QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE, di Luigi Pirandello - pagina 2
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Il che significa: io sono il monte.
Che siamo noi? Siamo quello di cui a volta a volta ci accorgiamo.
Io sono il monte, io l'albero, io il mare.
Io sono anche la stella, che ignora se stessa!
Restai sbalordito.
Ma per poco.
Ho anch'io - inestirpabilmente radicata nel più profondo del mio essere - la stessa malattia dell'amico mio.
La quale, a mio credere, dimostra nel modo più chiaro, che tutto quello che avviene, forse avviene perché la terra non è fatta tanto per gli uomini, quanto per le bestie.
Perché le bestie hanno in sé da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni, a cui furono, ciascuna secondo la propria specie, ordinate; laddove gli uomini hanno in sé un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino.
Superfluo inesplicabile, chi per darsi uno sfogo crea nella natura un mondo fittizio, che ha senso e valore soltanto per essi, ma di cui pur essi medesimi non sanno e non possono mai contentarsi, cosicché senza posa smaniosamente lo mutano e rimutano, come quello che, essendo da loro stessi costruito per il bisogno di spiegare e sfogare un'attività di cui non si vede né il fine né la ragione, accresce e còmplica sempre più il loro tormento, allontanandoli da quelle semplici condizioni poste da natura alla vita su la terra, alle quali soltanto i bruti sanno restar fedeli e obbedienti.
L'amico Simone Pau è convinto in buona fede di valere molto più d'un bruto, perché il bruto non sa e si contenta di ripeter sempre le stesse operazioni.
Sono anch'io convinto ch'egli valga molto più d'un bruto, ma non per queste ragioni.
Che giova all'uomo non contentarsi di ripeter sempre le stesse operazioni? Già, quelle che sono fondamentali e indispensabili alla vita, deve pur compierle e ripeterle anch'egli quotidianamente, come i bruti, se non vuol morire.
Tutte le altre, mutate e rimutate di continuo smaniosamente, è assai difficile non gli si scoprano, presto o tardi, illusioni o vanità, frutto come sono di quel tal superfluo, di cui non si vede su la terra né il fine né la ragione.
E chi ha detto al mio amico Simone Pau, che il bruto non sa? Sa quello che gli è necessario e non s'impaccia d'altro, perché il bruto non ha in sé alcun superfluo.
L'uomo che l'ha, appunto perché l'ha, si pone il tormento di certi problemi, destinati su la terra a rimanere insolubili.
Ed ecco in che consiste la sua superiorità! Forse quel tormento è segno e prova (speriamo, non anche caparra!) di un'altra vita oltre la terrena; ma, stando così le cose su la terra, mi par proprio d'aver ragione quando dico ch'essa è fatta più pe' bruti che per gli uomini.
Non vorrei esser frainteso.
Intendo dire, che su la terra l'uomo è destinato a star male, perché ha in sé più di quanto basta per starci bene, cioè in pace e pago.
E che sia veramente un di più, per la terra, questo che l'uomo ha in sé (e per cui è uomo e non bruto), lo dimostra il fatto, ch'esso - questo di più - non riesce a quietarsi mai in nulla, né di nulla ad appagarsi quaggiù, tanto che cerca e chiede altrove, oltre la vita terrena, il perché e il compenso del suo tormento.
Tanto peggio poi l'uomo vi sta, quanto più vuole impiegare su la terra stessa in smaniose costruzioni e complicazioni il suo superfluo.
Lo so io, che giro una manovella.
Quanto al mio amico Simone Pau, il bello è questo: che crede d'essersi liberato d'ogni superfluo riducendo al minimo tutti i suoi bisogni, privandosi di tutte le comodità e vivendo come un lumacone ignudo.
E non s'accorge che, proprio all'opposto, egli, così riducendosi, s'è annegato tutto nel superfluo e più non vive d'altro.
Quella sera, appena giunto a Roma, io ancora non lo sapevo.
Lo conoscevo, ripeto, di costumi singolarissimi e spregiudicati, ma non avrei potuto mai immaginare che la singolarità sua e la sua spregiudicatezza arrivassero fino al punto che dirò.
IV
Pervenuti in fondo al Corso Vittorio Emanuele, passammo il ponte.
Ricordo che mirai quasi con religioso sgomento la fosca mole rotonda di Castel Sant'Angelo, alta e solenne sotto lo sfavillìo delle stelle.
