QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE, di Luigi Pirandello - pagina 10
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A seguitare, non ci saremmo mai intesi; perché se a me stava a cuore la tigre, a lei il cacciatore.
Difatti il cacciatore designato a ucciderla è Carlo Ferro.
La Nestoroff ne dev'essere molto costernata; e forse non viene qua, come vogliono i maligni, per studiare la sua parte, ma per misurare il pericolo che il suo amante affronterà.
Il quale, anche lui, per quanto ostenti una sprezzante indifferenza, dev'esserne, in fondo, in apprensione.
So che, parlando col direttore generale, commendator Borgalli, e anche sù negli uffici d'amministrazione, ha messo avanti molte pretese: un'assicurazione su la vita di almeno centomila lire, da dare a' suoi parenti che vivono in Sicilia, in caso di morte, che non sia mai; un'altra assicurazione, più modesta, nel caso d'inabilità al lavoro per qualche eventuale ferita, che non sia mai neppure questa; una grossa gratificazione, se tutto, com'è da augurarsi, andrà bene, e poi - pretesa curiosa, non suggerita certo, come le precedenti, da un avvocato - la pelle della tigre uccisa.
La pelle della tigre sarà senza dubbio per la Nestoroff; per i piedini di lei; tappeto prezioso.
Oh, ella avrà certo sconsigliato all'amante, pregando, scongiurando, d'assumere quella parte così pericolosa; ma poi, vedendolo deciso e impegnato, avrà suggerito lei, proprio lei, al Ferro, di pretendere almeno la pelle della tigre.
Come "almeno"? Ma sì! Ch'ella gli abbia detto "almeno", mi sembra proprio indubitabile.
Almeno, cioè in compenso dell'ansia angosciosa che le costerà la prova, a cui egli s'esporrà.
Non è possibile che sia venuta in mente a lui, a Carlo Ferro, l'idea d'aver la pelle della belva uccisa per metterla sotto i piedini della sua amante.
Non è capace, Carlo Ferro, di tali idee.
Basta guardarlo per convincersene: guardare quel suo nero testone villoso e burbanzoso di caprone.
Egli sopravvenne, l'altro giorno, a interrompere la mia conversazione con la Nestoroff innanzi alla gabbia.
Non si curò nemmeno di sapere di che cosa noi stessimo a parlare, come se per lui non potesse avere alcuna importanza una conversazione con me.
Mi guardò appena, accostò appena la cannuccia di bambù al cappello per un cenno di saluto, guardò con la solita sprezzante indifferenza la tigre nella gabbia, dicendo all'amante:
- Andiamo: Polacco è pronto; ci aspetta.
E voltò le spalle, sicuro d'esser seguito dalla Nestoroff, come un tiranno dalla sua schiava.
Nessuno più di lui sente e dimostra quell'istintiva antipatia, ch'io ho detto comune a quasi tutti gli attori per me, e che si spiega, o almeno, io mi spiego come un effetto, a loro stessi non chiaro, della mia professione.
Carlo Ferro la sente più di tutti, perché, tra tante altre fortune, ha quella di credersi sul serio un grande attore.
VI
Non è tanto per me - Gubbio - l'antipatia, quanto per la mia macchinetta.
Si ritorce su me, perché io sono quello che la gira.
Essi non se ne rendono conto chiaramente, ma io, con la manovella in mano, sono in realtà per loro una specie d'esecutore.
Ciascun d'essi - parlo s'intende dei veri attori, cioè di quelli che amano veramente la loro arte qualunque sia il loro valore - è qui di mala voglia, è qui perché pagato meglio, e per un lavoro che, se pur gli costa qualche fatica, non gli richiede sforzi d'intelligenza.
Spesso, ripeto, non sanno neppure che parte stiano a rappresentare.
La macchina, con gli enormi guadagni che produce, se li assolda, può compensarli molto meglio che qualunque impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica.
Non solo; ma essa, con le sue riproduzioni meccaniche, potendo offrire a buon mercato al gran pubblico uno spettacolo sempre nuovo, riempie le sale dei cinematografi e lascia vuoti i teatri, sicché tutte, o quasi, le compagnie drammatiche fanno ormai meschini affari; e gli attori, per non languire, si vedono costretti a picchiare alle porte delle Case di cinematografia.
Ma non odiano la macchina soltanto per l'avvilimento del lavoro stupido e muto a cui essa li condanna; la odiano sopra tutto perché si vedono allontanati, si sentono strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi.
Qua si sentono come in esilio.
In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi.
Perché la loro azione, l'azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c'è più: c'è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare.
Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vôtamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch'esso produce movendosi, per diventare soltanto un'immagine muta, che trèmola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d'un tratto, come un'ombra inconsistente, giuoco d'illusione su uno squallido pezzo di tela.
Si sentano schiavi anch'essi di questa macchinetta stridula, che pare sul treppiedi a gambe rientranti un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d'illusione meccanica davanti al pubblico.
E colui che li spoglia della loro realtà e la dà a mangiare alla macchinetta; che riduce ombra il loro corpo, chi è? Sono io, Gubbio.
Essi restano qua, come su un palcoscenico di giorno, quando provano.
La sera della rappresentazione per essi non viene mai.
Il pubblico non lo vedono più.
Pensa la macchinetta alla rappresentazione davanti al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare solo davanti a lei.
Quando hanno rappresentato, la loro rappresentazione è pellicola.
Mi possono voler bene?
Un certo rinfranco all'avvilimento lo hanno nel non vedersi essi soli mortificati al servizio di questa macchinetta, che muove, agita, attrae tanto mondo attorno a sé.
Scrittori illustri, commediografi, poeti, romanzieri, vengono qua, tutti al solito dignitosamente proponendo la "rigenerazione artistica" dell'industria.
E a tutti il commendator Borgalli parla d'un modo, e Cocò Polacco d'un altro: quello, coi guanti da direttore generale; questo, sbottonato, da direttore di scena.
Ascolta paziente tutte le proposte di scenarii, Cocò Polacco; ma a un certo punto alza una mano, dice:
- Oh no, quest'è un po' crudo.
Dobbiamo sempre aver l'occhio agl'Inglesi, caro mio!
Trovata genialissima, questa degli Inglesi.
Veramente la maggior parte delle pellicole prodotte dalla Kosmograph va in Inghilterra.
Bisogna dunque per la scelta degli argomenti adattarsi al gusto inglese.
E quante cose allora non vogliono gl'Inglesi nelle pellicole, secondo Cocò Polacco!
- La pruderie inglese, tu capisci! Basta che dicano shocking, e addio ogni cosa! Se le pellicole andassero direttamente al giudizio del pubblico, forse forse tante cose passerebbero; ma no: per l'importazione delle pellicole in Inghilterra ci sono gli agenti, c'è lo scoglio, c'è la piaga degli agenti.
Decidono loro, gli agenti, inappellabilmente: questo va, questo non va.
E per ogni film che non vada, sono centinaja di migliaja di lire perdute o che vengono meno.
Oppure Cocò Polacco esclama:
- Bellissimo! Ma questo, caro mio, è un dramma, un dramma perfetto! Successone sicuro! Vuoi fare una pellicola? Non te lo permetterò mai! Come pellicola non va: te l'ho detto, caro, troppo fino, troppo fino.
Qua ci vuol altro! Tu sei troppo intelligente, e lo intendi.
In fondo, Cocò Polacco, se rifiuta loro i soggetti, fa pure un elogio: dice loro che non sono stupidi abbastanza per scrivere per il cinematografo.
Da un canto, perciò, essi vorrebbero capire, si rassegnerebbero a capire; ma, dall'altro, vorrebbero anche accettati i soggetti.
Cento, duecento cinquanta, trecento lire, in certi momenti...
Il dubbio, che l'elogio della loro intelligenza e il disprezzo del cinematografo quale strumento d'arte siano messi avanti per rifiutare con un certo garbo i soggetti balena a qualcuno di loro; ma la dignità è salva e se ne possono andar via a testa alta.
Da lontano gli attori li salutano come compagni di sventura.
- Tutti bisogna che passino di qua! - pensano tra loro con gioja maligna.
- Anche le teste coronate! Tutti di qua, stampati per un momento su un lenzuolo!
Giorni sono, ero con Fantappiè nel cortile ov'è la Sala di prova e l'ufficio della Direzione artistica, quando scorgemmo un vecchietto zazzeruto, in cappello a stajo, dal naso enorme, dagli occhi loschi dietro gli occhiali d'oro, la barbetta a collana, che pareva tutto ristretto in sé per paura dei grandi manifesti illustrati incollati al muro, rossi, gialli, azzurri, sgargianti, terribili, dei films che più hanno fatto onore alla Casa.
- Illustre senatore! - esclamò Fantappiè con un balzo, accorrendo e poi piantandosi su l'attenti con la mano levata comicamente al saluto militare.
- È venuto per la prova?
- Già...
sì...
mi avevano detto per le dieci, - rispose l'illustre senatore, sforzandosi di discernere con chi parlava.
- Per le dieci? Chi gliel'ha detto? Polacco?
- Non capisco...
- Il direttore Polacco?
- No, un italiano...
uno che chiamano l'ingegnere...
- Ah, capito: Bertini! Le aveva detto per le dieci? Non dubiti.
Sono le dieci e mezzo.
Per le undici certo sarà qui.
Era il venerando Professor Zeme, l'insigne astronomo, direttore dell'Osservatorio e senatore del Regno, accademico dei Lincei, insignito di non so quante onorificenze italiane e straniere, invitato a tutti i pranzi di Corte.
- E...
scusi, senatore, - riprese quel burlone di Fantappiè.
- Una domanda: non potrebbe farmi andare nella Luna?
- Io? nella Luna?
- Sì, dico...
cinematograficamente, si capisce...
Fantappiè nella Luna: sarebbe delizioso! In ricognizione, con otto soldati.
Ci pensi un po', senatore.
Concerterei la scenetta...
No? Dice di no?
Il senator Zeme disse di no, con la mano, se non proprio sdegnosamente, certo con molta austerità.
Uno scienziato pari suo non poteva prestarsi a mettere a servizio d'una buffonata la sua scienza.
Si è prestato, sì, a farsi prendere in tutti gli atteggiamenti nel suo Osservatorio; ha voluto anche projettato su lo schermo il registro delle firme dei più illustri visitatori dell'Osservatorio, perché il pubblico vi leggesse le firme delle LL.
MM.
il Re e la Regina e delle LL.
AA.
RR.
il Principe Ereditario e le Principessine e di S.
M.
il Re di Spagna e di altri re e ministri di Stato e ambasciatori; ma tutto questo a maggior gloria della sua scienza e per dare al popolo una qualche immagine delle Meraviglie dei cieli (titolo della pellicola) e delle formidabili grandezze, in mezzo alle quali lui, il senator Zeme, pur così piccoletto com'è, vive e lavora.
- Martuf!- esclamò sotto sotto Fantappiè, da buon piemontese, con una delle sue solite smorfie, andando via con me.
Ma ritornammo indietro, poco dopo, attirati da un gran clamore di voci, che s'era levato nel cortile.
Attori, attrici, operatori, direttori di scena, macchinisti erano usciti dai camerini e dalla Sala di prova e stavano attorno al senator Zeme alle prese con Simone Pau, che suol venire di tanto in tanto a trovarmi alla Kosmograph.
- Ma che educazione del popolo! - urlava Simone Pau.
- Mi faccia il piacere! Mandi Fantappiè nella Luna! Lo faccia giocare alle bocce con le stelle! O crede forse che siano sue, le stelle? Qua, le consegni qua alla divina Sciocchezza degli uomini, che ha tutto il diritto di appropriarsene e di giocarci alle bocce! Del resto...
del resto, scusi, che fa lei? che crede d'esser lei? Lei non vede che l'oggetto! Lei non ha coscienza che dell'oggetto! Dunque, religione.
E il suo Dio è il cannocchiale! Lei crede che sia il suo strumento? Non è vero! Quello è il suo Dio, e lei lo venera! Lei è come Gubbio, qua, con la sua macchinetta! Il servitore...
non voglio offenderla, dirò il sacerdote, il pontefice massimo, le basta? di quel suo Dio, e giura nel domma della sua infallibilità.
Dov'è Gubbio? Viva Gubbio! viva Gubbio! Aspetti, non se ne vada, Senatore! Io sono venuto qua, questa mattina, per consolare un infelice.
Gli ho dato convegno qua: già dovrebbe essere qua! Un infelice, mio compagno avventore dell'albergo del Falco...
Non c'è miglior mezzo per consolare un infelice, che mostrargli e fargli toccar con mano che non è solo.
E l'ho invitato qua, tra questi bravi amici artisti.
È un artista anche lui! Eccolo qua! Eccolo qua!
E l'uomo dal violino, lungo lungo, inarcocchiato e tenebroso, ch'io vidi or è più di un anno nell'ospizio di mendicità, si fece avanti, come assorto, al solito, a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate.
Tutti fecero largo.
Nel silenzio sopravvenuto, crepitò qualche scoppio di risa, qua e là.
Ma lo stupore e un certo senso di ribrezzo teneva la maggior parte nel vedere quell'uomo avanzarsi a capo chino con gli occhi a quel modo assorti ai peli delle sopracciglia, quasi non volesse vedersi il naso carnuto e rosso, peso enorme e castigo della sua intemperanza.
Più che mai, adesso, avanzandosi, pareva dicesse: - Silenzio! Fate largo! Vedete come la vita può ridurre il naso d'un uomo?
Simone Pau lo presentò al senator Zeme, che scappò via, indignato; risero tutti; ma Simone Pau, serio, riprese a far la presentazione alle attrici, agli attori, ai direttori di scena, narrando a scatti un po' all'uno un po' all'altro, la storia del suo amico, e come e perché dopo quell'ultimo famoso intoppo non avesse più sonato.
Alla fine, tutto acceso, gridò:
- Ma egli oggi sonerà, signori! Sonerà! Romperà l'incanto malefico! Mi ha promesso che sonerà! Ma non a voi, signori! Voi vi terrete discosti.
M'ha promesso che sonerà alla tigre! Sì, sì, alla tigre! alla tigre! Bisogna rispettare questa sua idea! Certo avrà le sue buone ragioni! Andiamo, sù, andiamo tutti...
Ci terremo discosti...
Egli si farà, solo, innanzi alla gabbia, e sonerà!
Tra gridi, risa, applausi, sospinti tutti da una vivissima curiosità per la bizzarra avventura, seguimmo Simone Pau, che aveva preso sotto il braccio il suo uomo, e lo spingeva avanti seguendo le indicazioni che gli si gridavano dietro, su la via da tenere per andare al serraglio.
In vista delle gabbie, ci arrestò tutti, raccomandando silenzio, e mandò avanti, solo, quell'uomo col suo violino.
Al rumore, dai cantieri, dai magazzini, operaj, macchinisti, apparatori, accorsero in gran numero per assistere dietro di noi alla scena: una folla.
La belva s'era ritratta d'un balzo in fondo alla gabbia; inarcata, a testa bassa.
i denti digrignanti, le zampe artigliate, pronta all'assalto: terribile!
L'uomo la guatò, sbigottito; si voltò perplesso a cercare con gli occhi tra noi Simone Pau.
- Suona! - gli gridò questi.
- Non temere! Suona! Ti comprenderà!
E allora quello, come liberandosi con un tremendo sforzo da un incubo, levò finalmente la testa, scrollandola, buttò a terra il cappellaccio sformato, si passò una mano sui lunghi capelli arruffati, trasse il violino dalla vecchia fodera di panno verde, e buttò via anche questa, sul cappello.
Qualche lazzo partì dagli operaj affollati dietro a noi, seguito da risa e da commenti, mentre egli accordava il violino; ma un gran silenzio si fece subito appena egli prese a sonare, dapprima un po' incerto, esitante, come se si sentisse ferire dal suono del suo strumento non più udito da gran tempo; poi, d'un tratto, vincendo l'incertezza, e forse i fremiti dolorosi, con alcuni strappi energici.
Seguì a questi strappi come un affanno a mano a mano crescente, incalzante, di strane note aspre e sorde, un groviglio fitto, da cui ogni tanto una nota accennava ad allungarsi, come chi tenti di trarre un sospiro tra i singhiozzi.
Alla fine questa nota si distese, si sviluppò, s'abbandonò, liberata dall'affanno, in una linea melodica, limpida, dolcissima e intensa, vibrante d'infinito spasimo: e una profonda commozione allora invase noi tutti, che in Simone Pau si rigò di lagrime.
