[Pagina precedente]... gustar el veleno rendette in sé natura sua sì fatta che più niun tossico gli potea noiare. Così a me gli spessi in casa mia mortori essiccorono le vane lacrime e consumorono in me tutte le inezie feminili, con quali dolendoci del nostro male vogliamo parere piatosi di chi ben morendo ben sia uscito di tante molestie in quante e' lasciò noi che restammo. E ancora le iterate mie calamità offirmorono in me uno animo tale, che dove prima per troppa molizie infermo e troppo debole io non potea udire la voce e ammonizione de' sapientissimi filosofi, ora essercitato da' casi avversi diligente gli ascoltai, e intesile essere ragioni e documenti ottime e santissime; intesi non avere per rispetto alcuno tanto da dolermi della morte de' miei, che la morte di chi io nulla mi dolea, Omero, Platone, Cicerone, Virgilio, e degli altri quasi infiniti dottissimi stati uomini, non a me molto più che la morte de' miei dovesse essere gravissima e molestissima, da' quali se fussero in vita, senza comparazione potrei ricevere e dottrina a bene e beato vivere e modo a qualunque utile instituto e voluttà in ogni mio pensiero molto e molto più che da qual si fosse nel numero de' miei. E forse molto conobbi più avermi da dolere della vita e brutti costumi d'alcuno de' miei, che della morte di chi era uscito di tante molestie, in quale noi altri mortali siamo assiduo agitati; e imparai in molte parte vincere me stessi, imitando coloro e' quali in tutte le istorie celebratissimi con animo forte e constante non indugiorono che 'l tempo li vendicasse da tristezza in più lieta pace e quiete del suo animo, ma con ottima ragion e consiglio subito providero fuggire in sé ogni merore. Marco Valerio, fratello di Publicola, si loda che, udito la morte del figliuolo mentre che consecrava el tempio, nulla si mosse; solo disse: 'Gittatelo ove vi pare: non a me ricevo averne a piangere'. Dion siracusano, udendo che 'l figliuolo caduto da un tetto era espirato, disse: 'Datelo alle donne: noi fra noi di cose intanto più degne disputeremo'. Quinto Marzio, lasciato le essequie del figliuolo, venne in senato a consigliare la patria. Pericle el simile, Telamon e Antigono e Senofonte e Anassagora insieme e quella femmina lacedemoniese; quali uomini a maggior cose desti, rispuosero: 'Sapea io me avere generato un uom mortale e aspettavalo, adoperandosi quanto io el desiderava in cose pericolose per la sua patria, ancora prima udire simile suo ben consigliato offizio'. E molti altri, quali sarebbe qui lungo recitarli, a me addussi a memoria in que' miei casi, e dispuosi imitarli. E tanto di me a me stessi fu licito quanto io così disposto volli, e imitando que' savi proposi a me stessi simile a loro laude e lieto frutto. Dario re, padre di Serse, tra le lode sue dicea sé avere sofferte in pace e in guerra molte cose gravi, e per le avversità sé essere diventato più prudente. Così fu a me frutto riprovando la fortuna imparare a sofferirla e rimanermi con l'animo libero e vacuo di merore e perturbazione. Qual tutte cose a te, o Tichipedo mio, non litterato, non essercitato dalla fortuna, non apparecchiato con erudizione alcuna a sostenere o ad evitare gl'impeti avversi, educato in delizie, cresciuto fra uomini assentatori da' quali mai udisti se non quanto ti dierono giuoco e riso, non interverrebbono, a te dico, Tichipedo mio, non interverrebbono; ogni minimo intoppo aresterebbe ogni tuo corso a laude. Tanto adunque più di me debbi riconoscerti infelice quanto più vivi esposto a ogni strazio della fortuna. Io me truovo da ogni parte tale che la fortuna più può nulla meco essere infesta. Non la temo, ché nulla può tormi. Non la curo, ché nulla più desidero del suo. A te quale non provasti quanto ne' doni suoi la fortuna più puose fele che mele, certo troppo dolerà non avere premeditato la sua perfidia. E se da ora ivi tu forse pendi con l'animo quanto mi pare nel tuo fronte comprendere, o Tichipedo, pensando quanto facile e pronto e' casi avversi in un dì, in un momento possono precipitarti di questo tuo stato, certo non vedo possi turbato essere felice».
