QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE, di Luigi Pirandello - pagina 3
...
.
Uno era in mezzo a questi, che fra gli sgonfii del bianco accappatojo teneva stretto sotto il braccio un violino, chiuso nella fodera di panno verde, logora, sudicia, stinta, e se n'andava inarcocchiato e tenebroso, come assorto a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate.
- Amico! amico! - lo chiamò Simone Pau.
Quegli si fece avanti, tenendo il capo chino e sospeso, come se gli pesasse enormemente il naso rosso e carnuto; e pareva dicesse, avanzandosi:
"Fate largo! fate largo! Vedete come la vita può ridurre il naso d'un uomo?"
Simone Pau gli s'accostò; amorevolmente con una mano gli sollevò il mento; gli batté l'altra su la spalla, per rinfrancarlo, e ripeté:
- Amico mio!
Poi, rivolgendosi a me:
- Serafino - disse, ti presento un grande artista.
Gli hanno appiccicato un nomignolo schifoso; ma non importa: è un grande artista.
Ammìralo: qua, col suo Dio sotto il braccio! Potrebbe essere una scopa: è un violino.
Mi voltai a osservar l'effetto delle parole di Simone Pau sul viso dello sconosciuto.
Impassibile.
E Simone Pau seguitò:
- Un violino, per davvero.
E non lo lascia mai.
Anche i custodi qua gli concedono di portarselo a letto, a patto che non suoni di notte e non disturbi gli altri ricoverati.
Ma non c'è pericolo.
Càvalo fuori amico mio, e mostralo a questo signore, che ti saprà compatire.
Quegli mi spiò prima con diffidenza; poi, a un nuovo invito di Simone Pau, trasse dalla custodia il vecchio violino, un violino veramente prezioso, e lo mostrò, come un monco vergognoso può mostrare il suo moncherino.
Simone Pau riprese, rivolto a me:
- Vedi? Te lo mostra.
Grande concessione di cui devi ringraziarlo! Suo padre, molti anni or sono, lo lasciò padrone a Perugia di una tipografia ricca di macchine e di caratteri e bene avviata.
Di' tu, amico mio, che ne facesti, per consacrarti al culto del tuo Dio?
L'uomo rimase a guardare Simone Pau, come se non avesse compreso la domanda.
Simone Pau gliela chiarì:
- Che ne facesti della tua tipografia?
Quegli allora scattò in un gesto di noncuranza sdegnosa.
- La trascurò, - disse, per spiegare quel gesto, Simone Pau.
- La trascurò fino al punto di ridursi al lastrico.
E allora, col suo violino sotto il braccio, se ne venne a Roma.
Ora non suona più da un pezzo, perché crede di non poter più sonare dopo quanto gli è accaduto.
Ma fino a qualche tempo fa sonava nelle osterie.
Nelle osterie si beve; e lui prima sonava poi beveva.
Sonava divinamente; più divinamente sonava, e più beveva; così che spesso era costretto a mettere in pegno il suo Dio, il suo violino.
E allora si presentava in qualche tipografia per trovar lavoro: metteva insieme a poco a poco quel tanto che gli bisognava per spegnare il violino e ritornava a sonare nelle osterie.
Ma senti che cosa gli capitò una volta, per cui...
capisci? gli si è un po' alterata la...
La...
non diciamo ragione, per carità, diciamo concezione della vita.
Insacca, insacca, amico mio, il tuo strumento: so che ti fa male, se io lo dico, mentre tu hai il tuo violino scoperto.
L'uomo accennò più volte di sì, gravemente, col capo arruffato, e rinfoderò il violino.
- Gli capitò questo - seguitò Simone Pau.
- Si presenta in una grande officina tipografica, nella quale è proto uno che, da ragazzotto, lavorava nella sua tipografia a Perugia.
"Non c'è posto; mi dispiace," gli dice costui.
E l'amico mio fa per andarsene, avvilito, quando si sente richiamare.
- "Aspetta, - dice.
- Se ti adatti, ci sarebbe da fare un servizio...
Non sarebbe per te; ma, se tu hai bisogno..." -.
Il mio amico si stringe nelle spalle, e segue il proto.
È introdotto in un reparto speciale silenzioso; e lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso; una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri.
È una monotype perfezionata, senza complicazioni d'assi, di ruote, di pulegge, senza il ballo strepitoso della matrice.
Ti dico una vera bestia, un pachiderma, che si ruguma quieto quieto il suo lungo nastro di carta traforata.
"Fa tutto da sé - dice il proto al mio amico.
- Tu non hai che a darle da mangiare di tanto in tanto i suoi pani di piombo, e starla a guardare." Il mio amico si sente cascare il fiato e le braccia.
Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un artista! Peggio d'un mozzo di stalla...
