TUTTE LE POESIE, di Alessandro Manzoni - pagina 3
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E s'anco avessi innanzi
Saputo il mio morir, per lei soltanto
Avrei pianto, e per te: se ciò non era,
120 Che dolermi dovea? Forse il partirmi
Da questa terra, ov'è il ben far portento,
E somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier da la parola è sempre
Altro, e virtù per ogni labbro ad alta
125 Voce lodata, ma nei cor derisa;
Dov'è spento il pudor; dove sagace
Usura è fatto il beneficio, e brutta
Lussuria amor; dove sol reo si stima
Chi non compie il delitto; ove il delitto
130 Turpe non è, se fortunato; dove
Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.
Dura è pel giusto solitario, il credi,
Dura, e pur troppo disegual, la guerra
Contra i perversi affratellati e molti.
135 Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E a l'onor vano e al lucro; e de le sale
Al gracchiar voto, e del censito volgo
Al petulante cinquettio, d'amici
140 Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
Segui tua strada; e dal viril proposto
Non ti partir, se sai.
Questa, risposi,
145 Qualsia favilla, che mia mente alluma,
Custodii, com'io valgo, e tenni viva
Finor.
Né ti dirò com'io, nodrito
In sozzo ovil di mercenario armento,
Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
150 De l'insipida stoppia, il viso torsi
Da la fetente mangiatoia; e franco
M'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.
Come talor, discepolo di tale,
Cui mi saria vergogna esser maestro,
155 Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso
Di tanto amor, che mi parea vederli
Veracemente, e ragionar con loro.
Né l'orecchio tuo santo io vo' del nome
Macchiar de' vili, che oziosi sempre,
160 Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
L'operosa calunnia.
A le lor grida
Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.
Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;
Ond'io lieve men vado a mia salita,
165 Non li curando.
Or dimmi, e non ti gravi,
Se di te vero udii che la divina
De le Muse armonia poco curasti.
Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
Di chiaro esempio, o di veraci carte
170 Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo.
E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
l'orma stampò de l'italo coturno:
E l'aureo manto lacerato ai grandi,
175 Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre
180 Scola e palestra di virtù.
Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L'immondizia del trivio e l'arroganza
E i vizj lor; che di perduta fama
185 Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
Né lodator comprati avea quel sommo
D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
190 Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d'Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
195 E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende.
E tacque; e scosso il capo,
200 E sporto il labbro, amaramente il torse,
Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.
Gioja il suo dir mi porse, e non ignota
Bile destommi; e replicai: Deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
205 Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
210 Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: né proferir mai verbo,
215 Che plauda al vizio, o la virtù derida.
O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
Non mi sia spento; a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
220 L'ingegno, e serva la ragion del core.
Così parlava e lagrimava: al mio
Pianto ei compianse, e: Non è questa, disse,
Quella città, dove sarem compagni
Eternamente.
Ora colei, cui figlio
225 Se' per natura, e per eletta amico,
Ama ed ascolta, e di filial dolcezza
L'intensa amaritudine le molci.
Dille ch'io so, ch'ella sol cerca il piede
Metter su l'orme mie; dille che i fiori,
230 Che sul mio cener spande, io gli raccolgo
E gli rendo immortali; e tal ne tesso
Serto, che sol non temerà né bruma,
Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora
De le sue belle lagrime irrorato.
235 Dolce tristezza, amor, d'affetti mille
Turba m'assalse; e da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
A la cara cervice.
A quella scossa,
Quasi al partir di sonno io mi rimasi;
240 E con l'acume del veder tentando
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.
XIV
A PARTENEIDE
[1809-1810]
E tu credesti che la vista sola
Di tua casta bellezza innamorarmi
Potente non saria, che anco del suono
Di tua dolce parola il cor mi tenti,
5 Vergine Dea? Col tuo secondo Duca
Te vidi io prima, e de le sacre danze
O dimentica o schiva; e pur sì franco,
Sì numeroso il portamento e tanto
Di rosea luce ti fioriva il volto,
10 Che Diva io ti conobbi, e t'adorai.
Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieta
D'amor primiero ti porgea la destra,
Di sì fidata compagnia, che primo
Giurato avrei che per trovarti ei l'erta
15 Superasse de l'Alpe, ei le tempeste
Affrontasse del Tuna, e tremebondo
Da la mobil Vertigo, e da l'ardente
Confusion battuto, in sul petroso
Orlo giacesse.