Con le braccia levate egli faceva cenno di star zitti, di non manifestare in alcun modo la nostra ammirazione, perché nel silenzio quel bislacco straccione meraviglioso potesse ascoltare la sua anima.
Non durò a lungo.
Abbassò le mani, come esausto, col violino e l'archetto, e si rivolse a noi col volto trasfigurato, bagnato di pianto, dicendo:
- Ecco...
Scoppiarono applausi fragorosi.
Fu preso, portato in trionfo.
Poi, condotto alla prossima trattoria, non ostanti le preghiere e le minacce di Simone Pau, bevve e s'ubriacò.
Polacco s'è morso un dito dalla rabbia, per non aver pensato di mandarmi subito a prendere la macchinetta per fissare quella scena della sonata alla tigre.
Come capisce bene tutto, sempre, Cocò Polacco! Io non potei rispondergli perché pensavo agli occhi della signora Nestoroff, che aveva assistito alla scena, come in un'estasi piena di sgomento.
Quaderno quarto
I
Non ho più il minimo dubbio: ella sa della mia amicizia per Giorgio Mirelli, e sa che Aldo Nuti tra poco sarà qui.
Le due notizie le sono venute, certamente, da Carlo Ferro.
Ma come avviene, che qua non si voglia ricordare ciò ch'è accaduto tra i due, e non si siano troncate subito le pratiche col Nuti? A favorire queste pratiche s'è adoperato con molto impegno, sotto mano, il Polacco, amico del Nuti, e a cui il Nuti fin da principio s'è rivolto.
Pare che il Polacco abbia ottenuto da uno dei giovanotti che sono qua "dilettanti", il Fleccia, la vendita a ottime condizioni dei dieci carati che costui possedeva.
Da alcuni giorni, infatti, il Fleccia va dicendo che s'è annojato di stare a Roma e che andrà a Parigi.
Si sa che, di questi giovanotti, i più, oltre che per tutto il resto, bazzicano qui per l'amicizia contratta, o che vorrebbero contrarre, con qualche giovane attrice; e che tanti se ne vanno, quando non sono riusciti a contrarla, o se ne sono stancati.
Diciamo amicizia: per fortuna, le parole non arrossiscono.
Ecco qua: una giovane attrice, in costume di "divette" o di ballerina, va correndo col torso ignudo per le piattaforme e gli sterrati; si ferma qua e là a conversare col seno imbandito sorto gli occhi di tutti; ebbene il giovanotto suo amico le viene dietro con la scatola e il piumino della cipria in mano, e ogni tanto glielo ripassa su la pelle, su le braccia, su la nuca, sotto la gola, orgoglioso che un siffatto ufficio spetti a lui.
Quante volte, dacché sono entrato alla Kosmograph, non ho visto Gigetto Fleccia correr così dietro alla piccola Sgrelli? Ma ora egli, da circa un mese s'è guastato con lei.
Il tirocinio è fatto: andrà a Parigi.
Nulla di straordinario, dunque, per nessuno, che il Nuti, ricco signore anche lui e dilettante attore, venga a prenderne il posto.
Non è forse noto abbastanza, o è già dimenticato il dramma della sua prima avventura con la Nestoroff.
Io sono pur ingenuo talvolta! Chi si ricorda di qualche cosa a distanza d'un anno? C'è più tempo da stimare in città, fra tanto turbinìo di vita, che qualche cosa - uomo, opera, fatto - meriti il ricordo d'un anno? Voi nella solitudine della campagna, Duccella e nonna Rosa, potete ricordare! Qua, se pure qualcuno ricorda, ebbene, c'è stato un dramma? tanti ne avvengono, e per nessuno questo turbinìo di vita s'arresta un momento.
Non sembrerà cosa in cui gli altri, da estranei, debbano immischiarsi, per impedir le conseguenze di una ripresa.
Che conseguenze? Un urto con Carlo Ferro? Ma è così inviso a tutti, costui, non solo per la sua burbanza, ma appunto perché amante della Nestoroff! Se quest'urto avverrà e nascerà qualche disordine, sarà per gli estranei uno spettacolo di più da godere: e quanto a coloro cui deve premere che nessun disordine nasca, sperano forse di trovarvi un pretesto per licenziare con Carlo Ferro la Nestoroff, la quale, se è ben protetta dal commendator Borgalli, è qua di peso a tutti gli altri.
O forse si spera che la Nestoroff stessa, per sfuggire al Nuti, si licenzi da sé?
Certo il Polacco s'è adoperato con tanto impegno alla venuta del Nuti unicamente per questo; e fin da principio, nascostamente, ha voluto che il Nuti, contro la protezione che il commendator Borgalli potrebbe far valere, fosse premunito con l'acquisto a caro prezzo dei carati di Gigetto Fleccia e col diritto di surrogar costui anche nelle parti di attore.
Che ragione, poi, hanno tutti costoro di costernarsi dell'animo con cui il Nuti verrà? Prevedono, se mai, solamente l'urto con Carlo Ferro, perché Carlo Ferro è qui, davanti a loro; lo vedono, lo toccano; e non immaginano che tra la Nestoroff e il Nuti ci possa esser di mezzo qualche altro.
- Tu? - mi domanderebbero, se io mi mettessi a parlare con loro di queste cose.
Io, cari? Eh, voi avete voglia di scherzare.
Uno, che voi non vedete; uno, che non potete toccare.
Uno spettro, come nelle favole.
Appena l'uno tenterà di riaccostarsi all'altra, per forza questo spettro sorgerà tra loro.
Subito dopo il suicidio, sorse; e li fece fuggire, inorriditi, l'uno dall'altra.
Bellissimo effetto cinematografico, per voi! Ma non per Aldo Nuti.
Come mai può egli, adesso, pensare e tentare di riaccostarsi a questa donna? Non è possibile che - lui almeno - abbia dimenticato lo spettro.
Ma avrà saputo che la Nestoroff è qua con un altr'uomo.
E quest'uomo gli dà certo, ora, il coraggio di riaccostarsi a lei.
Forse spera che quest'uomo, con la solidità del suo corpo gli nasconderà quello spettro, gl'impedirà di scorgerlo, impegnandoli in una lotta tangibile, in una lotta, cioè non contro uno spettro, ma di corpo a corpo.
E fors'anche fingerà di credere che verrà a impegnarsi in questa lotta per lui, a vendetta di lui.
Perché certo la Nestoroff, ponendosi quest'altro uomo accanto, ha mostrato d'essersi dimenticata del "povero morto".
Non è vero.
La Nestoroff non l'ha dimenticato.
Me l'han detto chiaramente i suoi occhi, il modo com'ella mi guarda da due giorni, cioè da quando Carlo Ferro, per informazioni avute, le deve aver fatto conoscere che fui amico di Giorgio Mirelli.
Sdegno, anzi sprezzo, evidentissima avversione: ecco quello che noto da due giorni negli occhi della Nestoroff, appena per qualche attimo si posano su me.
E ne son lieto.
Perché sono certo ormai, che quanto ho immaginato e supposto di lei, studiandola, è giusto e risponde alla realtà, come se ella medesima, in una sincera effusione di tutti i suoi più segreti sentimenti, m'avesse aperto la sua anima offesa e tormentata.
Da due giorni ostenta innanzi a me devota e sommessa affezione per il Ferro: si stringe a lui, pende da lui, pur lasciando intendere a chi ben la osservi, ch'ella come tutti gli altri, più di tutti gli altri, sa e vede l'angustia mentale, la rozzezza delle maniere, insomma la bestialità di quest'uomo.
La sa e la vede.
Ma gli altri - intelligenti e garbati - lo disprezzano e lo sfuggono? Ebbene, ella lo pregia e s'attacca a lui appunto per questo; appunto perché egli non è né intelligente, né garbato.
Miglior prova di questa non potrei avere.
Eppure oltre questo fierissimo sdegno, qualcos'altro deve agitarsi in questo momento nel cuore di lei! Certo, ella medita qualche cosa.
Certo, Carlo Ferro per lei non è altro che un aspro, amarissimo rimedio, a cui, stringendo i denti, facendo un'enorme violenza a se stessa s'è sottoposta per curare in sé un male disperato.
E ora, più che mai, si tiene stretta a questo rimedio, balenandole la minaccia, con la venuta del Nuti, di ricadere nel suo male.
Non perché, io credo, Aldo Nuti abbia su lei un tal potere.
Subito, come un fantoccio, allora, ella lo prese, lo spezzò, lo buttò via.
Ma la venuta di lui ora non ha certo altro scopo che di toglierla, strapparla al suo rimedio, riponendole davanti lo spettro di Giorgio Mirelli, in cui ella forse vede il suo male: lo smanioso tormento del suo spirito strano, del quale nessuno tra gli uomini a cui s'è accostata, ha saputo e voluto prendersi cura.
Ella non vuole più il suo male; ne vuole a ogni costo guarire.
Sa che, se Carlo Ferro la stringe tra le braccia, può temere d'esserne spezzata.
E questo timore le piace.
- Ma che ti vale - vorrei gridarle - che ti vale che Aldo Nuti non venga a riportelo davanti, il tuo male, se tu lo hai ancora in te, soffocato a forza e non vinto? Tu non vuoi vedere la tua anima: è possibile? T'insegue, t'insegue sempre, t'insegue come una pazza! Per sfuggirle, t'aggrappi, ti ripari tra le braccia d'un uomo, che sai senz'anima e capace d'ucciderti, se la tua, per caso, oggi o domani, s'impadronirà novamente di te, per ridarti l'antico tormento! Ah, meglio essere uccisa? meglio essere uccisa, che ricadere in questo tormento, di risentirsi un'anima dentro, un'anima che soffre e non sa di che?
Ebbene, questa mattina, mentre giravo la macchinetta, ho avuto tutt'a un tratto il terribile sospetto ch'ella - rappresentando, al solito, come una forsennata, la sua parte - volesse uccidersi: sì, sì, proprio uccidersi, davanti a me.
Non so com'io abbia fatto a conservare la mia impassibilità; a dire a me stesso:
- Tu sei una mano, gira! Ella ti guarda, ti guarda fiso, non guarda che te, per farti intendere qualche cosa; ma tu non sai nulla, tu non devi intender nulla; gira!
S'è cominciato a iscenare il film della tigre, che sarà lunghissimo e a cui prenderanno parte tutt'e quattro le compagnie.
Non mi curerò minimamente di cercare il bandolo di quest'arruffata matassa di volgari, stupidissime scene.
So che la Nestoroff non vi prenderà parte, non avendo ottenuto che le fosse assegnata quella della protagonista.
Solo questa mattina, per una particolare concessione al Bertini, ha posato per una breve scena di "colore", in una particina secondaria, ma non facile, di giovane indiana, selvaggia e fanatica che s'uccide eseguendo "la danza dei pugnali".
Segnato il campo nello sterrato, Bertini ha disposto in semicerchio una ventina di comparse, camuffate da selvaggi indiani.
S'è fatta avanti la Nestoroff quasi tutta nuda, con una sola fascia sui fianchi a righe gialle verdi rosse turchine.
Ma la nudità meravigliosa del saldo corpo esile e pieno era quasi coperta dalla sdegnosa noncuranza di esso, con cui ella si è presentata in mezzo a tutti quegli uomini, a testa alta, giù le braccia coi due pugnali affilatissimi, uno per pugno.
Bertini ha spiegato brevemente l'azione:
- Ella danza.
È come un rito.
Tutti stanno ad assistere religiosamente.
A un tratto, a un mio grido, in mezzo alla danza, ella si trafigge il seno coi due pugnali e stramazza.
Tutti accorrono e le si fanno sopra, stupiti e sgomenti.
Sù, sù, attenti, attenti al campo! Voi di là, avete capito? state prima, serii, a guardare; appena la signora stramazza, accorrete tutti! Attenti, attenti al campo per ora!
La Nestoroff, facendosi in mezzo al semicerchio coi due pugnali branditi, ha preso a guardarmi con una così acuta e dura fissità, ch'io, dietro al mio grosso ragno nero in agguato sul treppiedi, mi sono sentito vagellar gli occhi e intorbidate la vista.
Per miracolo ho potuto obbedire al comando di Bertini:
- Si gira!
E mi son messo, come un automa, a girar la manovella.
Tra i penosi contorcimenti di quella sua strana danza màcabra, tra il luccichìo sinistro dei due pugnali, ella non staccò un minuto gli occhi da' miei, che la seguivano, affascinati.
Le vidi sul seno anelante il sudore rigar di solchi la manteca giallastra, di cui era tutto impiastricciato.
Senza darsi alcun pensiero della sua nudità, ella si dimenava come frenetica, ansava, e pian piano, con voce affannosa, sempre con gli occhi fissi ne' miei, domandava ogni tanto:
- Bien comme ça? bien comme ça?
Come se volesse saperlo da me; e gli occhi erano quelli d'una pazza.
Certo, ne' miei leggevano, oltre la maraviglia, uno sgomento prossimo a cangiarsi in terrore nell'attesa trepidante del grido del Bertini.
Quando il grido uscì ed ella si ritorse contro il seno la punta de' due pugnali e stramazzò a terra, io ebbi veramente per un attimo l'impressione che si fosse trafitta, e fui per accorrere anch'io, lasciando la manovella allorché Bertini su le furie incitò le comparse.
- A vojaltri, perdio! accorrete! fatemi la controparte!...
Così...
così...
basta!
Ero sfinito; la mano m'era diventata come di piombo, seguitando da sé, meccanicamente, a girar la manovella.
Ho visto Carlo Ferro accorrer fosco, pieno di collera e di tenerezza, con un lungo mantello violaceo, ajutar la donna a rialzarsi, avvolgerla in quel mantello e portarsela via, quasi di peso, nel camerino.
Ho guardato nella macchinetta e mi sono trovata in gola una curiosa voce sonnolenta per annunziare al Bertini:
- Ventidue metri.
II
Aspettavamo, oggi, sotto il pergolato dell'osteria, che arrivasse una certa "signorina di buona famiglia", raccomandata dal Bertini, la quale doveva sostenere una particina in un film rimasto da qualche mese in tronco e che ora si vuol terminare.
Da più d'un'ora un ragazzo era stato spedito in bicicletta alla casa di questa signorina, e ancora non si vedeva nessuno, neppure il ragazzo di ritorno.
Polacco stava seduto con me a un tavolino, la Nestoroff e Carlo Ferro sedevano a un altro.
Tutt'e quattro, insieme con quell'avventizia, si doveva andare in automobile, per un esterno dal vero al Bosco Sacro.
L'afa del pomeriggio, il fastidio delle mosche innumerevoli dell'osteria, il silenzio forzato fra noi quattro, costretti a stare insieme non ostante l'avversione dichiarata, e del resto patente, di quei due per Polacco e anche per me, accrescevano e rendevano a mano a mano insopportabile la noja dell'attesa.
Ostinatamente la Nestoroff si vietava di volger gli occhi verso di noi.
Ma certo sentiva ch'io la guardavo, così, apparentemente senza attenzione, e più d'una volta aveva dato segno d'esserne seccata.
Carlo Ferro se n'era accorto e aveva aggrottato le ciglia, guatandola; e allora ella aveva finto davanti a lui di provar fastidio, non già di me che la guardavo, ma del sole che, di tra i pampini del pergolato, la feriva in viso.
Era vero; e mirabile su quel viso era il gioco dell'ombra violacea, vaga e rigata da fili d'oro di sole, che or le accendevano una pinna del naso e un po' del labbro superiore, ora il lobo dell'orecchio e un tratto del collo.
Mi vedo talvolta assaltato con tanta violenza dagli aspetti esterni, che la nitidezza precisa, spiccata, delle mie percezioni mi fa quasi sgomento.
Diventa talmente mio quello che vedo con così nitida percezione, che mi sgomenta il pensare, come mai un dato aspetto - cosa o persona - possa non essere qual io lo vorrei.
L'avversione della Nestoroff in quel momento di così intensa lucidità percettiva mi era intollerabile.
Come mai non intendeva, ch'io non le ero nemico?
A un tratto, dopo avere spiato un pezzo di tra l'incannicciata, ella s'alzò e la vedemmo avviarsi fuori, a una carrozza d'affitto, anch'essa da un'ora lì ferma davanti l'entrata della Kosmograph ad aspettare sotto il sole cocente.
