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MICROTIRO. Non adunque m'ingegnerò esserli grave e molestissimo?
TEOGENIO. Ma in questo voglio, mentre che a chi tu sia in odio vive vizioso, esponga ogni tua opera e industria.
MICROTIRO. Adunque verso di lui serò quale egli se porge verso a me, a cui niuna sua fatta o ditta cosa piace. Infamerollo, acquisterogli inimici, vendicherommi.
TEOGENIO. Se e' fusse dotto e buono, farebbe e direbbe cose non pochissime qual ti piacerebbono, né può un buono se non piacere a un altro buono, e volendo essere grave a un vizioso via brevissima darti alla virtù, ché se tu con fraude cercassi offenderlo, qual cosa non potresti senza cura e pression d'animo, in prima in questo seguiresti tu quanto el desidera di te, quale certo, quanto dicevi, cerca vederti inceso d'ira e di disdegno e simili perturbazioni. E dove in questa opera fusse in te perturbazione niuna d'animo, pur sarebbe inutile fatica la tua procurando che un vizioso sia mal voluto o capiti male. Assai gli acquisteran odio e malivolenza e mala fortuna e' suoi vizi, e se tu da sue iniurie commosso simile a lui con false diffamazioni e tradimenti, opera d'uomini perversi e maligni, a lui fussi infesto, arebbe ancora da essere più molto di sua perfidia lieto ove tu per sua cagione così fossi divenuto vizioso. Né sarà laude d'animo virile e grande quale io desidero el tuo, se un picciolo sdegno el perturba. Quinci affermano che chi sia generoso sóle odiare ogni cura del vendicarsi, se così sia come si pruova che questa sollicitudine e cupidità di nuocere a chi verso di te fu iniusto, tiene gli animi nostri astritti d'una catena e laccio quale quanto più cerchi scioglierla, te tanto più serra. E sarà nostro offizio di noi studiosi curare che dentro al nostro petto risegga niuna perturbazione per potere quanto dobbiamo liberi ed espediti dare opera alle buone principiate arti e dottrine. E in più modi gioverà dimenticarli e iudicare che sendo di natura e costumi corrotti e scellerati suo offizio fanno e dicono male.
MICROTIRO. Che faremo adunque? Lasceremo noi seguitarli con sua insolenza e temerità che pigliano in noi ogni licenza, persino a essere colle mani in noi iniusti?
TEOGENIO. Come amoniscono e' dottissimi filosofi che cosa niuna meno abbiamo da stimare, ma da nulla tanto dobbiamo guardarci, quanto dalle superstizioni e fatture de' magici e incantatori, quale nuoceno ad altri niuno che a chi loro crede, così qui noi da' nostri inimici temendo nulla con ogni precauzione molto e molto provederemo alla salute nostra, non in quella parte come se noi credessimo da loro potere ricevere male alcuno, ma solo per non lasciarli incorrere in maggior iniustizia.
MICROTIRO. E che a me, perché altri fusse iniusto, purché la sua iniustizia non a me nocesse?
TEOGENIO. Stimi tu la iniustizia fra le cose non buone?
MICROTIRO. Stimola pessimo male.
TEOGENIO. Simile adunque agli altri mali presso a cui ella fosse, non a te nocerebbe.
MICROTIRO. Suo sarebbe el vizio, ma mio sarebbe l'incommodo.
TEOGENIO. Ma tuo sarebbe non in picciola parte quel vizio se per tua indiligenza chi si sia venisse contro alle leggi della patria e contro all'ozio de' buoni, quale tu e ogni buono cittadino debba quanto in sé sia diffendere e mantenere. E sono le leggi nervo e fermezza della republica, per quale in prima dobbiamo esporre ogni nostra industria e opere e fortune, poiché come dicea Platone, aprovata sentenza da tutti e' filosofi, siamo nati non solo a noi, ma parte di noi a sé vendica la patria, parte chi ne procreò, parte e' nostri a noi per sangue e per amicizia coniunti. Né a te el vizio di qualunque pessimo in parte alcuna quanto alla patria tua e forse a' tuoi potrà mai essere incommodo. Dicono che fra le cose terribili niuna si truova terribile quanto la morte. E fra' vizi odiosissimi, essecrabili, quasi el primo estimano la crudelità . E che adunque di que' crudelissimi inimici a Tichipedo quali cercavano perderlo, che iudichi tu più fussero gravi, alla patria o a Tichipedo?
