QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE, di Luigi Pirandello - pagina 29
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- Sì, signorina: e guardi, oggi s'è soffiato il naso con la mano sinistra, invece che con la mano destra!
Non ride la signorina Luisetta: mi guarda accigliata, per vedere s'io dico sul serio: poi se ne va sdegnata e mi manda in camera Cavalena suo padre, il quale - lo vedo - fa di tutto, pover'uomo, per superare in mia presenza la costernazione che la figliuola è riuscita a comunicargli fortissima, tentando d'assorgere a considerazioni astratte.
- La donna! - mi dice, scotendo le mani.
- Lei, per sua fortuna (e così sempre sia, gliel'auguro di tutto cuore, signor Gubbio!) non l'ha incontrata, lei, su la sua via, la Nemica.
Ma guardi me! Che sciocchi tutti coloro che, sentendo definir la donna "la nemica", vi rinfacciano subito: "Ma vostra madre? le vostre sorelle? le vostre figliuole?" come se per l'uomo, che in questo caso è figlio, fratello, padre, quelle fossero donne! Che donne? Nostra madre? Bisogna che mettiamo nostra madre di fronte a nostro padre, come le nostre sorelle o le nostre figliuole di fronte ai loro mariti; allora sì la donna, la nemica verrà fuori! C'è più per me di quella mia cara povera piccina? Ma io non ho la minima difficoltà ad ammettere, signor Gubbio, che anche lei, sicuro, la mia Sesè possa diventare, come tutte le altre donne di fronte all'uomo, la nemica.
E non c'è bontà, non c'è remissione che tenga, creda! Quando, a uno svolto di strada, lei incontra proprio quella, quella che dico io, la nemica: ecco qua, tra due sta: o lei la ammazza, o lei si riduce come me! Ma quanti sono capaci di ridursi come me? Mi lasci almeno questa magra soddisfazione di dire pochissimi, signor Gubbio, pochissimi!
Io gli rispondo che sono pienamente d'accordo.
- D'accordo? - mi domanda allora Cavalena, con sorpresa che s'affretta a dissimulare, per il timore ch'io possa per questa sorpresa indovinare il suo giuoco.
- D'accordo?
E mi guarda timidamente negli occhi, come a sorprendere il momento di scivolare, senza guastar quest'accordo, dalla considerazione astratta al caso concreto.
Ma qua l'arresto subito.
- Oh Dio, ma perché, - gli domando, - vuol credere per forza in un così fiero impegno della signora Nestoroff d'essere la nemica del signor Nuti?
- Come come? scusi? non le sembra? ma è! è la nemica! - esclama Cavalena.
- Questo mi sembra indubitabile!
- E perché? - torno a domandargli.
- Indubitabile a me sembra invece ch'ella non voglia essere per lui né amica, né nemica, né niente.
- Ma appunto per questo! - incalza Cavalena.
Scusi, o che forse la donna bisogna considerarla in sé e per sé? Sempre di fronte a un uomo, signor Gubbio! Tanto più nemica, in certi casi, quanto più indifferente! E in questo caso poi, l'indifferenza, scusi, adesso? dopo tutto il male che gli ha fatto? E non basta; anche il dileggio? Ma scusi!
Sto a guardarlo un poco e mi rifaccio con un sospiro a domandargli daccapo:
- Benissimo.
Ma perché ora vuol credere per forza che al signor Nuti l'indifferenza e il dileggio della signora Nestoroff abbiano provocato, non so, ira, sdegno, propositi violenti di vendetta? Da che cosa l'argomenta? Non li dà affatto a vedere! Si mostra calmissimo, attende con piacere evidente alla sua parte di gentleman inglese...
- Non è naturale! non è naturale! - protesta Cavalena, scrollando le spalle.
- Creda, signor Gubbio, non è naturale! Mia figlia ha ragione.
Lo vedessi piangere d'ira o di dolore, smaniare, torcersi, macerarsi, amen, direi: "Ecco, pende verso l'uno o verso l'altro dei due partiti".
- Cioè?
- Dei due partiti che si possono prendere quando si ha di fronte la nemica.
Mi spiego? Ma questa calma, no, non è naturale! L'abbiamo veduto pazzo qua, per questa donna, pazzo da catena; e ora...
ma che! non è naturale! non è naturale!
Io faccio allora un segno con un dito, che il povero Cavalena in prima non intende.
- Che vuol dire?- mi domanda.
