameno
Oltre ogni loco a rivedersi è quello
315 Che un gentil fatto ti rimembri: e questa
Elesser sede che secreta intorno
Religion circonda, e, l'arti antiche
Esercitando ancor, l'aura divina
Spirano a pochi in fra i viventi, e dànno
320 Colpir le menti d'immortal parola.
E te dal nascer tuo benigna in cura
Ebbe, o Pindaro, Urania.
E s'oggi, o figlio,
Tanto amor non ti valse, ell'è d'un Nume
Vendetta: incauto, che a le Grazie il culto
325 Negasti, a l'alme del favor ministre
Dee, senza cui né gl'Immortai son usi
Mover mai danza o moderar convito.
Da lor sol vien se cosa in fra i mortali
È di gentile, e sol qua giù nel canto
330 Vivrà che lingua dal pensier profondo
Con la fortuna de le Grazie attinga;
Queste implora coi voti, ed al perdono
Facili or piega.
E la rapita lode
Più non ti dolga.
A giovin quercia accanto
335 Talor felce orgogliosa il suolo usurpa,
E cresce in selva, e il gentil ramo eccede
Col breve onor de le digiune frondi:
Ed ecco il verno la dissipa; e intanto
Tacitamente il solitario arbusto
340 Gran parte abbranca di terreno, e, mille
Rami nutrendo nel felice tronco,
Al grato pellegrin l'ombra prepara.
Signor così de gl'inni eterni, un giorno,
Solo in Olimpia regnerai: compagna
345 Questa lira al tuo canto, a te sovente
Il tuo destino e l'amor mio rimembri.
?
Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,
Candida luce la ricinse: aperte
Le azzurre penne s'agitar sul tergo,
350 Mentre nel folto de la selva al guardo
Del suo Poeta s'involò.
La Diva
Ei riconobbe, e di terror, di lieta
Maraviglia compunto, il prezioso
Dono tenea: ne l'infiammata fronte
355 Fremean d'Urania le parole e l'alta
Promessa e il fato: e la commossa corda,
Memore ancor del pollice divino,
Con lungo mormorar gli rispondea.
XXI
[IL MIO GENIO]
Frammenti di LE VISIONI POETICHE
[1809-1810]
I
In quella età che, di veder bramoso,
Ancor l'ingegno a le cagioni è cieco,
Ascoso un Genio, anco a me stesso ascoso,
Disse improvviso al mio pensier: Son teco.
5 Ei le cose mi mostra che animoso
Primier, siccome io valgo, in luce io reco;
Sicché da lui le tenga ogni cortese
Cui non incresca de l'averle intese.
II
Qual compagno s'avesse a la sua via
10 Infin d'allora il giovinetto acerbo,
Tal savio il vide, e a lui ne presagia
Cose che or fora il rammentar superbo;
Ben di poche memorie in compagnia
Ne la custodia del mio cor le serbo;
15 Dubbio le serbo al paragon sincero
Del Tempo, certo testimon del vero.
III
Questo Genio talor de la mia mente
I freni abbandonati in man si piglia,
E volge ove a lui piaccia obbediente
20 Tutta l'alata dei pensier famiglia;
Tal che dal petto interno odo sovente
Una voce, che irata mi consiglia,
Che almen fra tanti il primo mio concetto
Torni al Fonte Divin d'ogni intelletto.
IV
25 Ei fra le piante, ove più spesso io sono
Di campi lodator non cittadino,
A visitarmi appare, e porta in dono
Le visioni ed il furor divino;
Ben talor fra le cure ed il frastuono
30 De la cittade a me vien pellegrino:
Dissimulando io nel mio cor l'accolgo:
L'alta presenza sua non sente il volgo.
V
Ma nel mistico punto allor che l'alma
Dai pigri nodi del sopor si scote,
35 Che sol di sé s'accorge, e lieve in calma,
Il soffio de la vita la percote;
Né giunta a soverchiarla ancor la salma
È de le cure e de le voglie note,
Sì che il pensier disprigionato e solo
40 Batte per aria più celeste il volo;
VI
Sempre in quell'ora il veggio, e risplendenti
Schiere ha con sè d'aerei simolacri;
Quai muovon per lo spazio i passi lenti,
E quai festivi ed in lor luce alacri;
45 E fan motti fra loro e parlamenti
Misteriosi, e balli ordiscon sacri:
Il Genio li governa; io stommi e guato
In tanta pompa di veder beato.
VII
Ma se le viste cose a narrar prendo,
50 Gran parte la memoria m'abbandona,
Ché, i terrestri pensier sopravvegnendo,
Al primo tocco di leggier s'adona;
E quel pur, che a fatica in carte io stendo,
Del concetto minor troppo mi suona,
55 Ch'io sento come il più divin s'invola,
Né può il giogo patir de la parola.
VIII
Lui che di tanto il guardo mio fe' degno
Io prego or che anco al dir siemi in aiuto,
Perch' egli è sacro e fuor del mortal regno
60 E troppo oltre il narrar quel che ho veduto.
Ei regga l'ali mie; da lui l'ingegno
Ne l'alta region sia sostenuto
Tanto che per la via novella e lunga
L'alto argomento del mio canto aggiunga.
IX
65 L'alto argomento del mio canto io dico,
Ben che tal volgo il chiamerà volgare
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
DOPO LA CONVERSIONE
CANZONI E ODI CIVILI
XXII
[APRILE 1814]
[22 Aprile 1814]
Fin che il ver fu delitto, e la Menzogna
Corse gridando, minacciosa il ciglio:
"Io son sola che parlo, io sono il vero",
Tacque il mio verso, e non mi fu vergogna,
5 Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
Ché non è sola lode esser sincero,
Né rischio è bello senza nobil fine.
Or che il superbo morso
Ad onesta parola è tolto alfine,
10 Ogni compresso affetto al labbro è corso;
Or s'udrà ciò che, sotto il giogo antico,
Sommesso appena esser potea discorso
Al cauto orecchio di privato amico.
Toglier lo scudo de le Leggi antique
15 E le da lor create, e il sacro patto
Mutar come si muta un vestimento;
O non mutate non serbarle, e inique
Farle serbar benché segrete, e in atto
Di chi pensa, tacendo, al tradimento;
20 E novi statuir padri alla legge,
E, perché amici ai buoni,
Sperderli a guisa di spregiato gregge:
Questi de' salvatori erano i doni;
Questo dicean fondarne a civil vita;
25 Qual se Italia, al chiamar d'esti Anfioni
Fosse dei boschi e de le tane uscita.
Anzi, fatta da lor donna e reina
La salutaro, o fosse frode o scherno:
D'armi reina, io dico, e di consigli;
30 Essa che ai piè de la imperante inchina
Stavasi, e fea di sue ricchezze eterno
Censo agli estranei, e de gli estrani al figli;
Che regger si dovea con l'altrui cenno;
Che ogni anno il suo tesoro
35 Su l'avara ponea lance di Brenno.
È ver; tributo nol dicean costoro,
Men turpe nome il vincitor foggiava.
Ma che monta, per Dio! Terra che l'oro
Porta, costretta, allo straniero, è schiava.
40 E svelti i figli al genitor dal fianco,
E aprir loro le porte, ed esser padre
Delitto, e quasi anco i sospir nocenti;
E tratti in ceppi, e noverati a branco,
Spinti ad offesa d'innocenti squadre
45 Con cui meglio starieno abbracciamenti.
Oh giorni! oh campi che nomar non oso!
Deh! per chi mai scorrea
Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?
O madri orbate, o spose, a chi crescea
50 Nel sen custode ogni viril portato?
Era tristezza esser feconde, e rea
Novella il dirvi: un pargoletto è nato!
Né gente or voglio cagionar de' mali
Che lo stesso bevea calice d'ira,
55 Né infonder tosco ne le piaghe aperte;
Ma dico sol ch'è da pensar da quali
Strette il perdono del Signor ne tira,
Perché sien maggior grazie a Lui riferte.