Le grandi architetture umane, nella notte, e le costellazioni del cielo pare che s'intendano tra loro.
Nella frescura umida di quell'immenso sfondo notturno, sentii quel mio sgomento sobbalzare, guizzare come per tanti brividi, che forse mi venivano dai riflessi serpentini dei lumi degli altri ponti e delle dighe, nell'acqua nera, misteriosa, del fiume.
Ma Simone Pau mi strappò a quell'ammirazione, volgendo prima verso San Pietro, poi scantonando per il Vicolo del Villano.
Incerto della via, incerto di tutto, nel vuoto orrore delle vie deserte, piene di strane ombre vacillanti nei radi rivèrberi rossastri dei fanali, a ogni soffio d'aria, sui muri delle vecchie case, pensavo con terrore e con nausea alla gente che dormiva sicura in quelle case e non sapeva com'esse apparissero di fuori a chi errava sperduto per la notte, senza che per lui ce ne fosse una, ove potesse entrare.
Di tratto in tratto, Simone Pau crollava il testone e si picchiava il petto con due dita.
Oh sì! Il monte era lui, l'albero era lui, il mare era lui; ma l'albergo dov'era? Là, a Borgo Pio? Sì, là vicino: al Vicolo del Falco.
Alzai gli occhi; vidi a destra di quel vicolo un casamento tetro con una lanterna sospesa davanti al portone: una grossa lanterna, ove la fiammella del becco sbadigliava a traverso i vetri sudici.
Mi fermai davanti a quel portone mezzo chiuso e mezzo aperto, e lessi su l' arco:
OSPIZIO DI MENDICITÀ
- Tu dormi qua?
- E ci mangio anche.
Ciotole di minestre squisite.
In ottima compagnia.
Vieni: sono di casa.
Difatti, il vecchio portinajo e due altri addetti alla sorveglianza dell'ospizio, raccolti e curvi tutti e tre attorno a un braciere di rame lo accolsero come un ospite consueto, salutandolo coi gesti e con la voce dalla bacheca dell'androne rintronante:
- Buona sera, signor Professore.
Simone Pau mi prevenne, cupo, con molta serietà, che non mi facessi illusioni perché in quell'albergo non avrei potuto dormire per oltre sei notti di seguito.
Mi spiegò, che ogni sei notti bisognava che ne passassi fuori per lo meno una all'aperto, per poi ripigliare la serie.
Io, dormire là?
Innanzi a quei tre sorveglianti, ascoltai la spiegazione con un sorriso afflitto, che pur mi nuotava lieve lieve su le labbra, come per tenermi l'anima a galla e impedirle di sprofondare nella vergogna di quel basso fondo.
Quantunque in misere condizioni e con poche lire in tasca, ero vestito bene, coi guanti alle mani, le ghette ai piedi.
Volevo prendere l'avventura, con quel sorriso, come un capriccio bislacco del mio strano amico.
Ma Simone Pau se n'irritò:
- Non ti par serio?
- No, caro, veramente non mi par serio.
- Hai ragione, - disse Simone Pau.
- Serio veramente serio, sai chi è? è il dottore senza collo, vestito di nero, con grossa barba nera e occhiali a staffa, che nelle piazze addormenta la sonnambula.
Io non sono ancora serio fino a questo punto.
Puoi ridere, amico Serafino.
E seguitò a spiegarmi, che - tutto gratis, lì.
D'inverno, nella branda, due lenzuola di bucato solide e fresche come vele di barca, e due grosse coperte di lana; d'estate, le sole lenzuola e una lucchesina per chi la vuole; poi, un accappatojo e un pajo di pantofole di tela con suola di corda, lavabili.
- Bada bene, lavabili.
- E perché?
- Ti spiego.
Con quelle pantofole e con quell'accappatojo ti danno una tessera; tu entri in quello spogliatojo là - quella porta là, a destra - ti spogli e consegni gli abiti, scarpe comprese, per la disinfezione, che si fa nei forni, di là.
Quindi...
ecco, vieni qua, guarda...
Vedi questa bella piscina?
Sprofondai gli occhi e guardai.
Piscina? Era un antro mùffido, angusto e profondo, una specie di cava da ricettarvi majali, tagliata nella pietra viva per lungo, a cui si scendeva per cinque o sei gradini e da cui esalava un puzzo ardente di lavatojo.