Stare a guardia di quella bestiaccia nera, che fa tutto da sé, e che non vuol da lui altro servizio, che d'aver messo in bocca, di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la sua arte; giura e promette di non ritornare più a sonare nelle osterie, dov'è forte, veramente forte per lui la tentazione di bere, e vuol trovare altri luoghi più degni per l'esercizio della sua arte, per il culto della sua divinità.
Sissignori! Appena spegnato il violino, legge negli avvisi d'un giornale, tra le offerte d'impiego, quella d'un cinematografo, in via tale, numero tale, che ha bisogno d'un violino e d'un clarinetto per la sua orchestrina esterna.
Subito il mio amico accorre: si presenta, felice, esultante, col suo violino sotto il braccio.
Ebbene: si trova davanti un'altra macchina, un pianoforte automatico, un cosidetto piano-melodico.
Gli dicono: - "Tu col tuo violino devi accompagnare quello strumento lì".
Capisci? Un violino, nelle mani d'un uomo, accompagnare un rotolo di carta traforata introdotto nella pancia di quell'altra macchina lì.
L'anima, che muove e guida le mani di quest'uomo, e che or s'abbandona nelle cavate dell'archetto, or freme nelle dita che premono le corde, costretta a seguire il registro di quello strumento automatico! Il mio amico diede in tali escandescenze, che dovettero accorrere le guardie, e fu tratto in arresto e condannato per oltraggio alla forza pubblica a quindici giorni di carcere.
Ne è uscito, come lo vedi.
Beve, e non suona più.
VI
Tutte le considerazioni da me fatte in principio sulla mia sorte miserabile e su quella di tanti altri condannati come me a non esser altro che una mano che gira una manovella, hanno per punto di partenza quest'uomo incontrato la prima sera del mio arrivo a Roma.
Certamente ho potuto farle, perché anch'io mi sono ridotto a quest'ufficio di servitore d'una macchina; ma son venute dopo.
Lo dico, perché quest'uomo, presentato qui, dopo quelle considerazioni, potrebbe parere a qualcuno una mia grottesca invenzione.
Ma si badi ch'io forse non avrei mai pensato di fare quelle considerazioni, se in parte non me le avesse suggerite Simone Pau nel presentarmi quel disgraziato; e che, del resto, grottesca è tutta la mia prima avventura, e tale perché grottesco è, e vuol essere, quasi per professione, Simone Pau, il quale, per darmene un saggio fin dalla prima sera, volle condurmi a dormire in un ospizio di mendicità.
Io non feci allora nessunissima considerazione; prima, perché non potevo pensare neppur lontanamente che mi sarei ridotto a quest'ufficio; poi, perché me l'avrebbe impedito un gran tramestìo sù per la scala del dormitorio e un irrompere confuso e festante di tutti quei ricoverati già scesi allo spogliatojo per ritirare i loro panni.
Che era accaduto?
Ritornavano sù, insaccati di nuovo nei bianchi accappatoj, e con le pantofole ai piedi.
Tra loro, e insieme coi custodi e le suore di carità addette al ricovero e alla cucina economica, eran parecchi signori e qualche signora, tutti ben vestiti e sorridenti, con un'aria curiosa e nuova.
Due di quei signori avevano in mano una macchinetta, che ora conosco bene, avvolta in una coperta nera, e sotto il braccio il treppiedi a gambe rientranti.
Erano attori e operatori d'una Casa cinematografica, e venivano per un film a cogliere dal vero una scena d'asilo notturno.
La Casa cinematografica, che mandava quegli attori, era la Kosmograph, nella quale io da otto mesi ho il posto d'operatore; e il direttore di scena, che li guidava, era Nicola Polacco, o, come tutti lo chiamano, Cocò Polacco, mio amico d'infanzia e compagno di studii a Napoli nella prima giovinezza.
Debbo a lui il posto e alla fortunata congiuntura d'essermi trovato quella notte con Simone Pau in quell'asilo notturno.
Ma né a me, ripeto, venne in mente, quella mattina, che mi sarei ridotto a collocar sul treppiedi una macchina di presa, come vedevo fare a quei due signori, né a Cocò Polacco di propormi un tale ufficio.
Egli, da quel buon figliuolo che è, non stentò molto a riconoscermi, quantunque io - riconosciutolo subito - facessi di tutto per non essere scorto da lui in quel luogo miserabile, vedendolo raggiante d'eleganza parigina e con un'aria e un'impostatura di condottiero invincibile, tra quegli attori, quelle attrici e tutte quelle reclute della miseria, che non capivano più nei loro bianchi càmici dalla gioja d'un guadagno insperato.
Si mostrò sorpreso di trovarmi là, ma soltanto per l'ora mattutina, e mi domandò come avessi saputo ch'egli con la sua compagnia dovesse venire quella mattina nell'asilo per un interno dal vero.
Lo lasciai nell'inganno, che mi trovassi lì per caso come un curioso; gli presentai Simone Pau (l'uomo dal violino, nella confusione, era sgattajolato via); e rimasi ad assistere disgustato alla sconcia contaminazione di quella triste realtà, di cui avevo nella notte assaporato l'orrore, con la stupida finzione che il Polacco era venuto a iscenarvi.
