QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE, di Luigi Pirandello - pagina 1
Luigi Pirandello
I
No, via, tranquilli.
C'è un oltre in tutto.
Voi non volete o non sapete vederlo.
Conosco anch'io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie.
Oggi, così e così; questo e quest'altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano, per essere in tempo là.
- No, caro, grazie: non posso! - Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare...
- Alle undici, la colazione.
- Il giornale, la borsa, l'ufficio, la scuola...
- Bel tempo, peccato! Ma gli affari...
- Chi passa? Ah, un carro funebre...
Un saluto, di corsa, a chi se n'è andato.
- La bottega, la fabbrica, il tribunale...
Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare.
Con una mano ci teniamo la testa, con l'altra facciamo un gesto da ubriachi.
- Svaghiamoci!
Sì.
Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.
Sarebbe forse, in fin de' conti, tanto di guadagnato.
Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo.
Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assisteRe allo spettacolo, che dicono frequente in America, di uomini che a mezzo d'una qualche faccenda, fra il tumulto della vita, traboccano giù, fulminati.
Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo presto.
So che tante cose si preparano.
Ah, si lavora! E io - modestamente - sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.
Sono operatore.
Ma veramente, essere operatore, nel mondo io cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare.
Io non opero nulla.
Ecco qua.
Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta.
Uno o due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere.
Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l'azione da svolgere.
Io domando al direttore:
- Quanti metri?
Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:
- Attenti, si gira!
E io mi metto a girar la manovella.
Potrei farmi l'illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, press'a poco come un sonatore d'organetto fa la sonata girando il manubrio.
Ma non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare finché la scena non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore:
- Diciotto metri, - oppure: - trentacinque.
E tutto è qui.
Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:
- Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?
Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti, barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso.
Perché con quella domanda voleva dirmi:
- Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella.
Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da un qualche meccanismo?
Sorrisi e risposi:
- Forse col tempo, signore.
Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo.
Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno.
Non dubito però, che col tempo - sissignore - si arriverà a sopprimermi.
La macchinetta - anche questa macchinetta, come tante altre macchinette - girerà da sé.
II
Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.
Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!
L'uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s'è messo a fabbricar di ferro, d'acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.
Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita.
E come volete che ce le ridiano, l'anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d'uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l'altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle.
Ma che stelle, no, signori! Non ci credete.
Neppure all'altezza d'un palo telegrafico.
Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che - Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? - non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo.
Ecco le produzioni dell'anima nostra, le scatolette della nostra vita!
Che volete farci? Io sono qua.
Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare.
Ma l'anima, a me, non mi serve.
Mi serve la mano; cioè serve alla macchina.
L'anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch'io giro.
Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori.
Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.
Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione meccanica.
E il vento della corsa dà un'ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri.
Avanti! Avanti perché non s'abbia tempo né modo d'avvertire il peso della tristezza, l'avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo.
Fuori, è un balenìo continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare.
C'è una molestia, però, che non passa.
La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre.
Il bàttito del cuore non s'avverte, non s'avverte il pulsar delle arterie.
Guaj, se s'avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d'immagini; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.
Si spezzerà?
Ah, non bisogna fissarci l'udito.
Darebbe una smania di punto in punto crescente, un'esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi.
Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d'aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà.
III
Non posso levarmi dalla mente l'uomo incontrato un anno fa, la sera stessa che arrivai a Roma.
Di novembre, sera rigidissima.
M'aggiravo in cerca d'un modesto alloggio, non per me, uso a passar le notti all'aperto, amico delle nottole e delle stelle, quanto per la mia valigetta, ch'era tutta la mia casa, lasciata in deposito alla stazione; allorché m'imbattei per caso in un mio amico di Sassari, da molto tempo perduto di vista: Simone Pau, uomo di costumi singolarissimi e spregiudicati.
Udite le mie misere condizioni, egli mi propose d'andare a dormire per quella sera nel suo albergo.
Accettai, e ci avviammo a piedi per le vie quasi deserte.
Cammin facendo, gli parlavo delle mie molte disgrazie e delle scarse speranze che m'avevano condotto a Roma.
Simone Pau alzava di tratto in tratto la testa scoperta, su cui i lunghi capelli grigi, lisci, sono spartiti in mezzo da una scriminatura alla nazzarena, ma a zig-zag, perché fatta con le dita, in mancanza di pettine.
Questi capelli, poi, tirati di qua e di là dietro gli orecchi, gli formano una curiosa zazzeretta rada, ineguale.
Cacciava via una grossa boccata di fumo e restava un pezzo, ascoltandomi, con l'enorme bocca tumida aperta, come quella di un'antica maschera comica.
Gli occhi sorcigni, furbi, vivi vivi, gli guizzavano intanto qua e là come presi in trappola nella faccia larga rude, massiccia, da villano feroce e ingenuo.
Credevo rimanesse in quell'atteggiamento, con la bocca aperta, per ridere di me, delle mie disgrazie e delle mie speranze.
Ma, a un certo punto, lo vidi fermare in mezzo alla via vegliata lugubremente dai fanali e gli sentii dir forte nel silenzio della notte:
- Scusa, e come so io del monte, dell'albero, del mare? Il monte è monte, perché io dico: Quello è un monte.
...
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