[Pagina precedente]...cedonico, lasciò in vita suoi quattro figliuoli, fra' quali tre erano stati consoli, uno pretore, due aveano triunfato. Tanto sono io in questa parte felice, quanto quella lacedemoniese chiamata Lampido, figliuola di re, moglie a re, madre a un re; e quanto presso e' nostri Agrippina, sorella che fu e moglie e madre a chi ebbe imperio e governo in tutte le cose, però che a me sono le cose buone e necessarie in copia non minore che a qual si sia uomo stato in vita. Le cose a noi mortali necessarie sono quelle quale, richieste dalla natura, non possiamo denegare a noi stessi, e queste sono e poche e minime. Quello satisfarà a te quale satisfa a uno de' servi tuoi contro la fame, sete e freddo. Ma a chi sia allevato in questa vita splendida, a sé stessi statuisce essere infinite cose necessarie, quali non l'avendo vi molestano, e avendole infastidiano. Le cose buone forse sono presso di me molto in maggior numero che presso a voi. Non io sono quello che affermi la vostra amplitudine, lo stato, l'essere temuto, siano cose buone. Cosa niuna buona può come queste far male. Molti, per volere soprastare gli altri, perirono. Ma son certo a me non negherete la cognizione delle buone cose, l'ingegno esculto di qualche dottrina, nutrito in fra le lettere, essere cosa ottima. Dicea Aristotile, quella essere beata patria qual sia ottima; essere ottimo chi facci bene; e niuno far bene in cui non sia virtù. Non adunque in vostre amplitudine consiste felicità , ma in virtù. L'oraculo d'Appolline rispose al re Gise, Aglao, privato in Arcadia, più era con sua modestia felice che lui re, a cui avanzava tanta regia amplitudine. Stavasi Aglao in uno ultimo cantuccio della provincia, lavorava una sua villuccia, di qual luogo, cupido di nulla e di sua fortuna contento, mai era uscito. Solone, conditore delle prime leggi ateniese, quando Creso, re fortunatissimo, gli mostrava le sue maravigliose copie e potenza, e domandava quale egli avesse altrove conosciuto omo più che sé felicissimo, rispuose: 'Vidi Telo cittadino in la terra degli Achei più di te molto felice. Era Telo buono uomo; ebbe figliuoli ben costumati, e contento non pativa contro sua voglia alcuna necessità '. Non adunque la affluenza delle cose quanto la modestia e frenare sé stessi rende noi felici. Ma siano queste vostre amplitudine quanto volete degne, e siano da desiderarle, dilettivi la pompa civile, la amministrazione della republica, el sedere in magistrato, stiavi a dignità quanto voi ben consigliate e' vostri cittadini, sarebbe questa vostra amplitudine da volerla certo se solo avenisse a' degni, sarebbe da non la recusar, benché molesta e piena d'invidia, odi e pericoli, se delle tue fatiche e vigilie non poi più ne fu lodato el caso seguito e fortuna che la diligenza e industria tua. E vidi spesso la sentenza pestifera e palese temerità d'uno insolentissimo più essere dalla moltitudine favoreggiata che 'l buono ammonimento d'uno sapientissimo e ottimo cittadino. E così e' buoni contro a' perversi raro accade che possano ben conducere cosa alcuna in sua republica da loro in tempo preveduta e detta; onde quanto più conoscono, tanto più viveno mesti in periculo ed espettazione di piggior fortuna. Dicea Assioco, presso a Platone, la plebe altro essere nulla che inconstanza, inferma, instabile, volubile, lieve, futile, bestiale, ignava, quale solo si guidi con errore, inimica sempre alla ragione, e piena d'ogni corrotto iudizio. Apresso e' suoi cittadini Abderites Democrito, summo filosofo, era riputato stolto. Ancora si leggono le epistole per quale Ippocrate medico fu chiesto a medicarlo. Antiquissimo e usitato costume di tutti e' populi spregiare e odiare e' buoni. Scipione Nassica per iuramento del senato reputato ottimo, due volte ebbe iniusta repulsa dal populo. Coroliano, Camillo e più altri modestissimi e virtuosissimi cittadini dal popolo soffersono contumelia. Aristide ateniese, cognominato Iusto, solo per odio di tal cognome fu da' suoi cittadini escluso e proscritto. Socrate