POEMI DEL RISORGIMENTO, di Giovanni Pascoli - pagina 1
POEMI DEL RISORGIMENTO.
INNO A ROMA.
INNO A TORINO [1910-1912]
di Giovanni Pascoli
NOTA PRELIMINARE
Avrei voluto tenere esclusivamente per me questo inizio di lavoro, e seguitare da sola su esso il mio segreto pianto.
Ma ci sono dei buoni amici che aspettano, e aspettano perché avevano avuto qualche promessa.
Ho risoluto perciò di pubblicare quello che c'è, come è, con la coscienza di compiere un dovere, di pagare, direi quasi, un debito d'onore contratto da Lui.
Dopo aver molto cercato e studiato sui manoscritti non ho potuto mettere insieme se non questi pochi poemi, alcuni incompiuti e alcuni compiuti sì, ma non limati.
Le carte sono piene di appunti e di orditure.
Per Lui era questione di un po' di tempo, libero e tranquillo.
Ma, quando sperava arrivato il momento, quella mano, pronta e sicura, s'è fermata.
Tutti quei foglietti, ignari di ciò che è accaduto, sembrano in attesa! Qui c'è il programma per il tal mese, più là per la settimana, spesso spesso per il giorno.
Programmi che quasi mai gli era dato di eseguire.
Perché...
ma è inutile che ora io mi metta a enumerare i perché.
Solo chi avesse tenuto un po' dietro a ciò che produceva e che appariva agli occhi di tutti, e agli innumerevoli fuor d'opera a cui lo costringeva la sua grande condiscendenza, potrebbe farsi un concetto di quanto vorrei dire e non dico.
Il tempo non era suo: il no non sapeva dirlo.
Mi proverò a dare in poche parole un'idea de' suoi intendimenti intorno a questo lavoro, a cui attendeva con amore e fede, e che doveva essere, come Egli diceva, il suo supremo tributo alla Patria, e agli Eroi e ai Martiri del nostro Risorgimento.
Proverò.
In tre volumi Egli avrebbe costretta l'opera sua.
Nel primo si doveva arrivare fino al '48: dall'ultimo imperatore latino ai Bandiera.
Mancano, quindi, secondo le sue note, Il tricolore, I templari, altri Poemi mazziniani, i poemi su Carlo Alberto, quasi tutto il ciclo di Garibaldi in America, che doveva conchiudersi col ritorno di lui in Italia con Anita e il piccolo Menotti; infine i più vibranti di passione: Nello Spielberg e I fratelli Bandiera.
Via via, in mezzo ai poemi epici di vari metri, dovevano attraversare i volumi, con volo lucido e rapido, dei brevi poemetti lirici sul genere di Garibaldi vecchio a Caprera.
Credo, anzi, che questo, già pronto, mentre il suo posto non l'avrebbe trovato se non alla fine dell'opera, sia stato eseguito quasi per prova o per modello.
Terminato l'Inno a Torino, Egli intendeva subito proseguire ordinatamente.
Aveva già avuti in bozze e corretti una prima volta i primi due poemi: Napoleone e Il Re dei carbonari.
Stava eseguendo il terzo.
22 marzo 1912 - Il tricolore!
e nient'altro! Lì presso in una cartellina si leggevano i quattro primi versi e gli appunti.
Il giorno dopo non si levò! Non credo che possa dispiacere di conoscere qualcuno di quei palpiti che gli vibravano in cuore anche in mezzo alle sue crudeli sofferenze.
IL TRICOLORE
Nella città che è in mezzo a quattro strade
s'odono molti plaustri cigolare.
Mugliano bovi, squillano campane,
brillano spade, luccicano lancie.
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«Ma non sono le campane e i bovi dei carrocci...
Un nuovo giuramento è stretto.
Non a Pontida, non nei boschi...
Nessun connubio con l'imperatore.
Nessun esercito rimarrà o verrà in Italia...
La lega, che sta nella sua città di paglia tra la Bormida e il Tanaro, ha inalzata la sua croce...
Dove sei imperatore dalla Barba Rossa? Ecco la nuova bandiera...
Salutatela, o trombe, o lancie, o bovi, o plaustri! Ella ha i colori nuovi...
O tricolore d'Italia! sorto tra il nembo, tra i primi tuoni di primavera, in attesa del re, del primo re d'Italia!...
Non ha più i colori del fuoco spento, del fuoco vivo, del fuoco operante...
È un'altra.