Ma il disgusto, forse, lo sento adesso.
Quella mattina, dovevo avere più che altro curiosità d'assistere per la prima volta all'iscenatura d'una cinematografia.
Pure la curiosità, a un certo punto, mi fu distratta da una di quelle attrici, la quale, appena intravista, me ne suscitò un'altra assai più viva.
La Nestoroff...
Possibile? Mi pareva lei e non mi pareva.
Quei capelli d'uno strano color fulvo quasi cùpreo, il modo di vestire, sobrio, quasi rigido, non erano suoi.
Ma l'incesso dell'esile elegantissima persona, con un che di felino nella mossa dei fianchi; il capo alto, un po' inclinato da una parte, e quel sorriso dolcissimo su le labbra fresche come due foglie di rosa, appena qualcuno le rivolgeva la parola; quegli occhi stranamente aperti, glauchi, fissi, e vani a un tempo, e freddi nell'ombra delle lunghissime ciglia, erano suoi, ben suoi, con quella sicurezza tutta sua, che ciascuno, qualunque cosa ella fosse per dire o per chiedere, le avrebbe risposto di sì.
Varia Nestoroff...
Possibile? Attrice d'una Casa di cinematografia?
Mi balenarono in mente Capri, la Colonia russa, Napoli, tanti rumorosi convegni di giovani artisti, pittori, scultori, in strani ridotti eccentrici, pieni di sole e di colore, e una casa, una dolce casa di campagna, presso Sorrento, dove quella donna aveva portato lo scompiglio e la morte.
Quando, ripetuta per due volte la scena per cui la compagnia era venuta in quell'asilo, Cocò Polacco m'invitò ad andarlo a trovare alla Kosmograph, io, ancora in dubbio gli domandai se quell'attrice fosse proprio la Nestoroff.
- Sì, caro, - mi rispose, sbuffando.
- Ne sai forse la storia?
Gli accennai di sì col capo.
- Ah, ma non puoi saperne il seguito - riprese il Polacco.
- Vieni, vieni a trovarmi alla Kosmograph; te ne dirò di belle.
Gubbio, pagherei non so che cosa per levarmi dai piedi questa donna.
Ma, guarda, è più facile che...
- Polacco! Polacco! - chiamò a questo punto colei.
E dalla premura con cui Cocò Polacco accorse alla chiamata, compresi bene qual potere ella avesse nella Casa, ov'era scritturata quale prima attrice con uno dei più lauti stipendii.
Alcuni giorni dopo mi recai alla Kosmograph, non per altro, per conoscere il seguito della storia, purtroppo a me nota, di quella donna.
Quaderno secondo
I
Dolce casa di campagna, Casa dei nonni, piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose ma quasi intime parti di coloro che v'abitavano, perché in essi toccavano e sentivano la realtà cara, tranquilla, sicura della loro esistenza.
Covava davvero in quelle stanze un alito particolare, che a me pare di sentire ancora, mentre scrivo: alito d'antica vita, che aveva dato un odore a tutte le cose che vi erano custodite.
Rivedo la sala, un po' tetra veramente, dalle pareti stuccate, a riquadri che volevan sembrare di marmo antico: uno rosso, uno verde; e ogni riquadro aveva la sua brava cornice, anch'essa di stucco, a fogliami; se non che, col tempo, quei finti marmi antichi s'erano stancati della loro ingenua finzione, s'erano un po' gonfiati qua e là, e si vedeva qualche piccola crepacchiatura.
La quale mi diceva benignamente:
- Tu sei povero; hai l'abito sdrucito; ma vedi bene che pure nelle case dei signori...
Eh sì! Bastava mi voltassi a guardare quelle mensole curiose, che pareva avessero schifo di toccare la terra con le loro zampe dorate, di ragno...
Il piano di marmo era un po' ingiallito, e nello specchio inclinato si rivedevano precisi nell'immobilità i due cestelli posati sul piano: cestelli di frutta, anch'esse di marmo, colorate: fichi, pesche, cedri, a riscontro, di qua e di là, proprio precise, nel riflesso come se fossero quattro e non due.
In quella immobilità di lucido riflesso era tutta la calma limpida, che regnava in quella casa.
Pareva che nulla vi potesse accadere.
E lo diceva anche l'orologetto di bronzo, tra i due cestelli, di cui nello specchio si vedeva il dietro soltanto.
Figurava una fontanella, e aveva un cristallo di rocca a spirale, che girava e girava col moto della macchina.
Quant'acqua aveva versato quella fontanella? Ma la conchetta non s'era riempita mai.
Ed ecco la sala, da cui si scende nel giardino.
(Da una stanza all'altra si passa a traverso uscioli bassi che pajon compresi del loro ufficio, e ciascuno sappia le cose che ha in custodia nella stanza.) Questa, da cui si scende nel giardino, è la preferita, in tutte le stagioni.
