QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE, di Luigi Pirandello - pagina 8
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Sono (chiedo scusa, ma qui tutto ha nome francese o inglese) sono i cachets avventizii, coloro cioè che vengono a profferirsi, a un bisogno, per comparse.
La loro petulanza è insoffribile, peggio di quella dei mendicanti; perché qua si viene a esibire una miseria, che non chiede la carità d'un soldo, ma cinque lire, per mascherarsi spesso grottescamente.
Bisogna vedere che ressa, certi giorni, nel magazzino-vestiario per ghermire e indossar subito qualche straccio vistoso, e con quali arie se lo portano a spasso per le piattaforme e gli sterrati, sapendo bene che, quando riescano a vestirsi, anche se non posano, tiran la mezza paga.
Due, tre attori vengono fuori dalla trattoria, facendosi largo tra la ressa.
Sono coperti d'una maglia color zafferano, col viso e le braccia impiastricciati di giallo sporco e una specie di cresta di penne colorate in capo.
Indiani.
Mi salutano:
- Ciao, Gubbio.
- Ciao, Si gira...
Si gira è il mio nomignolo.
Già!
Càpita a una pacifica tartaruga d'acquattarsi proprio là, dove un ragazzaccio maleducato si china per fare un suo bisogno.
Poco dopo, la povera bestiola ignara riprende pacificamente il suo tardo andare con su la scaglia il bisogno di quel ragazzaccio, torre inopinata.
Intoppi della vita!
Voi ci avete perduto un occhio, e il caso è stato grave.
Ma siamo tutti, chi più chi meno, segnati, e non ce n'accorgiamo.
La vita ci segna; e a chi attacca un vezzo, a chi una smorfia.
No? Ma scusate, voi, proprio voi che dite di no...
ecco, magnificamente...
non inzeppate di continuo tutti i vostri discorsi di questo avverbio in -mente?
"Andai magnificamente dove m'indicarono: lo vidi e gli dissi magnificamente: Ma come, tu, magnificamente..."
Abbiate pazienza! Nessuno ancora vi chiama Signor Magnificamente...
Serafino Gubbio (Si gira...) è stato più disgraziato.
Senza accorgermene, mi sarà avvenuto forse qualche volta, o più volte di seguito, di ripetere, dopo il direttore di scena, la frase sacramentale: - Si gira...
-; l'avrò ripetuta con la faccia composta a quell'aria che mi è propria, di professionale impassibilità, ed è bastato questo, perché tutti ora qua, per suggerimento di Fantappiè, mi chiamino Si gira...
Tutti i pubblici d'Italia conoscono Fantappiè, l'attore comico della Kosmograph, che s'è specializzato nella caricatura della vita militare: Fantappiè consegnato in caserma e Fantappiè al campo di tiro; Fantappiè alle grandi manovre e Fantappiè areostiere; Fantappiè di sentinella e Fantappiè soldato coloniale...
Egli se l'è appiccicato da sé, il nomignolo: un nomignolo che quadra bene alla sua specialità.
Allo stato civile si chiama Roberto Chismicò.
- Cicchetto, te ne sei avuto a male, che t'ho messo Si gira? - mi domandò, tempo fa.
- No, caro - gli risposi sorridendo.
- M'hai bollato.
- Mi son bollato anch'io, va' là!
Tutti bollati, sì.
E più di tutti, quelli che meno se ne accorgono, caro Fantappiè.
III
Entro nel vestibolo a sinistra, e riesco nella rampa del cancello, inghiajata e incassata tra i fabbricati del secondo reparto, il Reparto Fotografico o del Positivo.
In qualità d'operatore ho il privilegio d'aver un piede in questo reparto e l'altro nel Reparto Artistico o del Negativo.
E tutte le meraviglie della complicazione industriale e così detta artistica mi sono familiari.
Qua si compie misteriosamente l'opera delle macchine.
Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d'una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno.
La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telaj.
Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un'altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso.
Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica.
E quante mani nell'ombra vi lavorano! C'è qui un intero esercito d'uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinarii, ai prosciugatoj, all'imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi.
Basta ch'io entri qui, in quest'oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio superfluo svapori.
Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un'apparenza spettrale.
Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti.
Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve.
Solo come strumento anch'esso di macchina, può servire, per muovere queste mani.
E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire.
E a poco a poco m'invade tutto l'orrore della necessità che mi s'impone, di diventare anch'io una mano e nient'altro.
Vado dal magazziniere a provvedermi di pellicola vergine, e preparo per il pasto la mia macchinetta.
Assumo subito, con essa in mano, la mia maschera d'impassibilità.
Anzi, ecco: non sono più.
Cammina lei, adesso, con le mie gambe.
Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno.
La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano.
Fuori, alla luce, per tutto il vastissimo recinto, è l'animazione gaja delle imprese che prosperano e compensano puntualmente e lautamente ogni lavoro; quello scorrer facile dell'opera nella sicurezza che non ci saranno intoppi e che ogni difficoltà, per la gran copia dei mezzi, sarà agevolmente superata; una febbre anzi di porsi, quasi per sfida, le difficoltà più strane e insolite, senza badare a spese, con la certezza che il danaro, speso adesso senza contarlo, ritornerà tra poco centuplicato.
Scenografi, macchinisti, apparatori, falegnami, muratori e stuccatori, elettricisti, sarti e sarte, modiste, fioraj, tant'altri operaj addetti alla calzoleria, alla cappelleria, all'armeria, ai magazzini della mobilia antica e moderna, al guardaroba, son tutti affaccendati, ma non sul serio e neppure per giuoco.
Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro giuochi.
La meraviglia è in loro; la rovesciano su le cose con cui giuocano, e se ne lasciano ingannare.
Non è più un giuoco; è una realtà meravigliosa.
Qui è tutto il contrario.
Non si lavora per giuoco, perché nessuno ha voglia di giocare.
Ma come prendere sul serio un lavoro, che altro scopo non ha, se non d'ingannare - non se stessi - ma gli altri? E ingannare, mettendo sù le più stupide finzioni, a cui la macchina è incaricata di dare la realtà meravigliosa?
Ne vien fuori, per forza e senza possibilità d'inganno, un ibrido giuoco.
Ibrido, perché in esso la stupidità della finzione tanto più si scopre e avventa, in quanto si vede attuata appunto col mezzo che meno si presta all'inganno: la riproduzione fotografica.
Si dovrebbe capire, che il fantastico non può acquistare realtà, se non per mezzo dell'arte, e che quella realtà, che può dargli una macchina, lo uccide, per il solo fatto che gli è data da una macchina, cioè con un mezzo che ne scopre e dimostra la finzione per il fatto stesso che lo dà e presenta come reale.
Ma se è meccanismo, come può esser vita, come può esser arte? È quasi come entrare in uno di quei musei di statue viventi, di cera, vestite e dipinte.
Non si prova altro che la sorpresa (che qui può essere anche ribrezzo) del movimento, dove non è possibile l'illusione d'una realtà materiale.
E nessuno crede sul serio di poterla creare, quest'illusione.
Si fa alla meglio per dar roba da prendere alla macchina, qua nei cantieri, là nei quattro teatri di posa o nelle piattaforme.
Il pubblico, come la macchina, prende tutto.
Si fan denari a palate, e migliaja e migliaja di lire si possono spendere allegramente per la costruzione d'una scena, che su lo schermo non durerà più di due minuti.
Apparatori, macchinisti, attori si dànno tutti l'aria d'ingannare la macchina, che darà apparenza di realtà a tutte le loro finzioni.
Che sono io per essi, io che con molta serietà assisto impassibile, girando la manovella, a quel loro stupido giuoco?
IV
Permettete un momento.
Vado a vedere la tigre.
Dirò, seguiterò a dire, riprenderò il filo del discorso più tardi, non dubitate.
Bisogna che vada, per ora, a vedere la tigre.
Dacché l'hanno comperata, sono andato ogni giorno a visitarla, prima di mettermi all'opera.
Due giorni soli non ho potuto, perché non me n'hanno dato il tempo.
Abbiamo avuto qua altre bestie feroci sebbene molto immalinconite: due orsi bianchi, che passavano le giornate, ritti su le zampe di dietro, a picchiarsi il petto, come trinitarii in penitenza: tre leoncini freddolosi, ammucchiati sempre in un canto della gabbia, l'uno su l'altro: anche altre bestie, non propriamente feroci: un povero struzzo spaventato d'ogni rumore come un pulcino, e sempre incerto di posare il piede: parecchie scimmie indiavolate.
La Kosmograph è fornita di tutto, e anche d'un serraglio, per quanto gl'inquilini vi durino poco.
Nessuna bestia m'ha parlato come questa tigre.
Quando noi l'abbiamo avuta, era arrivata da poco, dono di non so quale illustre personaggio straniero, al Giardino Zoologico di Roma.
Al Giardino Zoologico non han potuto tenerla, perché assolutamente irriducibile, non dico a farle soffiare il naso col fazzoletto, ma neanche a rispettare le regole più elementari della vita sociale.
Tre, quattro volte minacciò di saltare il fosso, si provò anzi a saltarlo, per lanciarsi sui visitatori del Giardino, che stavano pacificamente ad ammirarla da lontano.
Ma qual altro pensiero più spontaneo di questo poteva sorgere in mente a una tigre (se non volete in mente, diciamo nelle zampe), che quel fosso cioè fosse fatto appunto perché essa si provasse a saltarlo e che quei signori si fermassero lì davanti per essere divorati da lei, se riusciva a saltare?
È certo un pregio sapere stare allo scherzo; ma sappiamo che non tutti l'hanno.
Parecchi non sanno neppure tollerare che altri pensi di poter scherzare con loro.
Parlo di uomini, i quali pure, in astratto, possono riconoscer tutti che talvolta sia cosa lecita scherzare.
La tigre, voi dite, non sta esposta in giardino zoologico per ischerzo.
Lo credo.
Ma non vi sembra uno scherzo pensare, ch'essa possa supporre che la teniate lì esposta per dare al popolo una "nozione vivente" di storia naturale?
Eccoci al punto di prima.
Questa - non essendo noi propriamente tigri ma uomini - è retorica.
Possiamo aver compatimento per un uomo che non sappia stare allo scherzo; non dobbiamo averne per una bestia; tanto più se questo scherzo a cui l'abbiamo esposta, dico della "nozione vivente", può avere conseguenze funeste: cioè per i visitatori del Giardino Zoologico, una nozione troppo sperimentale della ferocia di essa.
Questa tigre fu dunque saggiamente condannata a morte.
La Società della Kosmograph riuscì a saperlo in tempo e la comperò.
Ora è qui, in una gabbia del nostro serraglio.
Dacché è qui, è saggissima.
Come si spiega? Il nostro trattamento, senza dubbio, le sembra molto più logico.
Qui non le data libertà di provarsi a saltare alcun fosso, nessuna illusione di colore locale, come nel Giardino Zoologico.
Qui ha davanti le sbarre della gabbia, che le dicono di continuo: - Tu non puoi scappare; sei prigioniera; - e sta quasi tutto il giorno sdrajata e rassegnata a guardare di tra queste sbarre, in un'attesa tranquilla e attonita.
Ahimè, povera bestia, non sa che qui le toccherà ben altro, che quello scherzo della "nozione vivente"!
Già è pronto lo scenario, di soggetto indiano, nel quale essa è destinata a rappresentare una delle parti principali.
Scenario spettacoloso, per cui si spenderà qualche centinaio di migliaja di lire; ma quanto di più stupido e di più volgare si possa immaginare.
Basterà darne il titolo: La donna e la tigre.
La solita donna più tigre della tigre.
Mi par d'avere inteso, che sarà una miss inglese in viaggio nelle Indie con un codazzo di corteggiatori.
L'India sarà finta, la jungla sarà finta, il viaggio sarà finto, finta la miss e finti i corteggiatori: solo la morte di questa povera bestia non sarà finta.
Ci pensate? E non vi sentite torcer le viscere dall'indignazione?
Ucciderla, per propria difesa o per difesa dell'incolumità altrui, passi! Quantunque non da sé, per suo gusto, la belva sia venuta qua a esporsi in mezzo agli uomini, ma gli uomini stessi, per loro piacere, siano andati a catturarla, a strapparla dal suo covo selvaggio.
Ma ucciderla così, in un bosco finto, in una caccia finta, per una stupida finzione, è vera nequizia che passa la parte! Uno dei corteggiatori, a un certo punto, sparerà contro un rivale a bruciapelo.
Voi vedrete questo rivale traboccar giù, morto.
Sissignori.
Finita la scena, eccolo qua che si rialza, scotendosi dall'abito la polvere della piattaforma.
Ma non si rialzerà più questa povera bestia, quando le avranno sparato.
Porteranno via il bosco finto e anche, come un ingombro, il cadavere di lei.
In mezzo a una finzione generale la sua morte sarà vera.