MICROTIRO. Certo a Tichipedo, in cui ogni loro ingiuria s'adirizzava e assedea.
TEOGENIO. Non errare in questo, Microtiro mio. La patria più molto avea che Tichipedo da dolersi, quale in più modi ricevea offesa. Prima vedea un de' suoi fatto iniusto e senza le sue leggi in pericolo, senza le quali sentiva sé nulla potere consistere. Temea insieme non perdere uno de' suoi buoni cittadini. E come dicea Omero che Simiossomo figliuolo d'Antemione nato in Ida insula apresso il fiume Simeonte, giovane ucciso da Ulisse, non potette rendere grati alimenti al padre, così forse e' suoi arebbono da desiderare Tichipedo; ma lui e qualunque mortale, se bene considereremo, nulla arebbe ricevuto cosa per quale l'altrui crudelità dovesse in sé parerli acerba. Chi sarà che affermi la morte a' mortali più essere da fuggirla che da desiderarla? E qualunque felicità a se stessi promettano gli altri, qualunque aspettino vivendo bene, pur Tichipedo uno mi pare, benché in que' tempo amicissimo della fortuna, a cui la morte sarebbe stata non inutilissima. Non arebbe veduto tanta domestica sua calamità . Era felice morte morirsi felice. Né so per che cagione molti tanto desiderino perseverare in vita, quasi come abbino pattuito quiete con tutte le avversità . Versi di Giuvenale, ottimo poeta satiro:
Pena fu data a chi molto ci vive,
che iterata sempre clade in casa,
con molti pianti e perpetuo merore
s'invecchi adolorato in veste nera.
Onde comune proverbio si dice: «Chi più ci vive più ci piange». E publico vediamo colla età surgono infinite lassitudini a nostre membra, infiniti dispiaceri, né troverai vivuto alcuno più dì a cui non sia domestica alcuna e quasi assidua infermità e dolore. Poi non posso non biasimare chi se dica non potere fare che non tema uscir di vita. E chi sarà che dubiti a ciascuno de' mortali, naturale sua innata necessità , destinatoli stare el suo ultimo dì? Glaucopis dea, presso ad Omero, negava li dii a qual vuoi loro amico potere distorli che non caggia in eterno sonno e morte. Socrate a chi gli anunziava ch'e' suoi cittadini deliberorono che morisse, rispuose: «E la natura più fa avea deliberato che neanche loro sempre vivessono». E chi non vede che da el primo dì che noi usciamo in vita, come dicea Manilio Probo, quel poeta astronomico, quasi nascendo moriamo. E dal nostro primo principio in vita pende il nostro fine in morte. Ma el vivere nostro è egli altro che un morirsi a poco a poco? Sono versi di Lucrezio poeta vetustissimo:
Già poi che 'l tempo con sue forze in noi
straccò e' nervi e allassò le membra,
claudica el piede e l'ingegno e la lingua,
persin che manca ogni cosa in un tempo.
E apresso a Plauto poeta comico dicea Lisimaco, subito che l'uomo fie vecchio già più né sente né sa. E quell'altro vecchio plautino dicea la vecchiezza essere pur mala mercantia qual seco porta più cose pessime. Qualunque cosa ebbe principio, provano e' filosofi, arà suo fine naturale, quale necessità certo si richiede a nostra vita. E dobbiamo stimarla sì come necessaria, così ancora né dura essere né inutile. Scriveno che apresso Iasium la faccia di Diana posta in luogo del tempio rilevato a chi entra par trista e mesta, e a chi esce dimostra sé lieta e iocunda. Forse così a noi la nostra vita in quale entrammo con tanta tristezza e tante acerbità , a chi poi ne esca la sente dolcissima, e da uscirne simile qual si dice fa el cigno cantando. Cosa niuna dell'altre necessarie da noi richieste dalla natura si truova non piena di voluttà , el mangiare, bere, posarsi, adormirsi e simili, per quali sedati in noi gli appetiti e movimenti stiamo non dissimili a chi sia acquietato in morte. Così el morire possiamo persuaderci forse fie non sanza qualche voluttà . Ma dobbiamo nulla dubitare che seco la morte aporti a noi dolore niuno. Vediamo che morendo si perdono e' sentimenti, né può dolersi chi non sente. Adunque la morte non aduce, ma leva el dolore. Per questo bene diceano Diogenes e Archelao e gli altri filosofi nulla essere la morte da temerla, quale meno sia grave