Avevo veduto anch'io quella carrozza; ma il fogliame della vite m'impediva di scorgere chi vi fosse ad aspettare.
Aspettava da tanto tempo, che non potevo credere vi fosse sù qualcuno.
Polacco s'alzò; m'alzai anch'io, e guardammo.
Una giovinetta, vestita d'un abitino azzurro, di tela svizzera, lieve lieve, sotto un cappellone di paglia guarnito di nastri di velluto nero, stava in quella carrozza ad aspettare.
Con in grembo una vecchia cagnetta pelosa, bianca e nera, guardava timida e afflitta il tassametro della vettura, che di tanto in tanto scattava e già doveva segnare una cifra non lieve.
La Nestoroff le s'accostò con molta grazia e la invitò a smontare per togliersi dalla sferza del sole.
Non era meglio aspettare sotto la pergola dell'osteria?
- Molte mosche sa? ma almeno si sta all'ombra.
La cagnetta pelosa aveva preso a ringhiare contro la Nestoroff, digrignando i denti in difesa della padroncina.
Questa, improvvisamente invermigliata in volto, forse per il piacere inopinato di vedere quella bella signora prendersi cura di lei con tanta grazia; fors'anche per la stizza, che la sua vecchia stupida bestiola le cagionava, rispondendo così male alla premura gentile di quella, ringraziò e, confusa, accettò l'invito e smontò con la cagnetta in braccio.
Ebbi l'impressione che smontasse sopra tutto per riparare alla cattiva accoglienza della vecchia cagnetta alla signora.
Difatti, le diede forte con la mano sul muso, sgridando:
- Zitta, Piccinì!
E poi, volgendosi alla Nestoroff:
- Scusi, non capisce nulla...
Ed entrò con lei sotto il pergolato.
Guardai la vecchia cagnetta, che spiava corrucciata la padroncina da sotto in sù, con occhi umani.
Pareva le domandasse: - E che capisci tu?.
Il Polacco, intanto, le si era fatto avanti, con galanteria.
- La signorina Luisetta?
Ella tornò a invermigliarsi tutta, come sospesa in una penosa meraviglia, d'esser conosciuta da uno a lei sconosciuto; sorrise; disse di sì col capo, e tutti i nastri di velluto nero del cappellone di paglia dissero di sì con lei.
Polacco tornò a domandarle:
- Papà è qua?
Sì, di nuovo, col capo, come se tra il rossore e la confusione non trovasse la voce per rispondere.
Infine, con uno sforzo, la trovò, timida:
- È entrato da un pezzo: disse che si sarebbe sbrigato subito, e intanto...
Alzò gli occhi a guardare la Nestoroff e le sorrise, come se le dispiacesse che quel signore con le sue domande la avesse distratta da lei, che le si era mostrata così gentile pur senza conoscerla.
Polacco allora fece la presentazione:
- La signorina Luisetta Cavalena; la signora Nestoroff.
Poi si volse ad accennare Carlo Ferro, che subito sorse in piedi e s'inchinò rudemente.
- L'attore Carlo Ferro.
Infine, presentò me:
- Gubbio.
Mi parve che, tra tutti, io fossi quello che meno la impacciasse.
Conoscevo per fama Cavalena, suo padre, notissimo alla Kosmograph sotto il nomignolo di Suicida.
Pare che il pover'uomo sia terribilmente oppresso da una moglie gelosa.
Per la gelosia della moglie, a quanto si dice, dovette prima lasciar la milizia, da tenente medico, e non so quante condotte vantaggiose; poi anche l'esercizio della professione libera, e il giornalismo, in cui aveva trovato modo d'entrare, e alla fine anche l'insegnamento, a cui per disperazione s'era appigliato, nei licei, come incaricato di fisica e storia naturale.
Ora, non potendo (sempre a causa della moglie) dedicarsi al teatro, per il quale crede da un pezzo d'avere spiccatissime attitudini, s'è acconciato alla confezione di scenarii cinematografici, con molto sdegno, obtorto collo, per sopperire ai bisogni della famiglia, non bastando al mantenimento di essa la sola dote della moglie e quel che ricava dall'affitto di due stanze mobigliate.
Se non che, nell'inferno della sua casa, abituato ormai a vedere il mondo come una galera, pare che, per quanto si sforzi, non riesca a comporre una trama di film, senza che a un certo punto non ci scappi un suicidio.
Ragion per cui finora Polacco gli ha sempre rifiutato tutti gli scenarii, visto e considerato che gli Inglesi - assolutamente - non vogliono nelle pellicole il suicidio.
- Che sia venuto a cercar me? - domandò il Polacco alla signorina Luisetta.
La signorina Luisetta balbettò, confusa:
- No...
disse...
non so...
mi sembra Bertini...
- Ah, birbante! S'è rivolto al Bertini? E, dica, signorina...
è entrato solo?
Nuova e più viva confusione della signorina Luisetta.
- Con la mamma...
Polacco alzò le mani, aperte, e le agitò un po' in aria, allungando il viso e ammiccando.
- Speriamo che non avvengano guaj!
La signorina Luisetta si sforzò di sorridere; ripeté:
- Speriamo...
E mi fece tanta pena vederla sorridere a quel modo, col visino in fiamme! Avrei voluto gridare al Polacco:
- E smetti di tormentarla con codesto interrogatorio! Non vedi che è sulle spine?
Ma Polacco, all'improvviso, ebbe un'idea; batté le mani:
- E se ci portassimo la signorina Luisetta? Ma sì, perbacco; siamo qui da un'ora ad aspettare! Sì, sì; senz'altro...
Signorina cara, lei ci leverà d'impaccio, e vedrà che la faremo divertire.
In mezz'oretta sarà tutto fatto...
Avvertirò l'usciere, che, appena verranno fuori il papà e la mamma, dica loro che lei è venuta per una mezz'oretta con me e con questi signori.
Sono tanto amico di suo papà, che posso prendermi questa licenza.
Le farò rappresentare una particina, è contenta?
La signorina Luisetta ha avuto certo una gran paura di parer timida, impacciata, sciocchina; e, quanto a venire con noi, ha detto, perché no?, ma che, quanto a recitare, non poteva, non sapeva...
e poi, così?...
ma che!...
non s'era mai provata...
si vergognava...
e poi...
Polacco le spiegò che non ci voleva nulla: non doveva aprir bocca, né salire su un palcoscenico, né presentarsi al pubblico.
Nulla.
In campagna.
Davanti agli alberi.
Senza parlare.
- Starà su un sedile, accanto a questo signore, - e indicò il Ferro.
- Questo signore fingerà di parlarle d'amore.
Lei, naturalmente, non ci crede e ne ride...
Ecco...
così benissimo! Ride e scrolla la testolina sfogliando un fiore.
Sopravviene di furia un'automobile.
Questo signore si scuote, aggrotta le ciglia, guarda, presentendo una minaccia, un pericolo.
Lei smette di sfogliare il fiore e resta come sospesa in un dubbio, smarrita.
Subito questa signora - (e indicò la Nestoroff) - balza giù dall'automobile, cava dal manicotto una rivoltella e le spara...
La signorina Luisetta spalancò tanto d'occhi in faccia alla Nestoroff, sbigottita.
- Per finta! Non abbia paura! - seguitò Polacco, sorridendo.
- Il signore s'avventa, disarma la signora; intanto lei s'è abbandonata prima sul sedile, ferita a morte; dal sedile trabocca giù a terra - senza farsi male, per carità! - e tutto è finito...
Sù, sù, non perdiamo altro tempo! Faremo una prova sul posto; vedrà che andrà bene...
e che bel regalino le farà poi la Kosmograph!
- Ma se papà...
- Lo avvertiremo!
- E Piccinì?
- La porteremo con noi; la terrò in braccio io...
Vedrà che la Kosmograph farà un bel regalino anche a Piccinì...
Sù, sù, via!
Salendo in automobile (ancora, certo, per non parer timida e sciocchina), ella che non aveva più badato a me, mi guardò incerta.
Perché andavo anch'io? che rappresentavo io?
Nessuno mi aveva rivolto la parola; ero stato appena appena presentato, come si farebbe d'un cane; non avevo aperto bocca; seguitavo a star muto...
M'accorsi che questa mia presenza muta, di cui ella non vedeva la necessità, ma che pur le s'imponeva come misteriosamente necessaria, cominciava a turbarla.
Nessuno si curava di dargliene la spiegazione; non potevo dargliela io.
Le ero sembrato uno come gli altri; anzi forse, a prima giunta, uno più vicino a lei degli altri.
Ora cominciava ad avvertire che per questi altri ed anche per lei (in confuso) non ero propriamente uno.
Cominciava ad avvertire, che la mia persona non era necessaria; ma che la mia presenza lì aveva la necessità d'una cosa, ch'ella ancora non comprendeva; e che stavo così muto per questo.
Potevano parlare - sì, essi, tutt'e quattro - perché erano persone, rappresentavano ciascuno una persona, la propria; io, no: ero una cosa: ecco, forse quella che mi stava su le ginocchia, avviluppata in una tela nera.
Eppure, avevo anch'io una bocca per parlare, occhi per guardare; e questi occhi, ecco, mi brillavano contemplandola; e certo entro di me sentivo...
Oh signorina Luisetta, se sapeste che gioja ritraeva dal proprio sentimento la persona - non necessaria come tale, ma come cosa - che vi stava davanti! Pensaste voi che io - pur standovi così davanti come una cosa - potessi entro di me sentire? Forse sì.
Ma che cosa sentissi sotto la mia maschera d'impassibilità, non poteste certo immaginare.
Sentimenti non necessarii, signorina Luisetta! Voi non sapete che cosa siano e quali inebrianti gioje possano dare! Questa macchinetta qua, ecco: vi sembra che abbia necessità di sentire? Non può averne! Se potesse sentire, che sentimenti sarebbero? Non necessarii certo.
Un lusso per lei.
Cose inverosimili...
Ebbene, fra voi quattro, quest'oggi, io - due gambe, un busto e, sopra, una macchinetta - ho sentito inverosimilmente.
Voi, signorina Luisetta, eravate con tutte le cose che v'erano attorno, dentro il sentimento mio, il quale godeva della vostra ingenuità, del piacere che vi cagionava il vento della corsa, la vista dell'aperta campagna, la vicinanza della bella signora.
Vi sembra strano che foste così, con tutte le cose attorno, dentro il sentimento mio?
Ma anche un mendico a un canto di strada non vede forse la strada e tutta la gente che vi passa, dentro a quel sentimento di pietà, ch'egli vorrebbe destare? Voi, più sensibile degli altri, passando, avvertite d'entrare in questo sentimento e vi fermate a fargli la carità d'un soldo.
Molti altri non c'entrano, e il mendico non pensa ch'essi siano fuori dal suo sentimento, dentro un altro lor proprio, in cui anch'egli è incluso come un'ombra molesta; il mendico pensa che sono spietati.
Che cosa ero io per voi, nel vostro sentimento, signorina Luisetta? Un uomo misterioso? Sì, avete ragione.
Misterioso.
Se sapeste come sento, in certi momenti, il mio silenzio di cosa! E mi compiaccio del mistero che spira da questo silenzio a chi sia capace d'avvertirlo.
Vorrei non parlar mai; accogliere tutto e tutti in questo mio silenzio, ogni pianto, ogni sorriso; non per fare, io, eco al sorriso; non potrei; non per consolare, io il pianto; non saprei; ma perché tutti dentro di me trovassero, non solo dei loro dolori, ma anche e più delle loro gioje, una tenera pietà che li affratellasse almeno per un momento.
Ho tanto goduto del bene che avete fatto con la freschezza della vostra ingenuità timida sorridente alla signora che vi stava accanto! Hanno talvolta, quando la pioggia manca, le piante arse ristoro da un'auretta leggera.
E quest'auretta siete stata voi, per un momento, nell'arsura dei sentimenti di colei che vi stava accanto; arsura che non conosce il refrigerio delle lacrime.
A un certo punto ella, guardandovi quasi con trepida ammirazione, vi ha preso una mano e ve l'ha carezzata.
Chi sa che invidia accorata di voi le angosciava il cuore in quell'istante!
Avete veduto, come subito dopo, s'è tutta scurita in viso?
Una nuvola è passata...
Che nuvola?
III
Parentesi.
Un'altra, sì.
Quello che mi tocca fare tutto il giorno, non lo dico; le bestialità che mi tocca dare da mangiare, tutto il giorno, a questo ragno nero sul treppiedi, che non si sazia mai, non le dico; bestialità incarnata da questi attori, da queste attrici, da tanta gente che per bisogno si presta a dare in pasto a questa macchinetta il proprio pudore, la propria dignità; non le dico; ma bisogna pure ch'io mi prenda un po' di respiro di tanto in tanto, assolutamente, una boccata d'aria per il mio superfluo; o muojo.
Mi interesso alla storia di questa donna, dico della Nestoroff, riempio di lei molte di queste mie notti; ma non voglio infine lasciarmi prendere la mano da questa storia; voglio che lei, questa donna, mi resti davanti la macchinetta, o, meglio, ch'io resti davanti a lei quello che per lei sono, operatore, e basta.
Quando il mio amico Simone Pau trascura per parecchi giorni di venire a trovarmi alla Kosmograph, vado io la sera a trovarlo a Borgo Pio, nel suo Albergo del Falco.
La ragione per cui di questi giorni non è venuto, è quanto mai triste.
Muore l'uomo del violino.
Ho trovato a veglia nella cameretta riservata al Pau nell'ospizio, lui Pau, il vecchietto suo collega pensionato dal governo pontificio e le tre maestre zitellone, amiche delle suore di carità.
Sul letto di Simone Pau, con una compressa di ghiaccio sul capo, giaceva l'uomo del violino, colpito tre sere fa da apoplessia.
- Si libera, - mi ha detto Simone Pau, con un gesto della mano, consolante.
- Siedi qua, Serafino.
La scienza gli ha messo in capo quel berretto là di ghiaccio, che non serve a nulla.
Noi lo facciamo passare tra sereni discorsi filosofici, in compenso del dono prezioso ch'egli ci lascia in eredità: il suo violino.
Siedi, siedi qua.
Lo hanno lavato bene, tutto; lo hanno messo in regola coi sagramenti, lo hanno unto.
Ora aspettiamo la sua fine, che non può tardare.
Ti ricordi quando sonò davanti alla tigre? Gli fece male.
Ma forse, meglio così: si libera!
Come sorrideva benigno, a queste parole, il vecchietto tutto raso, fino fino, pulito pulito, con la papalina in capo e in mano la tabacchiera d'osso col ritratto del Santo Padre sul coperchio!
- Prosegua, - riprese Simone Pau, rivolto al vecchietto, - prosegua, signor Cesarino, il suo elogio dei lumi a olio a tre beccucci, la prego.
- Ma che elogio! - esclamò il signor Cesarino.
S'ostina lei a ripetere che ne faccio l'elogio! Io dico che sono di quella generazione là, e addio.
- E non è un elogio questo?
- Ma no, dico che tutto si compensa alla fine: è una mia idea: tante cose nel bujo vedevo io con quei lumi là, che loro forse non vedono più con la lampadina elettrica, ora; ma in compenso, ecco, con queste lampadine qua altre ne vedono loro, che non riesco a vedere io; perché quattro generazioni di lumi, quattro, caro professore, olio, petrolio, gas e luce elettrica, nel giro di sessant'anni, eh...
eh...
eh...
sono troppe, sa? e ci si guasta la vista, e anche la testa; eh, anche la testa, un poco.
Le tre zitellone, che si tenevano in grembo tutte e tre quietamente le mani coi mezzi guanti di filo, approvarono in silenzio, col capo: sì, sì, sì.
- Luce, bella luce, non dico di no! Eh, lo so io, - sospirò il vecchietto, - che mi ricordo s'andava nelle tenebre con un lanternino in mano per non rompersi l'osso del collo! Ma luce per fuori, ecco...
Che ci ajuti a veder dentro, no.
Le tre zitellone quiete, sempre con in grembo le mani coi mezzi guanti di filo tutt'e tre, dissero in silenzio col capo: no, no, no.
Il vecchietto si alzò e andò a offrire in premio a quelle mani quiete e pure, un pizzichetto di tabacco.
Simone Pau tese due dita.
- Anche lei? - domandò il vecchietto.