E fosse almeno una finzione che con la sua bellezza e la sua nobiltà potesse in qualche modo compensare il sacrificio di questa bestia.
No.
Stupidissima.
L'attore che la ucciderà, non saprà forse nemmeno perché l'avrà uccisa.
La scena durerà un minuto, due minuti su lo schermo in projezione, e passerà senza lasciare un ricordo duraturo negli spettatori, che usciranno dalla sala sbadigliando:
- Oh, Dio, che stupidaggine!
Questo, o bella belva, t'aspetta.
Tu non lo sai, e guardi di tra le sbarre della gabbia con codesti occhi spaventevoli, ove la pupilla a spicchio or si restringe or si dilata.
Vedo quasi vaporare da tutto il tuo corpo, com'alito di bragia, la tua ferinità, e segnato nelle nere striature del tuo pelame l'impeto elastico degli slanci irrefrenabili.
Chiunque t'osservi da vicino, gode della gabbia che t'imprigiona e che arresta anche in lui l'istinto feroce, che la tua vista gli rimuove irresistibilmente nel sangue.
Tu qua non puoi stare altrimenti.
O così imprigionata, o bisogna che tu sia uccisa; perché la tua ferocia - lo intendiamo - è innocente: la natura l'ha messa in te, e tu, adoprandola, ubbidisci a lei e non puoi avere rimorsi.
Noi non possiamo tollerare che tu, dopo un pasto sanguinoso, possa dormir tranquillamente.
La tua stessa innocenza fa innocenti noi della tua uccisione, quand'è per nostra difesa.
Possiamo ucciderti, e poi, come te, dormir tranquillamente.
Ma là, nelle terre selvagge, ove tu non ammetti che altri passi; non qua, non qua ove tu non sia venuta da te, per tuo piacere.
La bella innocenza ingenua della tua ferocia rende qua nauseosa l'iniquità della nostra.
Vogliamo difenderci da te, dopo averti portata qua, per nostro piacere, e ti teniamo in prigione: questa non è più la tua ferocia; quest'è ferocia perfida! Ma sappiamo, non dubitare, sappiamo anche andare più in là, far di meglio: t'uccideremo per giuoco, stupidamente.
Un cacciatore finto, in una caccia finta, tra alberi finti...
Saremo degni in tutto, veramente, dello scenario inventato.
Tigri, più tigri d'una tigre.
E dire che il sentimento che questo film in preparazione vorrà destare negli spettatori, è il disprezzo della ferocia umana.
Noi la metteremo in opra, questa ferocia per giuoco, e contiamo anche di guadagnarci, se ci riesce bene, una bella somma.
Guardi? Che guardi, bella belva innocente? È proprio così.
Non sei qua per altro.
E io, che t'amo e t'ammiro, quando t'uccideranno, girerò impassibile la manovella di questa graziosa macchinetta qua, la vedi? L'hanno inventata.
Bisogna che agisca; bisogna che mangi.
Mangia tutto, qualunque stupidità le mettano davanti.
Mangerà anche te; mangia tutto, ti dico! E io la servo.
Verrò a collocartela più da presso, quando tu, colpita a morte, darai gli ultimi tratti.
Ah, non dubitare, ricaverà dalla tua morte tutto il profitto possibile! Non le accade mica di gustar tutti i giorni un pasto simile.
Puoi aver questa consolazione.
E, se vuoi, anche un'altra.
Viene ogni giorno, come me, qua davanti alla tua gabbia, una donna a studiare come tu ti muovi, come volti la testa, come guardi.
La Nestoroff.
Ti par poco? T'ha eletto a sua maestra.
Fortune come questa non càpitano a tutte le tigri.
Al solito, ella prende sul serio la sua parte.
Ma ho sentito dire, che la parte della miss "più tigre della tigre" non sarà assegnata a lei.
Forse ella ancora non lo sa; crede che le spetti; e viene qui a studiare.
Me l'hanno detto, ridendone.
Ma io stesso l'altro giorno l'ho sorpresa, mentre veniva, e ho parlato con lei un buon pezzo.
V
Non si sta invano, capirete, per una mezz'ora a guardare e a considerare una tigre, a vedere in essa un'espressione della terra, ingenua, di là dal bene e dal male, incomparabilmente bella e innocente nella sua potenza feroce.
Prima che da questa "originarietà" si scenda e s'arrivi a poter vedere innanzi a noi uno, o una che sia, dei giorni nostri, e a poter riconoscerla e considerarla come un'abitante della stessa terra - almeno per me; non so se anche per voi - ci vuole un bel po'.
Rimasi dunque per un pezzo a guardare la signora Nestoroff senza riuscire a intendere ciò che mi diceva.
Ma la colpa, in verità, non era soltanto mia e della tigre.
Il fatto ch'ella mi rivolgesse la parola era insolito; e facilmente, se ci parli di sorpresa qualcuno con cui non abbiamo avuto relazioni di sorta, stentiamo in prima a cogliere il senso, talvolta anche il suono delle parole più comuni e domandiamo:
- Scusi, com'ha detto?
In poco più d'otto mesi, che son qui, tra me e lei, oltre i saluti, ci sarà stato lo scambio d'appena una ventina di parole.
Poi, ella - sì, ci fu anche questo - appressandosi, cominciò a parlarmi con molta volubilità, come si suol fare quando vogliamo distrarre l'attenzione di qualcuno che ci sorprenda in qualche atto o pensiero che vorremmo tener nascosto.
(La Nestoroff parla con meravigliosa facilità e con perfetto accento la nostra lingua, come se fosse in Italia da molti anni: ma salta subito a parlar francese, appena appena, anche momentaneamente, si alteri o si riscaldi.) Voleva saper da me, se mi paresse che la professione dell'attore fosse tale, che una qualsiasi bestia (anche non metaforicamente) si potesse credere atta, senz'altro, a esercitarla.
- Dove? - le domandai.
Non intese la domanda.
- Ecco, - le spiegai, - se si tratta d'esercitarla qui, dove non c'è bisogno della parola, forse anche una bestia, perché no? può esser capace.
La vidi infoscarsi in volto.
- Sarà per questo - disse misteriosamente.
Mi parve dapprima d'indovinare, ch'ella (come tutti gli attori di professione, scritturati qui) parlasse per dispetto di certuni, i quali, senz'averne bisogno, ma pur non sdegnando un guadagno facile, o per vanità, o per diletto, o per altro, trovano modo di farsi accettare dalla Casa e di prender posto tra gli attori, senza molta difficoltà, tolta di mezzo quella, che sarebbe più arduo per loro e forse impossibile superare senza un lungo tirocinio e una vera attitudine, voglio dire la recitazione.
Ne abbiamo alla Kosmograph parecchi, che sono veri signori, tutti giovani tra i venti e i trent'anni, o amici di qualche forte caratista nell'Amministrazione della Casa, o caratisti essi stessi, che si dan l'aria d'assumere in qualche film questa o quella parte, che loro piaccia, solo per diporto; e la disimpegnano molto signorilmente, e qualcuno anche in maniera da far invidia a un vero attore.
Ma, riflettendo poi sul tono misterioso con cui ella, infoscata all'improvviso, proferì quelle parole: - Sarà per questo, - il dubbio mi sorse, che forse le fosse arrivata la notizia che Aldo Nuti, non so ancora da qual parte, stia cercando la via per entrar qui.
Questo dubbio mi turbò non poco.
Perché veniva ella a domandare proprio a me, avendo in mente Aldo Nuti, se la professione dell'attore mi paresse tale, che ogni bestia potesse senz'altro credersi atta a esercitarla? Sapeva dunque della mia amicizia per Giorgio Mirelli?
Non avevo ancora, e non ho tuttora, alcun motivo di crederlo.
Dalle domande che accortamente le rivolsi per chiarirmene, non ho potuto almeno acquistarne la certezza.
Non so perché, mi dispiacerebbe molto se ella sapesse che fui amico di Giorgio Mirelli, nella prima giovinezza di lui, e che mi fu familiare la villetta di Sorrento, ov'ella portò lo scompiglio e la morte.
Non so perché - ho detto: ma non è vero; il perché lo so e n'ho già fatto anche cenno altrove.
Non ho amore, ripeto qua, né potrei averne, per questa donna ma odio, neppure.
Qua tutti la odiano; e già questa per me sarebbe ragione fortissima di non odiarla io.
Sempre, nel giudicare gli altri, mi sono sforzato di superare il cerchio de' miei affetti, di cogliere nel frastuono della vita, fatto più di pianti che di risa, quante più note mi sia stato possibile fuori dell'accordo de' miei sentimenti.
Ho conosciuto Giorgio Mirelli, ma come? ma quale? Qual egli era nelle relazioni che aveva con me.
Tale, per me, ch'io l'amavo.
Ma chi era egli e com'era nelle relazioni con questa donna? Tale, ch'ella potesse amarlo? Io non lo so! Certo, non era, non poteva essere uno - lo stesso - per me e per lei.
E come potrei io dunque giudicare da lui questa donna? Abbiamo tutti un falso concetto dell'unità individuale.
Oggi unità nelle relazioni degli elementi tra loro; il che significa che, variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l'unità.
Si spiega così, come uno, che a ragione sia amato da me, possa con ragione essere odiato da un altro.
Io che amo e quell'altro che odia, siamo due: non solo; ma l'uno, ch'io amo, e l'uno che quell'altro odia, non son punto gli stessi; sono uno e uno: sono anche due.
E noi stessi non possiamo mai sapere, quale realtà ci sia data dagli altri; chi siamo per questo e per quello.
Ora, se la Nestoroff venisse a sapere che fui molto amico di Giorgio Mirelli, forse sospetterebbe in me un odio per lei ch'io non sento: e basterebbe questo sospetto a farla diventare subito un'altra per me, pur rimanendo io nella medesima disposizione d'animo per lei; si vestirebbe per me d'una parte che me ne nasconderebbe tante altre; e non potrei più studiarla, com'ora la studio, intera.
Le parlai della tigre, dei sentimenti che la presenza di essa in questo luogo e la sua sorte destano in me; ma mi accorsi subito ch'ella non era in grado d'intenderli, non forse per incapacità, ma perché le relazioni, che tra lei e la belva si sono stabilite, non le consentono né pietà per essa, né sdegno per l'azione che qui sarà compiuta.
Mi disse acutamente:
- Finzione, sì; anche stupida, se volete; ma quando sarà sollevato lo sportello della gabbia e questa bestia sarà fatta entrare nell'altra gabbia più grande che figurerà un pezzo di bosco, con le sbarre nascoste da fronde, il cacciatore, per quanto finto come il bosco, avrà pur diritto di difendersi da essa, appunto perché essa, come voi dite, non è una bestia finta, ma una bestia vera.
- Ma il male è appunto questo, - esclamai: - servirsi d'una bestia vera dove tutto sarà finto.
- Chi ve lo dice? - rimbeccò pronta.
- Sarà finta la parte del cacciatore; ma di fronte a questa bestia vera sarà pure un uomo vero! E v'assicuro che se egli non la ucciderà al primo colpo, o non la ferirà in modo d'atterrarla, essa, senza tener conto che il cacciatore sarà finto e finta la caccia, gli salterà addosso e sbranerà per davvero un uomo vero.
Sorrisi dell'arguzia della sua logica e dissi:
- Ma chi l'avrà voluto? Guardatela com'essa è qua! Non sa nulla, questa bella bestia, senza colpa della sua ferocia.
Mi guardò con occhi strani, come in sospetto che volessi burlarmi di lei; ma poi sorrise anch'ella, alzò appena appena le spalle e soggiunse:
- Vi sta tanto a cuore? Ammaestratela! Fatene una tigre attrice, che sappia fingere di cader morta al finto sparo d'un cacciatore finto, e tutto allora sarà accomodato.
A seguitare, non ci saremmo mai intesi; perché se a me stava a cuore la tigre, a lei il cacciatore.
Difatti il cacciatore designato a ucciderla è Carlo Ferro.
La Nestoroff ne dev'essere molto costernata; e forse non viene qua, come vogliono i maligni, per studiare la sua parte, ma per misurare il pericolo che il suo amante affronterà.
Il quale, anche lui, per quanto ostenti una sprezzante indifferenza, dev'esserne, in fondo, in apprensione.
So che, parlando col direttore generale, commendator Borgalli, e anche sù negli uffici d'amministrazione, ha messo avanti molte pretese: un'assicurazione su la vita di almeno centomila lire, da dare a' suoi parenti che vivono in Sicilia, in caso di morte, che non sia mai; un'altra assicurazione, più modesta, nel caso d'inabilità al lavoro per qualche eventuale ferita, che non sia mai neppure questa; una grossa gratificazione, se tutto, com'è da augurarsi, andrà bene, e poi - pretesa curiosa, non suggerita certo, come le precedenti, da un avvocato - la pelle della tigre uccisa.