Ché quando eran più l'onte aspre ed estreme,
60 E al veder nostro, estinto
Ogni raggio parea d'umana speme;
Allor fuor de la nube arduo ed accinto,
Tuonando, il braccio salvator s'è mostro;
Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;
65 Che a ragion si rallegra il popol nostro.
Bel mirar da le inospiti latebre
Giovin raminghi al sospirato tetto
Correr securi, ed a le braccia pie;
E quei che in ferri astrinse ed in tenebre
70 L'odio potente, un motto od un sospetto
Al soavi tornar colloquj e al die;
E un favellar di gioja e di speranza,
E su le fronti scolta
De' concordi pensier l'alma fidanza;
75 E il nobil fior de' generosi a scolta
Durar ne l'armi e vigilar, mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando;
E quel che a dir le sue ragioni or chiama
80 Lunge da basso studio e da contesa,
Parlar per lei com'ella è desiosa,
E l'antica far chiara itala brama;
Che sarà, spero, a quei possenti intesa
Cui par che piaccia ogni più nobil cosa.
85 Vedi il drappello che al governo è sopra,
Animoso e guardingo,
Al ben di tutti aver rivolta ogni opra;
E i ministri di Dio dal mite aringo
Nel dritto calle ragunar la greggia.
Molte e gran cose in picciol fascio io stringo;
Ma qual parlar sì belle opre pareggia?
XXIII
IL PROCLAMA DI RIMINI
Frammento
[5] Aprile 1815
O delle imprese alla più degna accinto,
Signor che la parola hai proferita,
Che tante etadi indarno Italia attese;
Ah! quando un braccio le teneano avvinto
5 Genti che non vorrian toccarla unita,
E da lor scissa la pascean d'offese;
E l'ingorde udivam lunghe contese
Dei re tutti anelanti a farle oltraggio;
In te sol uno un raggio
10 Di nostra speme ancor vivea, pensando
Ch'era in Italia un suol senza servaggio,
Ch'ivi slegato ancor vegliava un brando.
Sonava intanto d'ogni parte un grido,
Libertà delle genti e gloria e pace!
15 Ed aperto d'Europa era il convito,
E questa donna di cotanto lido,
Questa antica, gentil, donna pugnace
Degna non la tenean dell'alto invito:
Essa in disparte, e posto al labbro il dito,
20 Dovea il fato aspettar dal suo nemico,
Come siede il mendico
Alla porta del ricco in sulla via;
Alcun non passa che lo chiami amico,
E non gli far dispetto è cortesia.
25 Forse infecondo di tal madre or langue
Il glorioso fianco? o forse ch'ella
Del latte antico oggi le vene ha scarse?
O figli or nutre, a cui per essa il sangue
Donar sia grave? o tali a cui più bella
30 Pugna sembri tra loro ingiuria farse?
Stolta bestemmia! eran le forze sparse,
E non le voglie; e quasi in ogni petto
Vivea questo concetto:
Liberi non sarem se non siam uni;
35 Ai men forti di noi gregge dispetto,
Fin che non sorga un uom che ci raduni.
Egli è sorto, per Dio! Sì, per Colui
Che un dì trascelse il giovinetto ebreo
Che del fratello il percussor percosse;
40 E fattol duce e salvator de' sui
Degli avari ladron sul capo reo
L'ardua furia soffiò dell'onde rosse;
Per quel Dio che talora a stranie posse,
Certo in pena, il valor d'un popol trade;
45 Ma che l'inique spade
Frange una volta, e gli oppressor confonde;
E all'uom che pugne per le sue contrade
L'ira e la gioia de' perigli infonde.
Con Lui, signor, dell'Itala fortuna
50 Le sparse verghe raccorrai da terra,
E un fascio ne farai ne la tua mano
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
XXIV
MARZO 1821
ODE
Alla illustre memoria
di
TEODORO KOERNER
poeta e soldato
della indipendenza germanica
morto sul campo di Lipsia
il giorno XVIII d'Ottobre MDCCCXIII
nome caro a tutti i popoli
che combattono per difendere
o per riconquistare
una patria.
[marzo 1821]
Soffermati sull'arida sponda,
Vòlti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel novo destino,
Certi in cor dell'antica virtù,
5 Han giurato: Non fia che quest'onda
Scorra più tra due rive straniere;
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l'Italia e l'Italia, mai più!
L'han giurato: altri forti a quel giuro
10 Rispondean da fraterne contrade,
Affilando nell'ombra le spade
Che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno stretto le destre;
Già le sacre parole son porte:
15 O compagni sul letto di morte,
O fratelli su libero suol.
Chi potrà della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
Del Ticino e dell'Orba selvosa
20 Scerner l'onde confuse nel Po;
Chi stornargli del rapido Mella
E dell'Oglio le miste correnti,
Chi ritogliergli i mille torrenti
Che la foce dell'Adda versò,
25 Quello ancora una gente risorta
Potrà scindere in volghi spregiati,
E a ritroso degli anni e dei fati,
Risospingerla ai prischi dolor:
Una gente che libera tutta,
30 O fia serva tra l'Alpe ed il mare;
Una d'arme, di lingua, d'altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
Con quel volto sfidato e dimesso,
Con quel guardo atterrato ed incerto,
35 Con che stassi un mendico sofferto
Per mercede nel suolo stranier,
Star doveva in sua terra il Lombardo;
L'altrui voglia era legge per lui;
Il suo fato, un segreto d'altrui;
40 La sua parte, servire e tacer.
O stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia, e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v'è.
45 Non vedete che tutta si scote,
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
Sotto il peso de' barbari piè?
O stranieri! sui vostri stendardi
50 Sta l'obbrobrio d'un giuro tradito;
Un giudizio da voi proferito
V'accompagna all'iniqua tenzon;
Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;
55 Ogni gente sia libera, e pera
Della spada l'iniqua ragion.
Se la terra ove oppressi gemeste
Preme i corpi de' vostri oppressori,
Se la faccia d'estranei signori
60 Tanto amara vi parve in quei dì;
Chi v'ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell'itale genti?
Chi v'ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v'udì?
65 Sì, quel Dio che nell'onda vermiglia
Chiuse il rio che inseguiva Israele,
Quel che in pugno alla maschia Giaele
Pose il maglio, ed il colpo guidò;
Quel che è Padre di tutte le genti,
70 Che non disse al Germano giammai:
Va', raccogli ove arato non hai;
Spiega l'ugne; l'Italia ti do.
Cara Italia! dovunque il dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio;
75 Dove ancor dell'umano lignaggio
Ogni speme deserta non è;
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura,
Dove ha lacrime un'alta sventura,
80 Non c'è cor che non batta per te.
Quante volte sull'Alpe spiasti
L'apparir d'un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne' deserti del duplice mar!
85 Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
Stretti intorno a' tuoi santi colori,
Forti, armati de' propri dolori,
I tuoi figli son sorti a pugnar.
Oggi, o forti, sui volti baleni
90 Il furor delle menti segrete:
Per l'Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
Al convito de' popoli assisa,
95 O più serva, più vil, più derisa
Sotto l'orrida verga starà.
Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d'altrui,
100 Come un uomo straniero, le udrà!
Che a' suoi figli narrandole un giorno,
Dovrà dir sospirando: io non c'era;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata quel dì non avrà.
XXV
IL CINQUE MAGGIO
[17-19 luglio 1821]
Ei fu.
Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore,
Orba di tanto spiro,
5 Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all'ultima
Ora dell'uom fatale;
Né sa quando una simile
10 Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio, e tacque;
15 Quando con vece assidua
Cadde, risorse, e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:
Vergin di servo encomio
20 E di codardo oltraggio,
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio;
E scioglie all'urna un cantico
Che forse non morrà.
25 Dall'Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
30 Dall'uno all'altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
L'ardua sentenza; nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
35 Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
Gioia d'un gran disegno,
L'ansia d'un cor che indocile
40 Serve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch'era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
45 La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull'altar.
Ei si nomò: due secoli,
50 L'un contro l'altro armati,
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe' silenzio, ed arbitro
S'assise in mezzo a lor.
