[Pagina precedente]...he sulle lanee bende?
Brulla, ondulata, solitaria, mesta
vedeva il mozzo tutta la campagna,
sparsa di cippi, ruderi, muri, archi
intorno a cui pascevano le greggi,
piccole. Qualche buttero a cavallo
tra i suoi cavalli riguardava il fiume,
la bianca vela e il mozzo biondo al sole,
ch'era in lui fiso e s'appoggiava al remo.
III
A Ripa Grande a terra balzò. Roma!
Roma era sempre. E la cercò sognando
col passo ondante come su la tolda,
con gli occhi aperti come dalla coffa;
e bevve l'acqua delle sue fontane,
e mangiò il pane sulle sue rovine.
Ristette al piede, e sogguardò la cima
brillante al sole d'obelischi rossi.
Vide scogliere di muraglie e d'archi
sparire nella oscurità d'un nembo.
Errava assòrto, e la sonante pioggia
riparò sotto un arco quadrifronte.
Meriggiò stanco al parlottìo d'un fonte
nella spelonca della ninfa Egeria.
Sorseggiò, arso, l'acqua dolce a bocca
a bocca da un leone di basalto.
Salì sul clivo, e vide i due cavalli
condotti al morso dagli dei giganti.
Placido, con la mano alta protesa,
cavalcò verso lui l'imperatore.
IV
E si trovò tra ruderi di templi,
mozze colonne, e grigi archi di marmo.
Crescea per tutto il caprifico e il rovo,
e s'udiva una lunga eco di mugli.
E fanciulle ciociare erano assise
presso l'ignota fonte di Iuturna;
per la Via Sacra andava lento un frate;
giaceano bovi in una piazza erbosa;
giaceano lì nel tempio della Pace
butteri all'ombra delle rosse arcate.
E si trovò presso un'immensa mole
semisepolta, rotta, ispida, sola.
E un eremita come in un deserto,
v'era, e condusse il biondo mozzo in alto.
Errò pei muti portici; ma quando
il capo sporse e riguardò da un arco,
ruggì un leone, e sorse di sotterra
il sordo urlo di mille altri leoni,
e un plauso enorme; poi tutto improvviso
lo scroscio e il crollo della città morta.
V
Ed ei fuggì con nell'orecchio il rombo
del tempo antico, verso il fiume eterno;
e passò il fiume, e s'avviò soletto
per luoghi ignoti. Egli saliva il colle
del Dio che il grande cielo apre e lo chiude.
Udì strepito d'acque e salmodie
ché già cadea la sera. Ed una porta
gli era davanti, e domandò qual era.
- Di San Pancrazio. - Uscì. Vide una villa,
il marinaio, simile a un vascello,
grande, impietrito. Agli alberi suoi neri
venian da Roma strepitando i corvi.
Ed altre ville ai quattro venti, e neri
pini e cipressi cui sfiorava il sole.
Stette: un'immensa cupola in disparte
vegliava in alto. E Roma era ai suoi piedi.
Il giovinetto udì squillare intorno
tutte le squille e ne tremava il cielo:
ed un rintocco era tra lor più cupo.
Poi fu silenzio. - E apparvero le stelle. -
GARIBALDI COI SANSIMONIANI
I DODICI ESULI
Filava la goletta ad ali aperte. Quasi
striscia di luna ardea la scia fosforescente.
Soffiava ancora il caldo odore delle oà si.
Era la notte luminosa d'Orïente.
*
Sovra coverta un gruppo era adagiato a tondo,
di dodici stranieri in lunghe vesti bianche.
Avean bordone al lato ed una corda all'anche.
Avanti loro, dritto e grave, era il Secondo.
Lungo, il cammino loro! Avean patito fame,
avean falciato il fieno, avean mietuto il grano,
parlato a turbe, tesa a qualche pio la mano,
e maledetto al sangue a piè del palco infame.
Rincorsi dalla plebe e dalla legge oppressi,
s'erano posti in via, pellegrinando assòrti.
Dormian nei cimiteri, in compagnia dei morti,
sul marmo dei sepolcri, al tronco dei cipressi.
Ma ora discendea la pace. Era l'avvento.
Parlavano soave al lume delle stelle.
E dalla Terra Nera ov'è la Sfinge, il vento
moriva in un ronzio di sartie e di griselle.
*
- Dio! Tutto ciò che è. Noi siamo in lui, da lui.
Nessuno è Dio, nessuno è fuor di Dio, ch'è tutto.
Che è ciascun vivente? Un seme. Il seme, il frutto.
Io sono: sarò sempre. Io sono: sempre fui.
È l'Universo un tempio: il tempio di Dodona.
Pendono bronzei vasi ad una selva immensa.
Uno ne tocchi, vibra ogni altro. Il Cielo pensa,
e la Terra lontana a quel pensier risuona.