dall'oraculo d'Appolline iudicato santissimo, dal populo fu agiudicato a morte. Alcibiade, ricco, fortunato, amato, d'ingegno quasi divino, e in ogni lode principe de' suoi cittadini, nobilitata la patria sua con sua virtù e vittorie, morì in essilio perduti e' suoi beni in povertà , tanto sempre alla moltitudine dispiacque chi fosse dissimile a sé in vita e costumi. E fu in questa sapientissimo chi disse el populo essere una tromba rotta quale si possa mai ben sonare. Onde nulla a me può el mio essilio per questo dispiacermi, poiché io me vedo escluso dal numero e consorzio di molti rapacissimi, invidissimi e immanissimi, a' quali la mia astinenza e modestia era in odio, né vedeano essere a loro licito perturbare quanto e' desideravano le leggi e la libertà della patria se prima non faceano impeto in me. Ma non però mai alcuna ingiuria tanto in me potrà che io quanto in me sia non osservi fermo amore e integra carità verso la patria mia. E sempre come io fo, così farò di dì in dì, esporrò quel ch'io sappia, possa e vaglia in premeditare, investigare ed esporre a' miei cittadini, con voce e con scritti, cose utili e accomodate alla amplitudine e degnità della nostra republica. Quale animo mentre che sarà in me, chi potrà negarmi ch'io non sia vero suo e certissimo suo cittadino? Né crederò tu reputi cittadino qualunque barbero abiti entro quelle mura, ma più tosto iudichi inimico colui quale con suo consiglio, con sua opera, con suoi detti e fatti perturbi l'ozio e quiete de' buoni. Adunque la diritta affezione in prima verso la patria, non l'abitarvi fa me essere vero cittadino, ché se così non fusse, e i buoni che uscissero in altrui provincie per cose publiche o private, subito resterebbero essere cittadini. Benché io ivi sono assiduo ne' templi, ne' teatri, in casa de' primari cittadini, ove e' buoni fra loro di me e de' miei studi spesso e leggono e ragionano. E forse la patria nostra di tutti e' mortali fie quella dove abbiamo lunga età a riposarci, a quale e' Sauromati e posti sotto qualvuoi plaga del cielo sono né più di voi lontani né più vicini, tanta via troverai dall'ultima Germania quanto e dalla estrema India persino sotto terra.
E solete voi ricchissimi computare a felicità el numero dei figliuoli, oppinion certo non in tutto da non la biasimare. Scrive Eutropio che Massinissa re lasciò in vita di sé nati figlioli uomini quaranta e quattro. Ad Artasserses, re de' Persi, scrive Iustino, nacquero figliuoli cento e quindici. Eutromo, re d'Arabia, scriveno vide di sé nati figliuoli settecento. Se a te fusse populo de' tuoi simile, che laude presso de' buoni e continenti, che autorità presso de' gravi e maturi, che dignità presso de' prudenti e savi uomini a te si potrebbe ascrivere? Non per questo sarebbe lodata la tua equità , non la umanità e frugalità ; non sarebbe ascrittoti a virilità , non a continenza, né molta ti seguirebbe però utilità , forse neanche a te per questo sarebbe alcuna voluttà . Sarebbono sussidio alla tua vecchiezza forse ed eccidio ad ogni tua età . El figliuolo di Scipione Affricano superiore nulla fu al padre né a' suoi in tanta sua domestica laude simile. El figliuolo di Fabio Massimo, cittadino clarissimo, fu da Quinto Pompeio, pretore urbano, privato della eredità del padre per suoi brutti costumi e vita; e molti da' figliuoli ricevettono ignominia e calamità a sé e alla sua famiglia. Né sono e' figliuoli sempre a padri simili, buoni e costumati: quali, benché buoni, se a te fussero pochi, el desiderio d'avere degli altri, e la paura di non perdere questi, e ogni loro picciolo e lieve incommodo a te sarebbe grande e a grave merore e tristezza. Se fussero molti, tu e di ciascuno aresti qualche cura, e di tutti non potresti insieme non avere molta sollicitudine. Ebbi figliuoli. Provai quanto fusse in ogni parte utile o disutile essere padre. E' miei se forse erano, quanto io troppo gli desiderava, modesti e di lieto ingegno, erami acerbo ogni sospetto quale di ora in ora mi si porgea di loro vita e sanità e fama Se forse