55 E sparve, e i dì nell'ozio
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d'immensa invidia
E di pietà profonda,
D'inestinguibil odio
60 E d'indomato amor.
Come sul capo al naufrago
L'onda s'avvolve e pesa,
L'onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
65 Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan;
Tal su quell'alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
70 Narrar sé stesso imprese,
E sull'eterne pagine
Cadde la stanca man!
Oh! quante volte, al tacito
Morir d'un giorno inerte,
75 Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L'assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
80 Tende, e i percossi valli,
E il lampo de' manipoli,
E l'onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
85 Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò; ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
90 Pietosa il trasportò;
E l'avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desideri avanza,
95 Dov'è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
Bella immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
100 Ché più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
105 Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
INNI SACRI
XXVI
LA RISURREZIONE
[Aprile-23 giugno 1812]
È risorto: or come a morte
La sua preda fu ritolta?
Come ha vinto l'atre porte,
Come è salvo un'altra volta
5 Quei che giacque in forza altrui?
Io lo giuro per Colui
Che da' morti il suscitò.
È risorto: il capo santo
Più non posa nel sudario;
10 È risorto: dall'un canto
Dell'avello solitario
Sta il coperchio rovesciato:
Come un forte inebbriato
Il Signor si risvegliò.
15 Come a mezzo del cammino,
Riposato alla foresta,
Si risente il pellegrino,
E si scote dalla testa
Una foglia inaridita,
20 Che, dal ramo dipartita,
Lenta lenta vi risté:
Tale il marmo inoperoso,
Che premea l'arca scavata
Gittò via quel Vigoroso,
25 Quando l'anima tornata
Dalla squallida vallea,
Al Divino che tacea:
Sorgi, disse, io son con Te.
Che parola si diffuse
30 Tra i sopiti d'Israele!
Il Signor le porte ha schiuse!
Il Signor, l'Emmanuele!
O sopiti in aspettando,
È finito il vostro bando:
35 Egli è desso, il Redentor.
Pria di Lui nel regno eterno
Che mortal sarebbe asceso?
A rapirvi al muto inferno,
Vecchi padri, Egli è disceso:
40 Il sospir del tempo antico,
Il terror dell'inimico,
Il promesso Vincitor.
Ai mirabili Veggenti,
Che narrarono il futuro,
45 Come il padre ai figli intenti
Narra i casi che già furo,
Si mostrò quel sommo Sole,
Che, parlando in lor parole,
Alla terra Iddio giurò;
50 Quando Aggeo, quando Isaia
Mallevaro al mondo intero
Che il Bramato un dì verria;
Quando assorto in suo pensiero
Lesse i giorni numerati,
55 E degli anni ancor non nati
Daniel si ricordò.
Era l'alba; e, molli il viso,
Maddalena e l'altre donne
Fean lamento sull'Ucciso;
60 Ecco tutta di Sionne
Si commosse la pendice,
E la scolta insultatrice
Di spavento tramortì.
Un estranio giovinetto
65 Si posò sul monumento:
Era folgore l'aspetto,
Era neve il vestimento:
Alla mesta che 'l richiese
Diè risposta quel cortese:
70 È risorto; non è qui.
Via co' palii disadorni
Lo squallor della viola:
L'oro usato a splender torni:
Sacerdote, in bianca stola,
75 Esci ai grandi ministeri,
Tra la luce de' doppieri,
Il Risorto ad annunziar.
Dall'altar si mosse un grido:
Godi, o Donna alma del cielo;
80 Godi; il Dio, cui fosti nido
A vestirsi il nostro velo,
È risorto, come il disse:
Per noi prega: Egli prescrisse
Che sia legge il tuo pregar.
85 O fratelli, il santo rito
Sol di gaudio oggi ragiona;
Oggi è giorno di convito;
Oggi esulta ogni persona:
Non è madre che sia schiva
90 Della spoglia più festiva
I suoi bamboli vestir.
Sia frugal del ricco il pasto;
Ogni mensa abbia i suoi doni;
E il tesor, negato al fasto
95 Di superbe imbandigioni,
Scorra amico all'umil tetto,
Faccia il desco poveretto
Più ridente oggi apparir.
Lunge il grido e la tempesta
100 De' tripudi inverecondi:
L'allegrezza non è questa
Di che i giusti son giocondi;
Ma pacata in suo contegno,
Ma celeste, come segno
105 Della gioia che verrà.
Oh beati! a lor più bello
Spunta il sol de' giorni santi;
Ma che fia di chi rubello
Torse, ahi stolto! i passi erranti
110 Nel sentier che a morte guida?
Nel Signor chi si confida
Col Signor risorgerà.
XXVII
IL NOME DI MARIA
[9 novembre 1812-19 aprile 1813]
Tacita un giorno a non so qual pendice
Salia d'un fabbro nazaren la sposa;
Salia non vista alla magion felice
D'una pregnante annosa;
5 E detto: "Salve" a lei, che in reverenti
Accoglienze onorò l'inaspettata,
Dio lodando, sclamò: Tutte le genti
Mi chiameran beata.
Deh! con che scherno udito avria i lontani
10 Presagi allor l'età superba! Oh tardo
Nostro consiglio! oh degl'intenti umani
Antiveder bugiardo!
Noi testimoni che alla tua parola
Ubbidiente l'avvenir rispose,
15 Noi serbati all'amor, nati alla scola
Delle celesti cose,
Noi sappiamo, o Maria, ch'Ei solo attenne
L'alta promessa che da Te s'udia,
Ei che in cor la ti pose: a noi solenne
20 È il nome tuo, Maria.
A noi Madre di Dio quel nome sona:
Salve beata! che s'agguagli ad esso
Qual fu mai nome di mortal persona,
O che gli vegna appresso?
25 Salve beata! in quale età scortese
Quel sì caro a ridir nome si tacque?
In qual dal padre il figlio non l'apprese?
Quai monti mai, quali acque
Non l'udiro invocar? La terra antica
30 Non porta sola i templi tuoi, ma quella
Che il Genovese divinò, nutrica
I tuoi cultori anch'ella.
In che lande selvagge, oltre quei mari
Di sì barbaro nome fior si coglie,
35 Che non conosca de' tuoi miti altari
Le benedette soglie?
O Vergine, o Signora, o Tuttasanta,
Che bei nomi ti serba ogni loquela!
Più d'un popol superbo esser si vanta
40 In tua gentil tutela.
Te, quando sorge, e quando cade il die,
E quando il sole a mezzo corso il parte,
Saluta il bronzo, che le turbe pie
Invita ad onorarte.
45 Nelle paure della veglia bruna,
Te noma il fanciulletto; a Te, tremante,
Quando ingrossa ruggendo la fortuna,
Ricorre il navigante.
La femminetta nel tuo sen regale
50 La sua spregiata lacrima depone,
E a Te beata, della sua immortale
Alma gli affanni espone;
A Te che i preghi ascolti e le querele,
Non come suole il mondo, né degl'imi
55 E de' grandi il dolor col suo crudele
Discernimento estimi.
Tu pur, beata, un dì provasti il pianto,
Né il dì verrà che d'oblianza il copra:
Anco ogni giorno se ne parla; e tanto
60 Secol vi corse sopra.
Anco ogni giorno se ne parla e plora
In mille parti; d'ogni tuo contento
Teco la terra si rallegra ancora,
Come di fresco evento.
65 Tanto d'ogni laudato esser la prima
Di Dio la Madre ancor quaggiù dovea;
Tanto piacque al Signor di porre in cima
Questa fanciulla ebrea.
O prole d'Israello, o nell'estremo
70 Caduta, o da sì lunga ira contrita,
Non è Costei, che in onor tanto avemo,
Di vostra fede uscita?
Non è Davidde il ceppo suo? Con Lei
Era il pensier de' vostri antiqui vati,
75 Quando annunziaro i verginal trofei
Sopra l'inferno alzati.