Entro il mio cor fean lite
20 Quegli avversarj che van sempre insieme,
Riverenza ed Amor: ma pur sì pio
Aprivi il riso, e non so che di noto
Mi splendea ne' tuoi guardi, che Amor vinse,
E m'appressai securo.
E quel cortese,
25 Di cui cara l'immago ed onorata
Sarammi infin che la purpurea vita
M'irrigherà le vene, a me rivolto,
Con gentil piglio la tua man levando,
Fea d'offrirmela cenno.
Ond'io più baldo
30 La man ti stesi; ma tremò la mano
E il cor: ché tutto in su la fronte allora
Vidi il dio sfolgorarti e tosto in mente
Chi sei mi corse, ed in che pura ed alta
Aria nutrita, ed a che scorte avvezza.
35 Mesto allor la tua vista abbandonai;
Ma l'inquieto immaginar, che sempre
Benché d'alto caduto in alto aspira,
Sovra l'aspro sentiero a vol si mosse
Del tuo viaggio, e a te fidato, al sommo
40 Stette de l'Alpe, e si librò securo
Sovra i vestigj e i desiderj umani.
Poi riverito il tuo celeste nido,
Di pensiero in pensier, di monte in monte,
Seguitando il desio, ver la mia sacra
45 Terra drizzai le penne, ed i cognati
Reti giganti valicando, alfine
Vidi l'Orobia valle.
Ivi un portento
Al mio guardar s'offerse: una indistinta
Aeria forma or si movea qual pura
50 Nuvoletta d'argento, ed or di neve
Fiocco parea che un bel cespuglio vesta.
Ma pur l'immagin bella e fuggitiva
Tanto con l'occhio seguitai, che vera
Alfin m'apparve, a te simile alquanto,
55 Vergin né tocca né veduta ancora,
E d'immortal concepimento anch'ella.
Non tenea scettro, non cingea corona
Se non di fiori; e sol di questi vaga,
Fra i color mille, onde splendea distinta
60 La verdissima piaggia, or la viola,
Or la rosa sceglieva, or l'amaranto,
Tal che Matelda rimembrar mi feo,
Qual la vide il divin nostro Poeta
Ne l'alta selva da lui sol calcata.
65 Ed ecco alfin, del mio venire accorta,
Volger le luci al pellegrin parea
Piene di maraviglia, e la rosata
Faccia levando, mi parea guardarlo,
E sorridere a lui come si suole
70 Ad aspettato.
E quando io, de la diva
Bellezza innebriato e del gentile
Atto, con l'ali de la mente a lei
Appressarmi tentai, se udir potessi
Come in cielo si parla, affaticate
75 Caddero l'ali de la mente, e al guardo
Tacque la bella vision.
Ma sempre
Da quel momento la memoria al core
Di lei ragiona.
E quando in sul mattino
Leve lo spirto dal sopor si scioglie
80 (Allor per l'aria de' pensier celesti
Libero ei vola, e da le basse voglie
De la vita mortal quasi il divide
Un deserto d'oblio), sempre in quell'ora,
Più che mai bella, quella eterea Virgo
85 Mi vien dinnanzi.
Or d'oro e d'onor vani
Nessun mi parli; un solo amor mi regge,
Sola una cura: degli Orobj dorsi
Rivisitar l'asprezza, e questa Diva,
Deh mel consenta!, accompagnar primiero
90 Per le italiche ville pellegrina.
Che se l'evento il mio sperar pareggia,
Se né la vita né l'ardir mi falla,
Forse, più ardito condottier già fatto,
Te piglierò per mano; e come io valgo,
95 Maraviglia gentile a la mia sacra
Italia io mostrerotti, a quell'augusta
D'uomini Madre e d'intelletti, augusta
Di memorie nutrice e di speranze.
SERMONI
[1803-1804]
XV
I - AMORE A DELIA
SCIOLTI DI ALESSANDRO MANZONI
Amore a Delia.
A te non noto ancora,
Se non di nome, io vengo, io quel di Cipri
Fra gli uomini e gli Dei fanciul famoso;
Dubbio innoltrando il pie', che già due lustri
5 Da queste stanze ad altre sedi io trassi,
Quando la Madre tua savia divenne,
E cessò d'esser bella.
Or riconosco
De' miei trionfi i monumenti; or veggio
Il fido letto, ch'io nel dì lucente,
10 La notte il sonno coniugal calcava,
E or sola, dopo il sibilar di molte
Preci e molto sbadiglio, in su la sera
L'accoglie.