Ha il pavimento di mattoni laghi, quadrati, di terracotta, un po' logorati dall'uso.
La carta da parato, a roselline, è un po' sbiadita, come le tende di velo, pure a roselline della finestra e della porta a vetri, da cui si scorge il pianerottolo della breve scala di legno, a collo, e la ringhierina verde e il pergolato del giardinetto incantato di luce e di silenzio.
La luce filtra verde e fervida a traverso le stecche della piccola persiana della finestra, e non si soffonde nella stanza, che rimane in una fresca, deliziosa penombra, imbalsamata dalle fragranze del giardino.
Che felicità, che bagno di purezza per l'anima, a stare un po' distesi su quel divano antico, dalle testate alte, coi rulli di stoffa verde, anch'essa un po' scolorita.
- Giorgio! Giorgio!
Chi chiama dal giardino? È nonna Rosa, che non arriva a cogliere neppure con l'ajuto della sua cannuccia i gelsomini di bella notte, or che la pianta, crescendo, s'è rampicata alta sù sù per il muretto.
Piacciono tanto a nonna Rosa quei gelsomini di bella notte! Ha sù, nell'armadio a muro, una cassettina piena di spighe a ombrello di rizòmolo, seccate; ne prende una ogni mattina, prima di scendere in giardino; e quando ha raccolto i gelsomini con la sua cannuccia, siede all'ombra del pergolato, inforca gli occhiali e infilza a uno a uno quei gelsomini negli esili gambi di quella spiga a ombrello, finché non ne forma una bella rosa bianca, piena, dal profumo intenso e soave che va a deporre religiosamente in un vasetto sul piano del cassettone nella sua camera, innanzi all'immagine del suo unico figliuolo, morto da tant'anni.
È così intima e raccolta, quella casetta, e paga della vita che racchiude in sé, e senz'alcun desiderio di quella che si svolge rumorosa fuori, lontano! Sta lì, come rannicchiata dietro il poggio verde, e non ha voluto neanche la vista del mare e del golfo meraviglioso.
Voleva rimanere appartata, ignorata da tutti, quasi nascosta lì in quel cantuccio verde e solitario, fuori e lontana dalle vicende del mondo.
C'era una volta sul pilastrino del cancello una targhetta di marmo, che recava il nome del proprietario: Carlo Mirelli.
Nonno Carlo pensò di levarla, quando la morte trovò la via, la prima volta, per entrare in quella schiva casetta perduta in campagna, e si portò via il figliuolo di appena trent'anni, già padre a sua volta di due piccini.
Credette forse nonno Carlo che, tolta dal pilastrino la targhetta, la morte non avrebbe trovato più la via per ritornare?
Nonno Carlo era di quei vecchi, che portavano la papalina di velluto col fiocco di seta, ma sapevano leggere Orazio.
Sapeva dunque che la morte, aequo pede, picchia a tutte le porte, abbiano o non abbiano il nome inciso sulla targhetta.
Se non che, ciascuno, accecato da quelle che stima ingiustizie delle sorte, prova il bisogno irragionevole di rovesciar le furie del proprio cordoglio su qualcuno o su qualche cosa.
Le furie di nonno Carlo, quella volta, s'abbatterono su l'innocente targhetta del pilastrino.
Se la morte si lasciasse afferrare, io la avrei afferrata per un braccio e condotta davanti a quello specchio, ove con tanta limpida precisione si riflettevano nell'immobilità i due cestelli di frutta e il dietro dell'orologetto di bronzo, e le avrei detto:
- Vedi? Vàttene ora! Qua deve restar tutto così com'è!
Ma la morte non si lascia afferrare.
Abbattendo quella targhetta, forse nonno Carlo volle significare che - morto il figliuolo - lì, di vivi, non restava più nessuno!
La morte ritornò poco dopo.
C'era una viva, che perdutamente ogni notte la invocava: la nuora vedova, che, appena morto il marito, si sentì come staccata dalla famiglia, straniera nella casa.
Così, i due piccini orfani: Lidia, la maggiore di appena cinque anni, e Giorgetto di tre, restarono del tutto affidati ai due nonni non ancora tanto vecchi.
Riprendere daccapo la vita quando già comincia a mancare, e ritrovare in sé le prime maraviglie dell'infanzia; ricomporre attorno a due rosei bimbi gli affetti più ingenui, i sogni più adatti, e ricacciare come importuna e fastidiosa l'esperienza, che di tratto in tratto sporge il viso di vecchia appassita per dire, ammiccando dietro gli occhiali: avverrà questo, avverrà quest'altro, quando ancora non è avvenuto niente, ed è così bello che non sia avvenuto niente; e fare e pensare e dire come se veramente non si sapesse altro fuor di quello che per ora sanno i due piccini che non sanno nulla: fare come se le cose non fossero riviste in un ritorno, ma con gli occhi di chi va innanzi per la prima volta e per la prima volta vede e sente: questo miracolo operarono nonno Carlo e nonna Rosa; fecero cioè per i due piccini assai più di quel che avrebbero fatto il padre e la madre, i quali, se fossero vissuti, giovani com'erano entrambi, avrebbero pur voluto godersi la vita ancora un po' per sé.