Deh! a Lei volgete finalmente i preghi,
Ch'Ella vi salvi, Ella che salva i suoi;
E non sia gente né tribù che neghi
80 Lieta cantar con noi:
Salve, o degnata del secondo nome,
O Rosa, o Stella ai periglianti scampo,
Inclita come il sol, terribil come
Oste schierata in campo.
XXVIII
IL NATALE
[13 luglio-29 settembre 1813]
Qual masso che dal vertice
Di lunga erta montana,
Abbandonato all'impeto
Di rumorosa frana,
5 Per lo scheggiato calle
Precipitando a valle,
Batte sul fondo e sta;
Là dove cadde, immobile
Giace in sua lenta mole;
10 Né, per mutar di secoli,
Fia che riveda il sole
Della sua cima antica,
Se una virtude amica
In alto nol trarrà:
15 Tal si giaceva il misero
Figliol del fallo primo,
Dal dì che un'ineffabile
Ira promessa all'imo
D'ogni malor gravollo,
20 Donde il superbo collo
Più non potea levar.
Qual mai tra i nati all'odio,
Quale era mai persona,
Che al Santo inaccessibile
25 Potesse dir: perdona?
Far novo patto eterno?
Al vincitore inferno
La preda sua strappar?
Ecco ci è nato un Pargolo,
30 Ci fu largito un Figlio:
Le avverse forze tremano
Al mover del suo ciglio:
All'uom la mano Ei porge,
Che si ravviva, e sorge
35 Oltre l'antico onor.
Dalle magioni eteree
Sgorga una fonte, e scende,
E nel borron de' triboli
Vivida si distende:
40 Stillano mèle i tronchi
Dove copriano i bronchi,
Ivi germoglia il fior.
O Figlio, o Tu cui genera
L'Eterno, eterno seco;
45 Qual ti può dir de' secoli:
Tu cominciasti meco?
Tu sei: del vasto empireo
Non ti comprende il giro:
La tua parola il fe'.
50 E Tu degnasti assumere
Questa creata argilla?
Qual merto suo, qual grazia
A tanto onor sortilla?
Se in suo consiglio ascoso
55 Vince il perdon, pietoso
Immensamente Egli è.
Oggi Egli è nato: ad Efrata,
Vaticinato ostello,
Ascese un'alma Vergine,
60 La gloria d'Israello,
Grave di tal portato:
Da cui promise è nato,
Donde era atteso uscì.
La mira Madre in poveri
65 Panni il Figliol compose,
E nell'umil presepio
Soavemente il pose;
E l'adorò: beata!
Innanzi al Dio prostrata,
70 Che il puro sen le aprì.
L'Angel del cielo, agli uomini
Nunzio di tanta sorte,
Non de' potenti volgesi
Alle vegliate porte;
75 Ma tra i pastor devoti,
Al duro mondo ignoti,
Subito in luce appar.
E intorno a Lui, per l'ampia
Notte calati a stuolo,
80 Mille celesti strinsero
Il fiammeggiante volo;
E accesi in dolce zelo,
Come si canta in cielo,
A Dio gloria cantar.
85 L'allegro inno seguirono,
Tornando al firmamento:
Tra le varcate nuvole
Allontanossi, e lento
Il suon sacrato ascese,
90 Fin che più nulla intese
La compagnia fedel.
Senza indugiar, cercarono
L'albergo poveretto
Que' fortunati, e videro,
95 Siccome a lor fu detto,
Videro in panni avvolto,
In un presepe accolto,
Vagire il Re del Ciel.
Dormi, o Fanciul; non piangere;
100 Dormi, o Fanciul celeste:
Sovra il tuo capo stridere
Non osin le tempeste,
Use sull'empia terra,
Come cavalli in guerra,
105 Correr davanti a Te.
Dormi, o Celeste: i popoli
Chi nato sia non sanno;
Ma il dì verrà che nobile
Retaggio tuo saranno;
110 Che in quell'umil riposo,
Che nella polve ascoso,
Conosceranno il Re.
XXIX
LA PASSIONE
[3 marzo 1814-15 ottobre 1815]
O tementi dell'ira ventura,
Cheti e gravi oggi al tempio moviamo,
Come gente che pensi a sventura,
Che improvviso s'intese annunziar.
5 Non s'aspetti di squilla il richiamo;
Nol concede il mestissimo rito:
Qual di donna che piange il marito,
È la veste del vedovo altar.
Cessan gl'inni e i misteri beati,
10 Tra cui scende, per mistica via,
Sotto l'ombra de' pani mutati,
L'ostia viva di pace e d'amor.
S'ode un carme: l'intento Isaia
Proferì questo sacro lamento,
15 In quel dì che un divino spavento
Gli affannava il fatidico cor.
Di chi parli, o Veggente di Giuda?
Chi è costui che, davanti all'Eterno,
Spunterà come tallo da nuda
20 Terra, lunge da fonte vital?
Questo fiacco pasciuto di scherno,
Che la faccia si copre d'un velo,
Come fosse un percosso dal cielo,
Il novissimo d'ogni mortal?
25 Egli è il Giusto, che i vili han trafitto,
Ma tacente, ma senza tenzone;
Egli è il Giusto; e di tutti il delitto
Il Signor sul suo capo versò.
Egli è il santo, il predetto Sansone,
30 Che morendo francheggia Israele;
Che volente alla sposa infedele
La fortissima chioma lasciò.
Quei che siede sui cerchi divini,
E d'Adamo si fece figliolo;
35 Né sdegnò coi fratelli tapini
Il funesto retaggio partir:
Volle l'onte, e nell'anima il duolo,
E l'angosce di morte sentire,
E il terror che seconda il fallire,
40 Ei che mai non conobbe il fallir.
La repulsa al suo prego sommesso,
L'abbandono del Padre sostenne:
Oh spavento! l'orribile amplesso
D'un amico spergiuro soffrì.
45 Ma simìle quell'alma divenne
Alla notte dell'uomo omicida:
Di quel Sangue sol ode le grida,
E s'accorge che Sangue tradì.
Oh spavento! lo stuol de' beffardi
50 Baldo insulta a quel volto divino,
Ove intender non osan gli sguardi
Gl'incolpabili figli del ciel.
Come l'ebbro desidera il vino,
Nell'offese quell'odio s'irrita;
55 E al maggior dei delitti gl'incita
Del delitto la gioia crudel.
Ma chi fosse quel tacito reo,
Che davanti al suo seggio profano
Strascinava il protervo Giudeo,
60 Come vittima innanzi a l'altar,
Non lo seppe il superbo Romano;
Ma fe' stima il deliro potente,
Che giovasse col sangue innocente
La sua vil sicurtade comprar.
65 Su nel cielo in sua doglia raccolto
Giunse il suono d'un prego esecrato:
I Celesti copersero il volto:
Disse Iddio: Qual chiedete sarà.
E quel Sangue dai padri imprecato
70 Sulla misera prole ancor cade,
Che, mutata d'etade in etade,
Scosso ancor dal suo capo non l'ha.
Ecco appena sul letto nefando
Quell'Afflitto depose la fronte,
75 E un altissimo grido levando,
Il supremo sospiro mandò:
Gli uccisori esultanti sul monte
Di Dio l'ira già grande minaccia,
Già dall'ardue vedette s'affaccia,
80 Quasi accenni: Tra poco verrò
O gran Padre! per Lui che s'immola,
Cessi alfine quell'ira tremenda;
E de' ciechi l'insana parola
Volgi in meglio, pietoso Signor.
85 Sì, quel Sangue sovr'essi discenda;
Ma sia pioggia di mite lavacro:
Tutti errammo; di tutti quel sacro -
santo Sangue cancelli l'error.
E tu, Madre, che immota vedesti
90 Un tal Figlio morir sulla croce,
Per noi prega, o regina de' mesti,
Che il possiamo in sua gloria veder;
Che i dolori, onde il secolo atroce
Fa de' boni più tristo l'esiglio,
95 Misti al santo patir del tuo Figlio,
Ci sian pegno d'eterno goder.