Imen vuol che dapprima i suoi
Seguaci il sonno abbian comune e il cibo
15 Indi fuor che la mensa a parte il tutto.
Qui gli sdegni, le tregue, indi le paci,
Indi novelli sdegni e nove paci
Lungo tempo alternati ad arte usai.
Su questa sedia or per età vetusta
20 Cader lasciossi da gelosa rabbia
Oppressa a un tratto, i languidi chiudendo
Occhi, scomposta il crin, madido il fronte
Di sudor freddo; il natural rossore
Abbandonolle il volto, e sol restovvi
25 L'imposta rosa; l'innocente lino
Provò le ingiurie de l'acuto dente.
Qui l'immaturo Giovane inesperto
Modesta accolse in pria, che dopo lungo
Conversar con Minerva e con le Muse
30 A me pur venne alfin, piena la mente
Di sermon Lazio e di raccolti Dommi.
Qui si sdegnò de l'ardir suo, qui ruppe
Un nascente sorriso, qui compose
A matronal severitade il guardo;
35 E con la dotta man compose il velo
In modo tal che ne apparisse il seno.
Placossi alfin: più debolmente alfine
L'audace man respinse; l'ostinata
Garrula voce infievolissi, e tacque;
40 E con un guardo di sdegno, e d'amore
Parea dicesse: a te do in sacrificio
Mia virtù novilustre; e stanca ormai
Di sonanti virili ispidi nèi,
Anco sentì sollicitarsi il volto
45 Da la molle lanuggine cedente
Che ancor la mano del tonsor non seppe.
Ma quali veggio a le pareti appese
Nove immagini, tetri simulacri
D'occhi incavati, e di compunti visi?
50 Oh strano cangiamento! or finta in tela
La penitente grotta di Marsiglia
Sostiene il chiodo, onde pendea dipinto
Il Latmio bosco e la Vulcania rete.
Addio pertanto, o meste stanze! A voi
55 Ritornerò quando novella Nuora
Venga a mutar le imagini e gli arredi;
E dato esiglio a le canute chierche,
I bei tumulti e i giochi e me richiami
E la letizia, di giocondi amici
60 Popolando la casa del marito.
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Già i Parenti e i Congiunti e i fidi Amici
Van disegnando ne lo stuol crescente
Di te degno e di lor Genero, cui
Nuova cura di pubbliche faccende
65 E veste di pretorio oro insignita
Faccia illustre, o i non ben dimenticati,
Con l'arse pergamene e con le rase
Da l'alte porte e dai lucenti cocchi
Mistiche insegne, titoli vetusti.
70 Ben nel mio Regno inviolata io serbo
Equalitade; io spesso anche al sublime
Talamo esalto del Signor beato
Il rude Servo, a lui per indomata
Fedeltade e destrezza e pronto ingegno,
75 E a la sposa di lui per giovanili
Membra caro e per inguine possente.
Anco avran caro, a cui rivestan molti
Le Briantee colline arsi racemi,
Onor d'Insubri mense: e molti buoi
80 Rompan le pingui Lodigiane glebe
E chiomate cavalle, e quel che il latte
Dona armento minor pascan gli acquosi
Immensi prati, onde lo sguardo è vinto.
Perché tai cure oggi al giurato altare
85 Conducano i garzoni e le nolenti
Donzelle, ascolta.
Acerba lite un giorno
Ebbi con Pluto; ei per vendetta Imene
D'una catena d'or tutto ricinse
E lo trasse con seco e sel fe' schiavo.
90 Ma il favor de l'eterne ali avea tolto
A sue ricerche.
Egli al sacrato patto
Solo presieder volle.
Io con la stessa
Catena ambo gli avvinsi, e donno e servo
Sottoposi a mia legge.
Indi ei sovente
95 A viso aperto e con mentite forme
In mio favor combatte.
Ei ne le ricche
Officine s'innoltra, e di lucente
Crisolito o di limpido adamante
In aureo anello o di gemmata cifra,
100 Quasi Proteo novel, prende l'aspetto.
Come talor quel che non fecer preghi
E sospiri e bellezza, egli m'ottenne!
E spesso ne' tuguri anco il condussi
Col villeggiante Cittadin, che sazio
105 Di profumate mogli, ebbe disio
Di Venere silvestre; ivi la dura
Per più Lune ad un sol serbata fede
Ruppe il fulgor del magico metallo.