O pianura del Po! o neve dell'Alpi! o rosso dei vulcani! o veste di Beatrice! Per te quanto si morrà! quanti saranno avvolti nelle tue pieghe! Quanti ti avranno sul loro feretro!...
In quante battaglie...
in quante tempeste!...
Non lasciatevela prendere...
stracciatela piuttosto...
ponetevela sul petto, inabissatevi con lei nei gorghi del mare! - O sacro vessillo! ora deve venire il tuo re.
Avanti contro gli stranieri! contro i crocifissori di Prometeo.
- O città, nata nell'Aprile, come Roma! asilo di esuli, come Roma! o nata di profughi, come Roma! o subito in guerra, come Roma! Non è dei boschi di carbone la bandiera che tu inalzi, essa viene da più profonde lontananze...»
E, così preparato, quanto ce n'è del lavoro! «Possibile, soleva dire, che non debba aver mai un po' d'agio per dedicarmi alla poesia? Ne sono così pieno! ho ancora tutto da fare!» Non tutto, ma tanto sì.
E questo tanto doveva dar vita a' suoi sogni d'artista, confortare le grandi ombre, incitare i giovani, e mostrare all'Italia la sua devozione.
Ho voluto accogliere in questo volume, sebbene non appartenga ai Poemi del Risorgimento, anche la versione italiana dell'Inno a Roma e dell'Inno a Torino, perché l'uno e l'altro furono da Lui composti in latino e poi tradotti in italiano negli ultimi mesi di sua vita per onorare e glorificare la sua diletta Italia.
I volumi che avrebbero seguito questo primo (rimasto pur troppo così incompleto) non è difficile imaginare che cosa dovevano contenere.
Dal '48 in poi ce n'è della poesia da estrarre dagli avvenimenti della nostra patria! Egli l'aveva vista tutta e si riprometteva di farla vedere anche a noi.
Ed ora? Ora a me non resta che concludere con le parole ch'Egli prepose al principio del primo poema, e associare al suo nome quello del padre suo, ch'Egli voleva tener vivo nei cuori perché vittima invendicata.
«X agosto 191O - Poemi del Risorgimento.
Si comincia il poema a onore e gloria feconda d'Italia, di quell'Italia ch'Egli amò così ardentemente nei "tempi solenni" e che non diede pure uno sguardo di pietà a lui insanguinato e morto, né ai figli di lui, soli e mendichi.
Ebbene?»
Perché siano chiare queste parole occorre leggere la seguente lettera:
Repubblica Romana
COMANDO CIVICO DEL COMUNE DI S.
MAURO Nr- 34
Cittadino Governatore
A pronto riscontro del vostro dispaccio d'oggi N.
573, col quale mi date comunicazione di altro dispaccio del Cittadino Preside risguardante l'arruolamento di quel maggior numero di militi di questa Compagnia Nazionale che volonterosi volessero disporsi a marciare all'occorrenza; vi significo che io porrò in opera ogni premura e fatica per giungere allo scopo; ma è duopo ch'io faccia alcune riflessioni che desidero siano a cognizione del lodato Preside.
E primamente vi faccio conoscere, che essendo questa compagnia composta nella maggior parte di campagnuoli, sarà difficile poterli persuadere ad intraprendere una marcia; d'altronde essendo questo paese in mezzo alla campagna, la quale, come è ben noto, è assai avversa all'attuale governo per le perfide insinuazioni di malevoli; è necessario sopratutto l'attività della Guardia Nazionale, massime in questi tempi solenni, onde impedire reazioni e disordini, che purtroppo potrebbero suscitarsi.
Il numero dei militi, su cui possa contarsi per impedire e reprimere una reazione, si riduce a poco, e quindi di questi non sarebbe prudenza a privarsene; poiché lasciando il paese a difesa degli altri, non sarebbe difficile si mescolassero coi reazionari, ed ai medesimi cedessero le armi come amici.
Io, ripeto, farò dal canto mio quanto mi sarà possibile, ed assicurate il Preside di tutta la mia energia.
Salute e fratellanza.
S.
Mauro, 3 maggio 1849 Il Capitano Comandante
Ruggero Pascoli
Perdonino i buoni amici e tutti i buoni, che leggeranno, l'insufficienza mia.
E sopra tutti mi perdoni il dolce spirito, che mi è sempre accanto, se non so corrispondere degnamente alla sua fiducia.
Ci metto tutta la mia buona volontà.
Maria Pascoli
Castelvecchio, 30 aprile I913.
I
Ora egli è solo, tra le lontane acque,
sul borro solo.
A che vegliate in armi
guardando lui dal Bosco della morte?