Né il non averne più da godere per loro rese più facile il compito ai due vecchi, perché ai vecchi si sa che è grave il peso d'ogni cosa, che non abbia più né senso né valore per essi.
I due nonni accettarono quel senso e quel valore, che i due nipotini a mano a mano, crescendo, cominciarono a dare alle cose, e tutto il mondo si ricolorò di giovinezza per loro e la vita riebbe candore e freschezza d'ingenuità.
Ma che potevano sapere del mondo tanto grande, della vita tanto diversa, che s'agitava fuori, lontano, quei due giovinetti nati e cresciuti nella casa di campagna? I vecchi, quel mondo e quella vita, li avevano dimenticati, tutto per essi era ridiventato nuovo, il cielo, la campagna, il canto degli uccelli, il sapor delle vivande.
Di là dal cancello, non c'era più vita.
La vita partiva di qua e nuova s'irraggiava tutt'intorno; e niente s'immaginavano i vecchi che potesse venirne da fuori; e anche la morte, anche la morte avevano quasi dimenticata, che pure già due volte era venuta.
Ebbene, pazienza, la morte, a cui nessuna casa, per quanto lontana e nascosta, può restare ignota! Ma come mai, partita da mille e mille miglia lontano, sospinta, o trascinata, sbattuta qua e là dal turbine di tante vicende misteriose, poté trovar la via di quella casetta schiva, lì rannicchiata dietro il poggio verde, una donna, a cui la pace e gli affetti, che quivi regnavano dovevano essere, nonché incomprensibili, ma neppur concepibili?
Io non ho le tracce, né forse le ha nessuno, del cammino seguìto da questa donna per arrivare alla dolce casetta di campagna, presso Sorrento.
Lì, proprio lì, davanti al pilastrino del cancello, da cui nonno Carlo da gran tempo aveva fatto strappare la targhetta, ella non arrivò da sé, veramente; non alzò lei la mano, la prima volta, a sonare la campanella per farsi aprire il cancello.
Ma non molto lontano di lì ella si fermò ad aspettare, che un giovanetto, fin allora custodito con l'anima e col fiato da due vecchi nonni, bello, ingenuo, fervido, con l'anima tutta alata di sogni, da quel cancello uscisse fiducioso verso la vita.
O nonna Rosa, e voi lo chiamate ancora dal giardinetto, perché egli vi ajuti a cogliere con la cannuccia i vostri gelsomini di bella notte?
- Giorgio! Giorgio!
Ho ancora negli orecchi, nonna Rosa, la vostra voce.
E provo una dolcezza accorata, che non so dire, nell'immaginarvi ancora lì, nella vostra casetta, che rivedo come se vi fossi tuttora e tuttora ne respirassi l'alito che vi cova, d'antica vita; nell'immaginarvi ignara di quanto è accaduto, com'eravate prima, quand'io, nelle vacanze estive, venivo da Sorrento ogni mattina a preparare per gli esami d'ottobre il vostro nipote Giorgio, che non voleva sapere né di latino né di greco, e imbrattava invece tutti i pezzi di carta che gli capitavano sotto mano, i margini dei libri, il piano del tavolino da studio, di schizzi a penna e a matita, di caricature.
Ci dev'essere anche la mia, ancora, sul piano di quel tavolino tutto scombiccherato.
- Eh, signor Serafino, - sospirate voi, nonna Rosa, porgendomi in una tazza antica il solito caffè con l'essenza di cannella, come quello che offrono le zie monache nelle badìe, - eh, signor Serafino, Giorgio ha comprato i colori; ci vuol lasciare; vuol farsi pittore...
E dietro le vostre spalle sgrana i dolci, limpidi occhi cilestri e si fa rossa rossa Lidiuccia, la vostra nipote; Duccella, come voi la chiamate.
Perché?
Ah, perché...
È venuto già tre volte da Napoli un signorino, un bel signorino tutto profumato, col panciotto di velluto, i guanti canarini scamosciati, la caramella a l'occhio destro e lo stemma baronale nel fazzoletto e nel portafogli.
L'ha mandato il nonno, barone Nuti, amico di nonno Carlo, amico da fratello, prima che nonno Carlo, stanco del mondo, si ritirasse da Napoli, qua, nella villetta sorrentina.
Voi lo sapete, nonna Rosa.
Ma non sapete che il signorino di Napoli incoraggia fervorosamente Giorgio a darsi all'arte e ad andarsene a Napoli con lui.