Così dopo gran pugna il buon Atlante
110 A lo scudo fatal toglieva il velo,
Ricorso estremo ne le dubbie cose;
E abbagliati i Cavalli e i Cavallieri,
Facendo agli occhi de la destra schermo,
Lasciate l'arme al suol, cadean prostesi,
115 Abbandonando l'ostinato arcione.
Già intorno a te molta oziosa turba
Di Giovani s'aggira, e parte, e torna,
Come a rosa sbucciante in sul mattino
Ronzanti pecchie.
Altri agli esperti inchini
120 E a le accorte parole assai più grato
Ti fia degli altri tutti; a cui matura
Gioventude le gote orna di folta
Gemina striscia, che il cammin del mento
Segna a l'orecchio.
Ah fuggi, incauta, il troppo
125 Dolce periglio.
Egli ne' miei misteri
Già troppo è dotto, ei sa l'ore diverse,
Che al Castaldo ed al Tempio ed a Licori
Sacre ha più d'un Marito; ei le secrete,
Non da profano pie' trite, conosce
130 Anguste scale, onde ai beati vassi
Aditi de le mogli mattutine.
Ivi è Signor, fin che di nuovo giunto
Seguace di Gradivo indi nol cacci,
Che da l'Alpi a bear venne la ricca
135 Di messi Insubria e d'uomini sinceri;
Senza cura o timor, che il mal mentito
Guascone inviso accento, onde cotanto
In fine orecchio Parigin s'offende,
I titoli smentisca, e l'ampie case,
140 Che in Lutezia ei possiede, e le cagioni
Ond'ei di Marte le abborrite insegne
Prima seguì, per evitar la cieca
Famosa falce, che trovò l'acuto
Gallico ingegno, onde accorciar con arte
145 La troppo lunga in pria strada di Lete,
E la curva strisciante in su le selci
Stridula scimitarra in rilucente
Breve spadina, ed il calzar ferrato
In nitida calzetta, che il colore
150 Agguaglia de le perle, onde Amfitrite
Il sen s'adorna e la stillante treccia,
Cangiò, come a me piacque e a l'alma Pace.
Quei de' mutati sguardi e del rivolto
Viso intende il linguaggio, e si ritira
155 Quasi Marito, ma nel cor fremendo.
E cangiato sentier, giù per le late
Scale vien saltellando, e per le vie
Cercando va col curioso sguardo
Qual fra le case abbandonata Moglie
160 Rinchiuda; ed anco da maligno Genio
Spinto, a le incaute Vergini s'appiglia,
A lor tentando il cor, non senza qualche
Sguardo a la madre e a la fedele Ancella.
XVI
II - [CONTRO I POETASTRI]
Se alcun da furia d'irritato nervo
O da grave Ciprigna o da loquace
Tosse dannato a l'odiosa coltre
Me sanator volesse, il poverello,
5 Cred'io, n'andrebbe a giudicar se vera
D'Aristippo o di Plato è la sentenza.
Venga un altro e mi dica: Il mal vicino
Deviò l'acqua dal mio fondo: a lui
Vo' mover piato e mio legal t'eleggo.
10 Fingi che, posto il trito Flacco, io tenti
Con l'inesperta man scotere il dritto
Fuor de la polve de l'enorme Baldo.
Che fia? Con danno il misero cliente,
Io con vergogna fuggirem dal Fòro,
15 Molto ridendo l'avversario e Temi.
Or d'onde è mai che il medico e il perito
Di legge osin far versi? Anzi non sia
Chi, dotto appena ad allogare un tempo
Le sparse membra di Maron, che a lui
20 Disgiunse ad arte il precettor, non creda
Poter, quando che voglia, esser poeta.
Nulla di questo appar più lieve: eppure
Tal vinse acri nemici e tenne il morso
A genti ardite, che domar non seppe
25 I numeri ritrosi: ed io conosco
Di questa plebe indocile i tumulti.
Tu, di cui su quel carme io leggo il nome,
Se onesto interrogar non è conteso,
Dimmi, sei tu poeta? - Il ciel mi guardi.
30 - Perché dunque far versi? - A le preghiere
E a lo sponsal solenne di un amico
Quattro versi negar come potea?
E sai che a figlia d'incolpato padre
Non è minor vergogna al santo giuro
35 Senza un sonetto andar, che se indotata
Porti a l'avaro conjugal piattello
La man rapace e l'affamato ventre.
Amico tal non credere che possa
Vantar l'antica età; poi che se Oreste,
40 Quando le Dire aveangli guasto il senno,
A quel suo fido d'amicizia specchio
Detto avesse: Fa' versi, io non saprei
Se quel Pilade saggio avria potuto
Al matto amico compiacer.