Gli rifaccio il segno; poi, placido placido:
- Più sù, ecco, più sù...
- Più sù...
che cosa?
- Un gradino più sù, signor Fabrizio; salga un gradino più sù di codeste considerazioni astratte, di cui ha voluto darmi un saggio in principio.
Creda che, se vuol confortarsi, è l'unica.
Ed è anche di moda, oggi.
- Come sarebbe? - mi domanda, stordito, Cavalena.
E io:
- Evadere, signor Fabrizio, evadere; sfuggire al dramma! È una bella cosa, e anche di moda, le ripeto.
E-va-po-rar-si in dilatazioni, diciamo così, liriche, sopra le necessità brutali della vita, a contrattempo e fuori di luogo e senza logica; sù, un gradino più sù di ogni realtà che accenni a precisarcisi piccola e cruda davanti agli occhi.
Imitare, insomma, gli uccellini in gabbia, signor Fabrizio, che fanno sì, qua e là, saltellando, le loro porcheriole, ma poi ci svolazzano sopra: ecco, prosa e poesia; è di moda.
Appena le cose si mettono male, appena due, poniamo, vengono alle mani o ai coltelli, via, sù, guardare in sù, che tempo fa, le rondini che volano, o magari i pipistrelli, se qualche nuvola passa; in che fase è la luna e se le stelle pajono d'oro o d'argento.
Si passa per originali e si fa la figura di comprendere più vastamente la vita.
Cavalena mi guarda con tanto d'occhi: forse gli sembro impazzito.
- Eh, - poi dice.
- Poterlo fare!
- Facilissimo, signor Fabrizio! Che ci vuole? Appena un dramma le si delinea davanti, appena le cose accennano di prendere un po' di consistenza e stanno per balzarle davanti solide, concrete, minacciose, cavi fuori da lei il pazzo, il poeta crucciato, armato di una pompettina aspirante; si metta a pompare dalla prosa di quella realtà meschina, volgare, un po' d'amara poesia, ed ecco fatto!
- Ma il cuore? - mi domanda Cavalena.
- Che cuore?
- Perdio, il cuore! Non bisognerebbe averne!
- Ma che cuore, signor Fabrizio! Niente.
Sciocchezze.
Che vuole che importi al mio cuore se Tizio piange o se Cajo si sposa, se Sempronio ammazza Filano, e via dicendo? Io evado, sfuggo al dramma, mi dilato, ecco, mi dilato!
Dilata invece sempre più gli occhi il povero Cavalena.
Io sorgo in piedi e gli dico per concludere:
- Insomma, alla sua costernazione e a quella della sua figliuola, signor Fabrizio, io rispondo così: che non voglio più saperne di nulla; mi sono seccato di tutto, e vorrei mandare a gambe in aria ogni cosa.
Signor Fabrizio, lo dica alla sua figliuola: io faccio l'operatore, ecco! E me ne vado alla Kosmograph.
III
Siamo, se Dio vuole, alla fine.
Non manca più, ormai, che l'ultimo quadro dell'uccisione della tigre.
La tigre: ecco, preferisco, se mai, costernarmi di lei; e vado a farle una visita, l'ultima, dinanzi alla gabbia.
S'è abituata a vedermi, la bella belva, e non si smuove.
Solo aggrotta un po' le ciglia, per fastidio; ma sopporta la mia vista insieme col peso di questo silenzio di sole, grave, attorno, che qua nella gabbia s'impregna di forte lezzo ferino.
Il sole entra nella gabbia ed essa socchiude gli occhi forse per sognare, forse per non vedersi addosso le liste d'ombra projettate dalle sbarre di ferro.
Ah, dev'essere tremendamente seccata anche lei; seccata anche di questa mia pietà; e credo che, per farla cessare con un giusto compenso, volentieri mi divorerebbe.
Questo desiderio, ch'essa riconosce per via di quelle sbarre inattuabile, la fa sospirare profondamente; e poiché se ne sta lunga sdrajata, col capo languido abbandonato su una zampa, vedo al sospiro levarsi una nuvoletta di polvere dal tavolato della gabbia.
Mi fa proprio pena questo sospiro, pure intendendo perché essa lo ha emesso: c'è il riconoscimento doloroso della privazione a cui l'hanno condannata del suo diritto naturale di divorarsi l'uomo, ch'essa ha tutta la ragione di considerare suo nemico.
- Domani, - le dico.