- Anche io, anche io, - rispose, un po' irritato dalla domanda, Simone Pau.
- E anche tu, Serafino.
Ti dico, prendi! Non vedi che è come un rito?
Il vecchietto, con la presina tra le dita, strizzò un occhio maliziosamente:
- Tabacco proibito, - disse piano.
- Viene di là...
E col pollice dell'altra mano fece, come di nascosto, un cenno per dire: San Pietro, Vaticano.
- Capisci? - disse allora Simone Pau, rivolto a me, mettendomi sotto gli occhi la sua presa.
- Ti libera dell'Italia! Ti pare niente? La fiuti, e non ci senti puzza di regno!
- Via, non dica così...
- pregò il vecchietto afflitto, che voleva godersi in pace i benefizii della tolleranza, tollerando.
- Lo dico io, non lo dice lei, - gli rispose Simone Pau.
- Lo dico io che posso dirlo.
Se lo dicesse lei, la pregherei di non dirlo in mia presenza, va bene? Ma lei è saggio, signor Cesarino! Séguiti, séguiti, la prego, a commemorarci col suo buon garbo antico i buoni lumi ad olio, a tre beccucci, di tanti anni fa...
Ne vidi uno sa? nella casa di Beethoven, a Bonn sul Reno, al tempo del mio viaggio in Germania.
Ecco: bisogna questa sera richiamare la memoria di tutte le buone cose antiche attorno a questo povero violino, che si spezzò davanti a un pianoforte automatico.
Confesso che vedo male qua dentro, in questo momento, il mio amico.
Sì, te, Serafino.
Il mio amico, signori - ve lo presento: Serafino Gubbio - è operatore: gira, disgraziato, la macchinetta d'un cinematografo.
- Ah, - fece il vecchietto, con piacere.
E le tre zitellone mi guardarono ammirate.
- Vedi? - mi disse Simone Pau.
- Tu guasti tutto, qua dentro.
Scommetto che lei adesso, signor Cesarino, e anche loro, signorine, hanno una gran voglia di sapere dal mio amico come gira la macchinetta e come si mette sù una cinematografia.
Per carità!
E con la mano indicò il morente, che ronfava nel coma profondo, sotto la compressa di ghiaccio.
- Tu sai che io...
- mi provai a dire, piano.
- Lo so! - m'interruppe.
- Tu non sei nella tua professione, ma ciò non vuol dire, caro mio, che la tua professione non sia in te! Leva dal capo a questi miei signori colleghi ch'io non sia professore.
Sono il professore, per loro: un po' strambo, ma professore! Noi possiamo benissimo non ritrovarci in quello che facciamo; ma quello che facciamo, caro mio, è, resta fatto: fatto che ti circoscrive, ti dà comunque una forma e t'imprigiona in essa.
Vuoi ribellarti? Non puoi.
Prima di tutto, non siamo liberi di fare quello che vorremmo: il tempo, il costume degli altri, la fortuna, le condizioni dell'esistenza, tant'altre ragioni fuori e dentro di noi, ci costringono spesso a fare quello che non vorremmo; e poi lo spirito non è senza carne; e la carne, hai un bel sorvegliarla, vuole la sua parte.
E a che si riduce l'intelligenza, se non compatisce la bestia che è in noi? Non dico scusarla.
L'intelligenza che scusi la bestia, s'imbestialisce anch'essa.
Ma averne pietà è un'altra cosa! Lo predicò Gesù, dico bene, signor Cesarino? Dunque tu sei prigioniero di quello che hai fatto, della forma che quel fatto ti ha dato.
Doveri, responsabilità, una sequela di conseguenze, spire, tentacoli che t'avviluppano e non ti lasciano più respirare.
Non far più niente, o il meno possibile, come me, per restar liberi il più possibile? Eh sì! La vita stessa è un fatto! Quando tuo padre t'ha messo al mondo, caro, il fatto è fatto.
Non te ne liberi più finché non finisci di morire.
E anche dopo morto, qua c'è il signor Cesarino che dice di no, è vero? Non se ne libera più, è vero? neanche dopo morto.
Stai fresco, caro mio.
Andrai a girare la macchinetta anche di là! Ma sì, ma sì, perché non dell'essere, di cui non hai colpa, ma dei fatti e delle conseguenze dei fatti tu devi rispondere, è vero, sì o no, signor Cesarino?
- Verissimo, sì; ma non è mica peccato, professore, girare una macchinetta di cinematografo - osservò il signor Cesarino.
- Non è peccato? Lo domandi a lui! - disse Pau.
Il vecchietto e le tre zitellone mi guardarono stupiti e afflitti ch'io approvassi col capo, sorridendo, il giudizio di Simone Pau.
Sorridevo perché m'immaginavo al cospetto di Dio Creatore, al cospetto degli Angeli e delle anime sante del Paradiso, dietro il mio grosso ragno nero sul treppiedi a gambe rientranti, condannato a girar la manovella, anche lassù, dopo morto.
- Eh, certo, - sospirò il vecchietto, - quando il cinematografo mette su certe sconcezze, certe stupidaggini...
Le tre zitellone, con gli occhi bassi, fecero con le mani un atto di schifiltà.
- Ma non ne sarà responsabile il signore, - aggiunse subito il signor Cesarino, garbato e sempre benigno.
S'udì per la scala uno sbattimento di panni grevi e di grossi grani di rosario col crocifisso ciondolante.
Apparve sotto le ampie ali bianche della cornetta una suora di carità.
Chi l'aveva chiamata? Il fatto è che, appena lei si presentò su la soglia, l'agonizzante finì di rantolare.
Ed ella si trovò pronta a compiere il suo ultimo ufficio.
Gli levò dal capo la compressa di ghiaccio; si volse a guardarci, muta, con un semplice, rapidissimo cenno degli occhi al cielo; poi si chinò a comporre sul letto il cadavere e s'inginocchiò.
Le tre zitellone e il signor Cesarino seguirono l'esempio.
Simone Pau mi chiamò fuori della cameretta.
- Conta, - mi ordinò, cominciando a scendere la scala, indicandomi gli scalini.
- Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e nove.
Scalini di una scala; di questa scala, che dà su questo corridojo tetro...
Mani che li intagliarono e li disposero qua in sesto...
Morte.
Mani che levarono questo casamento...
Morte.
Come altre mani, che levarono tant'altre case di questo borgo...
Roma; che ne pensi? Grande...
Pensa nei cieli questa terra piccola...
Vedi? che è?...
Un uomo è morto...
io, tu...
non importa: un uomo...
E cinque, di là, gli si sono inginocchiati intorno a pregare qualcuno, qualche cosa, che credono fuori e sopra di tutto e di tutti, e non in loro stessi, un sentimento loro che si libera dal giudizio e invoca quella stessa pietà che sperano per loro, e n'hanno conforto e pace.
Ebbene, bisogna fare così.
Io e tu, che non possiamo farlo, siamo due scemi.
Perché, dicendo queste bestialità che sto dicendo io, lo stiamo facendo lo stesso, in piedi, scomodi, con questo bel guadagno, che non ne abbiamo né conforto né pace.
E scemi come noi sono tutti coloro che cercano Dio dentro e lo sdegnano fuori, che non sanno cioè vedere il valore degli atti, di tutti gli atti, anche i più meschini, che l'uomo compie da che mondo è mondo, sempre gli stessi, per quanto ci pajano diversi.
Ma che diversi? Diversi perché attribuiamo loro un altro valore che, comunque, è arbitrario.
Di certo non sappiamo niente.
E non c'è niente da sapere fuori di quello che, comunque, si rappresenta fuori, in atti.
Il dentro è tormento e seccatura.
Va', va' a girar la macchinetta, Serafino! Credi che la tua è una professione invidiabile! E non stimare più stupidi degli altri gli atti che ti combinano davanti, da prendere con la tua macchinetta.
Sono tutti stupidi allo stesso modo, sempre: la vita è tutta una stupidaggine, sempre, perché non conclude mai e non può concludere.
Va', caro, va' a girare la tua macchinetta e lasciami andare a dormire con la sapienza che, dormendo sempre, dimostrano i cani.
Buona notte.
Uscii dall'ospizio, confortato.
La filosofia è come la religione: conforta sempre, anche quando è disperata, perché nasce dal bisogno di superare un tormento, e anche quando non lo superi, il porselo davanti, questo tormento, è già un sollievo per il fatto che, almeno per un poco, non ce lo sentiamo più dentro.
Il conforto delle parole di Simone Pau m'era venuto però sopra tutto per ciò che si riferiva alla mia professione.
Invidiabile, sì forse; ma se fosse applicata solamente a cogliere, senz'alcuna stupida invenzione o costruzione immaginaria di scene e di fatti, la vita, così come vien viene, senza scelta e senz'alcun proposito; gli atti della vita come si fanno impensatamente quando si vive e non si sa che una macchinetta di nascosto li stia a sorprendere.
Chi sa come ci sembrerebbero buffi! più di tutti, i nostri stessi.
Non ci riconosceremmo, in prima; esclameremmo, stupiti, mortificati, offesi: - Ma come? Io, così? io, questo? cammino così? rido così? io, quest'atto? io, questa faccia? - Eh, no, caro, non tu: la tua fretta, la tua voglia di fare questa o quella cosa, la tua impazienza, la tua smania, la tua ira, la tua gioja, il tuo dolore...
Come puoi sapere tu, che le hai dentro, in qual maniera tutte queste cose si rappresentano fuori! Chi vive, quando vive, non si vede: vive...
Veder come si vive sarebbe uno spettacolo ben buffo!
Ah se fosse destinata a questo solamente la mia professione! Al solo intento di presentare agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com'è.
Di questa vita, senza requie, che non conclude.
IV
- Signor Gubbio, scusi: voglio dirle una cosa.
Era già bujo: andavo di fretta sotto i grandi platani del viale.
Sapevo che egli - Carlo Ferro - mi veniva dietro, affannato, per sorpassarmi e poi forse volgersi, fingendo di ricordarsi tutt'a un tratto, che aveva da dirmi qualche cosa.
Volevo levargli il piacere di questa finzione, e acceleravo sempre più il passo, aspettandomi di mano in mano, che - stanco alla fine - si desse per vinto e mi chiamasse.
Difatti...
Mi voltai, come sorpreso.
Egli mi raggiunse e con mal dissimulato dispetto mi domandò:
- Permette?
- Dica pure.
- Va a casa?
- Sì.
- Abita lontano?
- Parecchio.
- Voglio dirle una cosa, - ripeté, e si fermò a guardarmi con bieco lustro negli occhi.
- Lei dovrebbe sapere che, grazie a Dio, posso sputare su la scrittura che ho qua con la Kosmograph.
Un'altra, come questa, meglio di questa, la trovo subito, appena voglio, dovunque, per me e per la mia signora.
Lo sa o non lo sa?
Sorrisi; mi strinsi nelle spalle:
- Posso crederlo, se le fa piacere.
- Può crederlo, perché è così! - ribatté forte, in tono di provocazione e di sfida.
Tornai a sorridere; dissi:
- Sarà pure così; ma non vedo perché venga a dirlo a me, e con codesto tono.
- Ecco perché, - riprese - Io rimango, caro signore, alla Kosmograph.
- Rimane? Guardi: non sapevo nemmeno che avesse in animo di andarsene.
- Altri lo aveva in animo, - ripigliò Carlo Ferro, pigiando con la voce su altri - Ma io le dico che rimango: ha capito?
- Ho capito.
- E rimango, non perché m'importi della scrittura, che non me n'importa un corno; ma perché io non sono mai fuggito di fronte a nessuno!
Così dicendo, mi prese la giacca sul petto, con due dita, e me la scosse un po'.
- Permette? - dissi io, a mia volta, con calma, levandogli quella mano; e presi dalla tasca una scatola di fiammiferi: ne accesi uno per la sigaretta che avevo già cavato dell'astuccio e tenevo in bocca; trassi due boccate di fumo, rimasi ancora un po' col fiammifero acceso tra le dita, per fargli vedere che le sue parole, il tono minaccioso, il fare aggressivo non mi cagionavano il minimo turbamento; poi risposi, piano: - Potrei anche aver capito a che cosa ella voglia alludere; ma, ripeto, non intendo perché viene a dire proprio a me codeste cose.
- Non è vero! - gridò allora Carlo Ferro.
- Lei finge di non intendere!
Pacatamente, ma con voce ferma, risposi:
- Non ne vedo la ragione.
Se lei, caro signore, vuol provocarmi, sbaglia; non solo perché senza motivo, ma anche perché, precisamente come lei, io non soglio fuggire di fronte a nessuno.
- Come no? - sghignò egli allora.
- Ho dovuto correr tanto per raggiungerla!
- Oh, ma guarda! ha creduto davvero ch'io fuggissi? S'inganna, caro signore, e gliene do subito la prova.
Lei forse sospetta ch'io abbia avuto qualche parte nella prossima venuta di qualcuno che le dà ombra?
- Nessuna ombra!
- Tanto meglio.
Per codesto sospetto, ha potuto credere ch'io fuggissi?
- So che lei è stato amico d'un certo pittore che s'uccise a Napoli.
- Sì.
Ebbene?
- Ebbene, lei che s'è trovato in mezzo a questa faccenda...
- Io? Ma nient'affatto! chi gliel'ha detto? io ne so quanto lei; forse meno di lei.
- Ma conoscerà questo signor Nuti!
- Nient'affatto! Lo vidi, parecchi anni fa, giovanotto, una o due volte, non più.
Non ho mai parlato con lui.
- Cosicché...
- Cosicché, caro signore, non conoscendo questo signor Nuti, e seccato di vedermi da alcuni giorni guardato male da lei per il sospetto ch'io mi sia immischiato o voglia immischiarmi in codesta faccenda; poco fa, non volevo che lei mi raggiungesse e ho accelerato il passo.
Eccole spiegata "la mia fuga".
È contento?
Con subitaneo cangiamento Carlo Ferro mi tese la mano, commosso:
- Posso aver l'onore e il piacere d'essere suo amico?
Gli strinsi la mano e risposi:
- Lei sa bene, che sono di fronte a lei così poca cosa, che l'onore sarà mio.
Carlo Ferro si scrollò come un orso:
- Non dica! Non dica! Lei è uno che sa il fatto suo, a preferenza di tutti gli altri; sa, vede e non parla...
Che mondaccio, signor Gubbio, che mondaccio è questo! che schifo! Ma pajono tutti...
che so! Ma perché si dev'essere così? Mascherati! Mascherati! Mascherati! Me lo dica lei! Perché, appena insieme, l'uno di fronte all'altro, diventiamo tutti tanti pagliacci? Scusi, no, anch'io, anch'io; mi ci metto anch'io; tutti! Mascherati! Questo, un'aria così; quello, un'aria cosà...
E dentro siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come...
come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna! Sissignore, creda: il cuore si vergogna! Io smanio, smanio, signor Gubbio, per un poco di sincerità...
d'essere con gli altri come sono tante volte con me stesso, dentro di me; una creatura, glielo giuro, una creaturina che piagnucola perché la mamma santa, sgridandola, le ha detto che non le vuole più bene! Sempre io, sempre, quando mi sento salire il sangue agli occhi, penso a quella mia vecchierella, laggiù in Sicilia, sa? Ma guaj se mi metto a piangere! Quelle che sono lagrime per i miei occhi, se qualcuno non le capisce e crede che siano per paura, possono diventar subito sangue nelle mie mani; io lo so, e perciò ho una gran paura, quando mi sento pungere il pianto negli occhi! Le dita, guardi,mi diventano così!
Nell'oscurità del grande viale deserto, mi vidi porre davanti agli occhi due manacce poderose, ferocemente contratte e artigliate.
Dissimulando con molto sforzo il turbamento che questa inattesa effusione di sincerità mi suscitava, per non esacerbargli il dolore segreto al quale senza dubbio era in preda e che, certamente suo malgrado, aveva trovato in quell'effusione uno sfogo di cui già si pentiva; trattenni la voce, finché non mi parve di poter parlare in modo ch'egli, pur intendendo la mia simpatia per la sua sincerità, fosse tratto più a pensare che a sentire: e dissi:
- Ha ragione; è proprio così, signor Ferro! Ma inevitabilmente, veda, noi ci costruiamo, vivendo in società...
Già, la società per se stessa non è più il mondo naturale.
È mondo costruito, anche materialmente! La natura non ha altra casa, che la tana o la grotta.