Ma dimmi:
45 Se per nuovo pensier questo marito
Sì t'avesse parlato: Io bramo, o caro,
Che la mia Betta o Maddalena o quale
Ch'ella si sia, come conviensi a sposa,
Esca in publico ornata; ond'io ti prego
50 Che tu con le tue man, se non ti grava,
A lei la vesta nuzial lavori:
Che detto avresti? - A le lattughe, ai bagni
Io mandato l'avrei con tanta fune,
Quanta al più pingue figlio di Francesco
55 Cinger potria l'incastigato addome.
Che se avessi obbedito, a me tal pena
Non converrebbe? Un che sartor non sia,
Se la rapace forbice e le spille
Osa trattar con le profane dita,
60 Stolto nol dici? - E chi non è poeta,
Se mai fa versi, con che nome il chiami?
O cucir drappi è più difficil opra
Che concluder poemi? A te vergogna
Sarà, se donna in publico apparisca
65 Abbigliata da te, sì che i fanciulli
Petulanti del trivio a lei d'intorno
Scaglin, gridando, i mezzi pomi e l'altre
Tante reliquie de la samia cena:
Ma onor sarà, quando a l'udir tue rime
70 Vanno in fuga le Muse, e al casto orecchio
De l'indice vocal si fanno scudo?
Io non dirò, come vantar da molti
Con riso udii, che l'arte del poeta
Sia necessaria e sacra.
A l'arte prima,
75 Che dal sen de la terra a trarre insegna
Onde il mondo si nutra; a quella ond'hanno
Freno i ribaldi e sicurezza i buoni,
Tanto nome si dia.
Ciò solo affermo,
Che un'arte ell'è, qual ch'ella siasi un'arte.
80 Or quale è mai scienza o disciplina
Tanto volgar, che da se stessa informi
Non sudato cerebro? Eppur non manca
Chi fogli empia di versi, onde la mente
Riposar da le pubbliche faccende
85 E dai privati affari, e per sollievo
Canti amori o battaglie, o lei che meglio
Suol gorgheggiar da l'alta scena, o quella
Che sa dir con le gambe: idolo mio.
Quando su l'orme de l'immenso Flacco
90 Con italico pie' correr volevi,
E de' potenti maledir l'orgoglio,
Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne,
Al crin mentito ed a la calva nuca
Facessi oltraggio.
Indi è che, dopo cento
95 E cento lustri, il postero fanciullo
Con balba cantilena al pedagogo
Reciterà: Torna a fiorir la rosa.
Ma Labeone al truce pedagogo
Trattar la verga non farà, né Codro
100 Al putto ignaro ruberà la cena.
La ruota, i serpi e la forata secchia,
O Pluto, a quel che col dannoso acume
Primo il tipo scoverse.
A lui, di quanti
Versi in onta d'Apollo uscir da quella
105 Sua macchina infernal, rogo si faccia
D'eterne fiamme; o per maggior tormento,
Stretto a leggerli sia.
Ché asciutto ancora
Su le carte febee non è l'inchiostro,
Che al torchio illustrator vanno.
Ed omai
110 Tante fronde l'Aprile, e tanti sofi
L'Europa oggi non ha, né tante leggi
Già in venti lune partorì l'invitto
Senno e polmon degl'Insubri Licurghi,
115 Quanti ogni dì veggo apparir poeti.
Quando poi da lo scrigno e da le miti
Orecchie degli amici al banco aperto
De l'avaro librar passano i versi
E a le mani del volgo, a cui non lice
Dannar Flacco e Maron, laudar Pantilio,
120 E al crin di Mevio decretar corona?
Che dirò dei teatri? O sii tu servo
O duro fabbro, o venda in sui quadrivi
Castagne al volgo, un quarto di Filippo
Ti fa Visco e Quintilio.
Entra e decidi.
125 Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
Alto minaccia, o la viril sua fiamma
Ad Antigone svela, o con l'armata
Destra l'infame reggia e il cielo accenna,
Odi sclamar dai palchi: Oh duri versi!
130 Oh duro amante! Dal suo fero labbro
Un ben mio! non s'ascolta.
Oh quanto meglio
Megacle ed Aristea, Clelia ad Orazio!
Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima,
Primo signor de l'Italo coturno?
135 Te ad imparar come si faccia il verso
De gl'Itali Aristarchi il popol manda.
Mirabil mostro in su le Ausonie scene
Or giganteggia.
Al destro pie' si calza
L'alto coturno, e l'umil socco al manco;
140 Quindi va zoppicando.
Informe al volto
Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno
Grondan lagrime e sangue.