- Domattina, cara, codesto supplizio finirà.
È vero che codesto supplizio è ancora una cosa per te, e che, quando sarà finito, per te non sarà più niente.
Ma tra codesto supplizio e niente, forse meglio niente! Così, lontana dai tuoi selvaggi luoghi, senza poter sbranare né far più paura a nessuno, che tigre sei tu? Senti, senti...
Preparano di là la gabbia grande...
Tu sei già avvezza a sentire queste martellate, e non ci fai più caso.
Vedi, in questo sei più fortunata dell'uomo: l'uomo può pensare, udendo le martellate: "Ecco sono per me; sono quelle del fabbro che mi sta apparecchiando la cassa".
Tu già ci sei, nella cassa, e non lo sai: sarà una gabbia molto più grande di questa; e avrai la consolazione d'un po' di colore locale anche qui: figurerà un pezzo di bosco.
La gabbia, ove ora stai, sarà trasportata di là e accostata fino a farla combaciare con quella.
Un macchinista salirà qua, sul cielo di questa, e ne tirerà sù lo sportello, mentre un altro macchinista tirerà lo sportello dell'altra; e tu allora di fra i tronchi degli alberi t'introdurrai guardinga e meravigliata.
Ma avvertirai subito un ticchettìo curioso.
Niente! Sarò io, che girerò sul treppiedi la macchinetta; sì, dentro la gabbia anch'io, con te; ma tu non badare a me! vedi? appostato un po' innanzi a me c'è un altro, un altro che prende la mira e ti spara, ah! eccoti giù, pesante, fulminata nello slancio...
Mi accosterò; farò cogliere senza più pericolo alla macchinetta i tuoi ultimi tratti, e addio!
Se finirà così...
Questa sera, uscendo dal Reparto del Positivo, ove, per la premura che fa il Borgalli, ho dato una mano anch'io per lo sviluppo e la legatura dei pezzi di questo film mostruoso, mi son veduto venire incontro Aldo Nuti per accompagnarsi insolitamente con me fino a casa.
Ho notato subito che si studiava, o meglio, si sforzava di non dare a vedere che aveva qualche cosa da dirmi.
- Va a casa?
- Sì.
- Anch'io.
A un certo punto mi domandò:
- È stato oggi alla Sala di prova?
- No.
Ho lavorato giù, al Reparto.
Silenzio per un tratto.
Poi ha tentato con pena un sorriso, che voleva parere di compiacimento:
- Si sono provati i miei pezzi.
Hanno fatto buona impressione a tutti.
Non avrei immaginato che potessero riuscire così bene.
Uno specialmente.
Avrei voluto che lei lo vedesse.
- Quale?
- Quello che mi presenta solo, per un tratto, staccato dal quadro, ingrandito, con un dito così su la bocca, in atto di pensare.
Forse dura un po' troppo...
viene troppo avanti la figura...
con quegli occhi...
Si possono contare i peli delle ciglia.
Non mi pareva l'ora che sparisse dallo schermo.
Mi voltai a guardarlo; ma mi sfuggì subito in un'ovvia considerazione:
- Già! - disse.
- È curioso l'effetto che ci fa la nostra immagine riprodotta fotograficamente, anche in un semplice ritratto, quando ci facciamo a guardarla la prima volta.
Perché?
- Forse, - gli risposi, - perché ci sentiamo lì fissati in un momento che già non è più in noi; che resterà, e che si farà man mano sempre più lontano.
- Forse! - sospirò.
- Sempre più lontano per noi...
- No, - soggiunsi, - anche per l'immagine.
L'immagine invecchia anch'essa, tal quale come invecchiamo noi a mano a mano.
Invecchia, pure fissata lì sempre in quel momento; invecchia giovane, se siamo giovani, perché quel giovane lì diviene d'anno in anno sempre più vecchio con noi, in noi.
- Non capisco.
- È facile intenderlo, se ci pensa un poco.
Guardi: il tempo, da lì, da quel ritratto, non procede più innanzi, non s'allontana sempre più d'ora in ora con noi verso l'avvenire; pare che resti lì fissato, ma s'allontana anch'esso, in senso inverso; si sprofonda sempre più nel passato, il tempo.
Per conseguenza l'immagine, lì, è una cosa morta che col tempo s'allontana man mano anch'essa sempre più nel passato: e più è giovane e più diviene vecchia e lontana.
- Ah già, così...
Sì, sì, - disse.