Un tubo di latta, tutto a forellini gialli di ruggine, vi correva sopra, in mezzo, da un capo all'altro.
- Ebbene?
- Ti spogli di là; consegni gli abiti...
-...scarpe comprese...
-...scarpe comprese, per la disinfezione, e t'introduci nudo qua dentro.
- Nudo?
- Nudo in compagnia d'altri sei o sette nudi.
Uno di questi cari amici qua della bacheca apre la chiavetta dell'acqua, e tu, sotto il tubo, zifff...
ti prendi gratis, in piedi, una bellissima doccia.
Poi t'asciughi magnificamente con l'accappatojo, ti calzi le pantofole di tela, te ne sali zitto zitto in processione con gli altri incappati per la scala; eccola qua; là c'è la porta del dormitorio, e buona notte.
- Imprescindibile?
- Che? La doccia? Ah, perché tu hai i guanti e le ghette, amico Serafino? Ma te le puoi levare senza vergogna.
Ciascuno qua si leva le proprie vergogne d'addosso, e si presenta nudo al battesimo di questa piscina! Non hai il coraggio di scendere fino a queste nudità?
Non ce ne fu bisogno.
La doccia è obbligatoria solo per i mendicanti sporchi.
Simone Pau non l'aveva mai presa.
Egli è lì, veramente, professore.
Sono annessi a quell'asilo notturno una cucina economica e un ricovero per i ragazzi senza tetto, d'ambo i sessi, figli di mendicanti, figli di carcerati, figli di tutte le colpe.
Sono sotto la custodia di alcune suore di carità, che han trovato modo d'istituire per essi anche una scoletta.
Simone Pau, quantunque per professione nimicissimo dell'umanità e di qualsiasi insegnamento, dà lezione con molto piacere a quei ragazzi, per due ore al giorno, la mattina per tempo; e i ragazzi gli vogliono un gran bene.
Egli ha là, in compenso, alloggio e vitto: cioè una cameretta, tutta per lui, comoda e decente, e un servizio di cucina particolare, insieme con quattro altri insegnanti, che sono un povero vecchietto pensionato dal Governo pontificio e tre zitellone maestre, amiche delle suore e lì ricoverate.
Ma Simone Pau lascia il vitto particolare perché a mezzogiorno non è mai all'ospizio, e soltanto la sera, quando gli va, prende qualche ciotola di minestra dalla cucina comune; tiene la cameretta, ma non ne approfitta mai, perché va a dormire nel dormitorio dell'asilo notturno, per la compagnia che vi trova, e a cui ha preso gusto, di esseri obliqui e randagi.
Tolte quelle due ore di lezione, passa tutto il tempo nelle biblioteche e nei caffè; ogni tanto, stampa su qualche rassegna di filosofia uno studio che stordisce tutti per la bizzarra novità delle vedute, la stranezza delle argomentazioni e la copia della dottrina; e si rimpannuccia.
Io, allora, ripeto, non sapevo tutto questo.
Credevo, e forse in parte era vero, ch'egli mi avesse condotto lì per il piacere di sbalordirmi; e poiché non c'è miglior mezzo di sconcertare chi voglia sbalordirvi con paradossi sbardellati o con le più strane e bislacche proposte, che fingere d'accettar quei paradossi come fossero le verità più ovvie e quelle proposte come naturalissime e del caso; così feci io quella sera, per sconcertare il mio amico Simone Pau.
Il quale, capito il mio proposito, mi guardò negli occhi e, vedendomeli perfettamente impassibili, esclamò sorridendo:
- Come sei imbecille!
Mi profferse la sua cameretta; credetti in principio che scherzasse; ma quando m'assicurò che aveva lì veramente una cameretta per sé non volli accettare e andai con lui nel dormitorio dell'asilo.
Non me ne pento, perché al disagio e al ribrezzo che provai in quell'orrido luogo ebbi due compensi:
1° quello di trovare il posto, che occupo al presente, o meglio, l'occasione di entrare come operatore nella grande Casa di cinematografia La Kosmograph;
2° quello di conoscere l'uomo, che per me è rimasto il simbolo della sorte miserabile, a cui il continuo progresso condanna l'umanità.
Ecco, prima, l'uomo.
V
Me lo mostrò Simone Pau, la mattina appresso, quando ci levammo dalla branda.