Allor che al denso
Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
Di voci e palme un suon, che, per le cave
145 Volte romoreggiando, i lati fianchi
Scote al teatro, e fa restar per via
Maravigliato il passaggier notturno.
Io, perché de la plebe il grido insano
Non mi fieda l'orecchio, in questa cella
150 Mi chiudo, e meco i miei pensieri e libri,
Quanti con l'occhio annoverar tu possa.
Ché se alcuno è tra lor che ponga in mostra
Maldigesta dottrina o versi inetti,
Nel vimine ibernal presso al camino
155 O in loco va, che nel purgato verso
Nega pudica rammentar Talia.
XVII
III - A GIO.
BATTISTA PAGANI
Saepe stylum vertas
Venezia, 25 marzo 1804
Perché, Pagani, de l'assente amico
Non immemore vivi, il ciel ti serbi
Sano e celibe sempre: or breve al tuo
Di me benigno interrogar rispondo.
5 Valido è il corpo in prima, e tal che l'opra
Non chiegga di Galen; men sano alquanto
Il frammento di Giove; e non è rado
Che a purgar quei due morbi, ira ed amore,
O la smania d'onor mi giovin l'erbe
10 De l'orto Epicureo.
Che se mi chiedi
A che l'ingegno giovanetto educhi:
Non a cercar come si possa in campo
Mandar più vivi a Dite, o con la forza
Nel robusto cerebro ad un volere
15 Ridur le mille volontà del volgo;
Ma misurar parole, e i miei pensieri
Chiuder con certo pie', questa è la febre,
Da cui virtù di Farmaco o di voto
Non ho speranza che sanar mi possa.
20 Pensier null'altro io m'ebbi in fin d'allora
Che a me tremante il precettor severo
Segnava l'arte, onde in parole molte
Poco senso si chiuda; ed io, vestita
La gonna di Vetturia, al figlio irato
25 Persuadea coi gonfi sillogismi
Che, posto il ferro parricida, amico
E umil tornasse e ripentito a Roma,
Allor sol degno del materno amplesso.
Me da la palla spesso e da le noci
30 Chiamava Euterpe al pollice percosso
Undici volte; né giammai di verga
Mi rosseggiò la man perché di Flacco
Recitar non sapessi i molli scherzi
O le gare di Mopso, o quel dolente:
35 "Voi che ascoltate in rime sparse il suono".
Ed or, di pel già asperso il volto e quasi
Fra i coscritti censito, in quella mente
Vivo; e quant'ozio il fato e i tempi iniqui
A me concederanno ho stabilito
40 Consecrarlo a le Muse.
Or come il mio
Furor difenda, o dolce amico, ascolta.
"Il Savio è re, libero, bello e Giove",
Zenon barbato insegna; or, perché pari
Temeaci a lui, quel buon Figliuol di Rea
45 Temprò di molta insania il divo foco,
Onde il Deucalioneo selce s'informa.
Quindi brama talun che dal suo muro
pendan avi dipinti; altri che a lui
Ridan da l'arca impenetrabil molti
50 Cesari fulvi; altri a l'avita Pale
Nato in capanna umil vorria la veste
Sparger d'oro pretorio.
Odi quest'altro:
Oh s'io posso il mio tetto alzar sul fumo
De l'umile vicino, e nel palagio
55 Entrar da quattro porte! E quei che tenta
Eccelsi fatti, onde del figlio il figlio
Di lui favelli; e seminar s'affanna
Ciò che raccolga ne la tomba? E sano
Direm colui, che di precetti spera
60 Far sano il mondo? A me più mite forse
Giove impose il far versi; a che la mente
Di sì bella follia purgar mi curo,
Onde ad altra nocente, o men soave
Dare il voto cerebro e il docil petto?
65 Or ti dirò perché piuttosto io scelga
Notar la plebe con sermon pedestre,
Che far soggetto ai numeri sonanti
Opre d'antichi eroi.
Fatti e costumi
Altri da quel ch'io veggio a me ritrosa
70 Nega esprimer Talia.
Che se propongo
Dir Penelope fida e il letto intatto
De l'aspettato Ulisse, ecco a la mente
Lidia m'occorre, che di frutti estrani
Feconda l'orto del marito, cui
75 Non Ilio pertinace o il vento avverso,
Ma il prego mattutino o l'affrettata
Visita de l'amico, o il diligente
Mercurio tiene ad ingrassare il censo
De l'erede non suo.