Lo sa Duccella, perché il signorino Aldo Nuti (che stranezza!), con tanto fervore dell'arte, non guarda mica Giorgio, guarda lei, negli occhi, come se dovesse incoraggiare lei e non Giorgio; sì, sì, lei a venirsene a Napoli per star sempre sempre accanto a lui.
Ecco perché Duccella si fa rossa rossa, dietro le vostre spalle, nonna Rosa, appena vi sente dire che Giorgio vuol fare il pittore.
Anche lui, il signorino di Napoli, se il nonno permettesse...
No, pittore no...
Vorrebbe darsi al teatro, lui, far l'attore.
Quanto gli piacerebbe! Ma il nonno non vuole...
Scommettiamo, nonna Rosa, che non vuole neanche Duccella?
II
I fatti che seguirono a questa tenue, ingenua vita d'idillio, circa quattr'anni dopo, io li conosco sommariamente.
Facevo a Giorgio Mirelli da ripetitore, ma ero anch'io studente, un povero studente invecchiato nell'attesa di proseguir gli studii e a cui i sacrifizi durati dai parenti per mantenerlo alle scuole avevano spontaneamente persuaso il massimo zelo, la massima diligenza, una timida umiltà accorata, una soggezione che tuttavia non si stancava, benché quell'attesa si prolungasse ormai da molti e molti anni.
Ma forse non fu tempo perduto.
Studiai da me e meditai, in quell'attesa, molto più e con profitto di gran lunga maggiore, che non avessi fatto negli anni di scuola; e da me imparai il latino e il greco, per tentare il passaggio dagli studii tecnici a cui ero stato avviato, ai classici, con la speranza che mi fosse più facile entrare per questa via all'Università.
Certo, questo genere di studii si confaceva assai più alla mia intelligenza.
M'affondai in essi con passione così intensa e viva, che, a ventisei anni, quando per una insperata modestissima eredità di uno zio prete (morto nelle Puglie e da un pezzo quasi dimenticato dalla mia famiglia) potei finalmente entrare all'Università, rimasi a lungo perplesso, se non mi convenisse lasciar lì nel cassetto, ove da tant'anni dormiva, il diploma di licenza dall'istituto tecnico, e di procurarmi quella dal liceo, per iscrivermi nella facoltà di filosofia e lettere.
Prevalsero i consigli dei parenti, e partii per Liegi, dove, con questo baco in corpo della filosofia, feci intima e tormentosa conoscenza con tutte le macchine inventate dall'uomo per la sua felicità.
Ne ho cavato, come si vede, un gran profitto.
Mi sono allontanato con orrore istintivo dalla realtà, quale gli altri la vedono e la toccano, senza tuttavia poterne affermare una mia, dentro e attorno a me, poiché i miei sentimenti distratti e fuorviati non riescono a dare né valore né senso a questa mia vita inetta e senz'amore.
Guardo ormai tutto, e anche me stesso, come da lontano; e da nessuna cosa mai mi viene un cenno amoroso ad accostarmi con fiducia o con speranza d'averne qualche conforto.
Cenni, sì, pietosi, mi sembra di scorgere negli occhi di tanta gente, negli aspetti di tanti luoghi che mi spingono non a ricevere né a dare conforto, che non può darne chi non può riceverne; ma pietà.
Eh, pietà, sì...
Ma so che la pietà, a dare e a ricevere, è così difficile.
Per parecchi anni, ritornato a Napoli, non trovai da far nulla; feci vita da scapigliato con giovani artisti, finché durarono gli ultimi resti di quella piccola eredità.
Devo al caso, com'ho detto, e all'amicizia d'un mio antico compagno di studii il posto che occupo.
Lo tengo - diciamolo, sì - con onore, e del mio lavoro sono ben remunerato.
Oh, mi stimano tutti qua, un ottimo operatore: vigile, preciso e d'una perfetta impassibilità.
Se debbo esser grato al Polacco, anche Polacco dev'esser grato a me della benemerenza che s'è acquistata presso il commendator Borgalli, direttore generale e consigliere delegato della Kosmograph, per l'acquisto che la Casa ha fatto d'un operatore come me.
Il signor Gubbio non è addetto propriamente a nessuna delle quattro compagnie del reparto artistico, ma è chiamato or qua or là da tutte, per la confezione dei films di più lungo metraggio e più difficili.
Il signor Gubbio lavora molto di più degli altri cinque operatori della Casa; ma per ogni film ben riuscito ha un ricco dono e frequenti gratificazioni.
Dovrei esser lieto e soddisfatto.
Rimpiango invece il tempo della magrezza e delle follie a Napoli tra i giovani artisti.
Appena ritornato da Liegi, rividi Giorgio Mirelli, già colà da due anni.
Aveva di recente esposto in una mostra d'arte due strani quadri, che avevano suscitato nella critica e nel pubblico lunghe e violente discussioni.