- Ma c'è qualche cosa di più triste.
Un'immagine invecchiata giovane a vuoto.
- Come, a vuoto?
- L'immagine di qualcuno morto giovane.
Mi voltai di nuovo a guardarlo; ma egli soggiunse subito:
- Ho un ritratto di mio padre, morto giovanissimo, circa all'età mia; tanto che io non l'ho conosciuto.
L'ho custodita con reverenza, quest'immagine, benché non mi dica nulla.
S'è invecchiata anch'essa, sì, profondandosi, come lei dice, nel passato.
Ma il tempo che ha invecchiato l'immagine, non ha invecchiato mio padre; mio padre non l'ha vissuto questo tempo.
E si presenta a me, a vuoto, dal vuoto di tutta questa vita che per lui non è stata; si presenta a me con la sua vecchia immagine di giovane che non mi dice nulla, che non può dirmi nulla, perché non sa neppure ch'io ci sia.
E difatti è un ritratto ch'egli si fece prima di sposare; ritratto, dunque, di quando non era mio padre.
Io in lui, lì, non ci sono, come tutta la mia vita è stata senza di lui.
- È triste...
- Triste, sì.
Ma in ogni famiglia, nei vecchi album di fotografie, sui tavolinetti davanti al canapè dei salotti provinciali, pensi quante immagini ingiallite di gente che non dice più nulla, che non si sa più chi sia stata, che abbia fatto, come sia morta...
D'improvviso cambiò discorso per domandarmi, accigliato:
- Quanto può durare una pellicola?
Non si rivolgeva più a me, come a uno con cui avesse piacere di conversare; ma a me come operatore.
E il tono della voce era così diverso, così cangiata l'espressione del volto, ch'io sentii di nuovo, a un tratto, sommuoversi dentro di me il dispetto che covo in fondo da un pezzo contro tutto e contro tutti.
Perché voleva sapere quanto può durare una pellicola? S'era accompagnato con me per informarsi di questo? o per il gusto di farmi spavento, lasciandomi trapelare che intendeva di compiere qualche sproposito il giorno appresso, così che di quella passeggiata dovesse restarmi un tragico ricordo o un rimorso?
Mi sorse la tentazione di piantarmi su due piedi e di gridargli in faccia:
- Oh sai, caro? Con me la puoi smettere, perché di te non me n'importa proprio nulla! Tu puoi far tutte le pazzie che ti parrà e piacerà, questa sera, domani: io non mi commuovo! Mi domandi forse quanto può durare una pellicola per farmi pensare che tu lasci di te quella tua immagine col dito su la bocca? E credi forse di dover riempire e spaventare tutto il mondo con quella tua immagine ingrandita, nella quale si possono contare i peli delle ciglia? Ma che vuoi che duri una pellicola?
Scrollai le spalle e gli risposi:
- Secondo l'uso che se ne fa.
Anche lui dal tono della mia voce, cangiato, comprese certo cangiata la disposizione del mio animo verso di lui, e mi guardò allora in un modo che mi fece pena.
Ecco: egli era qua ancora su la terra un piccolo essere.
Inutile, quasi nullo; ma era, e m'era accanto, e soffriva.
Pure lui soffriva, come tutti gli altri, della vita che è il vero male di tutti.
Per non degne ragioni ne soffriva sì lui; ma di chi la colpa se così piccolo era nato? Anche così piccolo soffriva e la sua sofferenza era grande per lui, comunque indegna...
Era della vita! per uno dei tanti casi della vita, che s'era abbattuto su lui per togliergli tutto quel poco che aveva in sé e schiantarlo e distruggerlo! Ora era qua, ancora accanto a me, in una sera di giugno, di cui non poteva respirare la dolcezza; domani forse, poiché la vita gli s'era così voltata dentro, non sarebbe stato più: quelle sue gambe non le avrebbe più mosse per camminare; non lo avrebbe più veduto quel viale per cui andavamo; e non se le sarebbe più calzate al piede da sé quelle belle scarpette verniciate e quei calzini di seta, e né più si sarebbe, anche in mezzo alla disperazione, compiaciuto ogni mattina, davanti allo specchio dell'armadio, dell'eleganza del suo abito inappuntabile su la bella persona svelta ch'io potevo toccare, ecco, ancora viva, sensibile, accanto a me.
- Fratello...
No: non gli dissi questa parola.
Si sentono certe parole, in un momento fuggevole: non si dicono.
