[Pagina precedente]...ute cose paion men maravigliose. Così stima, e' casi avversi spesso rintoppati noi rendono più preveduti e meno proni a perturbarci. Ma e' suole ancora la natura in cose grandissime e incredibili non meno che la fortuna con noi adoperarsi. Non recito e' portenti e monstri quali, proverbio de' Greci, sempre ne manda el Nillo e l'Affrica, non e' giumenti ermafroditi quali menavano el giogo a Gaio Nerone Cesare, e simile maraviglie della natura, che sarebbe materia infinita a raccontarli. Notissima istoria della natura presso di tutti e' poeti, Sicilia un tempo essere stata iunta e continente con Italia, quale ora Silla e Carriddi, monstri immanissimi, tengono divisa et segiunta. Scriveno che lo essercito d'Antioco re in solo uno dì apresso Carmania in quello proprio luogo combatterono a cavallo in quale avea prima con molte navi combattuto. Racconta Pomponio Mela una regione oltre al fiume Nabar lungi da ogni mare trovarvisi grandissime spine di pesci e molta copia d'ostree e non raro qualche ancore. Erodoto istorico affermava el mare già tempo essere stato sopra Memfi, sopra sino a' monti di Etiopia, qual terra ora scoperta forse troppo rimase arrida. E forse non raro co' mortali irata la natura mostra quanto insieme li diletti adducere cose rare in nostra calamità. Scriveno che Tantalo, terra grandissima, e Buzorni in Tracia, città nobilissima, intera fu trangugiata e ruinò in profundo abisso. Pira e Antistia presso a' Meoti, e Licen e Biria città nobilissime appresso Corinto, e parte di Antiochia furono sumerse dal mare. E tutta la Achaia provincia anni mille e quaranta 'nanzi a Roma condita dicono fu sumersa dalle inundazioni dell'acque, e nei tempi d'Anfione, terzo re di Cicrope in Atene, crebbero l'acque e copersono la maggior parte di Tessaglia. Perironvi anime innumerabili, e da tanto naufragio quelli solo camparono quali fuggirono al monte Parnaso ove Deucalion regnava. Quinci trassono e' poeti quanto dicono la generazione umana da Deucalione restituita. E scrisse Eutropio che 'l mare ne' tempi di Valentiniano principe di Roma crebbe e summerse molta parte di Sicilia e anche più terre altrove. E a' tempi della olimpiade centesima quinta si truova tutta Italia stata labefattata da' terremuoti. E ne' tempi che Lisimaco uccise il suo figliuolo, la terra chiamata Lisimachia ruinando sfracellò tutto el suo populo. La terra de' Lacedemoniesi concussa da e' monti Tageti nel quarto anno che Archidamo regnava, dicono ancora per quello terremuoto ruinò, quale Anassimander li predisse. E in Siria ne' tempi che Tigranes regnava, scrive Iustino, perirono fiaccati da terremuoti uomini numero cento e settanta migliara. Ne' tempi di Tiberio dicono in una notte ruinorono in Asia dodici grandissime e famose città, dove ancora e ne' tempi di Nerone più nobile città ruinarono, Apamea, Laodicia, Ieropoli e Colossa. E scrive Tacito in que' tempi stata in Campagna sì veemente tempesta che pel furore de' venti le ville, gli albori e onni pianta in tutta la provincia si trovò svelta e lungi asportata. E ne' tempi di Vespasiano in Cipro e ne' tempi di Traiano pur in Asia quattro terre, Elea, Mirina, Pitane, Cume, rotte da' terremuoti mancorono. E ne' tempi di Galieno Augusto principe romano furono terremuoti maravigliosi. Muggirono e' monti e in profondo sé apersono, e insieme in più luoghi ruppono lungi dal mare a mezzo e' campi acque salse, e molte furono terre marittime oppresse dal mare e summerse. Pesaro, dice Plutarco, inanzi alla battaglia qual poi fu tra Cesare e Antonio, ruinò inghiottito dalla terra.
