[Pagina precedente]...E di queste pare a me parte sieno le cose poste fuori al tutto di noi sotto imperio e arbitrio della fortuna, ricchezze, stati, amplitudine, potenza; parte sono quelle che stanno aggiunte a noi come la valitudine, forma e abitudine delle nostre membra, non molto meno che quelle di sopra sottoposte a' vari casi. Quale tutte cose tanto dicono essere buone quanto noi a bene le adirizziamo e bene le adopriamo. Ma pareno a iudizi corrotti e pieni d'errore e di perturbazione ora buone ora non buone quanto el nostro iudizio le pesa e accetta. Certa consiste ferma e constante sempre in ogni suo ordine e progresso la natura; nulla suol variare, nulla uscire da sua imposta e ascritta legge, né può patire che grave alcuno mai sia non atto a descendere, sempre volle che 'l fuoco sia parato ad incendere e dedurre a cenere ogni oposta materia. All'acqua diede la natura propria attitudine di effundersi, e adempiere ogni forma di qualunque vacuo vaso. E così mai fu da natura cosa buona atta a non benificare, e ogni male sempre fu presto a nuocere e danneggiare. Adunque, quanto le vediamo varie e volubile le cose della fortuna, elle non sono tali che noi possiamo affermarle da natura buone o non buone, quale mutata la oppinione e iudizio tanto e in sì diversa parte variano. Conviensi pertanto moderare e bene instituire nostre oppinioni e sentenza, ove molte cose a noi forse paiono utili qual sono disutili, e stimiamo cose non poche gravi essere e moleste quali certo sono levissime e facillime. E a potere questo m'occorreno infinite sentenze, bellissimi detti da' savi antiqui filosofi e ottimi poeti, cose ritrassinate quasi da tutti li scrittori, tale ch'io non so donde incominciare. Ma piacemi in prima investighiamo le cose estrinseche e proprie della fortuna, quale stimo certo comprenderemo ch'elle sono e buone in sé e non buone quanto noi a noi le riceveremo ed estimeremo. E insieme vederemo le cose aggiunte a noi non però molto avere in buona o in mala parte forza. Ultimo, non dubito a noi rimarrà persuaso solo in noi essere qualunque cosa vero sia o buona o non buona, e pertanto niuno potere cosa alcuna di male ricevere da altri che da sé stessi. E per asseguire questo con qualche iocundità quanto instituimo, mi pare da recitarti la disputazione ebbe a questo proposito Genipatro, quel vecchio qua su, quale in queste selve disopra vive filosofando, omo per età ben vivuta, per uso di molte varie cose utilissime al vivere, per cognizion di molte lettere e ottime arti prudentissimo e sapientissimo; ché mi stimo le sue parole presso di te, amatore de' dotti e studiosi, aranno autorità, e diletteratti la nostra istoria certo degna d'essere conosciuta. E come furono suoi argomenti e ammonimenti a me sì grati e sì utilissimi che in ogni vita mia tutta ora più li sento da molto pregiarli e comendarli, così certo qui saranno attissimi e convenientissimi a sollevarti da questa conceputa tristezza tua e mala valitudine. Ma prima dimmi, el nostro Tichipedo vive egli quale e' solea lieto, e quanto esso se riputava beato?
MICROTIRO. O infelicissimo Tichipedo! E tu, Teogenio, non udisti il suo infortunio? Morì el padre in essilio, proscritto e fugato da que' suoi inimici quali con arme occuparono la amministrazione delle cose publiche, confiscato e predato le sue fortune; el suo figliuolo notando affogò; la moglie e pel dolore del figliuolo perduto e per altra mala sua valitudine in parto abortivo e difficile mancò; el fratello, uomo temerario e precipitoso, per false insimulazioni e relazioni da occulti loro inimici tratto in iudizio, sé stessi in carcere strangolò. Per qual calamità Tichipedo provide alla sua salute, e fuggendo a sé simile già apparecchiato infortunio me abbracciò e disse lacrimando: «O Microtiro, Dio a te dia miglior fortuna. Io dalla patria mia e dai miei altro nulla porto che ingiuria, sdegno e dolore, e quello che più m'adolora è la carissima madre mia rimasta sola a piangere el mio infortunio e a soffrire di dì in dì infinite miserie». Partissi. Di poi intesi vivea in servitù preso da inimici della nostra patria. Piansi.