- Allude a me?
- Come, a lei? No.
- Sono della tana o della grotta?
- Ma no! Volevo spiegarle perché, a mio modo di vedere, si mentisce inevitabilmente.
E dico che mentre la natura non conosce altra casa che la tana o la grotta, la società costruisce le case; e l'uomo, quando esce da una casa costruita, dove già non vive più naturalmente, entrando in relazione co' suoi simili, si costruisce anch'esso, ecco; si presenta, non qual è, ma come crede di dover essere o di poter essere, cioè in una costruzione adatta ai rapporti, che ciascuno crede di poter contrarre con l'altro.
In fondo, poi, cioè dentro queste nostre costruzioni, messe così di fronte, restano ben nascosti, dietro le gelosie e le imposte, i nostri pensieri più intimi, i nostri più segreti sentimenti.
Ma ogni tanto, ecco, ci sentiamo soffocare; ci vince il bisogno prepotente di spalancare gelosie e imposte per gridar fuori, in faccia a tutti, i nostri pensieri, i nostri sentimenti tenuti per tanto tempo nascosti e segreti.
- Già...
già...
già...
- approvò parecchie volte Carlo Ferro, ridivenuto fosco.
- Ma c'è chi s'apposta anche, e si tiene in agguato dietro codeste costruzioni che dice lei, come un vigliacco manigoldo a un canto di strada, per assalire alle spalle, per aggredire a tradimento.
Io ne conosco uno, qua alla Kosmograph, e lo conosce anche lei.
Alludeva sicuramente al Polacco.
Compresi subito, ch'egli in quel momento non poteva esser tratto a pensare: sentiva troppo.
- Signor Gubbio, - riprese risolutamente, - vedo che lei è un uomo, e sento che con lei posso parlare aperto.
A questo signore costruito, che tutti e due conosciamo, dica lei una parolina come va detta.
Io non posso parlare con lui; conosco la mia naturaccia: se mi metto a parlare con lui, so come comincio, non so dove vado a finire.
Perché i pensieri coperti, e tutti coloro che agiscono copertamente, che si costruiscono come dice lei, io non li posso soffrire.
Mi pajono serpi, a cui schiaccerei la testa, guardi, così...
così...
E due volte pestò il calcagno in terra, con rabbia.
Riprese:
- Che gli ho fatto io? che gli ha fatto la mia signora, perché egli con tanto accanimento ci avversi di nascosto? Non dica di no, la prego...
la prego...
lei dev'essere sincero, perdio, con me!...
Non vuole?
- Ma sì...
- Vede che io le parlo sincero? La prego, dunque! Guardi: è stato lui, sapendo che io per puntiglio non mi sarei mai tirato indietro, è stato lui a designare me, presso il signor commendatore Borgalli, per l'uccisione della tigre...
Fino a tal punto, capisce? Fino alla perfidia di pigliarmi per puntiglio e sopprimermi! Dice di no? Ma questa è l'idea! l'intenzione è questa, questa: glielo dico io e lei deve credermi! Perché non ci vuol mica coraggio, lei lo capisce, per sparare a una tigre dentro una gabbia: ci vuole calma, freddezza ci vuole: braccio fermo, occhio sicuro.
Ebbene, designa me! mette avanti me, perché sa che io posso, se mai, essere una belva di fronte a un uomo; ma come uomo di fronte a una belva non valgo niente! Io ho l'impeto, non ho la calma! Vedendomi una belva davanti, io ho l'istinto di lanciarmi; non ho la freddezza di star lì fermo a prender bene la mira per colpirla dove va colpita.
Non so sparare; non so imbracciare il fucile; sono capace di gettarlo via, di sentirmene ingombre le mani, capisce? E questo, lui, lo sa! lo sa bene! Dunque ha voluto proprio espormi al pericolo d'essere sbranato da quella belva.
E con qual fine? Ma guardi, guardi fin dove arriva la perfidia di quest'uomo! Fa venire il Nuti; gli fa da mezzano; gli sgombra la via, togliendomi di mezzo! "Sì, caro, vieni!" gli avrà scritto, "ti servo io! te lo levo io dai piedi! vieni pure tranquillo!" Lei dice di no?
Era così aggressiva e perentoria, la domanda, che ad oppormi recisamente, avrei acceso ancor più le sue furie.
Tornai a stringermi nelle spalle, risposi:
- Che vuole che le dica? Lei in questo momento, lo riconoscerà, è molto eccitato.
- Ma posso esser calmo?
- Ah, capisco...
- Ne ho ragione, mi sembra!
- Sì, senza dubbio! Ma in tale stato, caro Ferro, è anche molto facile esagerare.
- Ah, io esagero? Già già, sì...
perché quelli che sono freddi, quelli che ragionano, quando commettono sotto sotto un delitto, lo costruiscono in modo, che per forza, se uno lo scopra, deve parere esagerato.
Sfido! Lo hanno costruito in silenzio con tanta sapienza, piano piano, coi guanti, già...
per non sporcarsi le mani! Di nascosto, sì, proprio, di nascosto anche a loro stessi! Ah, lui non lo sa mica, che sta commettendo un delitto! Che! Inorridirebbe, se qualcuno glielo facesse notare.
"Io, un delitto? Eh via! Che esagerazione!" Ma come esagerazione, perdio! Ragioni anche lei, come ragiono io! Si piglia un uomo e si fa entrare in una gabbia, dove sarà introdotta una tigre, e gli si dice: "Stai calmo, sai? prendi bene la mira e spara.
Bada oh, d'atterrarla al primo colpo, colpendola al punto giusto; se no, anche ferita, ti salta addosso e ti sbrana!".
Tutto questo, lo so, se si sceglie un uomo calmo, freddo, esperto tiratore non è niente, non è delitto.
Ma se si sceglie apposta uno come me? Badi, uno come me! Vada a dirglielo: casca dalle nuvole: "Ma come? il Ferro? Ma se io l'ho scelto apposta perché lo so tanto coraggioso!".
Ecco la perfidia! ecco dove s'annida il delitto: in questo sapermi coraggioso! nell'approfittare del mio coraggio, del mio puntiglio, capisce! Lui lo sa bene, che lì non ci vuole coraggio! Finge di crederlo! Ecco il delitto! E vada a domandargli perché contemporaneamente si muova sotto mano per facilitare l'entrata a un amico che vorrebbe riprendersi la donna, la donna che ora sta proprio con quell'uomo da lui designato a entrare nella gabbia.
Cascherà dalle nuvole una seconda volta! Come, che nesso tra le due cose? Oh, ma guarda! anche questo sospetto? Che e-sage-ra-zio-ne! - Ecco, ha detto anche lei ch'io esagero...
Ma rifletta bene; penetri fino in fondo; scopra ciò ch'egli stesso non vuol vedere e nasconde sotto una così composta apparenza di ragione; gli strappi i guanti, a questo signore, e vedrà che ha le mani sporche di sangue!
Tante volte avevo pensato anch'io, che ognuno - per quanto probo e onesto si tenga, considerando le proprie azioni astrattamente, cioè fuori delle incidenze e coincidenze che dànno ad esse peso e valore - può commettere un delitto di nascosto anche a se stesso; che stupii nel sentirmelo dire con tanta chiarezza e tanta efficacia dialettica e, per giunta, da uno, cui finora avevo ritenuto di mente angusta e di animo volgare.
Ero, non per tanto, sicurissimo che il Polacco non agiva realmente con la coscienza di commettere un delitto, e non favoriva il Nuti per il fine sospettato da Carlo Ferro.
Ma poteva anche, questo fine, essere incluso a insaputa di lui, tanto nella designazione del Ferro per l'uccisione della tigre, quanto nel facilitare la venuta del Nuti: azioni solo apparentemente per lui senza nesso.
Certo, non potendo in altro modo levarsi dai piedi la Nestoroff, che costei divenisse di nuovo amante del Nuti, suo amico, poteva essere una sua segreta aspirazione, un desiderio non peranco palese.
Amante d'un suo amico, la Nestoroff non gli sarebbe stata più così nemica; non solo, ma fors'anche il Nuti, ottenuto l'intento, ricco com'era, non avrebbe più permesso che la Nestoroff seguitasse a far l'attrice, e se la sarebbe portata via con sé.
- Ma lei, - dissi, - è ancora in tempo, caro Ferro, se crede...
- Nossignore! - m'interruppe aspramente.
- Già codesto signor Nuti, per opera del Polacco, s'è comperato il diritto d'entrare alla Kosmograph.
- No, scusi, io dico, ancora in tempo di rifiutare la parte, che le è stata assegnata.
Nessuno conoscendola, può credere che lei lo faccia per paura.
- Tutti lo crederebbero! - gridò Carlo Ferro.
- E io per il primo! Sissignore...
Perché il coraggio posso averlo, e l'ho, di fronte a un uomo, ma di fronte a una belva, se non ho la calma, non posso aver coraggio; chi non ha calma deve aver paura.
E io avrei paura, sissignore! Paura, non per me, m'intenda bene! Paura per chi mi vuol bene...
Ho voluto che mia madre fosse assicurata; ma se domani le daranno un danaro macchiato di sangue, mia madre ne morrà! che vuole che se ne faccia del danaro? Veda in quale vergogna m'ha messo quel cagliostro! nella vergogna di dire queste cose, che pajono suggerite da una tremenda, e-sa-ge-ra-tis-si-ma paura! Già, perché tutto ciò che faccio, sento e dico, è condannato a parere a tutti esagerato! S'uccidono, Dio mio, tante bestie feroci in tutte le case cinematografiche, e mai nessun attore ne è morto, mai nessuno ha dato tanto peso alla cosa.
Ma io glielo do, perché qua, adesso, mi vedo giocato, mi vedo insidiato, designato apposta con l'unico intento di farmi perdere la calma! Sono sicuro che non accadrà nulla; che sarà affare d'un minuto e ucciderò la tigre senza nessun pericolo.
Ma è la rabbia per l'insidia che m'è stata tesa, con la speranza che m'accada qualche guajo, per cui il signor Nuti, ecco qua, si troverà pronto, con la via aperta e libera.
Ecco, questo, questo...
mi...
mi...
S'interruppe bruscamente; aggrovigliò le mani e se le storse, digrignando i denti.
Fu per me un lampo: sentii d'un subito in quell'uomo tutte le furie della gelosia.
Ecco perché m'aveva chiamato! ecco perché aveva tanto parlato! ecco perché era così! Dunque Carlo Ferro non è sicuro della Nestoroff.
Lo guatai al lume d'uno dei rari fanali del viale: aveva il volto scontraffatto, gli occhi feroci.
- Caro Ferro, - gli dissi premurosamente, - se lei crede ch'io possa in qualche modo esserle utile, per tutto quello che posso...
- Grazie! - mi rispose con durezza.
- Non...
non può...
Lei non può...
Forse in prima voleva dire: "Non mi serve nulla!" - poté contenersi; seguitò:
- Non può essermi utile, se non in questo, ecco: di dire a codesto signor Polacco, che con me si scherza male, perché la vita o la donna, io non son uomo da farmele strappare così facilmente come lui crede! Questo gli dica! E che se qui accadrà qualche cosa - che accadrà di certo - guaj a lui: parola di Carlo Ferro! Gli dica questo, e la riverisco.
Accennando appena con la mano un saluto sprezzante, allungò il passo, scappò via.
E la profferta d'amicizia?
Quanto mi piacque quest'improvviso ritorno allo sprezzo! Carlo Ferro può per un momento pensare d'essermi amico; non può sentire amicizia per me.
E certo, domani, m'odierà di più, per avermi questa sera trattato da amico.
V
Penso che mi farebbe comodo avere un'altra mente e un altro cuore.
Chi me li cambia?
Data l'intenzione, in cui mi vado sempre più raffermando, di rimanere uno spettatore impassibile, questa mente, questo cuore mi servono male.
Ho ragione di credere (e già più d'una volta me ne sono compiaciuto) che la realtà ch'io do agli altri corrisponda perfettamente a quella che questi altri dànno a se medesimi, perché m'industrio di sentirli in me come essi in sé si sentono, di volerli per me com'essi per sé si vogliono: una realtà, dunque, al tutto "disinteressata".
Ma vedo intanto che, senza volerlo, mi lascio prendere da questa realtà, la quale, così com'è, mi dovrebbe restar fuori: materia, a cui do forma, non per me, ma per se stessa; da contemplare.
Senza dubbio, c'è un inganno sotto, un beffardo inganno in tutto questo.
Mi vedo preso.
Tanto che non riesco più neanche a sorridere, se accanto o sotto a una complicazione di casi o di passioni, che si fa a mano a mano più aspra e forte, vedo scappar fuori qualche altro caso o qualche altra passione, che mi potrebbero esilarar lo spirito.
Il caso della signorina Luisetta Cavalena, per esempio.
L'altro giorno Polacco ebbe l'ispirazione di far venire questa signorina al Bosco Sacro e di farle rappresentare una particina.
So che per impegnarla a prender parte alle altre scene del film, ha mandato al padre un biglietto da cinquecento lire e, secondo la promessa, il regalo d'un grazioso ombrellino a lei e un collarino con molti sonaglioli d'argento per la vecchia cagnetta Piccinì.
Non l'avesse mai fatto!
A quanto pare, Cavalena aveva dato a intendere alla moglie, che - venendo a portare i suoi scenarii alla Kosmograph tutti col loro bravo suicidio immancabile e tutti perciò costantemente rifiutati - non vedesse nessuno, tranne Cocò Polacco: Cocò Polacco e basta.
E chi sa come le aveva descritto l'interno della Kosmograph: forse un austero romitorio, da cui tutte le donne fossero tenute lontane, come demonii.
Se non che, l'altro giorno, la moglie feroce, venuta in sospetto, volle accompagnare il marito.
Non so che cos'abbia veduto; ma me l'immagino facilmente.
Il fatto è, che questa mattina, mentre stavo per entrare alla Kosmograph, ho veduto arrivare in una carrozzella tutt'e quattro i Cavalena: marito, moglie, figliuola e cagnolina: la signorina Luisetta, pallida e convulsa; Piccinì, più che mai rabbuiata; Cavalena, con la solita faccia di limone ammuffito, tra i riccioli della parrucca sotto il cappellaccio a larghe tese; la moglie, come una bufera a stento contenuta, col cappellino andatole di traverso nello smontare dalla vettura.
Sotto il braccio, Cavalena aveva il lungo pacco dell'ombrellino regalato da Polacco alla figliuola e in mano la scatola del collarino di Piccinì.
Veniva a restituirli.
La signorina Luisetta m'ha subito riconosciuto.
Mi sono affrettato ad avvicinarmi per salutarla; ella ha voluto presentarmi alla mamma e al babbo; ma non ricordava più il mio nome.
L'ho tratta d'impaccio, presentandomi da me.
- Operatore, quello che gira, capisci, Nene? - ha spiegato subito, con timida premura, Cavalena alla moglie, sorridendo, come per implorare un po' di degnazione.
Dio, che faccia la signora Nene! Faccia di vecchia bambola scolorita.
Un casco compatto di capelli già quasi tutti grigi le opprime la fronte bassa e dura, in cui le sopracciglia giunte, corte, ispide e dritte, sembrano una sbarra fortemente segnata a dar carattere di stupida tenacia agli occhi chiari e lucenti d'una rigidezza di vetro.
Sembra apatica; ma, a guardarla attentamente, le si scorgono a fior di pelle certi strani formicolìi nervosi, certe repentine alterazioni di colore, a chiazze, che subito scompajono.
Ha poi, di tratto in tratto, rapidi gesti inaspettati, curiosissimi.
L'ho sorpresa, per esempio, a un certo punto, che rispondeva a un supplice sguardo delle figliuola, accomodando la bocca ad O e ponendovi in mezzo il dito.
Evidentemente, questo gesto significava:
- Sciocca! perché mi guardi così?
Ma la guardano sempre, almeno di sfuggita, il marito e la figliuola, perplessi e ansiosi nella paura, che da un momento all'altro non dia in qualche furiosa escandescenza.
E certo guardandola così, la irritano di più.
Ma chi sa che vita è la loro poveretti!
Già Polacco me n'ha dato qualche ragguaglio.
Non ha forse pensato mai d'esser madre, quella donna! Ha trovato quel pover'uomo, il quale, tra le grinfie, dopo tant'anni, le si è ridotto come peggio non si potrebbe; non importa: se lo difende; séguita a difenderselo ferocemente.