Non descriverò quello stanzone del dormitorio appestato da tanti fiati, nella squallida luce dell'alba, né l'esodo di quei ricoverati, che scendevano irti e rabbuffati dal sonno nei lunghi càmici bianchi, con le pantofole di tela ai piedi e la tèssera in mano, giù allo spogliatojo, per ritirare a turno i loro panni.
Uno era in mezzo a questi, che fra gli sgonfii del bianco accappatojo teneva stretto sotto il braccio un violino, chiuso nella fodera di panno verde, logora, sudicia, stinta, e se n'andava inarcocchiato e tenebroso, come assorto a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate.
- Amico! amico! - lo chiamò Simone Pau.
Quegli si fece avanti, tenendo il capo chino e sospeso, come se gli pesasse enormemente il naso rosso e carnuto; e pareva dicesse, avanzandosi:
"Fate largo! fate largo! Vedete come la vita può ridurre il naso d'un uomo?"
Simone Pau gli s'accostò; amorevolmente con una mano gli sollevò il mento; gli batté l'altra su la spalla, per rinfrancarlo, e ripeté:
- Amico mio!
Poi, rivolgendosi a me:
- Serafino - disse, ti presento un grande artista.
Gli hanno appiccicato un nomignolo schifoso; ma non importa: è un grande artista.
Ammìralo: qua, col suo Dio sotto il braccio! Potrebbe essere una scopa: è un violino.
Mi voltai a osservar l'effetto delle parole di Simone Pau sul viso dello sconosciuto.
Impassibile.
E Simone Pau seguitò:
- Un violino, per davvero.
E non lo lascia mai.
Anche i custodi qua gli concedono di portarselo a letto, a patto che non suoni di notte e non disturbi gli altri ricoverati.
Ma non c'è pericolo.
Càvalo fuori amico mio, e mostralo a questo signore, che ti saprà compatire.
Quegli mi spiò prima con diffidenza; poi, a un nuovo invito di Simone Pau, trasse dalla custodia il vecchio violino, un violino veramente prezioso, e lo mostrò, come un monco vergognoso può mostrare il suo moncherino.
Simone Pau riprese, rivolto a me:
- Vedi? Te lo mostra.
Grande concessione di cui devi ringraziarlo! Suo padre, molti anni or sono, lo lasciò padrone a Perugia di una tipografia ricca di macchine e di caratteri e bene avviata.
Di' tu, amico mio, che ne facesti, per consacrarti al culto del tuo Dio?
L'uomo rimase a guardare Simone Pau, come se non avesse compreso la domanda.
Simone Pau gliela chiarì:
- Che ne facesti della tua tipografia?
Quegli allora scattò in un gesto di noncuranza sdegnosa.
- La trascurò, - disse, per spiegare quel gesto, Simone Pau.
- La trascurò fino al punto di ridursi al lastrico.
E allora, col suo violino sotto il braccio, se ne venne a Roma.
Ora non suona più da un pezzo, perché crede di non poter più sonare dopo quanto gli è accaduto.
Ma fino a qualche tempo fa sonava nelle osterie.
Nelle osterie si beve; e lui prima sonava poi beveva.
Sonava divinamente; più divinamente sonava, e più beveva; così che spesso era costretto a mettere in pegno il suo Dio, il suo violino.
E allora si presentava in qualche tipografia per trovar lavoro: metteva insieme a poco a poco quel tanto che gli bisognava per spegnare il violino e ritornava a sonare nelle osterie.
Ma senti che cosa gli capitò una volta, per cui...
capisci? gli si è un po' alterata la...
La...
non diciamo ragione, per carità, diciamo concezione della vita.
Insacca, insacca, amico mio, il tuo strumento: so che ti fa male, se io lo dico, mentre tu hai il tuo violino scoperto.
L'uomo accennò più volte di sì, gravemente, col capo arruffato, e rinfoderò il violino.
- Gli capitò questo - seguitò Simone Pau.
- Si presenta in una grande officina tipografica, nella quale è proto uno che, da ragazzotto, lavorava nella sua tipografia a Perugia.
"Non c'è posto; mi dispiace," gli dice costui.
E l'amico mio fa per andarsene, avvilito, quando si sente richiamare.
- "Aspetta, - dice.
- Se ti adatti, ci sarebbe da fare un servizio...
Non sarebbe per te; ma, se tu hai bisogno..." -.