XXX
LA PENTECOSTE
[21 giugno-2 ottobre 1817]
Madre de' Santi, immagine
Della città superna,
Del sangue incorruttibile
Conservatrice eterna;
5 Tu che, da tanti secoli,
Soffri, combatti e preghi,
Che le tue tende spieghi
Dall'uno all'altro mar;
Campo di quei che sperano;
10 Chiesa del Dio vivente,
Dov'eri mai? qual angolo
Ti raccogliea nascente,
Quando il tuo Re, dai perfidi
Tratto a morir sul colle,
15 Imporporò le zolle
Del suo sublime altar?
E allor che dalle tenebre
La diva spoglia uscita,
Mise il potente anelito
20 Della seconda vita;
E quando, in man recandosi
Il prezzo del perdono,
Da questa polve al trono
Del Genitor salì;
25 Compagna del suo gemito,
Conscia de' suoi misteri,
Tu, della sua vittoria
Figlia immortal, dov'eri?
In tuo terror sol vigile,
30 Sol nell'obblio secura,
Stavi in riposte mura,
Fino a quel sacro dì,
Quando su te lo Spirito
Rinnovator discese
35 E l'inconsunta fiaccola
Nella tua destra accese;
Quando, segnal de' popoli,
Ti collocò sul monte,
E ne' tuoi labbri il fonte
40 Della parola aprì.
Come la luce rapida
Piove di cosa in cosa,
E i color vari suscita
Dovunque si riposa;
45 Tal risonò moltiplice
La voce dello Spiro:
L'Arabo, il Parto, il Siro
In suo sermon l'udì.
Adorator degl'idoli,
50 Sparso per ogni lido,
Volgi lo sguardo a Solima,
Odi quel santo grido:
Stanca del vile ossequio,
La terra a Lui ritorni:
55 E voi che aprite i giorni
Di più felice età,
Spose, che desta il subito
Balzar del pondo ascoso;
Voi già vicine a sciogliere
60 Il grembo doloroso;
Alla bugiarda pronuba
Non sollevate il canto
Cresce serbato al Santo
Quel che nel sen vi sta.
65 Perché, baciando i pargoli,
La schiava ancor sospira?
E il sen che nutre i liberi
Invidiando mira?
Non sa che al regno i miseri
70 Seco il Signor solleva?
Che a tutti i figli d'Eva
Nel suo dolor pensò?
Nova franchigia annunziano
I cieli, e genti nove;
75 Nove conquiste, e gloria
Vinta in più belle prove;
Nova, ai terrori immobile
E alle lusinghe infide,
Pace, che il mondo irride,
80 Ma che rapir non può.
O Spirto! supplichevoli
A' tuoi solenni altari,
Soli per selve inospite,
Vaghi in deserti mari,
85 Dall'Ande algenti al Libano,
D'Erina all'irta Haiti,
Sparsi per tutti i liti,
Uni per Te di cor,
Noi T'imploriam! Placabile
90 Spirto, discendi ancora,
A' tuoi cultor propizio,
Propizio a chi T'ignora;
Scendi e ricrea; rianima
I cor nel dubbio estinti;
95 E sia divina ai vinti
Mercede il vincitor.
Discendi Amor; negli animi
L'ire superbe attuta:
Dona i pensier che il memore
100 Ultimo dì non muta;
I doni tuoi benefica
Nutra la tua virtude;
Siccome il sol che schiude
Dal pigro germe il fior;
105 Che lento poi sull'umili
Erbe morrà non còlto,
Né sorgerà coi fulgidi
Color del lembo sciolto,
Se fuso a lui nell'etere
110 Non tornerà quel mite
Lume, dator di vite,
E infaticato altor.
Noi T'imploriam! Ne' languidi
Pensier dell'infelice
115 Scendi piacevol alito,
Aura consolatrice:
Scendi bufera ai tumidi
Pensier del violento;
Vi spira uno sgomento
120 Che insegni la pietà.
Per Te sollevi il povero
Al ciel, ch'è suo, le ciglia;
Volga i lamenti in giubilo,
Pensando a Cui somiglia;
125 Cui fu donato in copia,
Doni con volto amico,
Con quel tacer pudico,
Che accetto il don ti fa.
Spira de' nostri bamboli
130 Nell'ineffabil riso;
Spargi la casta porpora
Alle donzelle in viso;
Manda alle ascose vergini
Le pure gioie ascose;
135 Consacra delle spose
Il verecondo amor.
Tempra de' baldi giovani
Il confidente ingegno;
Reggi il viril proposito
140 Ad infallibil segno;
Adorna le canizie
Di liete voglie sante;
Brilla nel guardo errante
Di chi sperando muor.
XXXI
[OGNISSANTI]
Frammenti
...in omnibus Christus.
PAUL, Col., III, 11.
Multa quidem membra, unum autem corpus.
Cor., 1, XII, 20.
Omnes enim vos estis Unum in Christo Jesu.
Gal., III, 28.
[1821 (Parenti); novembre 1830 (Busetto); 1847 (Lesca)]
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
Cercando col cupido sguardo,
Tra il vel della nebbia terrena,
Quel sol che in sua limpida piena
V'avvolge or beati lassù;
5 Il secol vi sdegna, e superbo
Domanda qual merto agli altari
V'addusse; che giovin gli avari
Tesor di solinghe virtù.
A Lui che nell'erba del campo
10 La spiga vitale ripose,
Il fil di tue vesti compose,
Del farmaco i succhi temprò;
Che il pino inflessibile agli austri,
Che docile il salcio alla mano,
15 Che il larice ai verni, e l'ontano
Durevole all'acque creò;
A Quello domanda, o sdegnoso,
Perché sull'inospite piagge,
All'alito d'aure selvagge,
20 Fa sorgere il tremulo fior,
Che spiega dinanzi a Lui solo
La pompa del candido velo,
Che spande ai deserti del cielo
Gli olezzi del calice, e muor.
25 E voi che, gran tempo, per ciechi
Sentier di lusinghe funeste
Correndo all'abisso, cadeste
In grembo a un'immensa pietà;
E come l'umor, che nel limo
30 Errava sotterra smarrito,
Da subita vena rapito,
Che al giorno la strada gli fa,
Si lancia, e seguendo l'amiche
Angustie con ratto gorgoglio,
35 Si vede d'in cima allo scoglio
In lucido sgorgo apparir;
Sorgeste già puri, e la vetta,
Sorgendo, toccaste, dolenti
E forti, a magnanimi intenti
40 Nutrendo nel pianto l'ardir;
Un timido ossequio non veli
Le piaghe che il fallo v'impresse:
Un segno divino sovr'esse
La man, che le chiuse, lasciò.
45 Tu sola a Lui festi ritorno
Ornata del primo suo dono;
Te sola più su del perdono
L'Amor che può tutto locò;
Te sola dall'angue nemico
50 Non tocca né prima né poi;
Dall'angue, che appena su noi
L'indegna vittoria compiè,
Traendo l'oblique rivolte,
Rigonfio e tremante, tra l'erba,
55 Sentì sulla testa superba
Il peso del puro tuo piè.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
XXXII
[DIO NELLA NATURA]
Tu sì che a noi t'ascondi:
L'occhio ti cerca invano;
Ma l'opre di tua mano
Ti svelano, o Signor.
5 Tutto del tuo gran nome
In terra, in ciel, favella;
Risplende in ogni stella,
È scritto in ogni fior.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
RIME DI DEVOZIONE
XXXIII
SUL NOME DI MARIA
[Settembre 1823]
Santo nome, in fra i mortali
Quale è il nome che ti avanza?
Tu sei nome di speranza,
Tu sei nome di pietà.
5 Se d'Adamo il pazzo orgoglio
Al Signor ci fa ribelli,
Per te, o Madre, siam fratelli
Di Colui che ci creò.
Per te ancora al Ciel perduto
10 Nostra mente si solleva;
Tu ci togli al fallo d'Eva,
Tu ci torni al primo onor.
Quando pesa sul cuor mio
L'ingiustizia dei mortali,
15 Quando a me verranno i mali,
Il tuo nome invocherò.