Non adunque dobbiamo maravigliarci, omicciuoli mortali e sopra tutti gli altri animali infermissimi, se mai quando che sia riceviamo qualche calamità, poiché noi vediamo le terre e provincie intere suggette ad ultimi estermini e ruine. E quale stolto non aperto conosce l'uomo, come dicea Omero, sopra tutti gli altri animanti in terra vivere debolissimo. Sentenza di Pindaro, poeta lirico, l'omo essere quasi umbra d'un sogno. Nacque l'uomo fra tanto numero d'animanti, quanto vediamo, solo per effundere lacrime, poiché subito uscito in vita a nulla prima se adatta che a piangere, sì come che instrutto dalla natura presentisca le miserie a quali venne in vita, o come gli dolga vedere che agli altri tutti animali sia dato dalla natura vario e utile vestire, lana, setole, spine, piuma, penne, squame, cuorio e lapidoso scorzo, e persino agli albori stieno sue veste duplicate l'una sopra all'altra contro el freddo e non disutile a diffendersi dal caldo, l'uomo solo stia languido giacendo nudo e in cosa niuna non disutile e grave a sé stessi. Agiugni che dal primo dì vedesi collegato in fascie e dedicato a perpetua servitù, in quale poi el cresce e vive. Non adunque iniuria, subito che nasce, piange la sua infelicità, né stracco di dolersi prima prende refrigerio a' suoi mali, né prima ride se non quando se stessi contenne in tristezza interi almeno quaranta dì. Di poi cresce in più ferma età quasi continuo concertando contra alla debolezza, sempre in qual vuoi cosa desiderando e aspettando l'aito d'altrui. Nulla può senza precettore, senza disciplina, o al tutto sanza grandissima fatica, in quale sé stessi per tutta la sua età esserciti. In puerizia vive mesto sotto el pedagogo; e seguenli suoi giorni in gioventù solliciti e pieni di cure ad imparare leggi e instituiti della patria sua; e poi sotto la censura del vulgo in più età ferma posto soffre infiniti dispiaceri. E quando el ben sia compiuto e offirmato in sue forza e membra, e ornato d'ogni virtù e dottrina, non però ardisce non temere ogni minima bestiuola, e nato per imperare a tutti gli animanti conosce quasi a tutti gl'animali sua vita e salute essere sottoposta. Un verminuccio el molesta; ogni minima puntura l'uccide. Scriveno e' poeti che a Orione, figliuolo di Iove, compagno di Diana, gloriandosi d'essere sopra degli altri fortissimo e potere uccidere qualunque fera a lui si opponesse, gli dii comossi dierono che un picciolo scorpione lo atterrò in morte. Affermano e' medici una moscolina pasciuta d'un cadavere venenoso potere essere mortifera. E raccontano e' fisici trovarsi uno animale chiamato salamandra quale solo salendo avenena tutti e' pomi in su quello albero dove e' salse, di veneno simile all'acconito, ed esserne già periti e' populi. Potrei estendermi in quante erbe, in quanti frutti, in quanti animali, in quante cose la natura vi ponesse contro di noi veneno e morte, e quasi possiamo affermare nulla trovarsi fra e' mortali in quale non sia forza di darci a morte. Un pelo beuto fra el latte strangolò Fabbio senatore. Uno acino d'uva strozzò Anacreonte filosofo. Ma che più? Non solo la essalazion, quale fumma d'alcune aperture della terra, come presso a Pozzuolo e presso a Suessa, uccide, ma e ancora el fummo della lucerna spenta anneca el parto e dàllo abortivo. E non solo queste cose materiali, ma e in qualunque vòi altra cosa troverai morte. L'agitazion dell'animo ci sta mortale. Scrive Flavio Prisco, siracusano istorico, che ne' tempi quando Caro Augusto principe romano uscì di vita, molti da subiti tuoni impauriti caderono e perirono. Chilo filosofo, Dionisio tiranno, Sofocles tragico vittore per troppa letizia usciron di vita. E quella donna in sulle porte di Roma vedendo el figliuolo, quale essa avea udita essere morto, per letizia cadde. P. Apuleio, udita la repulsa del fratello, per dolore espirò: Filemon pel troppo ridere. Omero investigando solvere uno enigma datoli da' pescatori, in quel pensiero mancò. Isocrate, quale nato anni sei e novanta scrisse e' panogirici, udita la clade de' suoi ateniesi ricevuta in Cheronia da Filippo, per dolore espirò. El subito e veemente vergognarsi uccise Diodoro filosofo. Aulo Manlio Torquato per troppa volontà di mangiare una torta perì. A