Il mio amico si stringe nelle spalle, e segue il proto.
È introdotto in un reparto speciale silenzioso; e lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso; una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri.
È una monotype perfezionata, senza complicazioni d'assi, di ruote, di pulegge, senza il ballo strepitoso della matrice.
Ti dico una vera bestia, un pachiderma, che si ruguma quieto quieto il suo lungo nastro di carta traforata.
"Fa tutto da sé - dice il proto al mio amico.
- Tu non hai che a darle da mangiare di tanto in tanto i suoi pani di piombo, e starla a guardare." Il mio amico si sente cascare il fiato e le braccia.
Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un artista! Peggio d'un mozzo di stalla...
Stare a guardia di quella bestiaccia nera, che fa tutto da sé, e che non vuol da lui altro servizio, che d'aver messo in bocca, di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la sua arte; giura e promette di non ritornare più a sonare nelle osterie, dov'è forte, veramente forte per lui la tentazione di bere, e vuol trovare altri luoghi più degni per l'esercizio della sua arte, per il culto della sua divinità.
Sissignori! Appena spegnato il violino, legge negli avvisi d'un giornale, tra le offerte d'impiego, quella d'un cinematografo, in via tale, numero tale, che ha bisogno d'un violino e d'un clarinetto per la sua orchestrina esterna.
Subito il mio amico accorre: si presenta, felice, esultante, col suo violino sotto il braccio.
Ebbene: si trova davanti un'altra macchina, un pianoforte automatico, un cosidetto piano-melodico.
Gli dicono: - "Tu col tuo violino devi accompagnare quello strumento lì".
Capisci? Un violino, nelle mani d'un uomo, accompagnare un rotolo di carta traforata introdotto nella pancia di quell'altra macchina lì.
L'anima, che muove e guida le mani di quest'uomo, e che or s'abbandona nelle cavate dell'archetto, or freme nelle dita che premono le corde, costretta a seguire il registro di quello strumento automatico! Il mio amico diede in tali escandescenze, che dovettero accorrere le guardie, e fu tratto in arresto e condannato per oltraggio alla forza pubblica a quindici giorni di carcere.
Ne è uscito, come lo vedi.
Beve, e non suona più.
VI
Tutte le considerazioni da me fatte in principio sulla mia sorte miserabile e su quella di tanti altri condannati come me a non esser altro che una mano che gira una manovella, hanno per punto di partenza quest'uomo incontrato la prima sera del mio arrivo a Roma.
Certamente ho potuto farle, perché anch'io mi sono ridotto a quest'ufficio di servitore d'una macchina; ma son venute dopo.
Lo dico, perché quest'uomo, presentato qui, dopo quelle considerazioni, potrebbe parere a qualcuno una mia grottesca invenzione.
Ma si badi ch'io forse non avrei mai pensato di fare quelle considerazioni, se in parte non me le avesse suggerite Simone Pau nel presentarmi quel disgraziato; e che, del resto, grottesca è tutta la mia prima avventura, e tale perché grottesco è, e vuol essere, quasi per professione, Simone Pau, il quale, per darmene un saggio fin dalla prima sera, volle condurmi a dormire in un ospizio di mendicità.
Io non feci allora nessunissima considerazione; prima, perché non potevo pensare neppur lontanamente che mi sarei ridotto a quest'ufficio; poi, perché me l'avrebbe impedito un gran tramestìo sù per la scala del dormitorio e un irrompere confuso e festante di tutti quei ricoverati già scesi allo spogliatojo per ritirare i loro panni.
Che era accaduto?
Ritornavano sù, insaccati di nuovo nei bianchi accappatoj, e con le pantofole ai piedi.
Tra loro, e insieme coi custodi e le suore di carità addette al ricovero e alla cucina economica, eran parecchi signori e qualche signora, tutti ben vestiti e sorridenti, con un'aria curiosa e nuova.
Due di quei signori avevano in mano una macchinetta, che ora conosco bene, avvolta in una coperta nera, e sotto il braccio il treppiedi a gambe rientranti.
Erano attori e operatori d'una Casa cinematografica, e venivano per un film a cogliere dal vero una scena d'asilo notturno.
La Casa cinematografica, che mandava quegli attori, era la Kosmograph, nella quale io da otto mesi ho il posto d'operatore; e il direttore di scena, che li guidava, era Nicola Polacco, o, come tutti lo chiamano, Cocò Polacco, mio amico d'infanzia e compagno di studii a Napoli nella prima giovinezza.