La pelle della tigre sarà senza dubbio per la Nestoroff; per i piedini di lei; tappeto prezioso.
Oh, ella avrà certo sconsigliato all'amante, pregando, scongiurando, d'assumere quella parte così pericolosa; ma poi, vedendolo deciso e impegnato, avrà suggerito lei, proprio lei, al Ferro, di pretendere almeno la pelle della tigre.
Come "almeno"? Ma sì! Ch'ella gli abbia detto "almeno", mi sembra proprio indubitabile.
Almeno, cioè in compenso dell'ansia angosciosa che le costerà la prova, a cui egli s'esporrà.
Non è possibile che sia venuta in mente a lui, a Carlo Ferro, l'idea d'aver la pelle della belva uccisa per metterla sotto i piedini della sua amante.
Non è capace, Carlo Ferro, di tali idee.
Basta guardarlo per convincersene: guardare quel suo nero testone villoso e burbanzoso di caprone.
Egli sopravvenne, l'altro giorno, a interrompere la mia conversazione con la Nestoroff innanzi alla gabbia.
Non si curò nemmeno di sapere di che cosa noi stessimo a parlare, come se per lui non potesse avere alcuna importanza una conversazione con me.
Mi guardò appena, accostò appena la cannuccia di bambù al cappello per un cenno di saluto, guardò con la solita sprezzante indifferenza la tigre nella gabbia, dicendo all'amante:
- Andiamo: Polacco è pronto; ci aspetta.
E voltò le spalle, sicuro d'esser seguito dalla Nestoroff, come un tiranno dalla sua schiava.
Nessuno più di lui sente e dimostra quell'istintiva antipatia, ch'io ho detto comune a quasi tutti gli attori per me, e che si spiega, o almeno, io mi spiego come un effetto, a loro stessi non chiaro, della mia professione.
Carlo Ferro la sente più di tutti, perché, tra tante altre fortune, ha quella di credersi sul serio un grande attore.
VI
Non è tanto per me - Gubbio - l'antipatia, quanto per la mia macchinetta.
Si ritorce su me, perché io sono quello che la gira.
Essi non se ne rendono conto chiaramente, ma io, con la manovella in mano, sono in realtà per loro una specie d'esecutore.
Ciascun d'essi - parlo s'intende dei veri attori, cioè di quelli che amano veramente la loro arte qualunque sia il loro valore - è qui di mala voglia, è qui perché pagato meglio, e per un lavoro che, se pur gli costa qualche fatica, non gli richiede sforzi d'intelligenza.
Spesso, ripeto, non sanno neppure che parte stiano a rappresentare.
La macchina, con gli enormi guadagni che produce, se li assolda, può compensarli molto meglio che qualunque impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica.
Non solo; ma essa, con le sue riproduzioni meccaniche, potendo offrire a buon mercato al gran pubblico uno spettacolo sempre nuovo, riempie le sale dei cinematografi e lascia vuoti i teatri, sicché tutte, o quasi, le compagnie drammatiche fanno ormai meschini affari; e gli attori, per non languire, si vedono costretti a picchiare alle porte delle Case di cinematografia.
Ma non odiano la macchina soltanto per l'avvilimento del lavoro stupido e muto a cui essa li condanna; la odiano sopra tutto perché si vedono allontanati, si sentono strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi.
Qua si sentono come in esilio.
In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi.
Perché la loro azione, l'azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c'è più: c'è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare.
Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vôtamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch'esso produce movendosi, per diventare soltanto un'immagine muta, che trèmola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d'un tratto, come un'ombra inconsistente, giuoco d'illusione su uno squallido pezzo di tela.
Si sentano schiavi anch'essi di questa macchinetta stridula, che pare sul treppiedi a gambe rientranti un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d'illusione meccanica davanti al pubblico.
E colui che li spoglia della loro realtà e la dà a mangiare alla macchinetta; che riduce ombra il loro corpo, chi è? Sono io, Gubbio.
Essi restano qua, come su un palcoscenico di giorno, quando provano.
La sera della rappresentazione per essi non viene mai.
Il pubblico non lo vedono più.
Pensa la macchinetta alla rappresentazione davanti al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare solo davanti a lei.
Quando hanno rappresentato, la loro rappresentazione è pellicola.
Mi possono voler bene?
Un certo rinfranco all'avvilimento lo hanno nel non vedersi essi soli mortificati al servizio di questa macchinetta, che muove, agita, attrae tanto mondo attorno a sé.
Scrittori illustri, commediografi, poeti, romanzieri, vengono qua, tutti al solito dignitosamente proponendo la "rigenerazione artistica" dell'industria.
E a tutti il commendator Borgalli parla d'un modo, e Cocò Polacco d'un altro: quello, coi guanti da direttore generale; questo, sbottonato, da direttore di scena.
Ascolta paziente tutte le proposte di scenarii, Cocò Polacco; ma a un certo punto alza una mano, dice:
- Oh no, quest'è un po' crudo.
Dobbiamo sempre aver l'occhio agl'Inglesi, caro mio!
Trovata genialissima, questa degli Inglesi.
Veramente la maggior parte delle pellicole prodotte dalla Kosmograph va in Inghilterra.
Bisogna dunque per la scelta degli argomenti adattarsi al gusto inglese.
E quante cose allora non vogliono gl'Inglesi nelle pellicole, secondo Cocò Polacco!
- La pruderie inglese, tu capisci! Basta che dicano shocking, e addio ogni cosa! Se le pellicole andassero direttamente al giudizio del pubblico, forse forse tante cose passerebbero; ma no: per l'importazione delle pellicole in Inghilterra ci sono gli agenti, c'è lo scoglio, c'è la piaga degli agenti.
Decidono loro, gli agenti, inappellabilmente: questo va, questo non va.
E per ogni film che non vada, sono centinaja di migliaja di lire perdute o che vengono meno.
Oppure Cocò Polacco esclama:
- Bellissimo! Ma questo, caro mio, è un dramma, un dramma perfetto! Successone sicuro! Vuoi fare una pellicola? Non te lo permetterò mai! Come pellicola non va: te l'ho detto, caro, troppo fino, troppo fino.
Qua ci vuol altro! Tu sei troppo intelligente, e lo intendi.
In fondo, Cocò Polacco, se rifiuta loro i soggetti, fa pure un elogio: dice loro che non sono stupidi abbastanza per scrivere per il cinematografo.
Da un canto, perciò, essi vorrebbero capire, si rassegnerebbero a capire; ma, dall'altro, vorrebbero anche accettati i soggetti.
Cento, duecento cinquanta, trecento lire, in certi momenti...
Il dubbio, che l'elogio della loro intelligenza e il disprezzo del cinematografo quale strumento d'arte siano messi avanti per rifiutare con un certo garbo i soggetti balena a qualcuno di loro; ma la dignità è salva e se ne possono andar via a testa alta.
Da lontano gli attori li salutano come compagni di sventura.
- Tutti bisogna che passino di qua! - pensano tra loro con gioja maligna.
- Anche le teste coronate! Tutti di qua, stampati per un momento su un lenzuolo!
Giorni sono, ero con Fantappiè nel cortile ov'è la Sala di prova e l'ufficio della Direzione artistica, quando scorgemmo un vecchietto zazzeruto, in cappello a stajo, dal naso enorme, dagli occhi loschi dietro gli occhiali d'oro, la barbetta a collana, che pareva tutto ristretto in sé per paura dei grandi manifesti illustrati incollati al muro, rossi, gialli, azzurri, sgargianti, terribili, dei films che più hanno fatto onore alla Casa.
- Illustre senatore! - esclamò Fantappiè con un balzo, accorrendo e poi piantandosi su l'attenti con la mano levata comicamente al saluto militare.
- È venuto per la prova?
- Già...
sì...
mi avevano detto per le dieci, - rispose l'illustre senatore, sforzandosi di discernere con chi parlava.
- Per le dieci? Chi gliel'ha detto? Polacco?
- Non capisco...
- Il direttore Polacco?
- No, un italiano...
uno che chiamano l'ingegnere...
- Ah, capito: Bertini! Le aveva detto per le dieci? Non dubiti.
Sono le dieci e mezzo.
Per le undici certo sarà qui.
Era il venerando Professor Zeme, l'insigne astronomo, direttore dell'Osservatorio e senatore del Regno, accademico dei Lincei, insignito di non so quante onorificenze italiane e straniere, invitato a tutti i pranzi di Corte.
- E...
scusi, senatore, - riprese quel burlone di Fantappiè.
- Una domanda: non potrebbe farmi andare nella Luna?
- Io? nella Luna?
- Sì, dico...
cinematograficamente, si capisce...
Fantappiè nella Luna: sarebbe delizioso! In ricognizione, con otto soldati.
Ci pensi un po', senatore.
Concerterei la scenetta...
No? Dice di no?
Il senator Zeme disse di no, con la mano, se non proprio sdegnosamente, certo con molta austerità.
Uno scienziato pari suo non poteva prestarsi a mettere a servizio d'una buffonata la sua scienza.
Si è prestato, sì, a farsi prendere in tutti gli atteggiamenti nel suo Osservatorio; ha voluto anche projettato su lo schermo il registro delle firme dei più illustri visitatori dell'Osservatorio, perché il pubblico vi leggesse le firme delle LL.
MM.
il Re e la Regina e delle LL.
AA.
RR.
il Principe Ereditario e le Principessine e di S.
M.
il Re di Spagna e di altri re e ministri di Stato e ambasciatori; ma tutto questo a maggior gloria della sua scienza e per dare al popolo una qualche immagine delle Meraviglie dei cieli (titolo della pellicola) e delle formidabili grandezze, in mezzo alle quali lui, il senator Zeme, pur così piccoletto com'è, vive e lavora.
- Martuf!- esclamò sotto sotto Fantappiè, da buon piemontese, con una delle sue solite smorfie, andando via con me.
Ma ritornammo indietro, poco dopo, attirati da un gran clamore di voci, che s'era levato nel cortile.
Attori, attrici, operatori, direttori di scena, macchinisti erano usciti dai camerini e dalla Sala di prova e stavano attorno al senator Zeme alle prese con Simone Pau, che suol venire di tanto in tanto a trovarmi alla Kosmograph.
- Ma che educazione del popolo! - urlava Simone Pau.
- Mi faccia il piacere! Mandi Fantappiè nella Luna! Lo faccia giocare alle bocce con le stelle! O crede forse che siano sue, le stelle? Qua, le consegni qua alla divina Sciocchezza degli uomini, che ha tutto il diritto di appropriarsene e di giocarci alle bocce! Del resto...
del resto, scusi, che fa lei? che crede d'esser lei? Lei non vede che l'oggetto! Lei non ha coscienza che dell'oggetto! Dunque, religione.
E il suo Dio è il cannocchiale! Lei crede che sia il suo strumento? Non è vero! Quello è il suo Dio, e lei lo venera! Lei è come Gubbio, qua, con la sua macchinetta! Il servitore...
non voglio offenderla, dirò il sacerdote, il pontefice massimo, le basta? di quel suo Dio, e giura nel domma della sua infallibilità.
Dov'è Gubbio? Viva Gubbio! viva Gubbio! Aspetti, non se ne vada, Senatore! Io sono venuto qua, questa mattina, per consolare un infelice.
Gli ho dato convegno qua: già dovrebbe essere qua! Un infelice, mio compagno avventore dell'albergo del Falco...
Non c'è miglior mezzo per consolare un infelice, che mostrargli e fargli toccar con mano che non è solo.
E l'ho invitato qua, tra questi bravi amici artisti.
È un artista anche lui! Eccolo qua! Eccolo qua!
E l'uomo dal violino, lungo lungo, inarcocchiato e tenebroso, ch'io vidi or è più di un anno nell'ospizio di mendicità, si fece avanti, come assorto, al solito, a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate.
Tutti fecero largo.
Nel silenzio sopravvenuto, crepitò qualche scoppio di risa, qua e là.
Ma lo stupore e un certo senso di ribrezzo teneva la maggior parte nel vedere quell'uomo avanzarsi a capo chino con gli occhi a quel modo assorti ai peli delle sopracciglia, quasi non volesse vedersi il naso carnuto e rosso, peso enorme e castigo della sua intemperanza.
Più che mai, adesso, avanzandosi, pareva dicesse: - Silenzio! Fate largo! Vedete come la vita può ridurre il naso d'un uomo?
Simone Pau lo presentò al senator Zeme, che scappò via, indignato; risero tutti; ma Simone Pau, serio, riprese a far la presentazione alle attrici, agli attori, ai direttori di scena, narrando a scatti un po' all'uno un po' all'altro, la storia del suo amico, e come e perché dopo quell'ultimo famoso intoppo non avesse più sonato.
Alla fine, tutto acceso, gridò:
- Ma egli oggi sonerà, signori! Sonerà! Romperà l'incanto malefico! Mi ha promesso che sonerà! Ma non a voi, signori! Voi vi terrete discosti.