Se dei troppi falli miei
Caggio sotto all'empie some,
Ripetendo il tuo bei nome
20 Io mi sento confortar.
Egli è umìl non men che mondo,
Questo giglio delle valli;
Né perch'Ella è senza falli
Mai rigetta chi fallì.
25 Ché ben sa che s'Ella intatta
Tutto corse il tristo esigilo,
È sol grazia del suo Figlio,
Che la volle preservar.
Tu se' gioia ai cuori afflitti,
30 Tu se' guida ai passi erranti,
Tu se' stella ai naviganti,
Tu se' grazia ai regnator.
Se la vita è un tristo calle
Tutto sparso di ruine,
35 Questa rosa in fra le spine
Il cammino allegrerà.
Tu conosci 1 nostri guai:
Per noi dunque il Figliuoi prega;
Se ad ogni uom Egli si piega,
40 Per la Madre che farà?
Non ti chieggo della terra
Le delizie passeggere,
Ne lo scettro del potere
Ne la febbre degli onor;
45 Prega Lui che alle nostre alme
Verso il Ciel dia corso e lena,
E la polvere terrena
Ci dia forza a disprezzar.
Fa che sempre io mi ricordi
50 Il colpevol viver mio,
Onde alfin, placato e pio,
Lo dimentichi il Signor;
Onde possa, ancor che indegno,
Rimirarlo senza velo,
55 E udir gli angioli del Cielo
Il tuo nome risuonar.
XXXIV
IL NATALE DEL 1833
Tuam ipsius animam pertransivit gladius.
LUC, II, 35.
[14 marzo 1835]
Sì, che tu sei terribile!
Sì, che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine,
Sovra quel sen pietoso,
5 Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
È fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.
Vedi le nostre lagrime,
10 Intendi i nostri gridi,
Il voler nostro interroghi,
E a tuo voler decidi.
Mentre, a stornare il fulmine
Trepido il prego ascende,
15 Sordo il tuo fulmin scende
Dove tu vuoi ferir.
Ma tu pur nasci a piangere;
Ma da quel cor ferito
Sorgerà pure un gemito,
20 Un prego inesaudito;
E Questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
Nel guardo tuo beata,
Ebra del tuo respir,
25 Vezzi or ti fa; ti supplica
Suo pargolo, suo Dio;
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: È mio!
Un dì con altro palpito,
30 Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte,
E ti vedrà morir.
Onnipotente .
.
.
.
.
XXXV
STROFE PER UNA PRIMA COMUNIONE
Strofe da cantarsi da un coro di giovanetti alla prima Comunione nella I[mperial] R[egia] Chiesa prepositurale di Santa Maria della Scala in S.
Fedele, Milano.
PRIMA DELLA MESSA
[1832]
Sì, Tu scendi ancor dal cielo;
Sì, Tu vivi ancor tra noi;
Solo appar, non è, quel velo:
Tu l'hai detto; il credo, il so;
5 Come so che tutto puoi,
Che ami ognora i tuoi redenti,
Che s'addicono 1 portenti
A un amor che tutto può.
ALL'OFFERTORIO
[1837]
Chi dell'erbe lo stelo compose?
10 Chi ne trasse la spiga fiorita?
Chi nel tralcio fe' scorrer la vita?
Chi v'ascose dell'uve il tesor?
Tu, quel Grande, quel Santo, quel Bono,
Che or qual dono il tuo dono riprendi;
15 Tu, che in cambio, qual cambio! ci rendi
Il tuo Corpo, il tuo Sangue, o Signor.
Anche i cor che t'offriamo son tuoi:
Ah! il tuo dono fu guasto da noi;
Ma quell'alta Bontà che li fea,
20 Li riceva quali sono, a mercè;
E vi spiri, col soffio che crea,
Quella fede che passa ogni velo,
Quella speme che more nel cielo,
Quell'amor che s'eterna con Te.
ALLA CONSACRAZIONE
[1832]
25 Ostia umìl, Sangue innocente;
Dio presente, Dio nascoso;
Figlio d'Eva, eterno Re!
China il guardo, Iddio pietoso,
A una polve che Ti sente,
30 Che si perde innanzi a Te.
PRIMA DELLA COMUNIONE
[1834]
Questo terror divino,
Questo segreto ardor,
È che mi sei vicino,
È l'aura tua, Signor!
35 Sospir dell'alma mia,
Sposo, Signor, che fia
Nel tuo superno amplesso!
Quando di Te Tu stesso
Mi parlerai nel cor!
ALLA COMUNIONE
[1834]
40 Con che fidente affetto
Vengo al tuo santo trono,
M'atterro al tuo cospetto,
Mio Giudice, mio Re!
Con che ineffabil gaudio
45 Tremo dinanzi a Te!
Cenere e colpa io sono:
Ma vedi chi T'implora,
Chi vuole il tuo perdono,
Chi merita, Chi adora,
50 Chi rende grazie in me.
DOPO LA COMUNIONE
[1832]
Sei mio; con Te respiro:
Vivo di Te, gran Dio!
Confuso a Te col mio,
Offro il tuo stesso amor.
55 Empi ogni mio desiro;
Parla, ché tutto intende,
Dona, ché tutto attende,
Quando T'alberga, un cor.
XXXVI
PER LA PRIMA COMUNIONE
Vieni, o Signor: ripòsati,
Regna nei nostri petti,
Sgombra da' nostri affetti
Ciò che immortal non è.
5 Discendi: ogni tua visita
Prepari un tuo ritorno,
Fino a quell'aureo giorno
Che ci rapisca in Te.
EPIGRAMMI, SCHERZI E COMPLIMENTI
XXXVII
[PARODIA D'ARIETTA MELODRAMMATICA
METASTASIANA]
Tu vuoi saper s'io vado,
Tu vuoi saper s'io resto:
Sappi, ben mio, che questo
Non lo saprai da me.
5 Non che il pudor nativo
Metta alla lingua il morso,
O che impedisca il corso
Quel certo non so che.
Vuoi ch'io dica perché non lo dico?
10 Non lo dico, oh destino inimico!
Non lo dico, oh terribile intrico!
Non lo dico, perché non lo so.
Lo chieggo alla madre
Con pianti ed omei:
15 Risponde: Vorrei
Saperlo da te.
Se il chieggo alla sposa:
Decidi a tuo senno,
Risponde: un tuo cenno
20 È legge per me.
Se il chieggo a me stesso
.
.
.
.
.
.
.
.
.
XXXVIII
[I VERSI DEL CONTE GIOVIO]
[1814?]
Conte Giovio tanto visse
Ch' a' suoi versi sopravvisse.
XXXIX
L'IRA D'APOLLO
ODE [BURLESCA]
[Per la Lettera semiseria di Grisostomo]
[1816]
Vidi (credi, se il vuoi, volgo profano!)
Vidi là dove innalzasi
E nel Lario si specchia il Baradello
Il Delfico calar Nume sovrano,
5 E su la torre aerea
Ristar dell'antichissimo Castello.
Gli spirava dal volto ira divina,
E da la chioma odor d'ambrosia fina.
Sperai che, quale in su la rupe Ascrea
10 O sul giogo Parnasio,
Almo suono ei trarria da la sua cetra;
Ma il Nume che tutt'altro in testa avea.
Piegando il braccio eburneo,
Stese la man sul tergo a la faretra:
15 Tolse uno stral, su l'arco d'oro il tese;
Lungo e profondo mormorio s'intese;
Ove su l'ampio verdeggiar dei prati
Sacra a le belle Najadi,
Sorge l'alta Milan, la mira ei volse.
20 Me prese alto terror pei Lari amati,
E da le labbra tremule
La voce a stento ad implorar si sciolse:
"Ferma! che fai? Deh non ferir, perdona,
Santo figlio di Giove e di Latona!"
25 Al dardo impaziente il vol ritenne,
E a me rivolto, in placido
Sembiante, a dir mi prese il dio di Delo:
"Fino a noi da que' lidi il grido venne
D'uom che sfidare attentasi
30 Tutti gli Dei, tutte le Dee del cielo,
E l'audacia di lui resta impunita?