Veglia a' suoi piè l'Oceano, lo guarda
l'Oceano insonne che notturno canta
per non dormire, ed asseconda l'onde,
alterne, eterne.
E l'uomo solo ascolta
il canto e quindi il respirare uguale
del suo custode steso sulla soglia
rotta, e ne sente l'umido alito acre,
dalla invisibile isola, fumosa
d'accavallate nubi oscure.
Era per lui quell'isola da quando.
spuntò sull'ampio ondeggiamento azzurro,
unica.
E il grande Spirito che ancora
irrequieto errava là, sulle acque,
vi s'avventò, stette anelando in guato
cinto di nubi, tra le bronzee rupi.
Esso attendeva l'Unico: chi fosse
per dire, nate non trovando ancora
le sue parole, - Io, come Dio, sono io -,
l'uomo promesso da che, dopo un grande
scheggiar di selci, uscì dall'antro il bruto
brandendo la sua prima scure.
Italia a lui fu madre.
Essa lo fece
del suo granito dentro i suoi vulcani.
Per tre millenni lo portò nel grembo.
L'anime in una ella fondea dei grandi
Cesari, in una Parte le sue Parti
crudeli, il ferro degli Sforza e il ferro
dei Buonarroti, tutte l'arti e l'armi.
Poi, pieni i tempi, ben temprata al gelo
l'anima, in sella lo levò, gli pose
le dee Fortuna e Guerra alle due staffe,
gli pose il sogno, in mezzo al cuor, di Dante,
e grave gli mormorò: Va!
II
La nera Terra lo attendea, tremando
già del portento.
Ora credé vederlo
uscir col capo di sparvier da templi
invasi d'ombra e di pensose sfingi,
ora passar con mille carri d'oro
con suvvi gli archi di barbari arcieri,
ora con infiniti dromedari
rigar le solitudini sabbiose
fulve di sole, ora venir tra un muglio
di bovi immenso, qual se al mondo un solo
gran mandriano ormai parasse tutti
gli armenti e tutti gli armentari.
Non era ancora.
O forse era il divino
efebo cinto d'ellera che apparve
novello eroe con la peliade lancia,
or con la cetra or con la face in mano.
E no.
Forse il Quirite era incedente
al misurato passo dei triari,
e poi sedente sull'eburnea sella
imperïoso pacificatore.
Ma no.
Non era il re chiomato assiso
appiè dell'olmo, l'orifiamma al vento,
e giganteschi attorno con le spade
ignude i dodici suoi pari.
Ma quando uscì dall'isola selvaggia
piccolo, e parve scialbo e glabro in sella;
con gli occhi vuoti, vitrei, coi lunghi
capelli lisci, simile a nessuno;
ed ella udì che ad ogni sosta ansante
del suo cavallo rimbombava il tuono:
- Sei tu - gridò la nera Terra - alfine!
Dimmi il tuo nome! - Ed ella intese il nome
dove la fiera si mesceva al dio,
donde sonava l'inno dell'eterna
cetra del cielo puro ed il ruggito
della deserta immensità.
III
Ora egli è avvinto all'isola lontana
che sola spunta di tra le grandi acque;
che, sola tra la serenità calma,
è di perpetue nuvole involuta;
come se imperversasse una tempesta
là, vorticosa, interminabilmente;
una tempesta pallida e segreta,
incominciata all'albeggiar del mondo.
Tutte le nubi erranti per quel cielo
dagli alisei sono parate, a branchi,
là, con assidui sibili, e son chiuse
tra mura d'invarcabile aria.
Sbalzano su, rotolano le nubi,
s'urtano, vanno per fuggir dal chiuso,
calano per vanire entro i burroni,
s'alzano per oltrepassar li scogli,
strisciano a terra: invano, perché il vento
pur le riprende; e, reduci, le vane
lagrime loro versano sul caldo
suolo che fuma.
Tornano alle nubi
le loro vane lagrime, che ancora
piovono in terra.
E sempre in volta il vento
con lunghi assidui sibili minaccia
nella penombra solitaria.
È l'invisibile isola dei morti,
Né luce v'è né buio.
Una muffita
nebbia nasconde il popolo dei sogni.
Vi sono sterili alberi, curvati
come a fuggire; ma li tiene il suolo
disvincolanti.
Fuggono le navi
a vele aperte, tutte per un rombo.
L'hanno veduto.
Tra lo stridìo lieve,
come d'uccelli, delle pallide ombre,
volgendo gli occhi in giro, il suo fantasma,
nel mezzo, nudo l'arco, sta.
...
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