[Pagina precedente]...la vita li sappiamo in grotte,
sotterra, come bestie, alta catena.
È di noi madri, umili ignare oscure,
cui tolse i nati, al fine della notte,
su la dolce alba, piombo corda scure. -
VII
Ed ei pensava: - E perché mai v'ho tolti:
figli, alle madri? Era di voi più morta,
o per lei morti, o dentro lei sepolti,
l'Italia. Dunque... Oh! per un mio delirio!
Fra terra e cielo io la vedea risorta
con su la chioma il tremolìo di Sirio! -
VIII
E nella notte insonne, lunga, vuota,
che aveva del giorno anche obbliato il nome,
sbalzava al suono d'una voce nota,
la voce, d'uno che passava, d'uno
che si fermava, lo chiamava - Come?...
Iacopo! - S'affacciava, ansio... Nessuno!
IX
Su tre lunghi anni avea soffiato un breve
attimo - Vive! Ha franto i ceppi! È meco! -
Nessuno là nel grande albor di neve.
Oh! dal sepolcro... egli credea che fosse
bianco vanito nel biancor, senz'eco.
C'erano sulla neve goccie rosse...
X
Era vanito nella forra brulla
dicendo, Vieni, in suo passaggio, e il vento
vaniva anch'esso per la via del nulla;
vaniva là con lunghe voci, e gemiti
e fremiti, urla d'ira e di spavento
e di minaccia e di rampogna - Eh? Tremi! -
XI
Oh! avesse accanto un'anima serena,
un cuore amico, per placar con esso
quei morti in ira, quelle madri in pena...
per non vedere l'altro figlio d'Eva,
il reo, l'uguale, l'altro sé, sé stesso,
cui malediva, sopra cui piangeva...
XII
E sì, qualcuno era pur giunto... Forse
quei che move all'intorno un nembo d'aria
salsa di mare, il giovane dell'Orse,
quel timoniere d'anime tranquillo
avvezzo ai gridi della procellaria,
Borel! ch'ha nella voce alta lo squillo.
XIII
Né lui, né altri. Era Borel lontano
tutto l'Oceano e le sue cento aurore.
A Cabo Frio portava ferro e grano.
La sua sumaca era agghindata a festa.
Ma il cabottiere si mangiava il cuore,
ed anelava al largo e alla tempesta.
XIV
Egli era stanco d'udir sempre il rombo
della risacca contro la scogliera,
e dove giungea l'ombra di Colombo,
di bordeggiar con una garapera.
Borel, un giorno, in mare mutò rombo;
virò di bordo, issò nuova bandiera.
XV
Dodici cacciatori di jaguari,
re delle Pampe, mulattier dell'Ande,
eran con lui, sbuffanti dalle nari
il tedio di quel navigare a rande.
Ei disse: - Siate, d'ora in poi, corsari.
La nostra Italia, ora sarà Rio Grande.
XVI
Noi più non siamo mercatanti ignavi
che in ogni rada gettino i grippini;
noi combattiamo per pezzenti e schiavi,
siamo l'Italia, o miei lupi marini.
Avanti! un guscio contro cento navi!
contro un impero, il nome tuo, Mazzini!
XVII
Mazzini un giorno si destò tranquillo,
sereno. Ognuno, non il suo destino,
ma porta dentro il cuore il suo vessillo.
Avanti! L'uomo, alta la fronte o bassa,
non è, lieto o piangente, un pellegrino:
ma è un celeste messagger che passa.
XVIII
Avanti! Tutti hanno il lor fine al mondo.
Tutti hanno un posto loro nel gran mare
dell'essere, e sia pur l'alga del fondo!
Avanti! Dice Dio: Quando son io
che mando, andate, senza mai sostare
senza mai riposare. - E dove, o Dio? -
Tu che devi morire, uomo, a morire!
Tu che devi soffrire, uomo, a soffrire!
GARIBALDI IN AMERICA
I
VIAGGIO A ESCOTÈRO
Torna al Rio Grande col suo pro' compagno,
torna il Filibustiere, ora a cavallo.
Prese il cavallo nella mandra al laccio,
frenò, sellò: lo domerà stradando.
Galoppa dietro il cavalier selvaggio
tutto con un cupo tumulto il branco:
falbe giumente col puledro accanto,
stalloni in corsa inalberati al salto.