M'ha promesso che sonerà alla tigre! Sì, sì, alla tigre! alla tigre! Bisogna rispettare questa sua idea! Certo avrà le sue buone ragioni! Andiamo, sù, andiamo tutti...
Ci terremo discosti...
Egli si farà, solo, innanzi alla gabbia, e sonerà!
Tra gridi, risa, applausi, sospinti tutti da una vivissima curiosità per la bizzarra avventura, seguimmo Simone Pau, che aveva preso sotto il braccio il suo uomo, e lo spingeva avanti seguendo le indicazioni che gli si gridavano dietro, su la via da tenere per andare al serraglio.
In vista delle gabbie, ci arrestò tutti, raccomandando silenzio, e mandò avanti, solo, quell'uomo col suo violino.
Al rumore, dai cantieri, dai magazzini, operaj, macchinisti, apparatori, accorsero in gran numero per assistere dietro di noi alla scena: una folla.
La belva s'era ritratta d'un balzo in fondo alla gabbia; inarcata, a testa bassa.
i denti digrignanti, le zampe artigliate, pronta all'assalto: terribile!
L'uomo la guatò, sbigottito; si voltò perplesso a cercare con gli occhi tra noi Simone Pau.
- Suona! - gli gridò questi.
- Non temere! Suona! Ti comprenderà!
E allora quello, come liberandosi con un tremendo sforzo da un incubo, levò finalmente la testa, scrollandola, buttò a terra il cappellaccio sformato, si passò una mano sui lunghi capelli arruffati, trasse il violino dalla vecchia fodera di panno verde, e buttò via anche questa, sul cappello.
Qualche lazzo partì dagli operaj affollati dietro a noi, seguito da risa e da commenti, mentre egli accordava il violino; ma un gran silenzio si fece subito appena egli prese a sonare, dapprima un po' incerto, esitante, come se si sentisse ferire dal suono del suo strumento non più udito da gran tempo; poi, d'un tratto, vincendo l'incertezza, e forse i fremiti dolorosi, con alcuni strappi energici.
Seguì a questi strappi come un affanno a mano a mano crescente, incalzante, di strane note aspre e sorde, un groviglio fitto, da cui ogni tanto una nota accennava ad allungarsi, come chi tenti di trarre un sospiro tra i singhiozzi.
Alla fine questa nota si distese, si sviluppò, s'abbandonò, liberata dall'affanno, in una linea melodica, limpida, dolcissima e intensa, vibrante d'infinito spasimo: e una profonda commozione allora invase noi tutti, che in Simone Pau si rigò di lagrime.
Con le braccia levate egli faceva cenno di star zitti, di non manifestare in alcun modo la nostra ammirazione, perché nel silenzio quel bislacco straccione meraviglioso potesse ascoltare la sua anima.
Non durò a lungo.
Abbassò le mani, come esausto, col violino e l'archetto, e si rivolse a noi col volto trasfigurato, bagnato di pianto, dicendo:
- Ecco...
Scoppiarono applausi fragorosi.
Fu preso, portato in trionfo.
Poi, condotto alla prossima trattoria, non ostanti le preghiere e le minacce di Simone Pau, bevve e s'ubriacò.
Polacco s'è morso un dito dalla rabbia, per non aver pensato di mandarmi subito a prendere la macchinetta per fissare quella scena della sonata alla tigre.
Come capisce bene tutto, sempre, Cocò Polacco! Io non potei rispondergli perché pensavo agli occhi della signora Nestoroff, che aveva assistito alla scena, come in un'estasi piena di sgomento.
Quaderno quarto
I
Non ho più il minimo dubbio: ella sa della mia amicizia per Giorgio Mirelli, e sa che Aldo Nuti tra poco sarà qui.
Le due notizie le sono venute, certamente, da Carlo Ferro.
Ma come avviene, che qua non si voglia ricordare ciò ch'è accaduto tra i due, e non si siano troncate subito le pratiche col Nuti? A favorire queste pratiche s'è adoperato con molto impegno, sotto mano, il Polacco, amico del Nuti, e a cui il Nuti fin da principio s'è rivolto.
Pare che il Polacco abbia ottenuto da uno dei giovanotti che sono qua "dilettanti", il Fleccia, la vendita a ottime condizioni dei dieci carati che costui possedeva.
Da alcuni giorni, infatti, il Fleccia va dicendo che s'è annojato di stare a Roma e che andrà a Parigi.
Si sa che, di questi giovanotti, i più, oltre che per tutto il resto, bazzicano qui per l'amicizia contratta, o che vorrebbero contrarre, con qualche giovane attrice; e che tanti se ne vanno, quando non sono riusciti a contrarla, o se ne sono stancati.
Diciamo amicizia: per fortuna, le parole non arrossiscono.
Ecco qua: una giovane attrice, in costume di "divette" o di ballerina, va correndo col torso ignudo per le piattaforme e gli sterrati; si ferma qua e là a conversare col seno imbandito sorto gli occhi di tutti; ebbene il giovanotto suo amico le viene dietro con la scatola e il piumino della cipria in mano, e ogni tanto glielo ripassa su la pelle, su le braccia, su la nuca, sotto la gola, orgoglioso che un siffatto ufficio spetti a lui.
Quante volte, dacché sono entrato alla Kosmograph, non ho visto Gigetto Fleccia correr così dietro alla piccola Sgrelli? Ma ora egli, da circa un mese s'è guastato con lei.
Il tirocinio è fatto: andrà a Parigi.
Nulla di straordinario, dunque, per nessuno, che il Nuti, ricco signore anche lui e dilettante attore, venga a prenderne il posto.
Non è forse noto abbastanza, o è già dimenticato il dramma della sua prima avventura con la Nestoroff.
Io sono pur ingenuo talvolta! Chi si ricorda di qualche cosa a distanza d'un anno? C'è più tempo da stimare in città, fra tanto turbinìo di vita, che qualche cosa - uomo, opera, fatto - meriti il ricordo d'un anno? Voi nella solitudine della campagna, Duccella e nonna Rosa, potete ricordare! Qua, se pure qualcuno ricorda, ebbene, c'è stato un dramma? tanti ne avvengono, e per nessuno questo turbinìo di vita s'arresta un momento.
Non sembrerà cosa in cui gli altri, da estranei, debbano immischiarsi, per impedir le conseguenze di una ripresa.
Che conseguenze? Un urto con Carlo Ferro? Ma è così inviso a tutti, costui, non solo per la sua burbanza, ma appunto perché amante della Nestoroff! Se quest'urto avverrà e nascerà qualche disordine, sarà per gli estranei uno spettacolo di più da godere: e quanto a coloro cui deve premere che nessun disordine nasca, sperano forse di trovarvi un pretesto per licenziare con Carlo Ferro la Nestoroff, la quale, se è ben protetta dal commendator Borgalli, è qua di peso a tutti gli altri.
O forse si spera che la Nestoroff stessa, per sfuggire al Nuti, si licenzi da sé?
Certo il Polacco s'è adoperato con tanto impegno alla venuta del Nuti unicamente per questo; e fin da principio, nascostamente, ha voluto che il Nuti, contro la protezione che il commendator Borgalli potrebbe far valere, fosse premunito con l'acquisto a caro prezzo dei carati di Gigetto Fleccia e col diritto di surrogar costui anche nelle parti di attore.
Che ragione, poi, hanno tutti costoro di costernarsi dell'animo con cui il Nuti verrà? Prevedono, se mai, solamente l'urto con Carlo Ferro, perché Carlo Ferro è qui, davanti a loro; lo vedono, lo toccano; e non immaginano che tra la Nestoroff e il Nuti ci possa esser di mezzo qualche altro.
- Tu? - mi domanderebbero, se io mi mettessi a parlare con loro di queste cose.
Io, cari? Eh, voi avete voglia di scherzare.
Uno, che voi non vedete; uno, che non potete toccare.
Uno spettro, come nelle favole.
Appena l'uno tenterà di riaccostarsi all'altra, per forza questo spettro sorgerà tra loro.
Subito dopo il suicidio, sorse; e li fece fuggire, inorriditi, l'uno dall'altra.
Bellissimo effetto cinematografico, per voi! Ma non per Aldo Nuti.
Come mai può egli, adesso, pensare e tentare di riaccostarsi a questa donna? Non è possibile che - lui almeno - abbia dimenticato lo spettro.
Ma avrà saputo che la Nestoroff è qua con un altr'uomo.
E quest'uomo gli dà certo, ora, il coraggio di riaccostarsi a lei.
Forse spera che quest'uomo, con la solidità del suo corpo gli nasconderà quello spettro, gl'impedirà di scorgerlo, impegnandoli in una lotta tangibile, in una lotta, cioè non contro uno spettro, ma di corpo a corpo.
E fors'anche fingerà di credere che verrà a impegnarsi in questa lotta per lui, a vendetta di lui.
Perché certo la Nestoroff, ponendosi quest'altro uomo accanto, ha mostrato d'essersi dimenticata del "povero morto".
Non è vero.
La Nestoroff non l'ha dimenticato.
Me l'han detto chiaramente i suoi occhi, il modo com'ella mi guarda da due giorni, cioè da quando Carlo Ferro, per informazioni avute, le deve aver fatto conoscere che fui amico di Giorgio Mirelli.
Sdegno, anzi sprezzo, evidentissima avversione: ecco quello che noto da due giorni negli occhi della Nestoroff, appena per qualche attimo si posano su me.
E ne son lieto.
Perché sono certo ormai, che quanto ho immaginato e supposto di lei, studiandola, è giusto e risponde alla realtà, come se ella medesima, in una sincera effusione di tutti i suoi più segreti sentimenti, m'avesse aperto la sua anima offesa e tormentata.
Da due giorni ostenta innanzi a me devota e sommessa affezione per il Ferro: si stringe a lui, pende da lui, pur lasciando intendere a chi ben la osservi, ch'ella come tutti gli altri, più di tutti gli altri, sa e vede l'angustia mentale, la rozzezza delle maniere, insomma la bestialità di quest'uomo.
La sa e la vede.
Ma gli altri - intelligenti e garbati - lo disprezzano e lo sfuggono? Ebbene, ella lo pregia e s'attacca a lui appunto per questo; appunto perché egli non è né intelligente, né garbato.
Miglior prova di questa non potrei avere.
Eppure oltre questo fierissimo sdegno, qualcos'altro deve agitarsi in questo momento nel cuore di lei! Certo, ella medita qualche cosa.
Certo, Carlo Ferro per lei non è altro che un aspro, amarissimo rimedio, a cui, stringendo i denti, facendo un'enorme violenza a se stessa s'è sottoposta per curare in sé un male disperato.
E ora, più che mai, si tiene stretta a questo rimedio, balenandole la minaccia, con la venuta del Nuti, di ricadere nel suo male.
Non perché, io credo, Aldo Nuti abbia su lei un tal potere.
Subito, come un fantoccio, allora, ella lo prese, lo spezzò, lo buttò via.
Ma la venuta di lui ora non ha certo altro scopo che di toglierla, strapparla al suo rimedio, riponendole davanti lo spettro di Giorgio Mirelli, in cui ella forse vede il suo male: lo smanioso tormento del suo spirito strano, del quale nessuno tra gli uomini a cui s'è accostata, ha saputo e voluto prendersi cura.
Ella non vuole più il suo male; ne vuole a ogni costo guarire.
Sa che, se Carlo Ferro la stringe tra le braccia, può temere d'esserne spezzata.
E questo timore le piace.
- Ma che ti vale - vorrei gridarle - che ti vale che Aldo Nuti non venga a riportelo davanti, il tuo male, se tu lo hai ancora in te, soffocato a forza e non vinto? Tu non vuoi vedere la tua anima: è possibile? T'insegue, t'insegue sempre, t'insegue come una pazza! Per sfuggirle, t'aggrappi, ti ripari tra le braccia d'un uomo, che sai senz'anima e capace d'ucciderti, se la tua, per caso, oggi o domani, s'impadronirà novamente di te, per ridarti l'antico tormento! Ah, meglio essere uccisa? meglio essere uccisa, che ricadere in questo tormento, di risentirsi un'anima dentro, un'anima che soffre e non sa di che?
Ebbene, questa mattina, mentre giravo la macchinetta, ho avuto tutt'a un tratto il terribile sospetto ch'ella - rappresentando, al solito, come una forsennata, la sua parte - volesse uccidersi: sì, sì, proprio uccidersi, davanti a me.
Non so com'io abbia fatto a conservare la mia impassibilità; a dire a me stesso:
- Tu sei una mano, gira! Ella ti guarda, ti guarda fiso, non guarda che te, per farti intendere qualche cosa; ma tu non sai nulla, tu non devi intender nulla; gira!
S'è cominciato a iscenare il film della tigre, che sarà lunghissimo e a cui prenderanno parte tutt'e quattro le compagnie.