Conservava l'ingenuità e il fervore dei sedici anni; non aveva occhi per vedere la trascuratezza del suo vestire, i suoi capelli arruffati, i primi peli radi che gli s'arricciavano lunghi sul mento e su le gote magre, come a un malato: e malato era d'una divina malattia; in preda a un'ansia continua, che non gli faceva né scorgere né toccare quella che per gli altri era la realtà della vita; sempre sul punto di lanciarsi con impeto a qualche richiamo misterioso, lontano, che lui solo intendeva.
Gli domandai de' suoi.
Mi disse che nonno Carlo era morto da poco.
Lo guardai maravigliato del modo con cui mi dava quella notizia; pareva non avesse provato alcuna pena di quella morte.
Ma, richiamato da quel mio sguardo al suo dolore, disse: - Povero nonno...
- con tanto rimpianto e con un tal sorriso, che subito mi ricredetti e compresi ch'egli, nel tumulto di tanta vita che gli ferveva dentro, non aveva né modo né tempo di pensare a' suoi dolori.
E nonna Rosa? Nonna Rosa stava bene...
sì, benino...
come poteva, povera vecchietta, dopo quella morte.
Due spighe di rizòmolo, adesso, da riempir di gelsomini, ogni mattina, una per il morto recente, l'altra per il morto lontano.
E Duccella, Duccella?
Ah come risero gli occhi del fratello alla mia domanda!
- Vermiglia! vermiglia!
E mi disse che già da un anno era fidanzata al baronello Aldo Nuti.
Le nozze si sarebbero dovute celebrare tra poco; erano state rimandate per la morte di nonno Carlo.
Ma non si mostrò lieto di quelle nozze; mi disse anzi che Aldo Nuti non gli pareva un compagno adatto per Duccella; e, agitando in aria le dita delle due mani, uscì in quell'esclamazione di nausea, che soleva usare quand'io m'affannavo a fargli capire le regole e le partizioni della seconda declinazione greca:
- Complicato! complicato! complicato!
Non era più possibile tenerlo fermo, dopo questa esclamazione.
E come scappava allora dal tavolino da studio, mi scappò davanti quella volta.
Lo perdetti di vista per più d'un anno.
Seppi da' suoi compagni d'arte, che se n'era andato a Capri, a dipingere.
Trovò lì Varia Nestoroff.
III
Conosco bene adesso questa donna, o almeno quanto è possibile conoscerla, e mi spiego tante cose rimaste lungo tempo per me incomprensibili.
Se non che, la spiegazione ch'io ora me ne faccio, rischierà forse di parere incomprensibile agli altri.
Ma io me la faccio per me e non per gli altri; e non intendo minimamente di scusare con essa la Nestoroff.
Scusarla davanti a chi?
Io mi guardo dalla gente di professione perbene, come dalla peste.
Sembra impossibile che non debba godere della propria malvagità chi per calcolo e con freddezza la eserciti.
Ma se questa infelicità (e dev'esser tremenda) esiste, dico di non poter godere della propria malvagità, lo sprezzo per questi malvagi, come per tanti altri infelici, forse può esser vinto, o almeno attenuato, da una certa pietà.
Parlo, per non offendere, quasi come una persona discretamente perbene.
Ma dovremmo, buon Dio, riconoscere questo: che siamo tutti - chi più, chi meno - malvagi; ma che non ne godiamo, e siamo infelici.
È possibile?
Tutti riconosciamo volentieri la nostra infelicità; nessuno, la propria malvagità; e quella vogliamo vedere senz'alcuna ragione o colpa nostra; mentre cento ragioni, cento scuse e giustificazioni ci affanniamo a trovare per ogni piccolo atto malvagio da noi compiuto, che ci sia messo innanzi dagli altri o dalla nostra stessa coscienza.
Volete vedere come subito ci ribelliamo e neghiamo sdegnati un atto di malvagità, pure innegabile, e del quale pure innegabilmente abbiamo goduto?
Sono avvenuti questi due fatti.
(Non divago, perché la Nestoroff è stata paragonata da qualcuno alla bella tigre comperata, qualche giorno fa, dalla Kosmograph.) Sono avvenuti dunque, questi due fatti.
Uno stormo d'uccelli di passo - beccacce e beccaccini - sono calati per riposarsi un po' dal lungo volo e rifocillarsi, su la campagna romana.
Hanno scelto male il posto.
Un beccaccino, più ardito degli altri, dice ai compagni:
- Voi state qua, riparati in questa fratta.
Io andrò a esplorare intorno e, se trovo di meglio, vi chiamerò.
Un vostro amico ingegnere, d'animo avventuroso, membro della Società Geografica, ha accettato l'incarico di recarsi in Africa, non so bene (perché bene non lo sapete neppur voi) per quale esplorazione scientifica.
Egli è ancora lontano dalla mèta; avete ricevuto da lui qualche notizia, l'ultima v'ha lasciato in una certa costernazione, perché il vostro amico v'esponeva i rischi a cui sarebbe andato incontro accingendosi a traversare non so che remote plaghe selvagge e deserte.
