[Pagina precedente]...ili superbi, ostinati, poco cedere alla ragione che li convince, meno patire ordine o tempo alcuno a rispondere, e con voce e gesti concitati, con parole rissose, sdegnando el vero, spregiando ogni bene addutta argumentazione nulla acquistano disputando che solo farsi conoscere immodesti. Così Tichipedo con molti gesti osceni, con molte parole ventose quivi si riscaldò, e fra molte altre più lieve parole disse: «E che bella e usitata vostra astuzia di voi litterati, o Teogenio! Tu lodasti qui costui per insieme lodare te e commendare l'arte tua. Ma fra l'altre sue e tue infelicità , Teogenio mio, a me pare la prima che voi consumiate vostre vigilie, espognate tanta opera, duriate con tanta assiduità in cose inutilissime. Saravve licito mai restare di volgere tutto el dì e poi la notte ancora queste vostre carte? E che dolce amicizia vi porgono questi vostri libri, fra' quali voi occupati vivete pallidi, estenuati, consumati, poveri e infermicci? Che cercate voi con tante vostre inquietissime fatiche? Volete sapere che si facci in cielo, e dove quella e quell'altra stella s'agiri, e non sapete donde abbiate da pascervi e vestirvi. Cercate immortalità già non in tutto vivi in vita pel vostro troppo ostinato studio. Ma che, potete voi scrivere favola nuova e non prima da molti scritta e promulgata? Restavi cosa più laboriosa ad accatarvi el pane che queste vostre letteruzze?»
MICROTIRO. Rido la inezia di costui.
TEOGENIO. E così fa, Microtiro mio, sollèvati dal tuo merore. Così giova ridursi a memoria simili cose ridicule per dimenticarci el dolore sorridendo. Sorrise adunque Genipatro e alquanto fermò gli occhi; poi se raccolse e disse: «Io fui giovane un tempo ricco e in fortuna non dissimile alla tua, o Tichipedo, e posso in questa disputazione iudicare quello quale non puoi tu, a cui l'una e l'altra via non sia nota. Tanto t'affermo, questo stato, in quale voi me vedete debole, solo e povero, molto mi diletta, e in la mia vecchiezza truovo solazzi non pochissimi, né certo minimi. Ramentami avere in me e in altri veduto essempli quasi infiniti onde imparai nulla confidarmi né obligarmi alla fortuna. Conosco la sua instabilità e perfidia, provo che chi con la fortuna vorrà avere niuna trama, niuno commercio, costui da lei nullo potrà ricevere danno. E qual cose può la fortuna altro torci che solo quello quale tu con molto grado accettasti da lei? Che può ella farti danno ritollendoti quello quale tu da lei nulla stimasti? Dotto adunque e per lungo uso seco ben saggio, a me stesso insegnai contenere mia volontà e frenare e' miei appetiti. E così a me fu licito chiudere ogni addito verso me alla fortuna onde ella possa poi richiedermi el suo e discontentarmi. A questo l'uso delle cose, l'essere stato spesso da lei ingannato, l'avere in ogni cosa notato la sua volubilità e incostanza, fu a me ottimo precettore, quale non può essere apresso se non de' vecchi e vivuti con lunga industria. E truovo in questa mia vecchiezza non minima utilità , ove molte cose molestissime quali me soleano infestare giovane, ora o sazio o libero nulla meco possono. Refrigerato, spento, sublato l'incendio amatorio, sedate le face dell'ambizione, acquietato mille sollicitudini e cure cocentissime quale sono domestiche e assidue alla inesperta gioventù, truovomi ancora per la età reverito, pregiato, reputato; consigliansi meco, odonmi come padre, ricordanmi in suoi ragionamenti, aprovano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa vi manca, vedome presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e in questo mi conosco oggi dì più felice che mai, poiché in cosa niuna a me stesso dispiacio: qual cosa giovane non m'interveniva. Accusava, incolpava, castigava miei errori, mia tardità , mie' precipitosi consigli, mie immoderate voluntà , miei studi lievi, mia incostanza. Ora di me stesso contento a me stesso gratifico; quale una faccenda tanto mi diletta quanto, per essere a me più grato e accetto, di dì in dì mi rendo migliore e di dottrina più esculto e di virtù più ornato. E sono le mie quale io vecchio testé prendo voluttà maggiori e dolci molto più che quelle quali io presi giovane, però ch'io sono senza sollicitudine libero d'ogni premolestia, ove quelle da giovane tanto erano dolze e grate quanto erano da me state desiderate ed espettate. Quanto fu prima la molestia desiderando cose amatorie, tanto fu poi dolze la voluttà ; quanto la sete, la fame, tanto el saziarmi. Fu adunque la premolestia