Non mi curerò minimamente di cercare il bandolo di quest'arruffata matassa di volgari, stupidissime scene.
So che la Nestoroff non vi prenderà parte, non avendo ottenuto che le fosse assegnata quella della protagonista.
Solo questa mattina, per una particolare concessione al Bertini, ha posato per una breve scena di "colore", in una particina secondaria, ma non facile, di giovane indiana, selvaggia e fanatica che s'uccide eseguendo "la danza dei pugnali".
Segnato il campo nello sterrato, Bertini ha disposto in semicerchio una ventina di comparse, camuffate da selvaggi indiani.
S'è fatta avanti la Nestoroff quasi tutta nuda, con una sola fascia sui fianchi a righe gialle verdi rosse turchine.
Ma la nudità meravigliosa del saldo corpo esile e pieno era quasi coperta dalla sdegnosa noncuranza di esso, con cui ella si è presentata in mezzo a tutti quegli uomini, a testa alta, giù le braccia coi due pugnali affilatissimi, uno per pugno.
Bertini ha spiegato brevemente l'azione:
- Ella danza.
È come un rito.
Tutti stanno ad assistere religiosamente.
A un tratto, a un mio grido, in mezzo alla danza, ella si trafigge il seno coi due pugnali e stramazza.
Tutti accorrono e le si fanno sopra, stupiti e sgomenti.
Sù, sù, attenti, attenti al campo! Voi di là, avete capito? state prima, serii, a guardare; appena la signora stramazza, accorrete tutti! Attenti, attenti al campo per ora!
La Nestoroff, facendosi in mezzo al semicerchio coi due pugnali branditi, ha preso a guardarmi con una così acuta e dura fissità, ch'io, dietro al mio grosso ragno nero in agguato sul treppiedi, mi sono sentito vagellar gli occhi e intorbidate la vista.
Per miracolo ho potuto obbedire al comando di Bertini:
- Si gira!
E mi son messo, come un automa, a girar la manovella.
Tra i penosi contorcimenti di quella sua strana danza màcabra, tra il luccichìo sinistro dei due pugnali, ella non staccò un minuto gli occhi da' miei, che la seguivano, affascinati.
Le vidi sul seno anelante il sudore rigar di solchi la manteca giallastra, di cui era tutto impiastricciato.
Senza darsi alcun pensiero della sua nudità, ella si dimenava come frenetica, ansava, e pian piano, con voce affannosa, sempre con gli occhi fissi ne' miei, domandava ogni tanto:
- Bien comme ça? bien comme ça?
Come se volesse saperlo da me; e gli occhi erano quelli d'una pazza.
Certo, ne' miei leggevano, oltre la maraviglia, uno sgomento prossimo a cangiarsi in terrore nell'attesa trepidante del grido del Bertini.
Quando il grido uscì ed ella si ritorse contro il seno la punta de' due pugnali e stramazzò a terra, io ebbi veramente per un attimo l'impressione che si fosse trafitta, e fui per accorrere anch'io, lasciando la manovella allorché Bertini su le furie incitò le comparse.
- A vojaltri, perdio! accorrete! fatemi la controparte!...
Così...
così...
basta!
Ero sfinito; la mano m'era diventata come di piombo, seguitando da sé, meccanicamente, a girar la manovella.
Ho visto Carlo Ferro accorrer fosco, pieno di collera e di tenerezza, con un lungo mantello violaceo, ajutar la donna a rialzarsi, avvolgerla in quel mantello e portarsela via, quasi di peso, nel camerino.
Ho guardato nella macchinetta e mi sono trovata in gola una curiosa voce sonnolenta per annunziare al Bertini:
- Ventidue metri.
II
Aspettavamo, oggi, sotto il pergolato dell'osteria, che arrivasse una certa "signorina di buona famiglia", raccomandata dal Bertini, la quale doveva sostenere una particina in un film rimasto da qualche mese in tronco e che ora si vuol terminare.
Da più d'un'ora un ragazzo era stato spedito in bicicletta alla casa di questa signorina, e ancora non si vedeva nessuno, neppure il ragazzo di ritorno.
Polacco stava seduto con me a un tavolino, la Nestoroff e Carlo Ferro sedevano a un altro.
Tutt'e quattro, insieme con quell'avventizia, si doveva andare in automobile, per un esterno dal vero al Bosco Sacro.
L'afa del pomeriggio, il fastidio delle mosche innumerevoli dell'osteria, il silenzio forzato fra noi quattro, costretti a stare insieme non ostante l'avversione dichiarata, e del resto patente, di quei due per Polacco e anche per me, accrescevano e rendevano a mano a mano insopportabile la noja dell'attesa.
Ostinatamente la Nestoroff si vietava di volger gli occhi verso di noi.
Ma certo sentiva ch'io la guardavo, così, apparentemente senza attenzione, e più d'una volta aveva dato segno d'esserne seccata.
Carlo Ferro se n'era accorto e aveva aggrottato le ciglia, guatandola; e allora ella aveva finto davanti a lui di provar fastidio, non già di me che la guardavo, ma del sole che, di tra i pampini del pergolato, la feriva in viso.
Era vero; e mirabile su quel viso era il gioco dell'ombra violacea, vaga e rigata da fili d'oro di sole, che or le accendevano una pinna del naso e un po' del labbro superiore, ora il lobo dell'orecchio e un tratto del collo.
Mi vedo talvolta assaltato con tanta violenza dagli aspetti esterni, che la nitidezza precisa, spiccata, delle mie percezioni mi fa quasi sgomento.
Diventa talmente mio quello che vedo con così nitida percezione, che mi sgomenta il pensare, come mai un dato aspetto - cosa o persona - possa non essere qual io lo vorrei.
L'avversione della Nestoroff in quel momento di così intensa lucidità percettiva mi era intollerabile.
Come mai non intendeva, ch'io non le ero nemico?
A un tratto, dopo avere spiato un pezzo di tra l'incannicciata, ella s'alzò e la vedemmo avviarsi fuori, a una carrozza d'affitto, anch'essa da un'ora lì ferma davanti l'entrata della Kosmograph ad aspettare sotto il sole cocente.
Avevo veduto anch'io quella carrozza; ma il fogliame della vite m'impediva di scorgere chi vi fosse ad aspettare.
Aspettava da tanto tempo, che non potevo credere vi fosse sù qualcuno.
Polacco s'alzò; m'alzai anch'io, e guardammo.
Una giovinetta, vestita d'un abitino azzurro, di tela svizzera, lieve lieve, sotto un cappellone di paglia guarnito di nastri di velluto nero, stava in quella carrozza ad aspettare.
Con in grembo una vecchia cagnetta pelosa, bianca e nera, guardava timida e afflitta il tassametro della vettura, che di tanto in tanto scattava e già doveva segnare una cifra non lieve.
La Nestoroff le s'accostò con molta grazia e la invitò a smontare per togliersi dalla sferza del sole.
Non era meglio aspettare sotto la pergola dell'osteria?
- Molte mosche sa? ma almeno si sta all'ombra.
La cagnetta pelosa aveva preso a ringhiare contro la Nestoroff, digrignando i denti in difesa della padroncina.
Questa, improvvisamente invermigliata in volto, forse per il piacere inopinato di vedere quella bella signora prendersi cura di lei con tanta grazia; fors'anche per la stizza, che la sua vecchia stupida bestiola le cagionava, rispondendo così male alla premura gentile di quella, ringraziò e, confusa, accettò l'invito e smontò con la cagnetta in braccio.
Ebbi l'impressione che smontasse sopra tutto per riparare alla cattiva accoglienza della vecchia cagnetta alla signora.
Difatti, le diede forte con la mano sul muso, sgridando:
- Zitta, Piccinì!
E poi, volgendosi alla Nestoroff:
- Scusi, non capisce nulla...
Ed entrò con lei sotto il pergolato.
Guardai la vecchia cagnetta, che spiava corrucciata la padroncina da sotto in sù, con occhi umani.
Pareva le domandasse: - E che capisci tu?.
Il Polacco, intanto, le si era fatto avanti, con galanteria.
- La signorina Luisetta?
Ella tornò a invermigliarsi tutta, come sospesa in una penosa meraviglia, d'esser conosciuta da uno a lei sconosciuto; sorrise; disse di sì col capo, e tutti i nastri di velluto nero del cappellone di paglia dissero di sì con lei.
Polacco tornò a domandarle:
- Papà è qua?
Sì, di nuovo, col capo, come se tra il rossore e la confusione non trovasse la voce per rispondere.
Infine, con uno sforzo, la trovò, timida:
- È entrato da un pezzo: disse che si sarebbe sbrigato subito, e intanto...
Alzò gli occhi a guardare la Nestoroff e le sorrise, come se le dispiacesse che quel signore con le sue domande la avesse distratta da lei, che le si era mostrata così gentile pur senza conoscerla.
Polacco allora fece la presentazione:
- La signorina Luisetta Cavalena; la signora Nestoroff.
Poi si volse ad accennare Carlo Ferro, che subito sorse in piedi e s'inchinò rudemente.
- L'attore Carlo Ferro.
Infine, presentò me:
- Gubbio.
Mi parve che, tra tutti, io fossi quello che meno la impacciasse.
Conoscevo per fama Cavalena, suo padre, notissimo alla Kosmograph sotto il nomignolo di Suicida.
Pare che il pover'uomo sia terribilmente oppresso da una moglie gelosa.
Per la gelosia della moglie, a quanto si dice, dovette prima lasciar la milizia, da tenente medico, e non so quante condotte vantaggiose; poi anche l'esercizio della professione libera, e il giornalismo, in cui aveva trovato modo d'entrare, e alla fine anche l'insegnamento, a cui per disperazione s'era appigliato, nei licei, come incaricato di fisica e storia naturale.
Ora, non potendo (sempre a causa della moglie) dedicarsi al teatro, per il quale crede da un pezzo d'avere spiccatissime attitudini, s'è acconciato alla confezione di scenarii cinematografici, con molto sdegno, obtorto collo, per sopperire ai bisogni della famiglia, non bastando al mantenimento di essa la sola dote della moglie e quel che ricava dall'affitto di due stanze mobigliate.
Se non che, nell'inferno della sua casa, abituato ormai a vedere il mondo come una galera, pare che, per quanto si sforzi, non riesca a comporre una trama di film, senza che a un certo punto non ci scappi un suicidio.
Ragion per cui finora Polacco gli ha sempre rifiutato tutti gli scenarii, visto e considerato che gli Inglesi - assolutamente - non vogliono nelle pellicole il suicidio.
- Che sia venuto a cercar me? - domandò il Polacco alla signorina Luisetta.
La signorina Luisetta balbettò, confusa:
- No...
disse...
non so...
mi sembra Bertini...
- Ah, birbante! S'è rivolto al Bertini? E, dica, signorina...
è entrato solo?
Nuova e più viva confusione della signorina Luisetta.
- Con la mamma...
Polacco alzò le mani, aperte, e le agitò un po' in aria, allungando il viso e ammiccando.
- Speriamo che non avvengano guaj!
La signorina Luisetta si sforzò di sorridere; ripeté:
- Speriamo...
E mi fece tanta pena vederla sorridere a quel modo, col visino in fiamme! Avrei voluto gridare al Polacco:
- E smetti di tormentarla con codesto interrogatorio! Non vedi che è sulle spine?
Ma Polacco, all'improvviso, ebbe un'idea; batté le mani:
- E se ci portassimo la signorina Luisetta? Ma sì, perbacco; siamo qui da un'ora ad aspettare! Sì, sì; senz'altro...
Signorina cara, lei ci leverà d'impaccio, e vedrà che la faremo divertire.
In mezz'oretta sarà tutto fatto...
Avvertirò l'usciere, che, appena verranno fuori il papà e la mamma, dica loro che lei è venuta per una mezz'oretta con me e con questi signori.
Sono tanto amico di suo papà, che posso prendermi questa licenza.
Le farò rappresentare una particina, è contenta?
La signorina Luisetta ha avuto certo una gran paura di parer timida, impacciata, sciocchina; e, quanto a venire con noi, ha detto, perché no?, ma che, quanto a recitare, non poteva, non sapeva...
e poi, così?...
ma che!...
non s'era mai provata...
si vergognava...
e poi...
Polacco le spiegò che non ci voleva nulla: non doveva aprir bocca, né salire su un palcoscenico, né presentarsi al pubblico.
Nulla.
In campagna.
Davanti agli alberi.
Senza parlare.
- Starà su un sedile, accanto a questo signore, - e indicò il Ferro.
- Questo signore fingerà di parlarle d'amore.
Lei, naturalmente, non ci crede e ne ride...
Ecco...
così benissimo! Ride e scrolla la testolina sfogliando un fiore.
Sopravviene di furia un'automobile.
Questo signore si scuote, aggrotta le ciglia, guarda, presentendo una minaccia, un pericolo.