Pera l'empia città che il lascia in vita!"
"Deh! per Leucotoe", io dissi, "e per Giacinto,
Per la gentil Coronide,
35 Per quella Dafne più di tutte amata,
De la cui spoglia verde il capo hai cinto,
Poni lo sdegno orribile,
Frena la furia de la destra irata;
Pensa, o signor di Delfo, almo Sminteo,
40 Che se enorme è la colpa, un solo è il reo.
Un solo ha fatto ai numi vostri insulto,
Spinto da l'atre Eumenidi;
Egli è il solo fra noi che non vi adora;
Non obliar per lui degli altri il culto:
45 Vedi l'are che fumano,
Vedi il popolo pio che a voi le infiora,
Ascolta i preghi, odi l'umil saluto,
Che il Cordusio ti manda e il Bottonuto.
Tutto è pieno di voi.
Qual rio cultore,
50 Non invocata Cerere,
I semi affida a l'immortal Tellure?
Ad ardua impresa chi rivolge il core,
Se a la Cortina Delfica
Non tenta il velo de le sorti oscure?
55 Quale è il nocchier che sciolga al vento i lini,
Pria di far sacrificio ai Dei marini?
Voi, se Fortuna a noi concede il crine
O volge il calvo, amabile
E perenne argomento ai canti nostri:
60 Così le Greche genti e le Latine
Voi Signori cantavano
E degli Olimpj e dei Tartarei chiostri:
E noi, che in voi crediamo al par di loro,
Non sacreremo a voi le cetre d'oro?
65 Figlio di Rea, tu faretrato arciero,
De la donzella Sicula
Buon rapitor, che regno hai sopra l'ombre,
Tu che dal suolo uscir festi il destriero,
Marte, Giunone e Venere,
70 Tu che il virgineo crin d'ulivo adombre,
Io per me mi protesto, o Numi santi,
Umilissimo servo a tutti quanti.
Fa' luogo, o biondo Nume, al mio riclamo:
Non render risponsabile,
75 Per un sol che peccò, tutto un paese;
Lascia tranquilli noi che rei non siamo;
E le misure energiche
Sol contra l'empio schernitor sian prese".
Tacqui, e m'accorsi dal placato aspetto
80 Che il biondo Dio gustava il mio progetto.
Lo stral ripose nel turcasso, e disse:
"Poi che quest'empio attentasi
Esercitar le nostre arti canore,
Queste orribili pene a lui sien fisse:
85 Lunge dai gioghi aonii
Sempre dimori e dalle nove suore;
Non abbia di Castalia onda ristauro,
Ne mai gli tocchi il crin fronda di lauro.
Giammai non monti il corridor che vola,
90 Ma intorno al vero aggirisi,
Viaggiando pedestre il vostro mondo.
Non spiri aura di Pindo in sua parola:
Tutto ei deggia da l'intimo
Suo petto trarre e dal pensier profondo,
95 E sia costretto lasciar sempre in pace
L'ingorda Libitina e il Veglio edace.
E perché privo d'ogni gioja e senza
Speme si roda il perfido,
Lira eburna gli tolgo e plettro aurato".
100 Un gel mi prese alla feral sentenza;
E, sbigottito e pallido,
Esclamai: "Santi Numi, egli è spacciato!
E come vuoi che senza queste cose
Ei se la cavi?".
"Come può", rispose.
105 Tacque, e ristette il Nume, simigliante
A la sua sacra immagine
Che per Greco scalpel nel marmo spira,
Dove negli atti e nel divin sembiante
Vedi la calma riedere,
110 E sul labbro morir la turgid'ira:
Spunta il piacer de la vittoria in viso,
Mirando il corpo del Pitone anciso.
XL
[A GIULIO, LODATORE DI "PAZZI SONETTANTI", O CLASSICISTI]
[1816-1817]
Dunque il tuo Lesbio per l'estinta Nice
Va su' tumuli erbosi a sparger pianti
Veracemente come in versi il dice?
Oh, che mi narri di siffatti vanti
5 Sentimentali che a bandir lor nome
Spandon cotesti pazzi sonettanti?
Poi gridan che ahi! gli è indarno offrir le chiome
Alla Tartarea Giuno, e abbracciar l'are
Dell'Eumenidi pie per vincer, come
10 Pur non fu dato al Tracio Orfeo, le avare
Fauci dell'atra Dite, e all'aureo sole
Ricondur le rapite anime care.
E sentono costoro? e in lor parole
Dolor tu forse, o amor, od altro senti
15 In mezzo al ghiaccio di cotante fole?
Male il Poeta ti pingesti in mente,
Diletto Giulio, e il tuo veder fallace
S'accusa in tal subbietto anco ebbramente.
Come i versi lodar puoi del dicace
20 Spensierato Berillo, ond'è schernita
Del buon Pacomio la vista verace
Perché incerto è nell'opre, ed ogni ardita
Sentenza il punge, e fugge i crocchi, e gode
Trar taciturna e solitaria vita?
25 Poi veggo il duolo che ti cruccia e rode
Se la scola t'ingiunge altra lettura
Che poemetti, canzoncine ed ode.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
XLI
IL CANTO XVI DEL TASSO
DRAMMA
[1817]
Interlocutori:
ARMIDA - RINALDO - UBALDO - CARLO
La scena rappresenta gli orti di Armida.
ATTO PRIMO
Scena I
RINALDO solo
(col ventaglio in mano, all'ombra).
Oh! che caldo fa in questo paese!
Un più forte giammai non m'accese;
Nemmen quello del Nume d'Amor.
E quand'ho la camicia sudata,
5 Non v'è alcun che me l'abbia cambiata;
Mi s'asciuga sul corpo il sudor.
Dacché mi trovo in questo
Non so se labirinto ovver palazzo
Rotondo, e di figura irregolare,
10 Giammai non vidi un uomo a cui parlare:
Tutto lo spasso mio
Fu il contar le colonne; e son seimila,
Ma l'architetto non le ha messe in fila.
Potessi almen sapere
15 Quel che fa Armida dentro il suo casotto!
Vi sta dalle otto del mattino alle otto
Della sera: ma zitto...
appunto è dessa;
Dessa la sola fiamma del cor mio;
Ma è troppo giusto, ché son solo anch'io.
Scena II
ARMIDA e DETTO
ARMIDA
20 Che fai, bell'idol mio?
RINALDO
Il solito, o mia stella:
In questa parte e in quella
Vado portando il piè.
E tu che fai, mio bene?
25 Se la domanda è onesta.
ARMIDA
(accennando il casotto).
Da quella parte a questa
Ho già portato il piè.
Vedi, mio bel guerriero,
Quanto io feci per te? Ti addussi in questo
30 Solitario ritiro, e ne raccolsi
Quanto di bel sa far natura ed arte,
Se avvien che la natura
Co' suoi d'imitazion tratti più arditi
"L'imitatrice sua scherzando imiti".
35 E perché nulla al sommo piacer manchi
Il popolai di bella
E scelta compagnia,
Orsi, tigri, leoni, aquile, e serpi:
E quel ch'è più di tutti, un papagallo
40 Che nel periodar non fé mai fallo.
RINALDO
Ma pur qualche vivente
Che parlasse per uso, e non per caso,
Non farebbe difetto.
ARMIDA
Quando l'esser soletto
45 Con l'adorata donna
Spiacque ad amante mai?
RINALDO
Quando s'annoja.
ARMIDA
Deh! non dir tal parola, o cara gioja.
RINALDO
Se 'l dissi, ad arte e non a caso il fei:
Se non dicessi il resto io creperei.
ARMIDA
50 Ohimè! che vuol dir questo?
RINALDO
Vuol dir: panico pesto.
È tempo alfine
Ch'io parli, e tu m'ascolti; e se finora
Fui di poche parole...
Basta: so quel che dico:
55 La colpa non fu mia, ma d'un amico.
È quello il modo, insomma,
Di trattare un guerriero innamorato?