Ed egli, quando il suo cavallo è stanco,
getta le frombe sibilanti a un altro;
lo frena e sella e monta su fischiando.
Il vento in mare gl'insegnò il suo canto.
I mustang, le giumente e le puledre,
liberi seguono il Filibustiere.
Sul feltro suo beccheggiano due penne,
lunga la chioma al vento si distende.
Ma queta il passo ove la steppa è verde,
perché i cavalli pascano le alte erbe,
perché bevano chiaro le giumente
a qualche stagno ombrato di ninfee.
Sembra un pastore. E indugia perché vede
i puledrini ancora alle mammelle.
L'armento nell'oscurità s'aduna,
fa un grande cerchio in mezzo alla pianura.
Le teste l'una all'altra hanno congiunte:
sognano insieme orecchio a orecchio, il puma,
l'uomo, il jaguar: l'un dopo l'altro, sotto
l'ombra stellata, rigna e scalcia al sogno.
E l'uomo giace sulla terra nuda
e guarda in cielo e naviga lassù.
Passa tra grigie nebulose ed erra
tra gruppi ignoti. Avvista Altair e Vega
che riconosce. E sempre più s'inciela.
Da stelle a stelle, è sopra la sua terra.
Dal cielo azzurro grida Italia! Italia!
E sbalza in piedi ad un nitrito. È l'alba.
Per boschi e campi passa il cavaliere
tra uno svolar di code e di criniere,
e groppe mosse su e giù come onde,
e ringhi acuti ed ansie fremebonde,
ed urli e calci al vento e salti a sghembo,
e il subito ampio rotolar d'un nembo.
II
A PIRATINIM - IL CAPO
E in nove giorni giungono al silvestre
Piratinim. Il popolo ribelle
avea sui muli e in carri la sua legge
portata là coi fasci delle verghe.
LÃ , Bento, un vecchio alto e salcigno siede
in terra, in mezzo alle araucarie nere.
- Ospite, siedi. Hai molto pel Rio Grande
fatto e patito, in terra e in mare. Grazie.
Or verrai meco, ch'io mi vuo' condurre
in armi al passo delle due Lagune. -
Cavalli a un tronco avvinti per la briglia,
pascono intanto melega e gramigna.
Ed arde un fuoco lì da parte e brilla;
un uomo, un Combo, lento su vi gira
l'arrosto pingue: cola, sfrigge il sangue
e un grasso odore nell'aria si spande.
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GARIBALDI VECCHIO A CAPRERA
AL FOCOLARE
Garibaldi siede al focolare,
siede avanti fuoco di lentischio.
A Caprera cupo batte il mare,
il libeccio l'empie del suo fischio.
Egli vecchio dalla barba bianca
cova il fuoco, cova il suo pensiero;
e si trova sur una barranca,
la gran chioma scossa dal pampero.
Vede un mare verde là che sogna
d'esser terra né flottare più.
L'aria porta beli di vigogna
alti e bassi fischi di gnandù...
Oh! le pampe dell'immenso Plata
verdi sotto il cielo senza nubi,
una solitudine ondulata
sparsa d'isolette di carrubi,
sola terra degna che vi scenda
il marino che patì fortuna;
egli d'una vela fa la tenda,
e vi sogna sotto l'alta luna.
Ecco un tuono, un calpestìo di zampe
che s'appressa sempre sempre più...
Va sul mare verde delle pampe
lo stallone e la sua gioventù.
Come è bello il libero stallone
con la coda e la criniera ai venti!
Mai ne' fianchi non ebbe lo sprone
né il ribrezzo del ferro tra i denti.
Pura è l'unghia di fimo di stalle,
brilla al sole la lucida groppa.
E' raccoglie le sparse cavalle,
annitrisce al pampero, e galoppa.
Va, galoppa! Va libero e fiero
della tua solitudine tu!
più veloce sei tu del pampero,
più del tempo... del tempo che fu...
INNO A ROMA
Gl'Itali non mutato dal tempo di Romolo il nome,
Roma, ti serbano: Roma era ne' secoli, ed è.
IL NOME MISTERIOSO
O - ma qual nome ora, de' tuoi tre nomi,
dirà l'Italia? Il nome arcano è tempo
che si riveli, poi ch'è il tempo sacro.