Amore. sei tu, Dio! Ma solo ti riveli
pensiero e forza: l'occhio e la possente mano.
O nuovo Adamo ed Eva, o riprincipio umano,
ti sia, qual è, la Terra: una stella dei cieli!
Lavora, adora. Sappi e crea. Sempre più! Chiedi
alla messe il tuo pane, e non al mietitore.
Abbiano la tua vita, e non l'altrui, gli eredi.
E in terra sarà Dio, ché vi sarà l'amore. -
*
E David intonò l'inno di pace; e calme
sorsero su le calme onde le voci in coro.
Cantarono la Madre, Eva del tempo d'oro,
Eva aspettante al pozzo, all'ombra delle palme:
del tempo avanti noi, non dietro noi: miraggio
che sembra un sogno in cielo ed è un'oà si in terra;
dove riposerà l'uomo che soffre ed erra,
e pace avrà dal forte, e bere avrà dal saggio.
E poi, sotto le stelle, essi giaceano vinti
dal sonno. Ed il Secondo anche restò sul ponte
e guardava, tra l'acqua e l'aria, all'orizzonte,
là , tra i presagi informi ed i ricordi estinti.
Parea di là guardarlo, allora apparso, Arturo.
E Garibaldi assòrto era nel ricordare
di qual Argo il timone esso reggea, securo,
in una sacra notte, in un ignoto mare...
A TAGANROK
IL CREDENTE
A Taganrok, nella taverna a mare,
sedean nocchieri. Uno parlava a tutti.
I
«O della sera giunti qui sui flutti,
la patria vive in un silenzio all'erta.
Pare la patria un'isola deserta,
con soltanto il gridìo dei cormorani.
Si parlano nel cavo delle mani
scrivendo il nome con le caute dita.
Presso un antico tempio è la lor vita:
ne son gli eredi ed i maestri e l'opre.
Ma il muschio al tempio non si sa se copre
i primi muri o l'ultima rovina.
Stanno in capanne d'erica e savina:
un lume brilla nella notte oscura.
Marre, squadre, il grembiule alla cintura:
vegliano muti fin che il gallo canti.
Noi tra il cielo e l'abisso, o naviganti,
possiam gettare al vento al mare un nome;
ed il vento urla e il mare sbalza, come
per afferrarlo, questo nome: Italia!»
Gridaron tutti: Italia! Italia! Italia!
Parve, in un canto, che un leon ruggisse...
II
Quegli guardò verso il ruggito; e disse:
«L'Italia è vinta, ora non v'è più guerra..
Ma non v'è pace. Cova ancor sotterra
nato dal fuoco il genitor del fuoco.
Annerisce sotterra a poco a poco:
ora si fredda perché poi più bruci.
Brilla la macchia qua e là di luci:
sono baracche in mezzo alle radure.
Vegliano i boscaioli: hanno la scure
tra i piedi, hanno la zappa, hanno la pala.
S'appoggia alla parete alta una scala.
Siedon su tronchi, verdi ancor, di querce.
La venderanno, la lor fosca merce,
allor che il sole tocchi la foresta.
Ma cantò il gallo, l'aquila s'è desta,
il toro muglia, è sorta già l'aurora.
È nato il sole, il sole è alto, è l'ora:
è sempre l'ora. ORA, fratelli, E SEMPRE.»
ORA - gridaron tutti a un tratto - E SEMPRE!
Sobbalzò il fulvo, le pupille fisse...
III
Quegli guardò la fulva giuba, e disse:
«È sorto un uomo, un messo da Dio venne.
O tu dal bosco, prendi la bipenne!
Lascia annerire il tuo carbon sotterra.
Lascia la zappa, e il grande albero atterra,
lascia la pala, e taglia doga e trave.
Esci dalla foresta e fa la nave
per questa Italia e per la sua fortuna:
giovine Italia, grande, libera, una.
Tu lascia squadre e marre: ecco la spada.
Il caval nero pasce erba e rugiada
nel cimitero, il lenzuol morto indosso.
Móntavi ancora su, monaco rosso!
Galoppa ancora, cavalier templare!
In questa Terra Santa fa volare
sul saio rosso il gran bianco mantello!
Popolo, avanti! teco è Dio!» - Fratello! -
Il giovin fulvo si lanciò, s'apprese
alla sua mano, l'abbracciò, gli chiese:
- Chi è? - Tu? - Garibaldi. - Egli, Mazzini.
GARIBALDI IN CERCA DI MAZZINI
ORA E SEMPRE
I
Mazzini e i suoi dispersi nello stesso
luogo sedeano attorno alla parete.
Giovanni al seno gli piangea sommesso.
Ei disse: - Il pianto è l'acqua per la sete
del cuore. Anela per il suo deserto
a quella fonte l'anima. Piangete.
Iacopo! Era il mio primo, era il più certo,
era il più mite. Amava l'ombra. Volle
essere, ma dall'odor suo, scoperto.