talora essi meno con suoi costumi e indole mi satisfaceano, adoloravo. Ora se in avere figliuoli sta diletto alcuno, a me non mancorono: prova'gli, e furonmi gratissimi. Se in essere padre mi stava tristezza alcuna, ella non più mi preme. Per tanto me reputo in questo felice non meno che se io, simile ad Ilario Crisippo fesulano, venissi qui a questo quasi come al fonte d'Elicona a sacrificare, qual fece lui in capitolio in Roma, con cinque figliuoli e due figliuole, dieci e sette nepoti maschi e venti e nuove figliuoli de' suoi nipoti. Non tanto si contentava lui di tanta sua famiglia quanto io non mi discontento della mia solitudine. Fui padre amato da' miei. Mancoronmi in età mia quando io potea volendo ancora averne. Non mi premea quella sollicitudine qual preme voi altri ricchi, che solliciti desiderate a chi lasciare iusta eredità , le vostre fortune. Rimaseno a me ricchezze, né tante ch'io dubitassi arrichissero mio niuno inimico, né tali ch'io non potessi dispensandole a' miei amici lasciar in loro mano qualche segno della nostra benivolenza. Non però voglio stimiate me sì duro né sì inumano che a me fussero ingrati e' miei figliuoli, ma non tanto gli desidero che mi dolga molto non gli avere, qual fanno alcuni ingrati di tanti altri doni quanti di dì in dì ricevereno della natura. Non rendono grazia de' molti e grandissimi ricevuti beni, ma d'un solo espettato comodo seco troppo si perturbano. E così degli altri miei, se per età forse erano maggiori di me, non sono io sì tardo d'ingegno ch'io non conosca starmi necessità vivendo vederli uscire di vita. Non però potetti non dolermi; quando de' miei alcuno mancava, desideravalo, ma poi quando io fra me repetea le cagioni del mio dolore, riconoscealo, quanto egli era, non altronde che da una opinion inetta, per quale io me riputava, mancatomi e' maggiori, crescermi cura e sollicitudine domestica, e sanza e' minori non potere quanto a me stessi in tempo già promisi sussidio e ferma quiete, e troppo me escrucciava non avermi co' e' miei amici e meco nati e giunti per sangue e per benivolenza, a' quali, come ogni nostra fortuna era stata comune, così ancora di dì in dì io dolze comunicassi miei instituti, volontà e studi. Adunque non era in me molesto alcuno loro male, qual certo dobbiamo stimare a loro nulla fu nel morire. E se pure stimiamo vi fosse dolore, se quel dolore fu all'animo, non dobbiamo in noi ricevere quello che in altrui ci dispiacque; se fu dolore in loro alle sue membra, d'altro nulla aremo da dolerci che solo forse dove non poterono con animo ben virile el picciol male; ma se furon grandi i loro dolori, crediate non li sentirono. E hanno questa natura e' dolori in nostre membra che e' piccioli scemano per el sofferire, e se sono veementi e grandi duran poco, però che vincono e atterrano subito e' sentimenti. Adunque a me mancandomi e' miei solo mi dolea quanto io stimava interrutte mie speranze ed espettazioni, mie' commodi e miei sollazzi; forse ancora mi parea dovuto piangendo mostrarmi simile agli altri inetti, quali credono, graffiandosi e picchiandosi e urlando, o da' vivi essere lodati o da' morti essere uditi o alli dii grati. Ché se chi noi piangiamo risuscitasse, giurerebbe dispiacerli la nostra stultizia, qual certo non meno debba a noi essere odiosa ove porgiamo e' nostri visi sucidi e troppo deformati dal pianto, e tormentià nci in opera non solo, come dicea Eschillo, perduta, ma e degna di troppo biasimo, perseverare piangendo ove mie lacrime e sospiri né ad altri né a me giovano, ché se le lacrime potessero levarci el merore piangendo, si finirebbe ogni fatica e arebbono le lacrime pregio pur grandissimo. Ma due cose a me trovai accommodatissime a sollevarmi da tanta inezia. Prima el tempo, quale come donatore così consumatore di tutte le cose, qual maturando leva ogni acerbità , d'ora in ora in me minuiva dolore dimenticandomi el mio sinistro. L'altro fu come dice Valerio Marziale di Mitridate, quale uso spesso a...
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