Polacco m'ha detto che, assalita dalle furie della gelosia, perde ogni ritegno di pudore; e, inanzi a tutti, senza badar più neanche alla figliuola che sta a sentire a guardare, sculaccia nude (nude, come in quelle furie le balenano davanti agli occhi) le pretese colpe del marito: colpe inverosimili.
Certo, in questo laido svergognamento, la signorina Luisetta non può non vedere ridicolo il padre, che pure, come si nota dagli sguardi che gli rivolge, deve farle tanta pietà! Ridicolo per il modo con cui, denudato, sculacciato, il pover'uomo cerca di tirar sù da ogni parte, per ricoprirsi frettolosamente alla meglio, la sua dignità ridotta a brani.
Me n'ha dette parecchie Cocò Polacco delle frasi che, sbalordito dagli assalti selvaggi improvvisi, rivolge alla moglie, in quei momenti: più sciocche, più ingenue, più puerili, non si potrebbero immaginare! E per ciò solo credo, che Cocò Polacco non se le sia inventate lui.
- Nene, per carità, ho compito quarantacinque anni...
- Nene, sono stato ufficiale...
- Nene, santo Dio, quand'uno è stato ufficiale e dà la sua parola d'onore...
Ma pure, ogni tanto - oh, alla fin fine, la pazienza ha un limite! - ferito con raffinata crudeltà nei più gelosi sentimenti, barbaramente fustigato dove più la piaga duole - ogni tanto, dice, pare che Cavalena scappi di casa, evada dall'ergastolo.
Come un pazzo, da un momento all'altro, si ritrova in mezzo alla strada senza un soldo in tasca, deciso a riprendere comunque "la sua vita": va di qua, di là, in cerca degli amici; e gli amici, in prima, lo accolgono festosamente nei caffè, nelle redazioni dei giornali, perché se lo pigliano a godere; ma la festa subito s'intepidisce, appena egli manifesta il bisogno urgente di trovar posto di nuovo in mezzo a loro, di darsi attorno per provvedere a se stesso, in qualche modo, al più presto.
Eh sì! perché non ha nemmeno da pagarsi il caffè, un boccone di cena, l'alloggio in un albergo per la notte.
Chi gli presta, per il momento, una ventina di lire? Fa appello, coi giornalisti, sullo spirito d'antica colleganza.
Porterà domani un articolo al suo antico giornale.
Che? Sì, di letteratura o di varietà scientifica.
Ha tanta materia accumulata dentro...
cose nuove, sì...
Per esempio? Oh Dio, per esempio, questa...
Non ha finito d'enunziarla, che tutti quei buoni amici gli sbruffano a ridere in faccia.
Cose nuove? Nell'arca Noè, ai suoi figliuoli, per ingannare gli ozii della navigazione su le onde del diluvio universale...
Ah, li conosco bene anch'io, questi buoni amici del caffè! Parlano tutti così, con uno stile burlesco sforzato, e ciascuno s'eccita alle altrui esagerazioni verbali e prende coraggio a dirne qualcuna più grossa, che non passi però la misura, non esca di tono, per non essere accolta da un'urlata generale; si deridono a vicenda, fanno strazio delle loro vanità più carezzate, se le buttano in faccia con gaja ferocia, e nessuno in apparenza se n'offende; ma la stizza, dentro, s'accende, la bile fermenta; lo sforzo per tenere ancora la conversazione su quel tono burlesco, che suscita le risa, perché nelle risa comuni l'ingiuria si stemperi e perda il fiele, diviene a mano a mano più penoso e difficile; poi, del lungo sforzo durato resta in ciascuno una stanchezza di noja e di nausea; ciascuno sente con aspro rammarico d'aver fatto violenza ai proprii pensieri, ai proprii sentimenti; più che rimorso, fastidio della sincerità offesa; disagio interno, quasi che l'animo gonfiato e illividito non aderisca più al proprio intimo essere; e tutti sbuffano per cacciarsi via d'attorno l'afa del proprio disgusto; ma, il giorno appresso, tutti ricascano in quell'afa e daccapo ci si scaldano, cicale tristi, condannate a segar frenetiche la loro noja.
Guaj a chi càpita nuovo, o dopo qualche tempo, in mezzo a loro! Ma Cavalena forse non s'offende, non si lagna dello strazio che i suoi buoni amici fanno di lui, crucciato com'è in cuore dal riconoscimento ch'egli ha perduto nella sua reclusione "il contatto con la vita".
Dall'ultima sua evasione dall'ergastolo son passati, poniamo, diciotto mesi? bene: come se fossero passati diciotto secoli! Tutti, a risentir da lui certe parole di gergo, vive vive allora, ch'egli ha custodito come gemme preziose nello scrigno della memoria, storcono la bocca e lo guardano, come si guarda in trattoria una pietanza riscaldata, che sappia di strutto ràncido, lontano un miglio! Oh povero Cavalena, ma sentitelo! sentitelo! s'è fermato nell'ammirazione di colui che, diciotto mesi fa, era il più grand'uomo del secolo XX.
Ma chi era? Ah, senti...
Il Tal dei Tali...
quell'imbecille! quel seccatore! quella cariatide! Ma come, è ancora vivo? Oh vah! proprio vivo? Sissignori, Cavalena giura d'averlo visto, ancora vivo, una settimana fa; anzi, ecco...
credendo che...
- (no per essere vivo, è vivo) - ma, se non è più un grand'uomo...
ecco, voleva fare un articolo su lui...
non lo farà più!
Avvilito, con la faccia verde di bile, ma qua e là chiazzata, come se gli amici mortificandolo si fossero divertiti a dargli tanti pizzichi su la fronte, su le guance, sul naso, Cavalena si divora dentro, intanto, la moglie, come un cannibale digiuno da tre giorni: la moglie, che l'ha reso, così, lo zimbello di tutti.
Giura a se stesso di non ricadere più tra le grinfie di lei; ma a poco a poco, ahimè, l'ansia di riprendere "la vita" comincia a cangiarglisi in una smania che in prima non sa definire, ma che gli si esaspera dentro sempre più.
Da anni e anni ha esercitato tutte le facoltà mentali per difendere contro gl'iniqui sospetti della moglie la propria dignità.
Ora esse, distratte improvvisamente da quest'assidua, accanita difesa, non son più atte, stentano a volgersi e a dedicarsi ad altri ufficii.
Ma la dignità, così a lungo e strenuamente difesa, gli s'è ormai imposta addosso, come il calco d'una statua, irremovibile.
Cavalena si sente vuoto dentro, ma tutto incrostato di fuori.
È diventato il calco ambulante di quella statua.
Non se lo può più scrostare d'addosso.
Per sempre, ormai, inesorabilmente, egli è l'uomo più dignitoso del mondo.
E questa sua dignità ha una sensibilità così squisita, che s'aombra, si turba al più piccolo cenno che le baleni, d'una minima trasgressione ai doveri di cittadino, di marito, di padre di famiglia.
Tante volte ha giurato alla moglie di non esser venuto meno, mai, neppure col pensiero, a questi doveri, che veramente ormai non può più neppur pensare di trasgredirli, e soffre, e si fa di mille colori nel veder gli altri, così a cuor leggero, trasgredirli.
Gli amici lo deridono e gli dànno dell'ipocrita.
Là, in mezzo a loro, così tutto incrostato, tra il fracasso e l'impetuosa volubilità d'una vita senza più ritegni né di fede né d'affetti, Cavalena si sente violentato, comincia a credersi in serio pericolo; ha l'impressione d'avere i piedi di vetro in mezzo a un tumulto di pazzi che s'arrabattino con scarpe di ferro.
La vita immaginata nel reclusorio come piena d'attrattive e a lui indispensabile gli si scopre vacua, stupida, insulsa.
Com'ha potuto soffrir tanto per la privazione della compagnia di quegli amici? dello spettacolo di tante fatuità, di tanti miserabili disordini?
Povero Cavalena! La verità è forse un'altra! La verità è che nel suo ispido reclusorio, senza volerlo, egli s'è purtroppo abituato a conversar con se stesso, cioè col peggior nemico che ciascuno di noi possa avere; e ha avuto così nette percezioni dell'inutilità di tutto, e s'è visto così perduto, così solo, circondato da tenebre e schiacciato dal mistero suo stesso e di tutte le cose...
Illusioni? speranze? A che servono? Vanità...
E il suo essere, prosternato, annullato per sé, a poco a poco è risorto come pietosa coscienza degli altri, che non sanno e s'illudono, che non sanno e operano e amano e soffrono.
Che colpa ha la moglie, quella sua povera Nene, se è così gelosa? Egli è medico e sa che questa gelosia feroce è una vera e propria malattia mentale, una forma di pazzia ragionante.
Tipica, tipica forma di paranoja, anche coi delirii della persecuzione.
Lo va dicendo a tutti.
Tipica, tipica! Arriva finanche a sospettare, la sua povera Nene, ch'egli voglia ucciderla per appropriarsi, insieme con la figliuola, del denaro di lei! Ah che vita beata, allora, senza di lei...
Libertà, libertà: una gamba qua, una gamba là! Dice così, povera Nene, perché lei stessa s'accorge che la vita, così com'ella la fa a se stessa e agli altri, non è possibile; è la soppressione della vita; si sopprime da sé, povera Nene, con la sua follia, e crede naturalmente che vogliano sopprimerla gli altri: col coltello, no, ché si scoprirebbe! a furia di dispetti! E non s'accorge che i dispetti se li fa lei, da sé; se li fa fare da tutte le ombre della sua follia, a cui dà corpo.
Ma non è medico lui? E se egli, da medico, capisce tutto questo, non ne segue che dovrebbe trattar la sua povera Nene come un'inferma, irresponsabile del male che gli ha fatto e séguita a fargli? Perché si ribella? contro chi si ribella? Egli deve compatirla e averne pietà, starle attorno amoroso, sopportarne paziente e rassegnato l'inevitabile sevizia.
E poi c'è la povera Luisetta, lasciata sola in quell'inferno, a tu per tu con la mamma che non ragiona...
Ah, via, via, bisogna subito ritornare a casa! subito.
Forse, sotto sotto, mascherato di questa pietà per la moglie e la figliuola, c'è il bisogno di sottrarsi a quella vita precaria e incerta, che non è più per lui.
Del resto, non ha pur diritto d'avere anche pietà di sé? Chi l'ha ridotto in quelle condizioni? Può all'età sua riprendere la vita, dopo averne reciso tutte le fila, dopo essersi privato di tutti i mezzi, per contentare la moglie? E, in fin de' conti, va a rinchiudersi in galera!
Ha così dipinta, il pover'uomo, in tutto l'aspetto la grande sciagura ond'è oppresso, la dà tanto a vedere con l'impaccio d'ogni passo, d'ogni sguardo, quand'ha accanto la moglie, per la costernazione assidua, ch'ella in quel passo, in quel gesto, in quello sguardo non abbia a trovar pretesto per una scenata, che non si può fare a meno, pur commiserandolo, di ridere di lui.
E forse ne avrei riso anch'io, questa mattina, se non ci fosse stata lì la signorina Luisetta.
Chi sa quanto soffre dell'inevitabile ridicolaggine del padre, quella povera figliuola!
Un uomo di quarantacinque anni, ridotto in quello stato, di cui la moglie sia ancora così ferocemente gelosa, non può non essere enormemente ridicolo! Tanto più poi, in quanto per un'altra sciagura nascosta, un'oscena calvizie precoce, dovuta a un'infezione tifoidea, di cui poté salvarsi per miracolo, il pover'uomo è costretto a portar quella parrucca artistica sotto un cappellaccio capace di sostenerla.
La spavalderia di questo cappellaccio e di tutti quei cernecchi arricciolati, contrasta così violentemente con l'aria spaurita, scontrosa e circospetta del viso, che è veramente una rovina per la sua serietà, e anche, certo, un continuo crepacuore per la figliuola.
- No, ecco, veda, caro signor...
com'ha detto, scusi?
- Gubbio.
- Gubbio, grazie.
Io, Cavalena; a servirla.
- Cavalena, grazie, lo so.
- Fabrizio Cavalena: a Roma sono piuttosto conosciuto...
- Sfido, un buffone!
Cavalena si voltò pallidissimo, a bocca aperta, a guardare la moglie.
- Buffone, buffone, buffone, - raffibbiò questa, tre volte.
- Nene perdio, rispetta...
- cominciò minacciosamente Cavalena; ma tutt'a un tratto s'interruppe: strizzò gli occhi, contrasse il volto, strinse le pugna, come assalito da un fitto spasimo di ventre, improvviso...
- niente! era lo sforzo tremendo, che ogni volta suol fare su se stesso per contenersi, per spremere dalla sua bestialità adirata la coscienza d'esser medico e di dovere perciò trattare e compatire la moglie come una povera inferma.
- Permette?
E m'introdusse un braccio sotto il braccio, per allontanarsi con me di qualche passo.
- Tipica, sa? Poveretta...
Ah, ci vuole un vero eroismo, creda, un grande eroismo da parte mia a sopportarla.
Non lo avrei, forse, se non ci fosse quella mia povera piccina.
Basta! Le dicevo...
questo Polacco, questo Polacco, benedetto Iddio...
questo Polacco! Ma scusi, che sono parti da fare a un amico, conoscendo la mia sciagura? Mi conduce la figliuola a posare...
con una donnaccia...
con un attore che, notoriamente...
Si figuri quel che è successo a casa mia! E mi manda poi questi regali...
anche un collarino per la bestia...
e cinquecento lire!
Mi provai a dimostrargli che, almeno quanto ai regali e alle cinquecento lire, non mi pareva ci fosse poi tutto quel male ch'egli voleva vederci.
Egli? Ma egli non ce ne vedeva nessuno! che male? egli era contentissimo, felicissimo di quanto era accaduto! gratissimo in cuor suo al Polacco d'aver fatto rappresentare quella particina alla figliuola! Doveva fingersi così indignato per placare la moglie.
Me n'accorsi subito, appena mi misi a parlare.
Gongolava alla dimostrazione ch'io gli facevo, che in fondo non c'era stato nulla di male.
Mi prese per il braccio, mi trascinò impetuosamente davanti alla moglie.
- Senti? senti?...
io non so!...
questo signore dice...
La prego, dica, dica lei...
Io non voglio metterci bocca...
Sono venuto qua coi regali e le cinquecento lire, va bene? per restituire ogni cosa.
Ma se si tratta come dice questo signore...
io non so...
di fare un'offesa gratuita...
di rispondere con una villanìa a chi non ha inteso minimamente di offenderci, di farci male, perché crede...
io non so, io non so...
che non ci sia...
La prego, santo Dio, dica lei, caro signore, parli lei...
ripeta alla mia signora ciò che ha avuto la bontà di dire a me!
Ma la sua signora non me ne diede il tempo: m'aggredì, con gli occhi vitrei, fosforescenti, di gatta inferocita.
- Non dia ascolto a codesto buffone, ipocrita, commediante! Non è per la figlia, non è per la cattiva figura! Lui, lui vuole bazzicare qua, perché qua si troverebbe come nel suo giardinetto, tra le donnette che gli piacciono, artiste come lui, smorfiose e compiacenti! E non si fa scrupolo, farabutto, di mettere avanti la figliuola, di ripararsi dietro la figliuola, anche a costo di comprometterla e di perderla, assassino! Avrebbe la scusa d'accompagnare qua la figliuola, capisce? Verrebbe per la figliuola...
- Ma verresti anche tu! - gridò, esasperato, Fabrizio Cavalena.
- Non sei qua anche tu? con me?
- Io? - ruggì la moglie.
- Io, qua?
- Perché? - seguitò senza sbigottirsi Cavalena; e, rivolgendosi a me: - Dica, dica lei, non ci viene anche Zeme qua?
- Zeme? - domandò, la moglie stordita, aggrottando le ciglia.
- Chi è Zeme?
- Zeme, il senatore! - esclamò Cavalena.
- Senatore del Regno, scienziato di fama mondiale!
- Sarà più pulcinella di te!
- Zeme, che va al Quirinale? invitato a tutti i pranzi di Corte? Il venerando senatore Zeme gloria d'Italia! direttore dell'Osservatorio astronomico! Ma vergògnati, perdio! Rispetta, se non me, un'illustrazione della patria! È venuto qua, è vero? Ma parli, caro signore, dica per carità, la prego! Zeme è venuto qua, s'è prestato a fare un film anche lui, è vero? Le meraviglie dei cieli, capisci? Lui, il senatore Zeme! E se ci viene Zeme, qua, se si presta Zeme, scienziato mondiale, dico...
posso venirci anch'io, posso prestarmi anch'io...