agiunta e quasi madre della voluttà in le cose quale a me giovane dilettorono; quale premolestia non ora in mie voluttà interviene. Godo testé qui ragionando con voi, godo solo leggendo in questi libri, godo pensando e commentando queste e simili cose de' quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben transcorsa vita, e investigando fra me cose sottili e rare sono felice, e parmi abitare fra li dii quando io investigo e ritruovo el sito e forze in noi de' cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità viversi sanza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna coll'animo libero da tanta contagione del corpo, e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine parlarsi colla natura, maestra di tante maraviglie, seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando el padre e procreatore di tanti beni. E affirmoti ancora (disse Genipatro), non per queste sole, ma e per molte altre ragioni nulla pospongo la mia fortuna, o Tichipedo, alla tua. E come pospongo non la mia vecchiezza alla tua gioventù, così prepongo non le tue ricchezze e amplitudine alla mia povertà , non la tua populosa famiglia alla mia solitudine».
MICROTIRO. Cose maravigliose e degne.
TEOGENIO. «Non insisto», disse Genipatro, «disputando e' giovani quanto meno ch'e' vecchi moderati e continenti, tanto più parati a grandissime e ultime egritudine, e de' giovani morire numero più quanto si vede che de' vecchi. E sia quanto tu vuoi forza e consuetudine della gioventù avervi robusti, sofferenti in ogni fatica e disagio possiate la polvere, el sole, e' ghiazzi, e' venti, che utilità presterete voi giovani alla patria, alla famiglia vostra? Fugarete, ucciderete, sometterete a servitù con vostre mani e armi uno e un altro inimico. Non però tu, o Tichipedo, avanzerai le vittorie, né asseguirai pari insegne e lode in arme a Luzio Tizio Dentato, quale uno uomo invittissimo, provocato a certare a solo a solo, vinse ferocissimi otto uomini armati inimici, e in giusta e ordinata battaglia spogliò combattendo armati uomini trenta e quattro. Quale uno uomo ancora in espedizioni e pugne numero cento e venti sé ebbe strenuissimo e virilissimo, tale che ricevute ferite gravi non meno che cinque e quaranta, tutte dinanzi in la faccia, nel petto, niuna dirietro, premio di tanta sua virtù ebbe da' suoi imperadori prigioni ventimilia e altri doni militari; suo nomi: aste pure, torque, armille, grillande d'oro e d'argento; numero: ottanta volte dieci e sette centinara. Ma sia, quanto a te conceda la fortuna e ottima tua natura, in te pari lode e virtù quale fu in Luzio Dentato, siavi ancora agiunta la prodezza di Mallio Capitolino, quello quale solo e grave ferito salvò el capitolio assediato da' Galli, gente arditissima; e insieme vi sia in te la perseveranza in arme di Marco Sergio, omo invittissimo e per sue bene adoperate forze e arme celebratissimo; ucciderai con tua mano numero de inimici assidui e iratissimi forse quanti ne uccise M. Servilio, omo stato consule, quale, dice Plutarco, combattette con venti e tre armati inimici e atterrogli? Forse quanti ne uccise Aureliano Augusto principe romano, quale scrive Flavio Prisco che in la battaglia sarmatica diede a morte armati uomini quaranta, e in più altri luoghi da lui si trovorono atterrati inimici circa mille? Apresso Omero, Agamennon desiderava in tanto suo essercito solo avere dieci simili a quel vecchio prudente Nestore, ché nulla dubitava per loro potere suvvertere ogni inimica moltitudine. E così t'affermo, in qualunque sia vecchio, mediocre prudenza e certo uso delle cose potrà ogni dì suvvertere e perdere amplissimi e potentissimi populi contro la sua patria armati. Valse el consiglio di Fabio Massimo, quel vecchio, restituire le cose romane quasi da tutti e' giovani desperate. Con sua maturità Fabio propulsò l'ultima manifesta e pronta ruina alla patria, e sostenne quello Anibale quale tanto numero d'armati fortissimi giovani con suo petto e sangue a Trebia, a Trasimene, a Canne, nulla poterono sostenerlo. Appio Claudio, vecchio e cieco, con sua sentenza restituì dignità e virilità a' suoi cittadini, e raddusse la provincia Epirotarum armatissima e bellicosissima a ubbidire latine legge e imperio. Potrei addurvi Solone e suoi Ariopagite, insieme e ancora Ligurgo e sue santissime leggi, e infiniti altri simili, per quali vederesti sempre el consiglio de' vecchi stato alla patria sua più molto utile e pregiato che l'arme e gagliardia della gioventù».