Così avea Genipatro disputato; adunque fermossi alquanto summirando Tichipedo, quale in sé suspeso e tacito quasi lacrimava; poi si volse a me e con parole a me socquete fra sé stessi pispigliando disse e immutò quel verso di Didone presso a Virgilio: Sic tua te victum doceat fortuna dolere. E poi raggiunse parole simili alquanto arridendo: «Non però voglio, o Tichipedo, reputi me insolente o teco non ben concorde, se in questi miei ragionamenti volli più tosto consolare me posto in questa quale tu m'adiudicasti infelicità , che mostrarmi in cosa alcuna a te superiore. Ben conforto te quanto per ingegno, opera, studio e diligenza vali, preponga essere con tua modestia, parsimonia e buoni costumi, con frenare e moderare te stessi, tale che cosa niuna a te manchi a condurti e statuirti in summa e vera felicità ; quale opera sarà tanto men difficile a te quanto la fortuna teco fie facile e secunda. E se forse teco fusse in tempo la fortuna simile a me dura e avversa, o Tichipedo, gioveratti avermi udito, e arai me essemplo donde impari ch'ella così soglia e possa in noi mortali».
LIBRO II
TEOGENIO. Adunque, o Microtiro, in questa lunga nostra istoria qual tu sì attentissimo ascoltasti, satisfeci io in parte alcuna a quanto ti promisi? Sollevai io te nulla del tuo merore?
MICROTIRO. Non facile potrei narrarti quanto mi dilettasti e persuadesti e sollevasti con tanta tua copia e varietà ed eleganza. Fu certo disputazione degna di memoria. Rendone a te grazia e a Genipatro, quale uomo come in tutti suoi altri detti, così in questo a me parse simile all'oracolo di Appolline. E con che modo bellissimo pronosticò a Tichipedo la sua prossima calamità ; cosa quasi incredibile di tanta felicità subito ruinare in tanta infelicità ! Maravigliomene e duolmene.
TEOGENIO. A Genipatro, uomo prudentissimo, nulla fu difficile conoscere che a que' costumi lascivi e a quella vita oziosa e inerte di Tichipedo non mancherebbono presta miseria e tristezza. Mai fu che uomo insolente, temerario, lieve, ambizioso, simile a Tichipedo, potesse non ruinare in profonda miseria. Quelli simili a Tichipedo offendono molti con loro gesti e parole inconsiderate e piene di fastidio e convizio. E' mal voluti in tempo male ricevono. E quando bene in Tichipedo fusse stata summa modestia coniunta con summa industria, non però sarebbe da maravigliarsi se a lui non sempre fu la fortuna equale e secunda, quale per sua natura sempre fu volubile e incostante. Scrive Plinio fra l'altre simile selve e insule una trovarsi nelle acque presso al laco Vadimonio quale né dì né notte si posi in alcuno luogo. Ancora più e incostante e volubile la fortuna. Quale a me darai tu omo da te in questa età veduto o appresso delle istorie notato in tanta felicità che el sia uscito di vita senza prima soffrire in sé molta parte di miserie? Recita Cornelio Nepote istorico che Pomponio Attico, omo litteratissimo, fu di sì prospera sanità che in anni trenta mai li bisognò curarsi con alcuna medicina. E Antonio Castore dicono passò vivendo anni cento che mai in sua vita provò in sue membra alcuno dolore, e in quella età li servia la memoria interissima e duravali ottimo vigore. Publio Romulo, domandato da Augusto Cesare, rispose avere ben servata in sé la valitudine integra in quale e' lo vedea con ungere el corpo de fuori con olio, entro assumere per suo bere acqua decotta quale chiamavano mulsa. Visse anni sopra cento ben fermo e in ogni suo membro intero. Lucio Volusio, scrive Cornelio Tacito istorico, fu sopra degli altri formosissimo. Visse anni tre e novanta in prima ricco e ornato di buone arti e nulla offeso da tanti sceleratissimi principi quali furono seco in vita. Senofilo, dicono, visse anni cento e cinque senza sentire a sue membra alcuno incommodo. Ieronimo istorico, scrive Luciano, visse anni quattro e cento fermo in ogni suo sentimento, ancora e persino all'ultimo dì utile a procreare figliuoli. Gorgias visse anni otto e cento sempre sano, e di sì rara sua sana età