Ma non me n'importa niente! Non verrò più! Parlo adesso per dimostrare a costei, che non è luogo d'infamia questo, dove io per sozzi fini voglia condurre alla perdizione la mia figliuola! Lei capirà, caro signore, e perdonerà: parlo per questo! mi brucia sentirmi dire davanti alla mia figliuola, ch'io la voglio compromettere, perdere, conducendola in un luogo d'infamia...
Sù, sù, mi faccia il piacere: m'introduca subito da Polacco, perché possa restituirgli questi regali e il danaro, ringraziandolo.
Quando uno ha la disgrazia d'avere una moglie come costei, bisogna che si seppellisca, e la faccia finita una volta e per sempre! M'introduca da Polacco!
Non mancò, neanche questa volta, per me; ma, aprendo sbadatamente, senza picchiare, l'uscio della Direzione artistica, ov'era il Polacco, intravidi nella stanza tal cosa, per cui d'improvviso mutò la disposizione dell'animo mio e non potei più né pensare ai Cavalena né quasi vedere nulla.
Curvo su la seggiola davanti la scrivania del Polacco, un uomo era lì, che piangeva, con le mani sul volto, perdutamente.
Subito il Polacco, vedendo aprire l'uscio, levò di scatto il viso e mi fe' cenno iroso di richiudere.
Obbedii.
Quell'uomo che piangeva di là, era certo Aldo Nuti.
Cavalena, la moglie, la figliuola mi guardarono perplessi, stupiti.
- Che c'è? - fece Cavalena.
Trovai appena il fiato per rispondere:
- C'è...
c'è gente...
Poco dopo, venne fuori dalla Direzione artistica Polacco, sconvolto.
Vide Cavalena e gli fece segno d'aspettare:
- Bravo, sì.
Ho da parlarti.
E, senza neppur pensare di salutare le signore, prese me per un braccio, mi trasse un po' discosto.
- È venuto! Non bisogna assolutamente lasciarlo solo! Gli ho parlato di te.
Si ricorda benissimo.
Dov'hai tu alloggio? Aspetta! Mi piacerebbe...
Si voltò a chiamar Cavalena.
- Tu affitti due stanze, è vero? Le hai libere in questo momento?
- Eh sfido! - sospirò Cavalena.
- Da più di tre mesi...
- Gubbio, - mi disse Polacco, - bisogna che tu lasci subito il tuo alloggio; paga quel che devi pagare, un mese, due mesi, tre mesi; prendi in affitto una di queste due stanze di Cavalena.
L'altra sarà per lui.
- Felicissimo! - esclamò Cavalena raggiante, porgendomi tutt'e due le mani.
- Sù, sù, - seguitò Polacco.
- Andate, andate! Tu, a preparare le stanze; tu a prender la tua roba e a trasportarla subito da Cavalena.
Poi torna qua! Siamo intesi!
Aprii le braccia, rassegnato.
Polacco rientrò nella sua stanza.
E io m'avviai coi Cavalena, storditi e ansiosissimi d'aver da me la spiegazione di tutto quel mistero.
Quaderno quinto
I
Esco ora dalla stanza di Aldo Nuti.
È quasi il tocco.
La casa - dove passo la prima notte - dorme.
Ha per me un alito nuovo, non ancor grato al mio respiro; aspetto di cose, sapor di vita, disposizione d'usi particolari, tracce d'abitudini ignote.
Nel corridojo, appena richiuso l'uscio della stanza del Nuti, tenendo un fiammifero acceso tra le dita, ho visto davanti a me, vicinissima, enorme nell'altra parete, la mia ombra.
Smarrito nel silenzio della casa, mi sentivo l'anima così piccola che quella mia ombra al muro, così grande, m'è sembrata l'immagine della paura.
In fondo al corridojo, un uscio; davanti a quell'uscio, su la guida, un pajo di scarpette: quelle della signorina Luisetta.
Mi sono fermato un momento a guardar la mia ombra mostruosa, che s'allungava verso quell'uscio e m'è sembrato che quelle scarpette fossero là per tener lontana la mia ombra.
A un tratto, dietro quell'uscio, la vecchia cagnetta Piccinì, forse già con le orecchie tese, in guardia fin dal primo rumore dell'uscio schiuso, ha emesso due ròchi latrati.
Al rumore non ha abbajato; ma ha sentito ch'io mi son fermato un momento; ha sentito arrivare il mio pensiero alla cameretta della sua padroncina, e ha abbajato.
Eccomi nella mia nuova stanza.
Ma non doveva esser questa.
Quando sono venuto a portare le mie robe, Cavalena, davvero lietissimo d'avermi in casa, non solo per la viva simpatia e la grande confidenza che gli ho subito ispirato, ma forse anche perché spera più facile per mio mezzo l'entratura alla Kosmograph, m'aveva assegnato l'altra stanza più larga, più comoda, meglio addobbata.
Certo né lui né la signora Nene han voluto e disposto il cambiamento.
L'avrà voluto la signorina Luisetta, che con tanta attenzione e tanto sbigottimento questa mattina, andando via dalla Kosmograph, ascoltò in vettura il mio sommario ragguaglio sui casi del Nuti.
Sì, è stata lei, senza dubbio.
Me l'hanno or ora confermato quelle sue scarpette davanti all'uscio, su la guida del corridojo.
Ne provo dispiacere, non per altro, ma per questo: che lo stesso, se questa mattina mi avessero fatto vedere tutt'e due le stanze, avrei lasciato quella per il Nuti, e avrei scelta questa per me.
La signorina Luisetta l'ha indovinato così bene, che senza dirmene nulla ha tolto di là le mie robe e le ha passate qui.
Certamente, se ella non l'avesse fatto, avrei provato dispiacere vedendo alloggiato qui, in questa stanza più piccola e meno comoda, il Nuti.
Ma debbo pensare che ella ha voluto risparmiarmi questo dispiacere? Non posso.
L'aver fatto lei, senza dirmene nulla, quello che avrei fatto io, m'offende, pur riconoscendo che doveva farsi così, anzi appunto perché riconosco che doveva farsi così.
Ah, che effetto prodigioso fanno alle donne le lagrime negli occhi d'un uomo, massime se lagrime d'amore! Ma voglio essere giusto: l'hanno fatto anche a me.
Mi ha tenuto di là circa quattro ore.
Voleva seguitare a dire e a piangere: gliel'ho impedito, per pietà de' suoi occhi specialmente.
Non ho mai veduto due occhi ridursi, per il troppo piangere, così.
Dico male.
Non per il troppo piangere.
Forse poche lagrime (n'ha versate senza fine), ma forse poche soltanto sarebbero bastate a ridurgli ugualmente gli occhi in quello stato.
Eppure è strano! Pare che non pianga lui.
Per quel che dice, per quel che si propone di fare, non ha ragione né, certo, voglia di piangere.
Le lagrime gli bruciano gli occhi, le gote, e perciò sa che piange; ma non sente il suo pianto.
I suoi occhi piangono quasi per un dolore non suo, per un dolore quasi delle lagrime stesse.
Il suo dolore è feroce e non vuole e sdegna quelle lagrime.
Ma più strano ancora m'è sembrato questo: che quando invece a un certo punto, parlando, il suo sentimento s'è accostato - per così dire - alle lagrime, queste d'un tratto gli son venute meno.
Mentre la voce gli s'inteneriva e gli tremava, gli occhi, al contrario - quegli occhi insanguati e disfatti poc'anzi dal pianto - gli sono diventati arsi e duri: feroci.
Quel ch'egli dice e i suoi occhi non possono dunque andar d'accordo.
Ma è lì, in quegli occhi e non in quel che dice, il suo cuore.
E perciò di quegli occhi specialmente ho avuto pietà.
Non dica e pianga; pianga e senta il suo pianto: è il meglio che possa fare.
Mi giunge, a traverso la parete, il rumore de' suoi passi.
Gli ho consigliato d'andare a letto, di provarsi a dormire.
Dice che non può; che ha perduto il sonno, da tempo.
Chi gliel'ha fatto perdere? Non il rimorso certamente, a stare a quel che dice.
È tra i tanti fenomeni dell'anima umana uno de' più comuni e insieme de' più strani da studiare, questo della lotta accanita, rabbiosa, che ogni uomo, per quanto distrutto dalle sue colpe, vinto e disfatto nel suo cordoglio, s'ostina a durare contro la propria coscienza, per non riconoscere quelle colpe e non farsene un rimorso.
Che le riconoscano gli altri e lo puniscano per esse, lo imprigionino, gl'infliggano i più crudeli supplizii e lo uccidano, non gl'importa; purché non le riconosca lui, contro la propria coscienza che pur gliele grida!
Chi è lui? Ah, se ognuno di noi potesse per un momento staccar da sé quella metafora di se stesso, che inevitabilmente dalle nostre finzioni innumerevoli, coscienti e incoscienti, dalle interpretazioni fittizie dei nostri atti e dei nostri sentimenti siamo indotti a formarci; si accorgerebbe subito che questo lui è un altro, un altro che non ha nulla o ben poco da vedere con lui; e che il vero lui è quello che grida, dentro, la colpa: l'intimo essere, condannato spesso per tutta intera la vita a restarci ignoto!
Vogliamo a ogni costo salvare, tener ritta in piedi quella metafora di noi stessi, nostro orgoglio e nostro amore.
E per questa metafora soffriamo il martirio e ci perdiamo, quando sarebbe così dolce abbandonarci vinti, arrenderci al nostro intimo essere, che è un dio terribile, se ci opponiamo ad esso; ma che diventa subito pietoso d'ogni nostra colpa, appena riconosciuta, e prodigo di tenerezze insperate.
Ma questo sembra un negarsi, e cosa indegna d'un uomo; e sarà sempre così, finché crederemo che la nostra umanità consista in quella metafora di noi stessi.
La versione che Aldo Nuti dà degli avvenimenti da cui è stato travolto - pare impossibile! - tende sopra tutto a salvare questa metafora, la sua vanità maschile, la quale, pur ridotta davanti a me in quello stato miserando, non vuole tuttavia rassegnarsi a confessare d'essere stata un giocattolo sciocco in mano a una donna: un giocattolo, un pagliaccetto, che la Nestoroff, dopo essersi divertita un po' a fargli aprire e chiudere in atto supplice le braccia, premendo con un dito la troppo appariscente molla a mantice sul petto, buttò via in un canto, fracassandolo.
S'è rimesso sù, il pagliaccetto fracassato; la faccina, le manine di porcellana, ridotte una pietà: le manine senza dita, la faccina senza naso, tutta crepe, scheggiata; la molla a mantice del petto ha forato il giubbetto di lana rossa ed è scattata fuori, rotta; eppure, no, ecco; il pagliaccetto grida di no, che non è vero che quella donna gli ha fatto aprire e chiudere in atto supplice le braccia per riderne, e che, dopo averne riso, l'ha fracassato così.
Non è vero!
D'accordo con Duccella, d'accordo con nonna Rosa egli seguì dalla villetta di Sorrento a Napoli i due fidanzati, per salvare il povero Giorgio, troppo ingenuo e accecato dal fascino di quella donna.
Non ci voleva mica molto a salvarlo! Bastava dimostrargli e fargli toccar con mano, che quella donna ch'egli voleva far sua sposandola, poteva esser sua, com'era stata d'altri, come sarebbe stata di chiunque, senza bisogno di sposarla.
Ed ecco che, sfidato dal povero Giorgio, s'impegnò di fargli subito questa prova.
Il povero Giorgio la credeva impossibile perché, al solito, per la tattica comunissima a tutte codeste donne, la Nestoroff a lui non aveva mai voluto concedere neanche il minimo favore, e a Capri la aveva veduta così sdegnosa di tutti, appartata e altera! Fu un tradimento orribile.
Non già il suo, ma quello di Giorgio Mirelli! Aveva promesso che, avuta la prova, si sarebbe allontanato subito da quella donna: invece, s'uccise.
Questa è la versione che Aldo Nuti vuol dare del dramma.
Ma come, dunque? Il giuoco l'ha fatto lui, il pagliaccetto? e perché s'è fracassato così? se era un giuoco così facile?
Via queste domande, e via ogni meraviglia.
Qua bisogna far vista di credere.
Non deve affatto scemare, ma anzi crescere la pietà per il prepotente bisogno di mentire di questo povero pagliaccetto, che è la vanità di Aldo Nuti: la faccina senza naso, le manine senza dita, la molla del petto rotta scattata fuori del giubbetto stracciato, lasciamolo mentire! Tanto, ecco, la menzogna gli serve per piangere di più.
Non sono lagrime buone, perché egli non vuol sentirvi il suo dolore.
Non le vuole e le sdegna.
Vuol far altro che piangere, e bisognerà tenerlo d'occhio.
Perché è venuto qua? Non ha da vendicarsi di nessuno, se il tradimento l'ha fatto Giorgio Mirelli, uccidendosi e gettando il suo cadavere tra la sorella e il fidanzato.
Così gli ho detto.
- Lo so - m'ha risposto.
- Ma è pur lei, questa donna, la causa di tutto! Se lei non fosse venuta a turbare la giovinezza di Giorgio, ad adescarlo, a irretirlo con certe armi che veramente solo per un inesperto possono esser perfide, non perché non siano perfide in sé, ma perché uno come me, come lei, subito le riconosce per quel che sono: vipere, che si rendono innocue strappando i denti noti del veleno; ora io non mi troverei così: non mi troverei così! Ella vide subito in me il nemico, capisce? E mi volle mordere di furto.
Fin da principio, io, apposta, le lasciai credere che le sarebbe stato facilissimo mordermi.
Volevo che addentasse, appunto per strapparle quei denti.
E ci riuscii.
Ma Giorgio, Giorgio, Giorgio era avvelenato per sempre! Avrebbe dovuto farmi capire ch'era inutile ch'io mi provassi ormai a strappare i denti a quella vipera...
- Ma che vipera, scusi! - non ho potuto tenermi dal fargli notare.
- Troppa ingenuità per una vipera, scusi! Rivolgere a lei i denti così presto, così facilmente...
Tranne che non l'abbia fatto per cagionare la morte di Giorgio Mirelli.
- Forse!
- E perché? Se già era riuscita nell'intento di farsi sposare? E non s'è subito arresa al suo giuoco? non s'è fatti strappare i denti prima d'ottenere lo scopo?
- Ma non lo sospettava!
- E che vipera, allora, via! Vuole che una vipera non sospetti? Avrebbe morso dopo, una vipera, non prima! Se ha morso prima, vuol dire che...
o non era una vipera, o per Giorgio ha voluto perdere i denti.
Scusi...
no, aspetti...
per carità, mi stia ad ascoltare...
Le dico questo, perché...
son d'accordo con lei, guardi...
ella ha voluto vendicarsi, ma prima, soltanto in principio, di Giorgio.
Questo lo credo; l'ho pensato sempre.
- Vendicarsi di che?
- Forse d'un affronto, che nessuna donna sopporta facilmente.
- Ma che donna, colei!
- E via, una donna, signor Nuti! Lei che le conosce bene, sa che sono tutte le stesse, specialmente su questo punto.
- Che affronto? Non capisco.
- Guardi: Giorgio era tutto preso dalla sua arte, è vero?
- Sì.
- Trovò a Capri questa donna, che si prestò a essere oggetto di contemplazione per lui, per la sua arte.
- Apposta, sì.
- E non vide, non volle vedere in lei altro che il corpo, ma solo per carezzarlo su una tela co' suoi pennelli, col giuoco delle luci e dei colori.
E allora ella offesa e indispettita, per vendicarsi, lo sedusse: sono d'accordo con lei! e, sedottolo, per vendicarsi ancora, per vendicarsi meglio, gli resistette, è vero? finché Giorgio, accecato, pur d'averla, le propose il matrimonio, la condusse a Sorrento dalla nonna, dalla sorella.
- No! Lo volle lei! lo impose lei!