MICROTIRO. Cose degnissime e verissime, né puossi non assentirli.
TEOGENIO. Così adunque provato non la sua vecchiezza essere da posporla alla gioventù di Tichipedo, seguitò Genipatro e disse: «Le ricchezze tue, o Tichipedo, non nego, sono ornamento alla patria e alla famiglia tua, non quanto tu le possiedi e procuri, ma quanto tu bene le adoperi. Non ascrivo a laude che a tua custodia stiano cumuli d'oro e gemme, ché se così fusse, quelli che la notte sulle torri e specule hanno cura e custodia della terra, più arebbono che tu da gloriarsi. Ma tanto te loderò quanto in salvare e onestare la patria tua e i tuoi espenderai non le ricchezze sole, ma ancora el sudore, el sangue, la vita. Io fui ricco, o Tichipedo. Non però, perdute le mie ricchezze, feci come quel Menippo cinico quale, perché gli furono imbolati i suoi danari, se impiccò: omo avaro e, quanto io interpetro, d'animo vile, che non si fidava potere in povertà sostenersi in vita. Iero tiranno siracusano a Senofone Colofonio, omo litterato, quale si dolea non avere bene donde nutrirsi, rispose: 'Benché Omero sia già molti anni morto, pur così morto nutrisce più e più migliaia d'uomini'. Simile adunque come non in tutto nudo di virtù e dottrina, così fui d'animo non abietto, e nulla abandonai me stesso, e ridussimi a mente a quanti le ricchezze siano state dannose, dove la povertà a chi bene la sopporti da parte niuna si truova inutile. Scrive Plutarco che uomini sedeci della famiglia nobilissima de' Fabii insieme sotto un tetto abitavano. Questo potea la povertà fra tanti uomini: mantenere intera concordia e fermo amore. Né assentisco a quel satiro, altrove grave e perito poeta, quale ascrive alla povertà ch'ella rende e' buoni beffati e nulla pregiati. Assai arà in sé pregio chi se porgerà virtuoso. E come Zenone filosofo dicea, udendo essere la nave sua perita in naufragio: 'Così noi lasciate le ricchezze ora con men molestie filosoferemo in ozio'. E così troviamo, benefizio della povertà , allevati in veste stracciate più dotti e virtuosi che se fussero stati educati in purpure e delizie. Né può quella povertà , benché laboriosa, distorti da virtù quale t'accresca industria, se così è che la necessità abiti in casa de' poveri, quale dicono fu madre della industria, e insieme colla industria sempre crebbe virtù. E noi stolti mortali per mare, per monti, per mille pericoli fuggiamo la povertà , e più molte e molte molestie soffriamo fuggendo la povertà che se sopportassimo qualunque incomodi seco porti l'ultima egestà . E per asseguire ricchezze piene di mali, esposte a tutti e' pericoli, per quali tutti gl'invidi, tutti gli avari, tutti gli ambiziosi, cupidi, lascivi, voluttuosi e dati a guadagno e nati al spendere, numero infinito d'uomini pestilenziosi, ne assediano con animo inimicissimo, con opera infestissima, assidui, vigilantissimi per espilarci e satisfarsi de' nostri incomodi; e noi per asseguire tanta peste sott...
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