dicea esserne stata cagione la sua continenza. Dione, tiranno siragusano, persino in anni sessanta visse vacuo d'ogni lutto funebre in casa sua. Non però crederò che a costoro fusse la fortuna nell'altre cose nulla molesta. Furono loro gravi le malivolenze, l'invidie, inimicizie, suspizioni, cure, sollicitudini e gli altri casi avversi quali molestano e' mortali. Crasso fu giovane sopra gli altri ricchi ricchissimo, pur vecchio perì in estrema infelicità . Quinto Cepione dopo el trionfo suo, e stato consule e massimo pontefice, morì incatenato nella publica carcere. Policrate, tiranno samio, a cui la fortuna sempre era stata propizia, quello el quale per esperimentare quanto in tutte le cose el fusse alla fortuna accetto, gittò in mare el suo anello e ritrovollo in corpo a un pesce statoli presentato, costui finì morendo con grandissima sua ignominia fitto sulla cima d'un monte in croce. E se bene essamineremo, forse troveremo vecchio niuno in quello stato in quale e' fu giovane. Anzi quasi ancora pare che insieme colla felicità sempre sia aggiunta summa miseria. A Pompeio la sua amplitudine, a Cesare el potere quanto el volea, a Cicerone la sua eloquenza, a Scipione la sua grazia populare, furono capitale e ultimo periculo. Constituta legge della fortuna pervertere ogni dì nuove cose. Né debbasi uno e un altro maravigliare se ella seco usa sua innata perfidia. La famiglia de' Fabii nobilissima da tanto numero, da uomini trecento in un dì fu ridutta a un solo. Macedonia, provincia gloriosa, quale ebbe imperio in Asia, Armenia, Iberia, Albania, Capadocia, Siria, Egitto, provincie amplissime, ricchissime, potentissime, quale ancora vincendo superò ultimi monti Tauro e Caucaso, quale impose sue leggi a nazione e gente estremissime, Battri, Medi, Persi, e quasi a tutto l'oriente, quale se facea ben riverire e ubbidire sino entro alla India terre luntanissime, costei cadde in calamità e giuoco della fortuna. In uno dì Paulo Emilio, duttore degli esserciti romani, vendette a servitù città macedoniche trionfali numero settanta e due. Adunque, non iniuria, dicea Ovidio poeta:
con ambigui passi la fortuna erra,
né segue certa in alcun luogo [mai],
ma or si porge lieta e ora acerba.
Solo una legge serba in esser lieve.
Ma di questa inconstanza non aremo tanto da biasimarne la fortuna, quanto in prima la nostra stoltizia, quali mai contenti delle cose presenti, sempre suspesi a varie espettazioni, vorremo pari alli dii essere beati. Negava Euripide ad altri che solo alli dii essere concesso durare in perpetua felicità contenti. Affermano e' fisici, e in prima Ippocrate, essere a' corpi umani ascritta vicissitudine, che o crescano continuo o scemino: quello che tra questi due sia in mezzo, dicono trovarsi brevissimo. Così e molto più a tutte l'altre cose mortali certo vediamo essere fatale e ascritto ordine dalla natura che sempre stiano in moto, e in difforme successo vediamo e' cieli continuo innovare sua varietà . Affermava Platone, comune sentenza di tutti e' matematici, non prima con sue stelle tornare in simile sito el cielo, che agiratosi per infiniti avolgimenti anni numero sei e trenta migliara; né però si potrà quell'ora dire simile a questa qual sia più pressa alla fine, più lungi dal principio del mondo. Vedi la terra ora vestita di fiori, ora grave di pomi e frutti, ora nuda senza sue fronde e chiome, ora squallida e orrida pe' ghiacci e per la neve canute le fronti e summità de' monti e delle piaggie. E quanto pronto vediamo ora niuna, come dicea Mannilio poeta, segue mai simile a una altra ora, non agli animi degli uomini solo, quali mo lieti, poi tristi, indi irati, poi pieni di sospetti e simili perturbazioni, ma ancora alla tutta universa natura, caldo el dì, freddo la notte, lucido la mattina, fusco la sera, testé vento, subito quieto, poi sereno, poi pioggie, fulgori, tuoni, e così sempre di varietà in nuove varietà .
Forse a te queste simili spesso rived...
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