Gesù poté dirle, che non vestiva come me e non faceva come me l'operatore.
In una umanità che prende diletto d'uno spettacolo cinematografico e ammette in sé un mestiere come il mio, certe parole, certi moti dell'animo diventano ridicoli.
- Se dicessi fratello a questo signor Nuti, - pensai, - egli se n'offenderebbe; perché...
sì, avrò potuto fargli un po' di filosofia su le immagini che invecchiano, ma che sono io per lui? Un operatore: una mano che gira una manovella.
Egli è un "signore", con la follia forse già dentro la scatoletta del cranio, con la disperazione in cuore, ma un ricco "signore titolato" che si ricorda bene d'avermi conosciuto studentello povero, umile ripetitore di Giorgio Mirelli nella villetta di Sorrento.
Vuol tenere la distanza tra me e lui, e mi obbliga a tenerla anch'io, ora, tra lui e me: quella che il tempo e la professione mia hanno stabilito.
Tra lui e me, la macchinetta.
- Scusi, - mi domandò, poco prima d'arrivare a casa, - domani come farà lei a prendere la scena dell'uccisione della tigre?
- È facile, - risposi.
- Starò dietro di lei.
- Ma non ci saranno i ferri della gabbia? L'ingombro delle piante?
- Per me, no.
Starò dentro la gabbia con lei.
Si fermò a guardarmi, sorpreso:
- Dentro la gabbia anche lei?
- Certo, - risposi placidamente.
- E se...
se io fallissi il colpo?
- So che lei è un tiratore provetto.
Ma, del resto, poco male.
Tutti gli attori, domani, staranno attorno alla gabbia ad assistere alla scena.
Parecchi saranno armati e pronti a sparare anch'essi.
Stette un po' aggrondato a pensare, come se questa notizia lo contrariasse.
- Non spareranno mica prima di me, - poi disse.
- No, certo.
Spareranno, se ce ne sarà bisogno.
- Ma allora, - domandò, - perché quel signore là...
quel signor Ferro aveva messo avanti tutte quelle pretese, se non c'è veramente nessun pericolo?
- Perché col Ferro questi altri, fuori della gabbia, armati, forse non ci sarebbero stati.
- Ah, dunque ci sono per me? Hanno preso questa misura di precauzione per me? È ridicolo! Chi l'ha presa? L'ha forse presa lei?
- Io no.
Che c'entro io?
- Come lo sa, allora?
- L'ha detto Polacco.
- L'ha detto a lei? Dunque, l'ha presa Polacco? Ah, domani mattina mi sentirà! Io non voglio, ha capito? io non voglio!
- Lo dice a me?
- Anche a lei!
- Caro signore, creda pure che a me non fa né caldo né freddo: colpisca o fallisca il colpo; faccia dentro la gabbia tutte le pazzie che vuole: io non mi commuovo, stia sicuro.
Qualunque cosa accada, seguiterò impassibile a girar la macchinetta.
Se lo tenga bene in mente!
IV
Girare, ho girato.
Ho mantenuto la parola: fino all'ultimo.
Ma la vendetta che ho voluto compiere dell'obbligo che m'è fatto, come servitore d'una macchina, di dare in pasto a questa macchina la vita, sul più bello la vita ha voluto ritorcerla contro me.
Sta bene.
Nessuno intanto potrà negare ch'io non abbia ora raggiunto la mia perfezione.
Come operatore, io sono ora, veramente, perfetto.
Dopo circa un mese dal fatto atrocissimo, di cui ancora si parla da per tutto, conchiudo queste mie note.
Una penna e un pezzo di carta: non mi resta più altro mezzo per comunicare con gli uomini.
Ho perduto la voce; sono rimasto muto per sempre.
In una parte di queste mie note sta scritto: "Soffro di questo mio silenzio, in cui tutti entrano come in un luogo di sicura ospitalità.
Vorrei ora che il mio silenzio si chiudesse del tutto intorno a me".
Ecco, s'è chiuso.
Non potrei meglio di così impostarmi servitore d'una macchina.
Ma ecco tutta la scena, come s'è svolta.
Quello sciagurato, la mattina appresso, si recò dal Borgalli a protestare fieramente contro il Polacco per la figura ridicola a cui questi a suo credere intendeva esporlo con quella misura di precauzione.
Pretese a ogni costo che fosse revocata, dando un saggio a tutti, se occorreva, della sua ben nota valentia di tiratore.