- Va bene, sì; e potrei dire: affronto per affronto; ma no, io ora voglio stare a ciò che ha detto lei, signor Nuti! E ciò che ha detto lei mi fa pensare ch'ella abbia imposto a Giorgio d'esser condotta lì in casa della nonna e della sorella, aspettandosi che Giorgio si ribellasse a questa imposizione perché ella vi trovasse il pretesto di sciogliersi dall'impegno di sposarlo.
- Sciogliersi? Perché?
- Ma perché già aveva ottenuto lo scopo! La vendetta era raggiunta: Giorgio, vinto, accecato, preso di lei, del suo corpo, fino a volerla sposare! Questo le bastava, e non voleva più altro! Tutto il resto, le nozze, la convivenza con lui che certamente subito dopo si sarebbe pentito, sarebbero state l'infelicità per lei e per lui, una catena.
E forse ella non ha pensato soltanto a sé; ha avuto anche pietà di lui!
- Dunque lei crede?
- Ma me lo fa creder lei, me lo fa pensar lei, che ritiene perfida questa donna! A stare a ciò che dice lei, signor Nuti, per una perfida non è logico ciò che ha fatto.
Una perfida che vuole le nozze e prima delle nozze si dà a lei così facilmente...
- Si dà a me? - ha gridato a questo punto, scattando, Aldo Nuti, messo dalla mia logica con le spalle al muro.
- Chi le ha detto che si sia data a me? Io non l'ho avuta, non l'ho avuta...
Crede ch'io abbia potuto pensare d'averla? Io dovevo avere soltanto la prova, che non sarebbe mancato per lei...
una prova da mostrare a Giorgio!
Sono rimasto per un momento sbalordito a mirarlo in bocca.
- E quella vipera gliel'ha data subito? E lei ha potuto averla facilmente, questa prova? Ma dunque, ma dunque, scusi...
Ho creduto che finalmente la mia logica avesse in pugno la vittoria così, che non sarebbe stato più possibile strappargliela.
Devo ancora imparare, che proprio nel momento in cui la logica, combattendo con la passione, crede d'avere acciuffata la vittoria, la passione con una manata improvvisa gliela ristrappa, e poi a urtoni, a pedate, la caccia via con tutta la scorta delle sue codate conseguenze.
Se quest'infelice, evidentissimamente raggirato da quella donna, per un fine che mi par d'aver indovinato, non poté neanche farla sua, e gli è rimasta perciò anche questa rabbia in corpo, dopo tutto quello che gli è toccato soffrire, perché quel pagliaccetto sciocco della sua vanità credette forse davvero in principio di poter facilmente giocare con una donna come la Nestoroff; che volete più ragionare? possibile indurlo ad andarsene? costringerlo a riconoscere che non avrebbe nessun motivo di cimentare un altr'uomo, di aggredire una donna che non vuol saperne di lui?
Eppure...
eppure ho cercato d'indurlo a partire, e gli ho domandato che voleva, infine, e che sperava da quella donna.
- Non lo so, non lo so - m'ha gridato.
- Deve stare con me, deve soffrire con me.
Io non posso più farne a meno, io non posso più star solo, così.
Ho cercato finora, ho fatto di tutto per vincere Duccella; ho messo tanti amici di mezzo; ma capisco che non è possibile.
Non credono al mio strazio, alla mia disperazione.
E ora io ho bisogno, bisogno d'aggrapparmi a qualcuno, di non essere più così solo.
Lei lo capisce: impazzisco! impazzisco! So che non val nulla quella donna, ma le dà prezzo ora tutto quello che ho sofferto e soffro per lei.
Non è amore, è odio, è il sangue che s'è versato per lei! E poiché s'è voluto affogare in questo sangue per sempre la mia vita, bisogna ora che vi stiamo tuffati tutti e due insieme, aggrappati, io e lei, non io solo! Non posso più star solo così!
Sono uscito dalla sua stanza, senza neanche il piacere di avergli offerto uno sfogo che potesse alleggerirgli un po' il cuore.
Ed ecco che io ora posso aprire la finestra e mettermi a contemplare il cielo, mentr'egli di là si strazia le mani e piange, divorato dalla rabbia e dal cordoglio.
Se rientrassi di là, nella sua stanza, e gli dicessi con gioja: "Signor Nuti, sa? ci sono le stelle! Lei certo se n'è dimenticato; ma ci sono le stelle!", che avverrebbe? A quanti uomini, presi nel gorgo d'una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe bene pensare che c'è, sopra il soffitto, il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle.
Anche se l'esserci delle stelle non ispirasse loro un conforto religioso.
Contemplandole, s'inabissa la nostra inferma piccolezza, sparisce nella vacuità degli spazii, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento.
Ma bisognerebbe avere in sé, nel momento della passione, la possibilità di pensare alle stelle.
Può averla uno come me, che da un pezzo guarda tutto e anche se stesso come da lontano.
Se entrassi di là a dire al signor Nuti che nel cielo ci sono le stelle, mi griderebbe forse di salutargliele cacciandomi via, a modo di un cane.
Ma posso io ora, come vorrebbe Polacco, costituirmi suo guardiano? M'immagino come tra poco mi guarderà Carlo Ferro, vedendomi alla Kosmograph con lui accanto.
E Dio sa, che non ho alcuna ragione d'esser più amico dell'uno che dell'altro.
Io vorrei seguitare a fare, con la consueta impassibilità, l'operatore.
Non m'affaccerò alla finestra.
Ahimè, da che è venuto alla Kosmograph quel maledetto Zeme, vedo anche nel cielo una meraviglia da cinematografo.
II
- È dunque un affar serio? - è venuto a chiedermi in camera Cavalena, misteriosamente, questa mattina.
Il pover'uomo teneva in mano tre fazzoletti.
A un certo punto, dopo molte commiserazioni per quel caro "barone" (cioè il Nuti) e molte considerazioni su le innumerevoli infelicità umane, come in prova di queste infelicità, mi ha sciorinato davanti quei tre fazzoletti, prima uno, poi l'altro e poi l'altro, esclamando:
- Guardi!
Erano tutti e tre sforacchiati, come rosicchiati dai topi.
Li ho guardati con pietà e con meraviglia; poi ho guardato lui, mostrando chiaramente che non capivo nulla.
Cavalena starnutì, o piuttosto, mi parve che starnutisse.
No.
Aveva detto:
- Piccinì.
Vedendosi guardato da me con quell'aria stordita, mi mostrò di nuovo i fazzoletti e ripeté:
- Piccinì.
- La cagnetta?
Socchiuse gli occhi e tentennò il capo con tragica solennità.
- Lavora bene, a quanto pare, - dissi io.
- E non posso dirle niente! - esclamò Cavalena.
- Perché è l'unico essere, qua, in casa mia, da cui mia moglie si senta amata e da cui non tema inimicizie.
Ah, signor Gubbio, creda, la natura è infame assai.
Nessuna disgrazia può essere maggiore e peggiore della mia.
Avere una moglie che si sente amata soltanto da una cagna! E non è vero, sa? Quella bestiaccia non ama nessuno! La ama lei, mia moglie, e sa perché? perché con quella bestia solamente ella può sperimentare d'avere un cuore riboccante di carità.
E vedesse come se ne consola! Tiranna con tutti, questa donna diventa la schiava d'una vecchia, brutta bestia, che...
l'ha veduta?...
brutta, le zampe a ròncolo, gli occhi cisposi...
E tanto più la ama, quanto più s'accorge che tra essa e me s'è stabilita ormai da un pezzo un'antipatia, signor Gubbio, invincibile! invincibile! Questa brutta bestia, sicura che io, sapendola così protetta dalla padrona, non le allungherò mai quel calcio che la sventrerebbe, che la ridurrebbe - le giuro, signor Gubbio - una poltiglia, mi fa con la più irritante placidità tutti i dispetti possibili e immaginabili, veri soprusi: mi sporca costantemente il tappeto dello studio, si trattiene apposta di far per istrada i suoi bisogni, per venirmeli a fare sul tappeto dello studio, e mica piccoli, sa? grandi e piccoli; si sdraja su le poltrone, sul canapè dello studio; rifiuta i cibi e mi rosicchia tutti i panni sporchi: ecco qua, tre fazzoletti, jeri, e poi camìce, tovaglioli, asciugamani, foderette, e bisogna ammirarla e ringraziarla, perché questo rosicchiamento sa che signfica per mia moglie? Affezione! Sicuro.
Significa che la cagnetta sente l'odore dei padroni.
- Ma come? E se lo mangia? - Non sa quello che fa: così le risponderebbe mia moglie.
S'è rosicchiato più di mezzo corredo.
Devo star zitto, abbozzare, abbozzare, perché subito altrimenti mia moglie troverebbe l'appiglio per dimostrarmi ancora una volta, quattro e quattr'otto, la mia brutalità.
Proprio così! Fortuna, signor Gubbio, sempre dico, fortuna che son medico! Ho l'obbligo da medico, di capire che questo sviscerato amore per una bestia è anch'esso un sintomo del male! Tipico, sa?
Stette a guardarmi un po', indeciso, perplesso: poi, indicandomi una sedia, domandò:
- Permette?
- Ma si figuri! - gli dissi.
Sedette; riguardò uno dei fazzoletti, scrollando il capo; poi, con un sorriso squallido, quasi supplice:
- Non l'annojo, è vero? non la disturbo?
Lo assicurai calorosamente che non mi disturbava affatto.
- So, vedo che lei è un uomo di cuore...
mi lasci dire! un uomo tranquillo, ma che sa comprendere e compatire.
E io...
S'interruppe, turbato in volto, tese l'orecchio, s'alzò precipitosamente:
- Mi pare che Luisetta m'abbia chiamato...
Tesi anch'io l'orecchio, dissi:
- No, non mi pare.
Dolorosamente si portò le mani su la parrucca e se la calcò sul capo.
- Sa che m'ha detto jersera Luisetta? "Babbo, non ricominciare." Io sono, signor Gubbio, un uomo esasperato! Per forza.
Imprigionato qua in casa, dalla mattina alla sera, senza veder mai nessuno, escluso dalla vita, non posso sfogare la rabbia per l'iniquità della mia sorte! E Luisetta dice che faccio scappare tutti gl'inquilini!
- Oh, ma io...
- feci per protestare.
- No, è vero, sa? È vero! - m'interruppe Cavalena.
- E lei, che è così buono, mi deve promettere fin d'ora che appena io la stanco, appena io l'annojo, mi prenderà per le spalle e mi butterà fuori dell'uscio! Me lo prometta, per carità.
Qua, qua: mi deve dar la mano, che farà così.
Gli diedi la mano, sorridendo:
- Ecco...
come vuol lei...
per contentarla.
- Grazie! Così sono più tranquillo.
Io sono cosciente signor Gubbio, non creda! Ma cosciente, sa di che? Di non essere più io! Quando s'arriva a toccare questo fondo, cioè a perdere il pudore della propria sciagura, l'uomo è finito! Ma io non l'avrei perduto, questo pudore! Ero così geloso della mia dignità! Me l'ha fatto perdere questa donna, gridando la sua follia.
La mia sciagura è nota a tutti, oramai! Ed è oscena, oscena, oscena.
- Ma no...
perché?
- Oscena! - gridò Cavalena.
- Vuol vederla? Guardi! Eccola qua!
E, in così dire, s'acciuffò con due dita la parrucca e se la tirò sù dal capo.
Restai, quasi atterrito, a mirare quel cranio nudo, pallido, di capro scorticato, mentre Cavalena, con le lagrime agli occhi, seguitava:
- Può non essere oscena, dica lei, la sciagura d'un uomo ridotto così e di cui la moglie sia ancora gelosa?
- Ma se lei è medico! se lei sa che è una malattia! - m'affrettai a dirgli, afflitto, alzando le mani quasi per ajutarlo subito a ricalcarsi sul capo quella parrucca.
Se la ricalcò, e disse:
- Ma appunto perché sono medico e so che è una malattia, signor Gubbio! Questa è la sciagura! che sono medico! Se potessi non sapere ch'ella lo fa per pazzia, io la caccerei fuori di casa, vede? mi separerei da lei, difenderei ad ogni costo la mia dignità.
Ma sono medico! so che è pazza! e so dunque che tocca a me d'aver ragione per due, per me e per lei che non l'ha più! Ma avere ragione, per una pazza, quando la pazzia è così supremamente ridicola, signor Gubbio, che significa? significa coprirsi di ridicolo, per forza! significa rassegnarsi a sopportare lo strazio che questa pazza fa della mia dignità, davanti alla figlia, davanti alle serve, davanti a tutti, pubblicamente; ed ecco perduto il pudore della propria sciagura!
- Papà!
Ah, questa volta sì, chiamò davvero la signorina Luisetta.
Cavalena subito si ricompose, si rassettò bene la parrucca sul capo, si raschiò la gola per cangiar voce, e ne trovò una fina fina, carezzevole e sorridente, per rispondere:
- Eccomi, Sesè.
E accorse, facendomi segno, con un dito, di tacere.
Uscii anch'io, poco dopo, dalla mia stanza per vedere il Nuti.
Origliai un po' dietro l'uscio della stanza.
Silenzio.
Forse dormiva.
Restai un po' perplesso, guardai l'orologio: era già l'ora di recarmi alla Kosmograph; solo non avrei voluto lasciarlo, tanto più che Polacco mi aveva raccomandato espressamente di condurlo con me.
A un tratto, mi parve di sentire come un sospiro forte, d'angoscia.
Picchiai all'uscio.
Il Nuti, dal letto, rispose:
- Avanti.
Entrai.
La camera era al bujo.
M'accostai al letto.
Il Nuti disse:
- Credo...
credo d'aver la febbre...
Mi chinai su lui; gli toccai una mano.
Scottava.
- Ma sì! - esclamai.
- Ha la febbre, e forte.
Aspetti.
Chiamo il signor Cavalena.
Il nostro padrone di casa è medico.
- No, lasci...
passerà! - diss'egli.
- È lo strapazzo.
- Certo, - risposi.
- Ma perché non vuole che chiami Cavalena? Le passerà più presto.
Permette che apra un po' gli scuri?
Lo guardai alla luce: mi fece spavento.
La faccia color mattone, dura, tetra, sudata; il bianco degli occhi, jeri insanguato, divenuto quasi nero, tra le borse orribilmente enfiate; i baffi scomposti, appiccicati su le labbra arse, tumide, aperte.
- Lei deve star male davvero.
- Sì, male...
- disse.
- La testa...
E levò una mano dalle coperte per posarsela a pugno chiuso su la fronte.
Andai a chiamar Cavalena che parlava ancora con la figliuola in fondo al corridojo.
La signorina Luisetta, vedendomi appressare, mi guardò con accigliata freddezza.
Certo ha supposto che il padre m'ha già fatto un primo sfogo.
Ahimè, mi vedo condannato ingiustamente a scontare così la troppa confidenza che il padre m'accorda.
La signorina Luisetta m'è già nemica.
Ma non solo per la troppa confidenza del padre, bensì anche per la presenza dell'altro ospite in casa.
Il sentimento destato in lei da quest'altro ospite fin dal primo istante, esclude l'amicizia per me.
L'ho subito avvertito.
È vano ragionarci sopra.
Sono quei moti segreti, istintivi, onde si determinano le disposizioni dell'animo e per cui da un momento all'altro, senza un perché apparente, si àlterano i rapporti tra due persone.
Certo, ora, la nimicizia sarà cresciuta per il tono di voce e la maniera con cui io - avendo avvertito questo - quasi senza volerlo, annunziai che Aldo Nuti stava a letto, in camera sua, con la febbre.
Si fece pallida pallida, in prima; poi rossa rossa.
Forse in quel punto stesso ella assunse coscienza del sentimento ancora indeterminato d'avversione per me.
Cavalena accorse subito alla camera del Nuti; ella s'arrestò davanti all'uscio, quasi non volesse farmi entrare; tanto che fui costretto a dirle:
- Scusi, permette?
Ma, poco dopo, cioè quando il padre le ordinò d'andare a prendere il termometro per misurare la febbre, entrò nella camera anche lei.
Non le staccai un momento gli occhi dal viso, e vidi che ella, sentendosi guardata da me, si sforzava violentemente di dissimulare la pietà e insieme lo sgomento che la vista del Nuti le cagionavano.
L'esame è durato a lungo.
Ma, tranne la febbre altissima e il male alla testa, Cavalena non ha potuto accertar altro.
Usciti però dalla camera, dopo aver richiuso gli scuri della finestra, perché l'infermo non può soffrire la luce, Cavalena s'è mo
...
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