Lei smette di sfogliare il fiore e resta come sospesa in un dubbio, smarrita.
Subito questa signora - (e indicò la Nestoroff) - balza giù dall'automobile, cava dal manicotto una rivoltella e le spara...
La signorina Luisetta spalancò tanto d'occhi in faccia alla Nestoroff, sbigottita.
- Per finta! Non abbia paura! - seguitò Polacco, sorridendo.
- Il signore s'avventa, disarma la signora; intanto lei s'è abbandonata prima sul sedile, ferita a morte; dal sedile trabocca giù a terra - senza farsi male, per carità! - e tutto è finito...
Sù, sù, non perdiamo altro tempo! Faremo una prova sul posto; vedrà che andrà bene...
e che bel regalino le farà poi la Kosmograph!
- Ma se papà...
- Lo avvertiremo!
- E Piccinì?
- La porteremo con noi; la terrò in braccio io...
Vedrà che la Kosmograph farà un bel regalino anche a Piccinì...
Sù, sù, via!
Salendo in automobile (ancora, certo, per non parer timida e sciocchina), ella che non aveva più badato a me, mi guardò incerta.
Perché andavo anch'io? che rappresentavo io?
Nessuno mi aveva rivolto la parola; ero stato appena appena presentato, come si farebbe d'un cane; non avevo aperto bocca; seguitavo a star muto...
M'accorsi che questa mia presenza muta, di cui ella non vedeva la necessità, ma che pur le s'imponeva come misteriosamente necessaria, cominciava a turbarla.
Nessuno si curava di dargliene la spiegazione; non potevo dargliela io.
Le ero sembrato uno come gli altri; anzi forse, a prima giunta, uno più vicino a lei degli altri.
Ora cominciava ad avvertire che per questi altri ed anche per lei (in confuso) non ero propriamente uno.
Cominciava ad avvertire, che la mia persona non era necessaria; ma che la mia presenza lì aveva la necessità d'una cosa, ch'ella ancora non comprendeva; e che stavo così muto per questo.
Potevano parlare - sì, essi, tutt'e quattro - perché erano persone, rappresentavano ciascuno una persona, la propria; io, no: ero una cosa: ecco, forse quella che mi stava su le ginocchia, avviluppata in una tela nera.
Eppure, avevo anch'io una bocca per parlare, occhi per guardare; e questi occhi, ecco, mi brillavano contemplandola; e certo entro di me sentivo...
Oh signorina Luisetta, se sapeste che gioja ritraeva dal proprio sentimento la persona - non necessaria come tale, ma come cosa - che vi stava davanti! Pensaste voi che io - pur standovi così davanti come una cosa - potessi entro di me sentire? Forse sì.
Ma che cosa sentissi sotto la mia maschera d'impassibilità, non poteste certo immaginare.
Sentimenti non necessarii, signorina Luisetta! Voi non sapete che cosa siano e quali inebrianti gioje possano dare! Questa macchinetta qua, ecco: vi sembra che abbia necessità di sentire? Non può averne! Se potesse sentire, che sentimenti sarebbero? Non necessarii certo.
Un lusso per lei.
Cose inverosimili...
Ebbene, fra voi quattro, quest'oggi, io - due gambe, un busto e, sopra, una macchinetta - ho sentito inverosimilmente.
Voi, signorina Luisetta, eravate con tutte le cose che v'erano attorno, dentro il sentimento mio, il quale godeva della vostra ingenuità, del piacere che vi cagionava il vento della corsa, la vista dell'aperta campagna, la vicinanza della bella signora.
Vi sembra strano che foste così, con tutte le cose attorno, dentro il sentimento mio?
Ma anche un mendico a un canto di strada non vede forse la strada e tutta la gente che vi passa, dentro a quel sentimento di pietà, ch'egli vorrebbe destare? Voi, più sensibile degli altri, passando, avvertite d'entrare in questo sentimento e vi fermate a fargli la carità d'un soldo.
Molti altri non c'entrano, e il mendico non pensa ch'essi siano fuori dal suo sentimento, dentro un altro lor proprio, in cui anch'egli è incluso come un'ombra molesta; il mendico pensa che sono spietati.
Che cosa ero io per voi, nel vostro sentimento, signorina Luisetta? Un uomo misterioso? Sì, avete ragione.
Misterioso.
Se sapeste come sento, in certi momenti, il mio silenzio di cosa! E mi compiaccio del mistero che spira da questo silenzio a chi sia capace d'avvertirlo.
Vorrei non parlar mai; accogliere tutto e tutti in questo mio silenzio, ogni pianto, ogni sorriso; non per fare, io, eco al sorriso; non potrei; non per consolare, io il pianto; non saprei; ma perché tutti dentro di me trovassero, non solo dei loro dolori, ma anche e più delle loro gioje, una tenera pietà che li affratellasse almeno per un momento.
Ho tanto goduto del bene che avete fatto con la freschezza della vostra ingenuità timida sorridente alla signora che vi stava accanto! Hanno talvolta, quando la pioggia manca, le piante arse ristoro da un'auretta leggera.
E quest'auretta siete stata voi, per un momento, nell'arsura dei sentimenti di colei che vi stava accanto; arsura che non conosce il refrigerio delle lacrime.
A un certo punto ella, guardandovi quasi con trepida ammirazione, vi ha preso una mano e ve l'ha carezzata.
Chi sa che invidia accorata di voi le angosciava il cuore in quell'istante!
Avete veduto, come subito dopo, s'è tutta scurita in viso?
Una nuvola è passata...
Che nuvola?
III
Parentesi.
Un'altra, sì.
Quello che mi tocca fare tutto il giorno, non lo dico; le bestialità che mi tocca dare da mangiare, tutto il giorno, a questo ragno nero sul treppiedi, che non si sazia mai, non le dico; bestialità incarnata da questi attori, da queste attrici, da tanta gente che per bisogno si presta a dare in pasto a questa macchinetta il proprio pudore, la propria dignità; non le dico; ma bisogna pure ch'io mi prenda un po' di respiro di tanto in tanto, assolutamente, una boccata d'aria per il mio superfluo; o muojo.
Mi interesso alla storia di questa donna, dico della Nestoroff, riempio di lei molte di queste mie notti; ma non voglio infine lasciarmi prendere la mano da questa storia; voglio che lei, questa donna, mi resti davanti la macchinetta, o, meglio, ch'io resti davanti a lei quello che per lei sono, operatore, e basta.
Quando il mio amico Simone Pau trascura per parecchi giorni di venire a trovarmi alla Kosmograph, vado io la sera a trovarlo a Borgo Pio, nel suo Albergo del Falco.
La ragione per cui di questi giorni non è venuto, è quanto mai triste.
Muore l'uomo del violino.
Ho trovato a veglia nella cameretta riservata al Pau nell'ospizio, lui Pau, il vecchietto suo collega pensionato dal governo pontificio e le tre maestre zitellone, amiche delle suore di carità.
Sul letto di Simone Pau, con una compressa di ghiaccio sul capo, giaceva l'uomo del violino, colpito tre sere fa da apoplessia.
- Si libera, - mi ha detto Simone Pau, con un gesto della mano, consolante.
- Siedi qua, Serafino.
La scienza gli ha messo in capo quel berretto là di ghiaccio, che non serve a nulla.
Noi lo facciamo passare tra sereni discorsi filosofici, in compenso del dono prezioso ch'egli ci lascia in eredità: il suo violino.
Siedi, siedi qua.
Lo hanno lavato bene, tutto; lo hanno messo in regola coi sagramenti, lo hanno unto.
Ora aspettiamo la sua fine, che non può tardare.
Ti ricordi quando sonò davanti alla tigre? Gli fece male.
Ma forse, meglio così: si libera!
Come sorrideva benigno, a queste parole, il vecchietto tutto raso, fino fino, pulito pulito, con la papalina in capo e in mano la tabacchiera d'osso col ritratto del Santo Padre sul coperchio!
- Prosegua, - riprese Simone Pau, rivolto al vecchietto, - prosegua, signor Cesarino, il suo elogio dei lumi a olio a tre beccucci, la prego.
- Ma che elogio! - esclamò il signor Cesarino.
S'ostina lei a ripetere che ne faccio l'elogio! Io dico che sono di quella generazione là, e addio.
- E non è un elogio questo?
- Ma no, dico che tutto si compensa alla fine: è una mia idea: tante cose nel bujo vedevo io con quei lumi là, che loro forse non vedono più con la lampadina elettrica, ora; ma in compenso, ecco, con queste lampadine qua altre ne vedono loro, che non riesco a vedere io; perché quattro generazioni di lumi, quattro, caro professore, olio, petrolio, gas e luce elettrica, nel giro di sessant'anni, eh...
eh...
eh...
sono troppe, sa? e ci si guasta la vista, e anche la testa; eh, anche la testa, un poco.
Le tre zitellone, che si tenevano in grembo tutte e tre quietamente le mani coi mezzi guanti di filo, approvarono in silenzio, col capo: sì, sì, sì.
- Luce, bella luce, non dico di no! Eh, lo so io, - sospirò il vecchietto, - che mi ricordo s'andava nelle tenebre con un lanternino in mano per non rompersi l'osso del collo! Ma luce per fuori, ecco...
Che ci ajuti a veder dentro, no.
Le tre zitellone quiete, sempre con in grembo le mani coi mezzi guanti di filo tutt'e tre, dissero in silenzio col capo: no, no, no.
Il vecchietto si alzò e andò a offrire in premio a quelle mani quiete e pure, un pizzichetto di tabacco.
Simone Pau tese due dita.
- Anche lei? - domandò il vecchietto.
- Anche io, anche io, - rispose, un po' irritato dalla domanda, Simone Pau.
- E anche tu, Serafino.
Ti dico, prendi! Non vedi che è come un rito?
Il vecchietto, con la presina tra le dita, strizzò un occhio maliziosamente:
- Tabacco proibito, - disse piano.
- Viene di là...
E col pollice dell'altra mano fece, come di nascosto, un cenno per dire: San Pietro, Vaticano.
- Capisci? - disse allora Simone Pau, rivolto a me, mettendomi sotto gli occhi la sua presa.
- Ti libera dell'Italia! Ti pare niente? La fiuti, e non ci senti puzza di regno!
- Via, non dica così...
- pregò il vecchietto afflitto, che voleva godersi in pace i benefizii della tolleranza, tollerando.
- Lo dico io, non lo dice lei, - gli rispose Simone Pau.
- Lo dico io che posso dirlo.
Se lo dicesse lei, la pregherei di non dirlo in mia presenza, va bene? Ma lei è saggio, signor Cesarino! Séguiti, séguiti, la prego, a commemorarci col suo buon garbo antico i buoni lumi ad olio, a tre beccucci, di tanti anni fa...
Ne vidi uno sa? nella casa di Beethoven, a Bonn sul Reno, al tempo del mio viaggio in Germania.
Ecco: bisogna questa sera richiamare la memoria di tutte le buone cose antiche attorno a questo povero violino, che si spezzò davanti a un pianoforte automatico.
Confesso che vedo male qua dentro, in questo momento, il mio amico.
Sì, te, Serafino.
Il mio amico, signori - ve lo presento: Serafino Gubbio - è operatore: gira, disgraziato, la macchinetta d'un cinematografo.
- Ah, - fece il vecchietto, con piacere.
E le tre zitellone mi guardarono ammirate.
- Vedi? - mi disse Simone Pau.
- Tu guasti tutto, qua dentro.
Scommetto che lei adesso, signor Cesarino, e anche loro, signorine, hanno una gran voglia di sapere dal mio amico come gira la macchinetta e come si mette sù una cinematografia.
Per carità!
E con la mano indicò il morente, che ronfava nel coma profondo, sotto la compressa di ghiaccio.
- Tu sai che io...
- mi provai a dire, piano.
- Lo so! - m'interruppe.
- Tu non sei nella tua professione, ma ciò non vuol dire, caro mio, che la tua professione non sia in te! Leva dal capo a questi miei signori colleghi ch'io non sia professore.
Sono il professore, per loro: un po' strambo, ma professore! Noi possiamo benissimo non ritrovarci in quello che facciamo; ma quello che facciamo, caro mio, è, resta fatto: fatto che ti circoscrive, ti dà comunque una forma e t'imprigiona in essa.
Vuoi ribellarti? Non puoi.
Prima di tutto, non siamo liberi di fare quello che vorremmo: il tempo, il costume degli altri, la fortuna, le condizioni dell'esistenza, tant'altre ragioni fuori e dentro di noi, ci costringono spesso a fare quello che non vorremmo; e poi lo spirito non è senza carne; e la carne, hai un bel sorvegliarla, vuole la sua parte.
E a che si riduce l'intelligenza, se non compatisce la bestia che è in noi? Non dico scusarla.
L'intelligenza che scusi la bestia, s'imbestialisce anch'essa.