L'imprese appena
80 Tento di Cincinnato e il glorioso
Ferro alternato alla callosa destra
O i Legati di Pirro innanzi al duro
Mangiator del magnanimo Legume,
Tosto Fulvio rammento, il qual pur jeri
85 Villano, oggi pretor, poco si stima
Minor di Giove, e spaventarmi crede
Con la forzata maestà del guardo.
Che se dirai, che di famose gesta
Non men che al tempo di quei prischi grandi
90 Abbonda il secol nostro, io lo confesso:
Ma non ho voce onde a cantare io vaglia
Le battaglie, le Leggi, e i rinnovati
Fra noi Greci e Quiriti, e quella cieca
Famosa falce, che trovò l'acuto
95 Gallico ingegno, onde accorciar con arte
La troppo lunga in pria strada di Lete.
XVIII
IV - PANEGIRICO A TRIMALCIONE
Poi che sdegnato dai patrizi deschi
Partissi Como, ed a la sua nemica
Temperanza diè loco, a nove mense
Bacco recando e la seguace Gioja
5 E i rari augelli e i preziosi parti
De la greggia di Proteo e i macri servi
Del biondo nume, io, del bel numer uno,
A la tua ricca mensa, o generoso
Trimalcione, lo seguo, e a l'affollata
10 Cena il mio ventre e la mia lira aggiungo.
Ma che dirò che dal tuo divo ingegno
Merti plauso indulgente? Ed al conviva
Faccia dal caro piatto ergere il grifo,
E strappi un bravo, al qual confuso e rotto
15 Contenda il varco l'occupata bocca?
Cui di tuo cuor l'altezza, e di tua mente
Non è noto l'acume? E l'infinito
Favor di Pluto e i greggi e i lati campi,
Che apprestavano un tempo al cocollato
20 Figliuol di Benedetto e di Bernardo
Gli squisiti digiuni? Io de' tuoi pregi
Il men noto finor, forse il più grande,
Farò soggetto al canto.
Io di tua stirpe
Porrò in luce i gran fatti, e torrò il velo
25 A le origini auguste, a cui non giunse
Occhio profano mai; siccome un tempo
Negava il Nil le mistiche sorgenti
Al curioso adorator d'Osiri.
L'origin, dunque, gl'incrementi e i casi
30 Dimmi, immortal Camena, onde l'egregio
Trimalcion da l'occupata mente
Di Giove e da l'inglorio ozio del caos
Venne a l'onor de la beata mensa.
A quel che primo a me rammenta Euterpe
35 Piacquer l'armi eleusine e la divina
Gloria del campo: come un tempo è fama
Che profugo dal ciel di Giove il padre
Col ferro il grembo conjugal fendesse
De la gran madre de gli Dei Tellure.
40 Ma il pacifico solco e le modeste
Arti del padre fastidì l'ardente
Spirto del figlio, e salutato il tetto
Ed il natal suo regno, andò cercando
Novo campo d'onor sott'altro cielo.
45 Quei che da Troja fuggitivo e spinto
Da l'iniqua Giunon tanti anni corse
Ver la fuggente Italia, ov'ebbe alfine
L'impero e il tempio e di Maron la tromba,
Taccio innanzi a costui ch'esule, inerme,
50 Sempre in guerra con Pluto, in terre estrane
Portò su le pie spalle i Lari algenti.
Taccio Creusa e l'infelice Elissa;
Né a sue gran genti aggiungerò l'immenso
Stuol de' piccioli Ascanii, ond'egli accrebbe
55 Le discorse città.
Te sol rammento,
Vergin bella e pudica, unico frutto
Di stabile Imeneo, te che sdegnasti
Giunger tua destra a mortal destra, e il Divo
Nome sacro de' tuoi cedere al nome
60 Di terrestre marito.
Ohimè! recisa
Dunque è l'augusta pianta! Or dove sono
Gli sperati nipoti ed il promesso
Trimalcione? E tu il comporti, o Giove?
Ma che favello io stolto? Ecco, oh stupore!
65 Sotto la zona verginal, che appesa
Al profano sacello Amor non vide,
Crescer l'intatto grembo; e viva e vera
Uscirne al mondo l'insperata prole.
Di qual semenza, di qual gente assai
70 Fu contesa fra il volgo.
A me, dal volgo
Tratto in disparte, la fatal cortina
Rimove Apollo, ove i gran fatti ei cela.