TEOGENIO. Intesi più dì fa la avversità di Tichipedo, ma parsemi utile così domandartene per redurti a memoria quanto a' tuoi dì vedesti essemplo ottimo e degnissimo onde tu discerna la volubilità e mutabilità della fortuna, e insieme statuisca non te essere, quanto testé dicevi, uno sopra gli altri mortali misero e infelicissimo; se già non intervenisse, come dicono, ch'e' nostri mali veduti da presso più che gli altrui a noi paiono maggiori: qual cosa ancora si confermerebbe per quanto io recitai che simili mali cresceno in noi e scemano quanto la nostra oppinione gli stima.
Ma torniamo al primo nostro ragionamento. Qui presso a questo fonte Genipatro e io, come sempre fu nostra consuetudine trovarci spesso insieme, leggiavamo. Ecco Tichipedo con suoi cani e moltitudine di levissimi e vilissimi uomini cacciando le fere sopragiunse; giovane in que' tempi per troppa sua seconda e prospera fortuna elato, insolente, ostentava le gemme, luceali indosso la seta, le perle e le pitture fatte ad ago, e arrogante agitandosi in molti modi mostrava in sé levità e odiosa alterezza. Cominciò a molto lodare questo luogo, e giurò mancarli a somma felicità altro nulla che questo fonte, e certo pur troppo desiderarlo presso alla sua ornatissima villa. A cui Genipatro, omo prudentissimo, con suoi gesti modestissimi e pieni di maravigliosa umanità disse: «Tu, o Tichipedo, non vedesti tutte le delizie di Teogenio molto più che questo fonte amenissime e da volerle. Ma se altro a te non manca, io sempre ebbi tanta autorità in le cose di Teogenio ch'io in questo posso satisfarti: concedoti ne lo porti teco questo fonte; ponlo ove a te piace». Rispuose Tichipedo: «Senza tuo danno saresti meco liberale donando a me quello ch'io non posso accettare». Questo adunque disse Genipatro: «Ti giovi la nostra liberalità che tu conosca te tanto essere non felice quanto in te seggia desiderio di cose alcune a te non possibili. E abbi cura, o Tichipedo mio, che a te non manchino più cose non da te conosciute facile ad averle, e molto più che questo fonte dilettose, senza quali non puoi essere non misero e infelice». Qui uno de quegli assentatori venuti con Tichipedo: «E qual cosa», disse, «può desiderare uno uomo per essere felicissimo quale non sia presso di Tichipedo, bello, ricco, amato, e fra' suoi cittadini in ogni amplitudine quasi primo fortunatissimo?». Qui Genipatro porse la mano aperta verso di me in mezzo e sorridendo disse: «Le cose qual sono qui presso a Teogenio, quanto mi pare comprendere, sono quelle che mancano a simili a voi benché fortunatissimi. Simile a costui, o Tichipedo, convien che sia chi vuol essere felice, el quale gode questo fonte amenissimo da te tanto desiderato». «Anzi», dissi io, «a te, Genipatro, sia simile chi desidera sé essere beato, apresso cui sono tutte le cose degne e lodate». «Noi adunque», disse quello assentatore, credo per muoverci a riso, «quali desideriamo essere felici, sarà nostra opera tanto zappare su questi monti che le nostre mani diventino callose per non essere dissimili da Genipatro!». Erano le mani a Genipatro callose per lo essercitarsi alla coltura dell'orto suo quando ogni dì esso dava opera qualche ora alla sanità. Rise Tichipedo. Adunque disse Genipatro: «O dolcissimi, quando voi arete inteso el nostro ragionamento, credo iudicherete questi miei calli come segni di qualche industria così più accomodati a felicità che tutte le gemme, con quali ornamenti spesso gli ambiziosi sogliono ostentare sue ricchezze». Molte parole quinci e quindi furon fra quelli inettissimi assentatori, per quali Genipatro vedendosi fatto loro giuoco dedusse e' ragionamenti, e con maturità si volse a Tichipedo e disse: «Tu, o Tichipedo, giovane fermo e robusto: io vecchierello, debole, languido. Tu ricco, abbiente danari, massarizie, armenti, prati, boschi, orti, ville, possessioni entro e fuori della terra: io povero, nudo. A te padre ottimo, procuratore delle tue fortune; a te figliuoli, a te fratelli temuti e reveriti: io solo. Tu in la tua patria fra' primi amministratori delle cose noto e nominato: io in essilio ignobile. Difformità tra noi grandissima. Ma quale stimi tu direbbe un savio uomo più fusse di noi due beato?».