Ma averne pietà è un'altra cosa! Lo predicò Gesù, dico bene, signor Cesarino? Dunque tu sei prigioniero di quello che hai fatto, della forma che quel fatto ti ha dato.
Doveri, responsabilità, una sequela di conseguenze, spire, tentacoli che t'avviluppano e non ti lasciano più respirare.
Non far più niente, o il meno possibile, come me, per restar liberi il più possibile? Eh sì! La vita stessa è un fatto! Quando tuo padre t'ha messo al mondo, caro, il fatto è fatto.
Non te ne liberi più finché non finisci di morire.
E anche dopo morto, qua c'è il signor Cesarino che dice di no, è vero? Non se ne libera più, è vero? neanche dopo morto.
Stai fresco, caro mio.
Andrai a girare la macchinetta anche di là! Ma sì, ma sì, perché non dell'essere, di cui non hai colpa, ma dei fatti e delle conseguenze dei fatti tu devi rispondere, è vero, sì o no, signor Cesarino?
- Verissimo, sì; ma non è mica peccato, professore, girare una macchinetta di cinematografo - osservò il signor Cesarino.
- Non è peccato? Lo domandi a lui! - disse Pau.
Il vecchietto e le tre zitellone mi guardarono stupiti e afflitti ch'io approvassi col capo, sorridendo, il giudizio di Simone Pau.
Sorridevo perché m'immaginavo al cospetto di Dio Creatore, al cospetto degli Angeli e delle anime sante del Paradiso, dietro il mio grosso ragno nero sul treppiedi a gambe rientranti, condannato a girar la manovella, anche lassù, dopo morto.
- Eh, certo, - sospirò il vecchietto, - quando il cinematografo mette su certe sconcezze, certe stupidaggini...
Le tre zitellone, con gli occhi bassi, fecero con le mani un atto di schifiltà.
- Ma non ne sarà responsabile il signore, - aggiunse subito il signor Cesarino, garbato e sempre benigno.
S'udì per la scala uno sbattimento di panni grevi e di grossi grani di rosario col crocifisso ciondolante.
Apparve sotto le ampie ali bianche della cornetta una suora di carità.
Chi l'aveva chiamata? Il fatto è che, appena lei si presentò su la soglia, l'agonizzante finì di rantolare.
Ed ella si trovò pronta a compiere il suo ultimo ufficio.
Gli levò dal capo la compressa di ghiaccio; si volse a guardarci, muta, con un semplice, rapidissimo cenno degli occhi al cielo; poi si chinò a comporre sul letto il cadavere e s'inginocchiò.
Le tre zitellone e il signor Cesarino seguirono l'esempio.
Simone Pau mi chiamò fuori della cameretta.
- Conta, - mi ordinò, cominciando a scendere la scala, indicandomi gli scalini.
- Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e nove.
Scalini di una scala; di questa scala, che dà su questo corridojo tetro...
Mani che li intagliarono e li disposero qua in sesto...
Morte.
Mani che levarono questo casamento...
Morte.
Come altre mani, che levarono tant'altre case di questo borgo...
Roma; che ne pensi? Grande...
Pensa nei cieli questa terra piccola...
Vedi? che è?...
Un uomo è morto...
io, tu...
non importa: un uomo...
E cinque, di là, gli si sono inginocchiati intorno a pregare qualcuno, qualche cosa, che credono fuori e sopra di tutto e di tutti, e non in loro stessi, un sentimento loro che si libera dal giudizio e invoca quella stessa pietà che sperano per loro, e n'hanno conforto e pace.
Ebbene, bisogna fare così.
Io e tu, che non possiamo farlo, siamo due scemi.
Perché, dicendo queste bestialità che sto dicendo io, lo stiamo facendo lo stesso, in piedi, scomodi, con questo bel guadagno, che non ne abbiamo né conforto né pace.
E scemi come noi sono tutti coloro che cercano Dio dentro e lo sdegnano fuori, che non sanno cioè vedere il valore degli atti, di tutti gli atti, anche i più meschini, che l'uomo compie da che mondo è mondo, sempre gli stessi, per quanto ci pajano diversi.
Ma che diversi? Diversi perché attribuiamo loro un altro valore che, comunque, è arbitrario.
Di certo non sappiamo niente.
E non c'è niente da sapere fuori di quello che, comunque, si rappresenta fuori, in atti.
Il dentro è tormento e seccatura.
Va', va' a girar la macchinetta, Serafino! Credi che la tua è una professione invidiabile! E non stimare più stupidi degli altri gli atti che ti combinano davanti, da prendere con la tua macchinetta.
Sono tutti stupidi allo stesso modo, sempre: la vita è tutta una stupidaggine, sempre, perché non conclude mai e non può concludere.
Va', caro, va' a girare la tua macchinetta e lasciami andare a dormire con la sapienza che, dormendo sempre, dimostrano i cani.
Buona notte.
Uscii dall'ospizio, confortato.
La filosofia è come la religione: conforta sempre, anche quando è disperata, perché nasce dal bisogno di superare un tormento, e anche quando non lo superi, il porselo davanti, questo tormento, è già un sollievo per il fatto che, almeno per un poco, non ce lo sentiamo più dentro.
Il conforto delle parole di Simone Pau m'era venuto però sopra tutto per ciò che si riferiva alla mia professione.
Invidiabile, sì forse; ma se fosse applicata solamente a cogliere, senz'alcuna stupida invenzione o costruzione immaginaria di scene e di fatti, la vita, così come vien viene, senza scelta e senz'alcun proposito; gli atti della vita come si fanno impensatamente quando si vive e non si sa che una macchinetta di nascosto li stia a sorprendere.
Chi sa come ci sembrerebbero buffi! più di tutti, i nostri stessi.
Non ci riconosceremmo, in prima; esclameremmo, stupiti, mortificati, offesi: - Ma come? Io, così? io, questo? cammino così? rido così? io, quest'atto? io, questa faccia? - Eh, no, caro, non tu: la tua fretta, la tua voglia di fare questa o quella cosa, la tua impazienza, la tua smania, la tua ira, la tua gioja, il tuo dolore...
Come puoi sapere tu, che le hai dentro, in qual maniera tutte queste cose si rappresentano fuori! Chi vive, quando vive, non si vede: vive...
Veder come si vive sarebbe uno spettacolo ben buffo!
Ah se fosse destinata a questo solamente la mia professione! Al solo intento di presentare agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com'è.
Di questa vita, senza requie, che non conclude.
IV
- Signor Gubbio, scusi: voglio dirle una cosa.
Era già bujo: andavo di fretta sotto i grandi platani del viale.
Sapevo che egli - Carlo Ferro - mi veniva dietro, affannato, per sorpassarmi e poi forse volgersi, fingendo di ricordarsi tutt'a un tratto, che aveva da dirmi qualche cosa.
Volevo levargli il piacere di questa finzione, e acceleravo sempre più il passo, aspettandomi di mano in mano, che - stanco alla fine - si desse per vinto e mi chiamasse.
Difatti...
Mi voltai, come sorpreso.
Egli mi raggiunse e con mal dissimulato dispetto mi domandò:
- Permette?
- Dica pure.
- Va a casa?
- Sì.
- Abita lontano?
- Parecchio.
- Voglio dirle una cosa, - ripeté, e si fermò a guardarmi con bieco lustro negli occhi.
- Lei dovrebbe sapere che, grazie a Dio, posso sputare su la scrittura che ho qua con la Kosmograph.
Un'altra, come questa, meglio di questa, la trovo subito, appena voglio, dovunque, per me e per la mia signora.
Lo sa o non lo sa?
Sorrisi; mi strinsi nelle spalle:
- Posso crederlo, se le fa piacere.
- Può crederlo, perché è così! - ribatté forte, in tono di provocazione e di sfida.
Tornai a sorridere; dissi:
- Sarà pure così; ma non vedo perché venga a dirlo a me, e con codesto tono.
- Ecco perché, - riprese - Io rimango, caro signore, alla Kosmograph.
- Rimane? Guardi: non sapevo nemmeno che avesse in animo di andarsene.
- Altri lo aveva in animo, - ripigliò Carlo Ferro, pigiando con la voce su altri - Ma io le dico che rimango: ha capito?
- Ho capito.
- E rimango, non perché m'importi della scrittura, che non me n'importa un corno; ma perché io non sono mai fuggito di fronte a nessuno!
Così dicendo, mi prese la giacca sul petto, con due dita, e me la scosse un po'.
- Permette? - dissi io, a mia volta, con calma, levandogli quella mano; e presi dalla tasca una scatola di fiammiferi: ne accesi uno per la sigaretta che avevo già cavato dell'astuccio e tenevo in bocca; trassi due boccate di fumo, rimasi ancora un po' col fiammifero acceso tra le dita, per fargli vedere che le sue parole, il tono minaccioso, il fare aggressivo non mi cagionavano il minimo turbamento; poi risposi, piano: - Potrei anche aver capito a che cosa ella voglia alludere; ma, ripeto, non intendo perché viene a dire proprio a me codeste cose.
- Non è vero! - gridò allora Carlo Ferro.
- Lei finge di non intendere!
Pacatamente, ma con voce ferma, risposi:
- Non ne vedo la ragione.
Se lei, caro signore, vuol provocarmi, sbaglia; non solo perché senza motivo, ma anche perché, precisamente come lei, io non soglio fuggire di fronte a nessuno.
- Come no? - sghignò egli allora.
- Ho dovuto correr tanto per raggiungerla!
- Oh, ma guarda! ha creduto davvero ch'io fuggissi? S'inganna, caro signore, e gliene do subito la prova.
Lei forse sospetta ch'io abbia avuto qualche parte nella prossima venuta di qualcuno che le dà ombra?
- Nessuna ombra!
- Tanto meglio.
Per codesto sospetto, ha potuto credere ch'io fuggissi?
- So che lei è stato amico d'un certo pittore che s'uccise a Napoli.
- Sì.
Ebbene?
- Ebbene, lei che s'è trovato in mezzo a questa faccenda...
- Io? Ma nient'affatto! chi gliel'ha detto? io ne so quanto lei; forse meno di lei.
- Ma conoscerà questo signor Nuti!
- Nient'affatto! Lo vidi, parecchi anni fa, giovanotto, una o due volte, non più.
Non ho mai parlato con lui.
- Cosicché...
- Cosicché, caro signore, non conoscendo questo signor Nuti, e seccato di vedermi da alcuni giorni guardato male da lei per il sospetto ch'io mi sia immischiato o voglia immischiarmi in codesta faccenda; poco fa, non volevo che lei mi raggiungesse e ho accelerato il passo.
Eccole spiegata "la mia fuga".
È contento?
Con subitaneo cangiamento Carlo Ferro mi tese la mano, commosso:
- Posso aver l'onore e il piacere d'essere suo amico?
Gli strinsi la mano e risposi:
- Lei sa bene, che sono di fronte a lei così poca cosa, che l'onore sarà mio.
Carlo Ferro si scrollò come un orso:
- Non dica! Non dica! Lei è uno che sa il fatto suo, a preferenza di tutti gli altri; sa, vede e non parla...
Che mondaccio, signor Gubbio, che mondaccio è questo! che schifo! Ma pajono tutti...
che so! Ma perché si dev'essere così? Mascherati! Mascherati! Mascherati! Me lo dica lei! Perché, appena insieme, l'uno di fronte all'altro, diventiamo tutti tanti pagliacci? Scusi, no, anch'io, anch'io; mi ci metto anch'io; tutti! Mascherati! Questo, un'aria così; quello, un'aria cosà...
E dentro siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come...
come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna! Sissignore, creda: il cuore si vergogna! Io smanio, smanio, signor Gubbio, per un poco di sincerità...
d'essere con gli altri come sono tante volte con me stesso, dentro di me; una creatura, glielo giuro, una creaturina che piagnucola perché la mamma santa, sgridandola, le ha detto che non le vuole più bene! Sempre io, sempre, quando mi sento salire il sangue agli occhi, penso a quella mia vecchierella, laggiù in Sicilia, sa? Ma guaj se mi metto a piangere! Quelle che sono lagrime per i miei occhi, se qualcuno non le capisce e crede che siano per paura, possono diventar subito sangue nelle mie mani; io lo so, e perciò ho una gran paura, quando mi sento pungere il pianto negli occhi! Le dita, guardi,mi diventano così!
Nell'oscurità del grande viale deserto, mi vidi porre davanti agli occhi due manacce poderose, ferocemente contratte e artigliate.
Dissimulando con molto sforzo il turbamento che questa inattesa effusione di sincerità mi suscitava, per non esacerbargli il dolore segreto al quale senza dubbio era in preda e che, certamente suo malgrado, aveva trovato in quell'effusione uno sfogo di cui già si pentiva; trattenni la voce, finché non mi parve di poter parlare in modo ch'egli, pur intendendo la mia simpatia per la sua sincerità, fosse tratto più a pensare che a sentire: e dissi:
- Ha ragione; è proprio così, signor Ferro! Ma inevitabilmente, veda, noi ci costruiamo, vivendo in società...