E m'accenna col dito il ferreo Marte
Che in remota selvetta il santo rito
75 d'Ilia rinnova, e l'atterrita virgo
Che per fuggir s'affanna, rispingendo
L'istante Nume, e fassi invano usbergo
Le inviolate bende, e scuoter tenta
Il futuro Quirin, che il destinato
80 Alvo ricerca, e il puro seggio occupa;
E Amor che sorridendo i rami affolta,
Ed intricando i pronubi virgulti
Fa siepe intorno, e la facella ammorza,
Perché maligno non penetri il guardo!
85 Tanta agli Dei di sì gran gente è cura!
Né il sangue avito ed il natal divino
Smentì il marzio fanciullo; anzi l'antico
Padre emulando dei rettor del mondo
Sparse il fraterno sangue, e quanti e quali
90 Entro il solco fatal Romolo accolse
Volle compagni al fianco.
Oh! qual s'avanza
D'amore esemplo e di gentili studj
Nobilissima coppia? Io vi saluto,
Chiari gemelli, onde la fama è vinta
95 Del prisco ovo di Leda: e te cui piacque
Impor cavalli al cocchio: e te che amasti
Nei fori e ne le vie sacre a Diana
Scagliar pietre volanti, ed incombente
Corpo atterrar di poderoso atleta.
100 Che più vi resta? Alti nel ciel locarvi
Fra il Cancro ardente e il rapitor d'Europa.
Raggio invocato ai pallidi nocchieri,
E accoglier miti con sereno volto
Da le salvate prore inni votivi.
105 Spesso Saturnio e il popol suo degnaro,
Velato intorno di mortal sembianza
L'inostensibil Dio, scender dal cielo
A popolar la terra.
Il sa di Acrisio
La invan triplice torre: il sa la bella
110 Sicula piaggia che mirò presente
L'amante Pluto e vide il puro cielo
Contaminato d'infernal tenebra
Ed immonda favilla, e allividite
L'erbe e i fior pesti da l'ugne fuggenti
115 Dei corsieri d'Averno, e i chiari fonti
Arsi al passar de le roventi rote.
Né pochi eroi di sempiterno seme
Creati o di divin concepimento
Vanta l'evo primier; ma poi che mista,
120 E adulterata di mortal semenza
Cresce la stirpe, ne la turba immensa
Dei morituri si confonde, e accusa
La comun pasta del Giapezio loto.
125 Muse figlie di Giove; anzi dal suolo
Poggia a le sfere, e per sublimi gradi
De' semidei terrestri ascende ai Numi.
Ché un Dio ben è colui che segue, al pari
Del facondo Cillenio abil messaggio
130 Di nunzi arcani e con giocoso furto
Al par destro a celar quanto gli piacque.
Quale stupor se a tanto senno, a tanta
Virtù mercede infami ceppi e dira
Croce donar di Pirra i ciechi figli!
135 O degnato abitar l'ingrata terra,
Perché, divo immortal, perché patisti
Sì ratto esserci tolto? Oh se a la nostra
Età più saggia eri servato, allora
Che i primi fasci a noi recò Sofia,
140 Te gran lator di legge e del comune
Dritto tutor sui clamorosi scanni
Mirato avria lo stupefatto volgo.
Or m'aprite Elicona, o Dee sorelle,
Abitatrici dell'Olimpia rocca
145 Che alta la cima infra le nubi asconde,
Ov'io poeta or salgo.
E qual di voi
Tant'alto il canto mio sciorrà, ch'io vaglia
Con degno verso celebrar, se tanto
Lice a lingua mortal, de l'arbor sacro
150 L'estreme frondi, onde il gran frutto è nato
Ch'io qui presente adoro? Ei l'arti vostre
Seguir degnossi, e il nome suo risplende
Negli annali di Pindo.
Ei sol potea
Cantar se stesso; io le famose gesta
155 Di tenue Musa adombrerò qual posso.
E certo al nascer suo l'acuto ingegno
Invase auspice Febo.
Ospite muro
Né certa patria a lui concesse il fato,
Né d'altro avea del suo fuor che la lira.
160 Tal che il sommo poeta, ohimè! vergogna!
Fu costretto a varcar le iberne cime;
E in man recando la frassinea cetra
Ed il Dircio turcasso, andò gli orecchi
A lusingar de gli unguentati eroi
165 E del Mavorzio mercator britanno.
Poi che la sorte e l'onorate prove
Di Guerrino ei cantava, e i detti alteri,
Gl'incantati palagi e l'aste infrante,
Gli arcion vuotati e le guerriere vergini
170 Dei convivi d'Artur.
Né tu, ch'io creda,
...
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