quando presente si riceve che quando tu la fuggi. Anzi quasi la morte nulla tiene in sé d'acerbità se non quanto l'aspetti. Argomentava qui l'Epicuro filosofo in questo modo: quello che presente non perturba, espettato non debba offendere, e la morte, quando noi siamo, ella non v'è, quando ella sarà , noi restaremo d'essere. E se alcuni la desiderano, hanno costoro in odio la vita; se altri la teme, troppo li piace el vivere. Né sanno che del vivere come de' cibi dobbiamo eleggere e' suavissimi, non quelli che siano molti. Ma, nostra inezia, ci pare non potere fare che non ci pesi non perseverare in vita quanto a noi stessi promettemo, e non pensiamo quanta sia la brevità de' nostri giorni. Sopra el nostro fiume nascono, le notti estive e brevissime, piccioli animali alati quali tanto viveno quanto se stessi gravi e debolissimi sostengono in aria, e di loro saranno rari di sì lunga età che l'alba di quelle notti in quali e' nacquero non li truovi caduti e spenti, spazio non quasi sofficiente a produrre uno uomo in vita. Ancora comparata alla eternità la nostra vita mortale in quale noi siamo ci debba parere sì minima che, quando ben fussero certi e dalla natura a noi gli anni di Nestoro promessi, poco dovrebbono avere in noi momento perdendogli a perturbarci. E noi stolti pur pensandovi ci perturbiamo di quello che sempre ci sia maturo e necessario. Accusone la molizie nostra. Adunque Cesare domandato in cena qual fusse ottima morte, rispose la non premeditata, già che nulla presente conosciamo la morte tale che possiamo sentirla, ma non presente pur perturba e atterra gli animi non ben composti. Ma a chi la conosca essere una seperazione di quello che in noi sia libero e incorrotto da quello che sia caduco, mortale, e sottoposto a quante miserie di sopra narrammo, e chi conoscerà essere stoltizia non adattarsi a quello che sia necessario, costui nulla si dorrà se 'l tempo s'apressa che la terra, come dicea Epicarmo, ritorni alla terra e lo spirito voli suso a miglior sedia. Quale animo sendo, come affermava Eraclito, purgato da ogni crassitudine e peso della terra, fugge da questo carcere come saetta e vola in cielo. E credo io troveresti uscito di vita niuno qual volesse ritornarci, e questo come per altri assai incommodi, ancora e per non essere inchiuso in questo loto de' membri nostri quale, come dicea quel censore de' principi presso a Omero, sta concreato di terra e d'acqua. Adunque a chi esca di vita diletterà morire, se serà non imprudente, quanto conoscerà che per benefizio della morte, come dicea Eschillo, esso esca in libertà da mille contro e' mortali infesti e apparecchiati mali. Silio poeta dicea la morte essere porta apertaci dalla natura per quale sia licito fuggire ogni male. E apresso Plauto dicea Palestra, non indotta fanciulla, cosa niuna meglio trovarsi che la morte quando in noi sono le cose in male e in miseria. E così tutti e' dotti non iniuria la affermano essere uno degli ottimi doni datoci dalla natura, poiché niuna tanto si truova miseria di quale te la morte non vendichi, povertà , carcere, servitù, ignominia, dolori e simili. Pausanias dicono che assiduo vessato dallo spirito d'una quale egli avea ucciso, ebbe da' nigromanti risposta che tosto sarebbe al suo male buono fine. Verificossi, che non doppo molti dì morendo uscì di tanta molestia. Onde quello che dicea Plinio ne avviene che vediamo chiesta niuna quanto la morte essere dalli dii frequentata; quale uno dono si legge in premio di grandissimo merito a molti buoni gli dii accelerorono. Celebrati in tutte le istorie sono que' due Cleobis e Abinoto figliuoli d'Argia sacerdote di Iunone: perché e' giumenti indugiavano, sé imposero al giogo e condussero la madre sua in tempo al sacrificio; per qual pietà la madre pregò lo dio desse a' figliuoli non più una o un'altra cosa, ma quello che giudicasse a' mortali ottimo. Retribuilli, ché infra tre dì ambo due morirono. Trofonio e Agamede, scrive Platone, simile dalli dii r...
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