Debbo a lui il posto e alla fortunata congiuntura d'essermi trovato quella notte con Simone Pau in quell'asilo notturno.
Ma né a me, ripeto, venne in mente, quella mattina, che mi sarei ridotto a collocar sul treppiedi una macchina di presa, come vedevo fare a quei due signori, né a Cocò Polacco di propormi un tale ufficio.
Egli, da quel buon figliuolo che è, non stentò molto a riconoscermi, quantunque io - riconosciutolo subito - facessi di tutto per non essere scorto da lui in quel luogo miserabile, vedendolo raggiante d'eleganza parigina e con un'aria e un'impostatura di condottiero invincibile, tra quegli attori, quelle attrici e tutte quelle reclute della miseria, che non capivano più nei loro bianchi càmici dalla gioja d'un guadagno insperato.
Si mostrò sorpreso di trovarmi là, ma soltanto per l'ora mattutina, e mi domandò come avessi saputo ch'egli con la sua compagnia dovesse venire quella mattina nell'asilo per un interno dal vero.
Lo lasciai nell'inganno, che mi trovassi lì per caso come un curioso; gli presentai Simone Pau (l'uomo dal violino, nella confusione, era sgattajolato via); e rimasi ad assistere disgustato alla sconcia contaminazione di quella triste realtà, di cui avevo nella notte assaporato l'orrore, con la stupida finzione che il Polacco era venuto a iscenarvi.
Ma il disgusto, forse, lo sento adesso.
Quella mattina, dovevo avere più che altro curiosità d'assistere per la prima volta all'iscenatura d'una cinematografia.
Pure la curiosità, a un certo punto, mi fu distratta da una di quelle attrici, la quale, appena intravista, me ne suscitò un'altra assai più viva.
La Nestoroff...
Possibile? Mi pareva lei e non mi pareva.
Quei capelli d'uno strano color fulvo quasi cùpreo, il modo di vestire, sobrio, quasi rigido, non erano suoi.
Ma l'incesso dell'esile elegantissima persona, con un che di felino nella mossa dei fianchi; il capo alto, un po' inclinato da una parte, e quel sorriso dolcissimo su le labbra fresche come due foglie di rosa, appena qualcuno le rivolgeva la parola; quegli occhi stranamente aperti, glauchi, fissi, e vani a un tempo, e freddi nell'ombra delle lunghissime ciglia, erano suoi, ben suoi, con quella sicurezza tutta sua, che ciascuno, qualunque cosa ella fosse per dire o per chiedere, le avrebbe risposto di sì.
Varia Nestoroff...
Possibile? Attrice d'una Casa di cinematografia?
Mi balenarono in mente Capri, la Colonia russa, Napoli, tanti rumorosi convegni di giovani artisti, pittori, scultori, in strani ridotti eccentrici, pieni di sole e di colore, e una casa, una dolce casa di campagna, presso Sorrento, dove quella donna aveva portato lo scompiglio e la morte.
Quando, ripetuta per due volte la scena per cui la compagnia era venuta in quell'asilo, Cocò Polacco m'invitò ad andarlo a trovare alla Kosmograph, io, ancora in dubbio gli domandai se quell'attrice fosse proprio la Nestoroff.
- Sì, caro, - mi rispose, sbuffando.
- Ne sai forse la storia?
Gli accennai di sì col capo.
- Ah, ma non puoi saperne il seguito - riprese il Polacco.
- Vieni, vieni a trovarmi alla Kosmograph; te ne dirò di belle.
Gubbio, pagherei non so che cosa per levarmi dai piedi questa donna.
Ma, guarda, è più facile che...
- Polacco! Polacco! - chiamò a questo punto colei.
E dalla premura con cui Cocò Polacco accorse alla chiamata, compresi bene qual potere ella avesse nella Casa, ov'era scritturata quale prima attrice con uno dei più lauti stipendii.
Alcuni giorni dopo mi recai alla Kosmograph, non per altro, per conoscere il seguito della storia, purtroppo a me nota, di quella donna.
Quaderno secondo
I
Dolce casa di campagna, Casa dei nonni, piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose ma quasi intime parti di coloro che v'abitavano, perché in essi toccavano e s
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