Il Polacco si scusò davanti al Borgalli dicendo d'aver preso quella misura non per poca fiducia nel coraggio o nell'occhio del Nuti, ma per prudenza, conoscendo il Nuti molto nervoso, come del resto ne dava or ora la prova con quella protesta così concitata, in luogo del doveroso, amichevole ringraziamento ch'egli s'aspettava.
- Poi, - soggiunse infelicemente, indicando me, - ecco, commendatore, c'è anche Gubbio qua, che deve entrar nella gabbia...
Mi guardò con tale disprezzo quel disgraziato, che subito io scattai, rivolto a Polacco:
- Ma no, caro! Non dire per me, ti prego! Tu sai bene ch'io starò a girare tranquillo, anche se vedo questo signore in bocca e tra le zampe della bestia!
Risero gli attori accorsi ad assistere alla scena; e allora Polacco si strinse nelle spalle e si rimise, o piuttosto, finse di rimettersi.
Per mia fortuna, com'ho saputo dopo, pregò segretamente Fantappiè e un altro di tenersi di nascosto armati e pronti al bisogno.
Il Nuti andò nel suo camerino a vestirsi da cacciatore; io andai nel Reparto del negativo a preparare per il pasto la macchinetta.
Per fortuna della Casa, tolsi là di pellicola vergine molto più che non bisognasse, a giudicare approssimativamente della durata della scena.
Quando ritornai su lo spiazzo ingombro, in mezzo del gabbione enorme iscenato da bosco, l'altra gabbia, con la tigre dentro, era già stata trasportata e accostata per modo che le due gabbie s'inserivano l'una nell'altra.
Non c'era che da tirar sù lo sportello della gabbia più piccola.
Moltissimi attori delle quattro compagnie s'erano disposti di qua e di là, da presso, per poter vedere dentro la gabbia di fra i tronchi e le fronde che nascondevano le sbarre.
Sperai per un momento che la Nestoroff, ottenuto l'intento che s'era proposto, avesse avuto almeno la prudenza di non venire.
Ma eccola là, purtroppo.
Si teneva fuori della ressa, discosta, in disparte, con Carlo Ferro, vestita di verde gajo, e sorrideva chinando frequentemente il capo alle parole che il Ferro le diceva, benché dall'atteggiamento fosco con cui il Ferro le stava accanto apparisse chiaro che a quelle parole ella non avrebbe dovuto rispondere con quel sorriso.
Ma era per gli altri, quel sorriso, per tutti coloro che stavano a guardarla, e fu anche per me, più vivo, quando la fissai; e mi disse ancora una volta che non temeva di nulla, perché quale fosse per lei il maggior male io lo sapevo: ella lo aveva accanto - eccolo là - il Ferro; era la sua condanna, e fino all'ultimo con quel sorriso voleva assaporarlo nelle parole villane, ch'egli forse in quel punto le diceva.
Distogliendo gli occhi da lei, cercai quelli del Nuti.
Erano torbidi.
Evidentemente anche lui aveva scorto la Nestoroff là in distanza; ma volle finger di no.
Tutto il viso gli s'era come stirato.
Si sforzava di sorridere, ma sorrideva con le sole labbra, appena, nervosamente, alle parole che qualcuno gli rivolgeva.
Il berretto di velluto nero in capo, dalla lunga visiera, la giubba rossa, una tromba da caccia, d'ottone, a tracolla, i calzoni bianchi, di pelle, aderenti alle cosce, gli stivali con gli sproni, il fucile in mano: ecco, era pronto.
Fu sollevato di qua lo sportello del gabbione, per cui dovevamo introdurci io e lui; a facilitarci la salita, due apparatori accostarono uno sgabello a due gradi.
S'introdusse prima lui, poi io.
Mentre disponevo la macchina sul treppiedi, che m'era stato porto attraverso lo sportello, notai che il Nuti prima s'inginocchiò nel punto segnato per il suo appostamento, poi si alzò e andò a scostare un po' in una parte del gabbione le fronde, come per aprirvi uno spiraglio.
Io solo avrei potuto domandargli:
- Perché?
Ma la disposizione d'animo stabilitasi tra noi non ammetteva che ci scambiassimo in quel punto neppure una parola.
Quell'atto poi poteva essere da me interpretato in più modi, che m'avrebbero tenuto incerto in un momento che la certezza più sicura e precisa m'era necessaria.