Tales milesio el tedio d'ascoltare e' poeti tragici, e a Crisippo figliuolo d'Apolline el ridere fu mortale. Cosa quasi incredibile che le parole fascinino e perdano gli uomini. Lucio Luccullo, summo principe romano, impazzò a morte guasto da incanti amatori. Curione oratore si dolea in iudizio avere per simile malefici perduta la memoria. Agiugni le altre infermità quale già tante passate età con tante vigilie, tante investigazioni, tanta industria, tanta copia di scrittori e volumi, tanta varietà di rimedi possono né vietarle né ben distorle. E insieme aggiugni e' nuovi e vari morbi quali di dì in dì surgono a' mortali. In Roma e non quasi altrove ne' tempi di Tiberio Cesare scriveno sopravenne nuovo malore non pericoloso a morte ma contagioso e fastidiosissimo. Cominciava al mento, poi dagli occhi in fuori copriva tutta la persona, e cadevagli la pelle d'ogni membro in minuta furfura. El carbunculo, pessimo male ne' tempi di Luzio Paulo e Quinto Marzio censori, primo fu veduto a' nostri Latini. Silla dittatore perì corroso da' pidocchi. A Pericle sirio molta copia di serpenti ruppeno del suo corpo. Mecenate sofferse in sua vita perpetua febbre, e visse anni tre senza mai riposarsi dormendo. Ma che più? Cosa incredibile! Scriveno che nei tempi di Luzio Elio Antonino principe romano uscì d'una cassetta d'oro dedicata ad Apolline in Babilonia fiato sì pestilente che col suo veneno pervenne dando a morte infiniti mortali persino entro la provincia de' Parti. E così molte egritudini e peste a' tempi nascono e di provincia in provincia transcorrono. Agiugni quanto non raro ancora e' minutissimi animali insieme coniunti portino peste ed eccidio contro alla generazione umana. Scrive Iustino e Paulo Orosio istorici ch'e' populi chiamati Obderite, e que' che si nominano Avienate, fuggirono e abandonarono el suo paese cacciati dalla moltitudine de' topi e dalle ranelle. E scrisse M. Varrone in Ispagna essere stata svelta una terra da' conigli, e in Tessaglia simile dalle talpe data in ruina un'altra città. E racconta Plinio quanto siano infestissimi inimici a' populi cirenaici e' grilli. E così troverai in le istorie spesso state a' mortali gravissime calamitate addutte da tali vilissimi animanti. Né trovasi animale alcuno tanto da tutti gli altri odiato quanto l'uomo. Agiugni ancora quanto a sé stessi l'uomo sia dannoso con sua ambizione e avarizia e troppa cupidità del vivere in delizie e ozio pieno di vizi; qual cose non meno che gli altri suoi infortuni premono e' mortali. Agiugni la somma stoltizia quale continuo abita in le menti degli uomini, poiché di cosa niuna contento né sazio sempre sé stessi molesta e stimola. Gli altri animali contenti d'un cibo quanto la natura richiede, e così a dare opra a' figliuoli servano certa legge in sé e certo tempo: all'uomo mai ben fastidia la sua incontinenza. Gli altri animali contenti di quello che li si condice: l'omo solo sempre investigando cose nuove sé stessi infesta. Non contento di tanto ambito della terra, volle solcare el mare e tragettarsi, credo, fuori del mondo; volle sotto acqua, sotto terra, entro a' monti ogni cosa razzolare, e sforzossi andare di sopra e' nuvoli. Dicono che in Atene fu chi facea volare per aria un palombo edificato di legno. Che più essemplo detestabile della superstizione degli uomini, che fra' greci scrittori fusse chi di ciascuno membro umano descrivesse qual fusse el suo sapore? O animale irrequieto e impazientissimo di suo alcuno stato e condizione, tale che io credo che qualche volta la natura, quando li fastidii tanta nostra arroganza che vogliamo sapere ogni secreto suo ed emendarla e contrafarla, ella truova nuove calamità per trarsi giuoco di noi e insieme essercitarci a riconoscerla. Che stoltizia de' mortali, che vogliamo sapere e quando e come e per qual consiglio e a che fine sia ogni instituto e opera di Dio, e vogliamo sapere che materia, che figura, che natura, che forza sia quella del cielo, de' pianeti, delle intelligenze, e mille secreti vogliamo essere noti a noi più che alla natura. Che se un tuo figliuolo, non voglio dire un simile a te, verso a chi governa el cielo, volesse riconoscere ogni tua opera e pensiero, tu credo non iniuria li porter...
[Pagina successiva]