Oggi è domenica.
Voi vi alzate presto per andare a caccia.
Avete fatto i preparativi jeri sera, ripromettendovi un gran piacere.
Scendete dal treno, àlacre e lieto; vi allontanate per la campagna fresca, verde, un po' nebbiosa, in cerca d'un buon posto per gli uccelli di passo.
State all'aspetto mezz'ora, un'ora; cominciate a stancarvi e togliete di tasca il giornale comperato prima di partire, alla stazione.
A un certo punto, avvertite come un frullo d'ali fra l'intrico dei rami nella macchia; lasciate il giornale; vi avvicinate cheto e chinato; prendete la mira; sparate.
Oh gioja! Un beccaccino!
Sì, proprio un beccaccino.
Proprio quel beccaccino esploratore, che aveva lasciato i compagni nella fratta.
So che voi non mangiate la caccia: la regalate agli amici: per voi tutto è qui, nel piacere d'uccidere quella che chiamate selvaggina.
La giornata non promette bene.
Ma voi, come tutti i cacciatori, siete un po' superstizioso: credete che la lettura del giornale vi abbia portato fortuna e ritornate a leggere il giornale al posto di prima.
Nella seconda pagina trovate la notizia, che il vostro amico ingegnere, andato in Africa per conto della Società Geografica, attraversando quelle tali plaghe selvagge e deserte, è morto sciaguratamente: assaltato, sbranato e divorato da una belva.
Leggendo con raccapriccio la narrazione del giornale, non vi passa neanche lontanamente per il capo di porre il paragone tra la belva, che ha ucciso il vostro amico, e voi, che avete ucciso il beccaccino, esploratore come lui.
Eppure, starebbe perfettamente nei termini, e temo anzi con qualche vantaggio per la belva, perché voi avete ucciso per piacere e senz'alcun rischio per voi d'essere ucciso; mentre la belva, per fame, cioè per bisogno, e col rischio d'essere uccisa dal vostro amico, che certamente era armato.
Retorica, è vero? Eh sì, caro; non vi sdegnate troppo; lo riconosco anch'io: retorica, perché noi, per grazia di Dio, siamo uomini e non beccaccini.
Il beccaccino, lui, senza timore di far della retorica, potrebbe sì porre il paragone e chiedere che almeno gli uomini che vanno per piacere a caccia, non chiamino feroci le bestie.
Noi, no.
Noi non possiamo ammettere il paragone perché qua abbiamo un uomo che ha ucciso una bestia, e là una bestia che ha ucciso un uomo.
Tutt'al più, caro beccaccino, per farti qualche concessione, possiamo dire, che tu eri una povera bestiolina innocua, ecco! Ti basta? Ma tu da questo non infierire, che la nostra malvagità sia perciò appunto maggiore; e, sopra tutto, non dire che, chiamandoti bestiolina innocua e uccidendoti, non abbiamo più il diritto di chiamar feroce la bestia che ha ucciso per fame e non per piacere un uomo.
Ma quando poi un uomo, tu dici, si riduce peggio d'una bestia?
Ecco, sì; bisogna stare attenti, veramente, alle conseguenze della logica.
Tante volte si sdrucciola, e non si sa più dove si vada a parare.
IV
Il caso di vedere gli uomini ridursi peggio d'una bestia è dovuto accadere molto di frequente a Varia Nestoroff.
Eppure ella non li ha uccisi.
Cacciatrice, come voi siete cacciatore.
Il beccaccino voi lo avete ucciso.
Ella non ne ha ucciso nessuno.
Uno solo, per lei, si è ucciso, con le sue mani: Giorgio Mirelli; ma non per lei solamente.
La belva, intanto, che fa male per un bisogno della sua natura, non è - che si sappia - infelice.
La Nestoroff, come per tanti segni si può argomentare, è infelicissima.
Non gode della sua malvagità, pure con tanto calcolo e con tanta freddezza esercitata.
Se dicessi apertamente questo ch'io penso di lei a' miei compagni operatori, agli attori, alle attrici della Casa, tutti sospetterebbero subito che mi sia anch'io innamorato della Nestoroff.
Non mi curo di questo sospetto.
La Nestoroff ha per me, come tutti i suoi compagni d'arte, un'avversione quasi istintiva.
Non la ricambio affatto perché con lei io non vivo, se non quando sono a servizio della mia macchinetta, e allora, girando la manovella, io sono quale debbo essere, cioè perfettamente impassibile.
Non posso né odiare né amare la Nestoroff, come non posso odiare né amare nessuno.
Sono una mano che gira la manovella.
Quando poi, alla fine, sono reintegrato, cioè quando per me il supplizio d'esser soltanto una mano finisce, e posso riacquistare tutto il mio corpo, e meravigliarmi d'avere ancora su le spalle una testa, e riabbandonarmi a quello sciagurato superfluo che è pure in me e di cui per quasi tutto il giorno la
...
[Pagina successiva]