E allora fu per me come se il Nuti non si fosse proprio mosso; non solo non pensai più a quel suo atto, ma fu proprio come se io non lo avessi affatto notato.
Egli si riappostò al punto segnato, imbracciando il fucile; io dissi:
- Pronti.
S'udì dall'altra gabbia il rumore dello sportello che s'alzava.
Polacco, forse vedendo la belva muoversi per entrare attraverso lo sportello alzato, gridò nel silenzio:
- Attenti, si gira!
E io mi misi a girare la manovella, con gli occhi ai tronchi in fondo, da cui già spuntava la testa della belva, bassa, come protesa a spiare in agguato; vidi quella testa piano ritrarsi indietro, le due zampe davanti restar ferme, unite, e quelle di dietro a poco a poco silenziosamente raccogliersi e la schiena tendersi ad arco per spiccare il salto.
La mia mano obbediva impassibile alla misura che io imponevo al movimento, più presto, più piano, pianissimo, come se la volontà mi fosse scesa - ferma, lucida, inflessibile - nel polso, e da qui governasse lei sola, lasciandomi libero il cervello di pensare, il cuore di sentire; così che seguitò la mano a obbedire anche quando con terrore io vidi il Nuti distrarre dalla belva la mira e volgere lentamente la punta del fucile là dove poc'anzi aveva aperto tra le frondi lo spiraglio, e sparare, e la tigre subito dopo lanciarsi su lui e con lui mescolarsi, sotto gli occhi miei, in un orribile groviglio.
Più forti delle grida altissime levate da tutti gli attori fuori della gabbia accorrenti istintivamente verso la Nestoroff caduta al colpo, più forti degli urli di Carlo Ferro, io udivo qua nella gabbia il sordo ruglio della belva e l'affanno orrendo dell'uomo che s'era abbandonato alle zanne, agli artigli di quella, che gli squarciavano la gola e il petto; udivo, udivo, seguitavo a udire su quel ruglio, su quell'affanno là, il ticchettìo continuo della macchinetta, di cui la mia mano, sola, da sé, ancora, seguitava a girare la manovella; e m'aspettavo che la belva ora si sarebbe lanciata addosso a me, atterrato quello; e gli attimi di quell'attesa mi parevano eterni e mi pareva che per l'eternità io li scandissi girando, girando ancora la manovella, senza poterne fare a meno, quando un braccio alla fine s'introdusse tra le sbarre armato di rivoltella e tirò un colpo a bruciapelo in un'orecchia della tigre sul Nuti già sbranato; e io fui tratto indietro, strappato dalla gabbia con la manovella della macchinetta così serrata nel pugno, che non fu possibile in prima strapparmela.
Non gemevo, non gridavo: la voce, dal terrore, mi s'era spenta in gola, per sempre.
Ecco.
Ho reso alla Casa un servizio che frutterà tesori.
Appena ho potuto, alla gente che mi stava attorno atterrita, ho prima significato con cenni, poi per iscritto, che fosse ben custodita la macchina, che a stento m'era stata strappata dalla mano: aveva in corpo quella macchina la vita d'un uomo; gliel'avevo data da mangiare fino all'ultimo, fino al punto che quel braccio s'era proteso a uccidere la tigre.
Tesori si sarebbero cavati da quel film, col chiasso enorme e la curiosità morbosa, che la volgare atrocità del dramma di quei due uccisi avrebbe suscitato da per tutto.
Ah, che dovesse toccarmi di dare in pasto anche materialmente la vita d'un uomo a una delle tante macchine dall'uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto.
La vita, che questa macchina s'è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come questo, tempo di macchine; produzione stupida da un canto, pazza dall'altro, per forza, e quella più e questa un po' meno bollate da un marchio di volgarità.
Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m'ha reso così - come il tempo vuole - perfetto.
Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau, che sempre più s'ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d'un ospizio di mendicità.
Io ho già conquistato l'agiatezza con la retribuzione che la Casa m'ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film mostruoso.
È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, a ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai assoluto, che lo rende furente.
Vorrebbe ch'io ne piangessi, ch'io almeno con gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con lui, che credo anch'io che la vita è là, in quel suo superfluo.
Non batto ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via su le furie.
Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per persuadermi a un'operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per forza un sapor d'eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro m'uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei.
No, grazie.
Grazie a tutti.
Ora basta.
Voglio restare così.
Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così - solo, muto e impassibile - a far l'operatore.
La scena è pronta?
- Attenti, si gira...
...
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