Lasciarlo sempre solo
A parlar con le belve e colle piante:
60 "Se non quando è con te romito amante"?
Cangiarlo in cacclator senza fucile?
Cangiarlo in giardinier senza badile?
So che un certo Ruggiero,
Che fu antenato mio, trovossi un giorno
65 In questo contingente, in ch'io mi trovo;
Vedete che il trovato non è nuovo!
Ma quei si stava in festa,
A caccia, a giostre, a danze, ed a conviti
In mezzo ad una bella compagnia.
70 Ed io solo così convien che stia!
Che invenzioni son queste?
Non si tratta così con casa d'Este.
ARMIDA
E vorresti, o degenere superbo,
Metterti con Ruggiero?
75 Non sei degno di fargli il cameriero.
Quello era un uom famoso in tutto il mondo,
Amato dalle donne, riverito
Dai guerrieri nell'arme più lodati:
E tu degno non sei
80 Di comandare a quattro venturieri;
Se Goffredo, quel re dei galantuomini,
Sa conoscere il merito degli uomini.
Ma...
finiamola; io voglio pettinarmi,
E far cent'altre cose...
RINALDO
85 Saranno al tuo fedel sempre nascose?
ARMIDA
Solo al Tasso io le rivelo,
Al mio fido consigliere.
Quello è un uom che sa tacere,
E a nessuno le dirà.
RINALDO
90 Basta, basta...
Mi rimetto.
Di saperle non m'affretto:
Se voi fate qualche cosa,
Qualche cosa si vedrà.
Ma questo estraneo arnese
95 Certo per nulla al fianco mio s'appese!
Questo cristallo netto,
Che nell'argenteo rivo
Ripete l'oro fin della tua chioma,
Guardar non lo dovresti;
100 Ma guàrdati nei specchi, almi, celesti.
ARMIDA
No, mio fedel: favellami sul sodo.
RINALDO (a parte).
Oh quanto di parlare un poco io godo!
ARMIDA
Se fosse proprio vero
Quel complimento che tu m'hai suonato,
105 Il venditor di specchi è rovinato.
RINALDO
Scusa se in geroglifico io favello,
Amabile fanciulla,
Per dire il vero, anch'io ne intendo nulla.
ARMIDA
Dunque facciamo fine.
RINALDO
110 Ahimè! che nuova è questa?
Caro mio ben, t'arresta...
ARMIDA
Non posso, in verità.
RINALDO
M'ucciderò, crudele,
Se tu mi volgi il tergo...
ARMIDA
115 Torno all'usato albergo...
(Rinaldo vuol seguirla, ma Armida,
accennandogli di star fermo, dice:)
Più innanzi non si va!
ATTO SECONDO
Scena I
RINALDO solo
(Ubaldo e Carlo in disparte).
Quanto è dolce in erma parte
Sospirar per un bel volto,
Per un crin dorato e sciolto,
120 Per li gigli di un bel sen!
Quest'è quel che fa felice
L'oziosa vita mia;
Ma un tantin di compagnia
Mi darebbe un gran piacer.
125 Quanto è dolce, allor che tenero
In me volge Armida il guardo,
Dirle: - O cara, un dolce dardo
M'ha ferito in seno il cor!
Il mio cor, che ovunque il giri,
130 Fuor di te nulla desia! -
Ma un tantin di compagnia
Mi darebbe un gran piacer.
Ed allora che allo specchio
Ella ha vòlto il suo bei viso,
135 Dirle: - Io vedo un paradiso
In un vetro piccolin.
Questi detti son del core
Vero indizio e vera spia! -
Ma un tantin di compagnia
140 Mi darebbe un gran piacer.
Dirle: - Son gl'incendi miei
Un ritratto in miniatura;
Quale è donna tanto dura
Che a tal dir resisterà!
145 Amator di me più fervido
Mai non fu, giammai non fia! -
Ma un tantin di compagnia
Mi darebbe un gran piacer.
Scena II
UBALDO, CARLO e DETTO
UBALDO (a Carlo).
Udisti?
CARLO
Udii: non sembra mal disposto.
UBALDO
150 Dunque mostriamoci...
RINALDO
Oh Dei!
Ecco esauditi alfine i vóti miei:
Che buon vento vi guida?
UBALDO
Siam mandati
Dal pio Goffredo...
RINALDO
Appunto: cosa fa?
UBALDO
Ove tu lo lasciasti ancora sta:
155 Seda sedizioni col mostrarsi;
E poi fa quel che fanno i Genovesi.
RINALDO
Mal ti spiegasti, o pure io mal t'intesi.
UBALDO
Dirò: venne un'arsura
Che diseccò ogni fonte ed ogni roggia...
RINALDO
Oh Dio! com'è finita?
UBALDO
Colla pioggia.
Il pio Goffredo la lasciò cadere,
Affrettandola un po' colle preghiere.
RINALDO
E il solitario Piero
Comandava gli eserciti frattanto?
UBALDO
165 Credo non combattessero in quel canto.
Fu bruciata una macchina stupenda,
Talché non si poté più dar l'assalto.
RINALDO
Me ne rallegro!
UBALDO
E per rifarne un'altra
Siam venuti a chiamarti.
RINALDO
170 Io sono avventuriero,
Non inventor di macchine: che parli?
UBALDO
È ver: ma è duopo per tagliare un bosco,
Che sol nell'Asia tutta
Ha legname che possa in uso porse,
175 D'un uom della tua schiena:
Ecco l'alta cagion che qui ci mena.
RINALDO
Carlo, Ubaldo, voi tutti, ospiti amici,
Guerrieri, pellegrini,
Ditemi: al campo non vi son Trentini?
180 Quando lo venni in Gerosolima,
Mi diceva il signor Padre:
"A fugar le ostili squadre
Io ti mando, o mio figliuol".
Non mi disse: "O mio figliuolo,
185 Io ti mando a spaccar legna".
UBALDO
Deh! pietà di noi ti vegna;
Ché ci puoi salvar tu sol.
RINALDO
Io vengo, oh giubbilo!
Son fuor d'intrico:
190 Verrei, vi dico,
Tutto quel bosco
Anche a segar.
UBALDO
Ei viene, oh giubbilo!
Che dici, oh Carlo?
CARLO
Per me, non parlo:
195 Tu déi parlar.
UBALDO
Presto, dunque, fuggiam.
RINALDO
Che fretta avete?
UBALDO
Se qualcuno ci scopre...
RINALDO
200 Eh! che non v'è nessuno...
Se per caso non fosse il pappagallo.
UBALDO
Ecco Armida che viene.
RINALDO
Or siamo in ballo.
Scena III
ARMIDA e DETTI
ARMIDA
Il musico gentile
Pria che la lingua snodi,
Sussurra in bassi modi
205 Un bel ge - sol - re - ut.
Tal l'infelice Armida
Or che pregar ti deve
Forma un concento breve
Per prepararti il cor.
210 Attenti, miei signori, ed incomincio.
"Non aspettar..."
RINALDO
Signora, altro non chiedo:
Me n'andava.
ARMIDA
Oh! ch'io preghi, volea dire:
Deh! non m'interrompete almen l'esordio.
È la metà dell'opra un bel primordio!
215 Non aspettar ch'io preghi che tu resti:
Solo ti prego, ingrato,
Che mi lasci venire ove tu vai;
Ti potrò far servigio, lo vedrai.
Io ti starò dinnanzi:
220 "Barbaro forse non sarà sì crudo,
Che ti voglia ferir per non piagarmi".
RINALDO
Dite davvero, o fate per burlarmi?
ARMIDA
Anzi ti faccio una proposta in forma.
RINALDO
Vedete, amici cari?
225 Parla la bella donna, e par che dorma.
ARMIDA
Scudiero o scudo,
Col petto ignudo
Ti coprirò.
RINALDO
Non farem nulla:
230 Un Turco crudo,
Bella fanciulla,
Ti piglierà.
E ti dirà:
"Signore scudo,
235 Signor scudiere,
...
[Pagina successiva]