Già, la società per se stessa non è più il mondo naturale.
È mondo costruito, anche materialmente! La natura non ha altra casa, che la tana o la grotta.
- Allude a me?
- Come, a lei? No.
- Sono della tana o della grotta?
- Ma no! Volevo spiegarle perché, a mio modo di vedere, si mentisce inevitabilmente.
E dico che mentre la natura non conosce altra casa che la tana o la grotta, la società costruisce le case; e l'uomo, quando esce da una casa costruita, dove già non vive più naturalmente, entrando in relazione co' suoi simili, si costruisce anch'esso, ecco; si presenta, non qual è, ma come crede di dover essere o di poter essere, cioè in una costruzione adatta ai rapporti, che ciascuno crede di poter contrarre con l'altro.
In fondo, poi, cioè dentro queste nostre costruzioni, messe così di fronte, restano ben nascosti, dietro le gelosie e le imposte, i nostri pensieri più intimi, i nostri più segreti sentimenti.
Ma ogni tanto, ecco, ci sentiamo soffocare; ci vince il bisogno prepotente di spalancare gelosie e imposte per gridar fuori, in faccia a tutti, i nostri pensieri, i nostri sentimenti tenuti per tanto tempo nascosti e segreti.
- Già...
già...
già...
- approvò parecchie volte Carlo Ferro, ridivenuto fosco.
- Ma c'è chi s'apposta anche, e si tiene in agguato dietro codeste costruzioni che dice lei, come un vigliacco manigoldo a un canto di strada, per assalire alle spalle, per aggredire a tradimento.
Io ne conosco uno, qua alla Kosmograph, e lo conosce anche lei.
Alludeva sicuramente al Polacco.
Compresi subito, ch'egli in quel momento non poteva esser tratto a pensare: sentiva troppo.
- Signor Gubbio, - riprese risolutamente, - vedo che lei è un uomo, e sento che con lei posso parlare aperto.
A questo signore costruito, che tutti e due conosciamo, dica lei una parolina come va detta.
Io non posso parlare con lui; conosco la mia naturaccia: se mi metto a parlare con lui, so come comincio, non so dove vado a finire.
Perché i pensieri coperti, e tutti coloro che agiscono copertamente, che si costruiscono come dice lei, io non li posso soffrire.
Mi pajono serpi, a cui schiaccerei la testa, guardi, così...
così...
E due volte pestò il calcagno in terra, con rabbia.
Riprese:
- Che gli ho fatto io? che gli ha fatto la mia signora, perché egli con tanto accanimento ci avversi di nascosto? Non dica di no, la prego...
la prego...
lei dev'essere sincero, perdio, con me!...
Non vuole?
- Ma sì...
- Vede che io le parlo sincero? La prego, dunque! Guardi: è stato lui, sapendo che io per puntiglio non mi sarei mai tirato indietro, è stato lui a designare me, presso il signor commendatore Borgalli, per l'uccisione della tigre...
Fino a tal punto, capisce? Fino alla perfidia di pigliarmi per puntiglio e sopprimermi! Dice di no? Ma questa è l'idea! l'intenzione è questa, questa: glielo dico io e lei deve credermi! Perché non ci vuol mica coraggio, lei lo capisce, per sparare a una tigre dentro una gabbia: ci vuole calma, freddezza ci vuole: braccio fermo, occhio sicuro.
Ebbene, designa me! mette avanti me, perché sa che io posso, se mai, essere una belva di fronte a un uomo; ma come uomo di fronte a una belva non valgo niente! Io ho l'impeto, non ho la calma! Vedendomi una belva davanti, io ho l'istinto di lanciarmi; non ho la freddezza di star lì fermo a prender bene la mira per colpirla dove va colpita.
Non so sparare; non so imbracciare il fucile; sono capace di gettarlo via, di sentirmene ingombre le mani, capisce? E questo, lui, lo sa! lo sa bene! Dunque ha voluto proprio espormi al pericolo d'essere sbranato da quella belva.
E con qual fine? Ma guardi, guardi fin dove arriva la perfidia di quest'uomo! Fa venire il Nuti; gli fa da mezzano; gli sgombra la via, togliendomi di mezzo! "Sì, caro, vieni!" gli avrà scritto, "ti servo io! te lo levo io dai piedi! vieni pure tranquillo!" Lei dice di no?
Era così aggressiva e perentoria, la domanda, che ad oppormi recisamente, avrei acceso ancor più le sue furie.
Tornai a stringermi nelle spalle, risposi:
- Che vuole che le dica? Lei in questo momento, lo riconoscerà, è molto eccitato.
- Ma posso esser calmo?
- Ah, capisco...
- Ne ho ragione, mi sembra!
- Sì, senza dubbio! Ma in tale stato, caro Ferro, è anche molto facile esagerare.
- Ah, io esagero? Già già, sì...
perché quelli che sono freddi, quelli che ragionano, quando commettono sotto sotto un delitto, lo costruiscono in modo, che per forza, se uno lo scopra, deve parere esagerato.
Sfido! Lo hanno costruito in silenzio con tanta sapienza, piano piano, coi guanti, già...
per non sporcarsi le mani! Di nascosto, sì, proprio, di nascosto anche a loro stessi! Ah, lui non lo sa mica, che sta commettendo un delitto! Che! Inorridirebbe, se qualcuno glielo facesse notare.
"Io, un delitto? Eh via! Che esagerazione!" Ma come esagerazione, perdio! Ragioni anche lei, come ragiono io! Si piglia un uomo e si fa entrare in una gabbia, dove sarà introdotta una tigre, e gli si dice: "Stai calmo, sai? prendi bene la mira e spara.
Bada oh, d'atterrarla al primo colpo, colpendola al punto giusto; se no, anche ferita, ti salta addosso e ti sbrana!".
Tutto questo, lo so, se si sceglie un uomo calmo, freddo, esperto tiratore non è niente, non è delitto.
Ma se si sceglie apposta uno come me? Badi, uno come me! Vada a dirglielo: casca dalle nuvole: "Ma come? il Ferro? Ma se io l'ho scelto apposta perché lo so tanto coraggioso!".
Ecco la perfidia! ecco dove s'annida il delitto: in questo sapermi coraggioso! nell'approfittare del mio coraggio, del mio puntiglio, capisce! Lui lo sa bene, che lì non ci vuole coraggio! Finge di crederlo! Ecco il delitto! E vada a domandargli perché contemporaneamente si muova sotto mano per facilitare l'entrata a un amico che vorrebbe riprendersi la donna, la donna che ora sta proprio con quell'uomo da lui designato a entrare nella gabbia.
Cascherà dalle nuvole una seconda volta! Come, che nesso tra le due cose? Oh, ma guarda! anche questo sospetto? Che e-sage-ra-zio-ne! - Ecco, ha detto anche lei ch'io esagero...
Ma rifletta bene; penetri fino in fondo; scopra ciò ch'egli stesso non vuol vedere e nasconde sotto una così composta apparenza di ragione; gli strappi i guanti, a questo signore, e vedrà che ha le mani sporche di sangue!
Tante volte avevo pensato anch'io, che ognuno - per quanto probo e onesto si tenga, considerando le proprie azioni astrattamente, cioè fuori delle incidenze e coincidenze che dànno ad esse peso e valore - può commettere un delitto di nascosto anche a se stesso; che stupii nel sentirmelo dire con tanta chiarezza e tanta efficacia dialettica e, per giunta, da uno, cui finora avevo ritenuto di mente angusta e di animo volgare.
Ero, non per tanto, sicurissimo che il Polacco non agiva realmente con la coscienza di commettere un delitto, e non favoriva il Nuti per il fine sospettato da Carlo Ferro.
Ma poteva anche, questo fine, essere incluso a insaputa di lui, tanto nella designazione del Ferro per l'uccisione della tigre, quanto nel facilitare la venuta del Nuti: azioni solo apparentemente per lui senza nesso.
Certo, non potendo in altro modo levarsi dai piedi la Nestoroff, che costei divenisse di nuovo amante del Nuti, suo amico, poteva essere una sua segreta aspirazione, un desiderio non peranco palese.
Amante d'un suo amico, la Nestoroff non gli sarebbe stata più così nemica; non solo, ma fors'anche il Nuti, ottenuto l'intento, ricco com'era, non avrebbe più permesso che la Nestoroff seguitasse a far l'attrice, e se la sarebbe portata via con sé.
- Ma lei, - dissi, - è ancora in tempo, caro Ferro, se crede...
- Nossignore! - m'interruppe aspramente.
- Già codesto signor Nuti, per opera del Polacco, s'è comperato il diritto d'entrare alla Kosmograph.
- No, scusi, io dico, ancora in tempo di rifiutare la parte, che le è stata assegnata.
Nessuno conoscendola, può credere che lei lo faccia per paura.
- Tutti lo crederebbero! - gridò Carlo Ferro.
- E io per il primo! Sissignore...
Perché il coraggio posso averlo, e l'ho, di fronte a un uomo, ma di fronte a una belva, se non ho la calma, non posso aver coraggio; chi non ha calma deve aver paura.
E io avrei paura, sissignore! Paura, non per me, m'intenda bene! Paura per chi mi vuol bene...
Ho voluto che mia madre fosse assicurata; ma se domani le daranno un danaro macchiato di sangue, mia madre ne morrà! che vuole che se ne faccia del danaro? Veda in quale vergogna m'ha messo quel cagliostro! nella vergogna di dire queste cose, che pajono suggerite da una tremenda, e-sa-ge-ra-tis-si-ma paura! Già, perché tutto ciò che faccio, sento e dico, è condannato a parere a tutti esagerato! S'uccidono, Dio mio, tante bestie feroci in tutte le case cinematografiche, e mai nessun attore ne è morto, mai nessuno ha dato tanto peso alla cosa.
Ma io glielo do, perché qua, adesso, mi vedo giocato, mi vedo insidiato, designato apposta con l'unico intento di farmi perdere la calma! Sono sicuro che non accadrà nulla; che sarà affare d'un minuto e ucciderò la tigre senza nessun pericolo.
Ma è la rabbia per l'insidia che m'è stata tesa, con la speranza che m'accada qualche guajo, per cui il signor Nuti, ecco qua, si troverà pronto, con la via aperta e libera.
Ecco, questo, questo...
mi...
mi...
S'interruppe bruscamente; aggrovigliò le mani e se le storse, digrignando i denti.
Fu per me un lampo: sentii d'un subito in quell'uomo tutte le furie della gelosia.
Ecco perché m'aveva chiamato! ecco perché aveva tanto parlato! ecco perché era così! Dunque Carlo Ferro non è sicuro della Nestoroff.
Lo guatai al lume d'uno dei rari fanali del viale: aveva il volto scontraffatto, gli occhi feroci.
- Caro Ferro, - gli dissi premurosamente, - se lei crede ch'io possa in qualche modo esserle utile, per tutto quello che posso...
- Grazie! - mi rispose con durezza.
- Non...
non può...
Lei non può...
Forse in prima voleva dire: "Non mi serve nulla!" - poté contenersi; seguitò:
- Non può essermi utile, se non in questo, ecco: di dire a codesto signor Polacco, che con me si scherza male, perché la vita o la donna, io non son uomo da farmele strappare così facilmente come lui crede! Questo gli dica! E che se qui accadrà qualche cosa - che accadrà di certo - guaj a lui: parola di Carlo Ferro! Gli dica questo, e la riverisco.
Accennando appena con la mano un saluto sprezzante, allungò il passo, scappò via.
E la profferta d'amicizia?
Quanto mi piacque quest'improvviso ritorno allo sprezzo! Carlo Ferro può per un momento pensare d'essermi amico; non può sentire amicizia per me.
E certo, domani, m'odierà di più, per avermi questa sera trattato da amico.
V
Penso che mi farebbe comodo avere un'altra mente e un altro cuore.
Chi me li cambia?
Data l'intenzione, in cui mi vado sempre più raffermando, di rimanere uno spettatore impassibile, questa mente, questo cuore mi servono male.
Ho ragione di credere (e già più d'una volta me ne sono compiaciuto) che la realtà ch'io do agli altri corrisponda perfettamente a quella che questi altri dànno a se medesimi, perché m'industrio di sentirli in me come essi in sé si sentono, di volerli per me com'essi per sé si vogliono: una realtà, dunque, al tutto "disinteressata".
Ma vedo intanto che, senza volerlo, mi lascio prendere da questa realtà, la quale, così com'è, mi dovrebbe restar fuori: materia, a cui do forma, non per me, ma per se stessa; da contemplare.
Senza dubbio, c'è un inganno sotto, un beffardo inganno in tutto questo.
Mi vedo preso.
Tanto che non riesco più neanche a sorridere, se accanto o sotto a una complicazione di casi o di pas
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