MICROTIRO. O disputazione degnissima! Seguita, non ti interrumpo.
TEOGENIO. Percosse Tichipedo el piede suo in terra, e protendendo aperte le mani rise con molta voce e disse: «Potrai domandarne tutti e' nostri cittadini a cui tu e io saremo presenti. Non recuso vivere in questa tua fortuna in quale me duole vederti, se di tutti loro uno solo non in tutto stoltissimo elegge non in prima essere me che te». Qui disse Genipatro: «O felicissimo, se e' sapranno qual altra differenza sia tra te e me, se conosceranno che tu non puoi farmi parte de' tuoi beni sanza imminuirli a te, e vederanno le mie ricchezze tali ch'io posso renderne te pari a me ricchissimo con mio emolumento e utilità, forse non responderanno come tu stimi. Ma ecco qui Teogenio, omo né vulgare né d'ingegno tardissimo, e a te e a me familiare. Cominciamo. Dimmi, o Teogenio, se chi può, Dio, maestro delle cose, così a te concedesse quale dimanderai essere quello sarai, a quale di noi due chiederesti essere consimile?». Qui rispuosi io: «Preeleggerei certo essere te, Genipatro». Gridò Tichipedo e disse: «Dileggi tu, che se questo udissero e' nostri cittadini, riderebbero». «E se Teogenio vedesse de' suoi amici chi preferisse lo stato tuo al mio», disse Genipatro, «piangerebbe che tanto fusse tardo e stoldo, e sé desiderasse essere infelicissimo. Ma vediamo chi con più ragione si movesse, o que' tuoi cittadini tutti, o Teogenio solo».
MICROTIRO. E chi non recusasse vita simile a quella di Tichipedo? Ozioso, inerte, ambizioso, arrogante, levissimo, temerario, lascivo in que' tempi, e ora per povertà diventato invidiosissimo e maledicentissimo; a cui il non avere alcuna degna faccenda era faccenda laboriosissima. Vita odiosa la sua!
TEOGENIO. Affermo cotesta tua sentenza, Microtiro, e così statuisco: la vita di Tichipedo, quando la fortuna seco in que' tempi era propizia, solea esserli grave, né da tanto suo tedio il sollevava l'affluenza e copia delle voluttà in quali sazio sé stesso fastidiva. Quello non ti concedo che la povertà lo faccia essere maledico e invidioso. Erano in lui questi uniti con gli altri suoi vizi, ma non aveano luogo da palesarsi; onde ben dicono quel proverbio, che a chi manchi e' panni, può non bene coprirsi. Ma saratti non ingrata la mia risposta. Dissili: «Tu, Tichipedo, non nego, stai primo fra i nostri fortunatissimo cittadino, e sono pronte e palese le tue ricchezze; ma chi in mezzo esponesse le ricchezze di Genipatro, forse tu in prima muteresti opinione, e piacerebbeti non essere a te stessi simile per imitarlo. A te, Tichipedo, non mancano gratissimi e carissimi figliuoli, non forse costumati, non forse dotti, non forse di natura e ingegno civile e atti quanto vorresti, e di dì in dì mortali. A Genipatro viveno più e più figlioli, e' libri suoi da sé ben composti ed emendatissimi, pieni di dottrina e maravigliosa gentilezza, grati a' buoni e a tutti gli studiosi, e quanto dobbiamo sperarne immortali. A te ancora, Tichipedo, sopravive il padre, la madre, co' quali tu te consigli e recrei. A Genipatro né manca, né mancherà iusto padre d'ogni suo instituto e santissima madre d'ogni sua volontà, l'intelletto sincero e la ragione interissima. Atorno te ancora, Tichipedo, convengono moltitudine di domestici e familiari, fannoti ridere, lodano te in presenza e onorano, vedi la casa tua ornata e frequentata. Da Genipatro mai si partono quanto e' vuole ottimi e sapientissimi suoi amici, questi libri co' quali tu 'l vedi tuttora essercitarsi e ornarsi di virtù e pregio tale, ch'egli è e da chi lo conosce e da chi mai lo vide lodato e onorato».
MICROTIRO. Rimase, credo, vinto, che?
TEOGENIO. Notasti tu mai el costume degli ignoranti e insolenti uomini? Ved...
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