Parea quei gigli fatti di corolle
né d'altro; d'una purità di cima,
ma nati a valle, nati a piè del colle:
chino anche lui non come fior che opprima
la pioggia, ma che il solo essere fiore
pieghi sul tenue gambo, da sé, prima.
Oh! egli aveva la mestizia al cuore
di quei ch'è solo, perché primo, in via,
e vede appena Chanaà n, che muore.
Ma ei sapeva, avea già detto: «Sia!
anche s'è morto l'albero onde nacque,
il seme è buono; ed uno gittò via
il pane, ed altri lo trovò su l'acque.» -
II
Gli esuli intorno singultian pian piano.
- Male ei gittò, ciò ch'è di Dio, la vita?
Fu, come il bimbo ch'ha il suo pane in mano:
il pane e il pomo che sua madre, uscita,
diede al fanciullo che mangiasse intanto:
ed altri l'urta e fa ch'apra le dita.
O no, ma disse: «Eccomi afflitto, affranto!
Per non peccare contro i miei fratelli,
contro te pecco, che perdoni, o Santo!»
Ora il suo sangue grida ne' lavelli
là della Torre. Un grido che si vede.
O re, più brilla, quanto più cancelli!
Vendetta! Ogni uomo è diventato erede,
Iacopo, tuo. L'Italia oggi t'adora,
martire primo d'una nuova fede.
Furon le dita rosee d'un'aurora,
con che scrivesti nella cella nera!
La nuova Italia cominciò d'allora.
E cominciò d'allora la nuova Èra
che rivedrà nell'avvenir profondo,
con terra e cielo nella sua bandiera,
Roma al timone, placida, del mondo. -
III
Gli esuli lontanare vedean quella
gran nave. Egli, il profeta, stupì come
sbocciasse a lui dall'anima una stella.
La stella illuminava le tre Rome;
auree cupole, archi trionfali
e una città che non avea che il nome.
Erano un atrio, i ruderi immortali,
di questa. Antica su l'antica croce
quetava l'aquila il rombar dell'ali...
Egli guardava... Ed esclamò con voce
alta e profonda: - O gioventù latina,
se non è il fonte, non sarà la foce.
Dio t'urla in cuore, o gioventù: Cammina!
Ascendi il monte! Sosta sulla vetta!
Snuda la spada e butta la guaina!
O gioia mattinale! uno in vedetta
sul picco, mentre dormono i trecento
sopra le foglie morte, nella stretta
dei monti, e in mezzo la bandiera al vento
sibila e schiocca, ed egli ode lontane
della città grida e rintocchi, attento...
«All'armi! all'armi!» Tra il tumulto immane
passi la rossa schiera con la romba
della sua corsa, e sopra le campane
squilli secura lieta alta, la tromba. -
IV
Tre colpi all'uscio. Era un fratello. Avanti!
Un uom di mare entrò, larga la fronte,
bronzato, con fulvi capelli ondanti.
Stette sereno come ancor sul ponte
della sua nave, fisso alla Polare.
ORA! - sembrò parlasse il mare al monte
con un'ondata. - E SEMPRE - il monte al mare
immobilmente. - Giunsi or ora in porto...
da Taganrok... Voi siete a comandare
qui sul ponte, io... vengo a supplire un morto -
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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MAZZINI
LA TEMPESTA DEL DUBBIO
I
Mazzini, già , come Gesù trentenne,
era già solo. Un'ombra si diffuse
su la solinga anima, e il dubbio venne.
Tutto crollato: le speranze, morte,
e morti i cuori. S'erano richiuse
per sempre - con un lento addio - le porte.
II
Con ferro suo la palma volta in mano
cadea l'Italia! Ora non più risveglio.
Tutto era stato, ed ora e sempre, in vano!
Solo - e dal volgo si credea ch'esangue,
cupo, mandasse i fidi, come il veglio
della montagna, ebbri d'haschisch, al sangue.
III
Spenta la fede anche ne' suoi più cari;
chi lontanò crollando il capo stanco,
chi lo seguiva con sorrisi amari.
Fuggiano, al verno, come morte foglie:
scendea dal ciel, non loro, il lenzuol bianco
ch'eternamente a gli occhi altrui ci toglie.
IV
Sol gli restava la sua madre, in pianto,
pianto lontano sul deserto mare,
cui esso, o madre! era dolor soltanto.
O madre! o madre! o alte mute grida
vedendo in sogno il figlio suo passare
scalzo, col velo nero - un parricida! -
V
O le altre madri ai piedi della croce
pregare udiva ed accusare a Dio
lui, col materno pianto nella voce.
E le vedeva in fila uscir dal chiostro
per dire a lei: - Che piangi? Il pianto è mio:
non voglio. Il pianto è nostro! Il pianto è nostro!
VI
È di noi madri, che i figliuoli appena
presti al...
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