Risuoni il nome che nessun profano
sapea qual fosse, e solo nei misteri
segretamente s'inalzò tra gl'inni:
mentre sull'ombra attonita una strana
alba appariva, un miro sole, e i cavi
cembali intorno si scotean bombendo -
Amor! oh! l'invincibile in battaglia!
oh! tu che alberghi nei tuguri agresti!
oh! tu che corri l'infinito mare!
Vennero in prima schiere a te, per l'onde,
d'esuli armati, ed una stella d'oro
reggea le navi incerte del cammino;
a te noi genti italiche la stella
d'allora, tra le fiamme e tra le morti,
col raggio addusse che giammai non muta.
IL PRIMO EROE
Chi per te primo, immensamente amata,
cercò la morte? Fu nella penombra
dei tempi, grande, lungo il Tebro, un pianto.
L'eroe Pallante era caduto. Offerse
l'Ã lbatro il bianco de' suoi fiori, il rosso
delle sue bacche e le immortali fronde.
Gli fu tessuto il letto di quei rami
de' tre colori, e furono compagni
mille al fanciullo nel ritorno a casa.
E fisi in quella bara tricolore
i mille eroi con le possenti mani
premean le spade; ed era in esse il fato.
Oh! ma che pianto fu così tornando
al vecchio padre! Era suo padre un vecchio
povero re, dalla silvestra reggia.
Fauno, il suo nome; ed abitava i sassi
del Palatino, tra le antiche selve
misteriose. E tu non eri, o Roma.
Anzi per il rupestre Campidoglio
eran macerie già muscose, e bianchi
ruderi sparsi si vedean tra i folti
cespugli del Gianicolo: rovine
di due città vinte dal tempo; ed ora
quelle rovine trite e sonnolente
empiva a volte del suo rauco augurio
lo stuol de' corvi. E Fauno avea per reggia
una capanna piccola, coperta
di felci e stoppia. E guardie sulla soglia
avea due cani, che correndo innanzi
bandìan, lieti abbaiando, il suo ritorno.
Al re non tromba dividea la notte
buia in vigilie: gli diceva - È l'alba -
di sul colmigno il passero, e la rondine,
anche più presso, gliel garrìa dal trave.
E quindi il tempo portò via quel Fauno
e il suo dolore, e la caduca reggia;
e sul Palazio ignare le giovenche
pascevano, e la valle posta al piede
si mescolava d'un belar d'agnelli.
E se il pastore aveva udito un qualche
urlo di lupi, egli, racchiuso il gregge
in uno speco, s'addormìa tranquillo.
Veniva allora, per le tenebre, una
lupa, e fiutava il chiuso lupercale.
E Fauno, il buono, nelle selve ombrose
cantava il canto delle foglie ai venti,
invisibile. E sulle antiche quercie
picchierellando senza fine il picchio
sacro contava gli anni tanti, gli anni
tardi a venne.
LUPI E AQUILE
Aprile, che s'apriva
il fiore, venne, e il Tevere più gonfio
portava l'onde con un grande rombo:
e d'ogni parte sulle piane e i colli
arsero fuochi nella notte sacra.
Tutto splendé. Fiamme correva il fiume.
Però che, intorno, alle selvaggie stanze
fuoco i pastori davano, mutando
già le capanne, d'erbe e frasche, in case.
E poi saltando sulle fiamme, un canto
diceano, sacro: «Fuoco puro, Fuoco
grande, buon Fuoco, che ammollisci e domi,
portati via queste capanne, portati
via questi nidi! Noi non siamo uccelli,
lupi noi siamo. Addio, cose d'un'ora!
Siamo per fare una città ch'eterna
duri, ed un proprio focolare, in mezzo,
sarà per te, che mai non dormi, o Fuoco!»
Ed una torma giovanil più fiera
diceva: «Oh! bello andare al vento! È bella
l'ora che fugge, e sempre un altro il sole!
La terra sempre nuova sotto quelle
antiche stelle! Voi da voi ponete
tra il mondo e voi pur quella fossa ignava:
sia senza fine a noi la via, la terra
senza confine! Lupi, sì; ma ora...
dateci l'ale, o aquile!»
L'ARATORE
Uno arava.
Egli segnava, sull'aurora, un solco
quadrato intorno al colle Palatino.
Sentian le zolle il primo aratro allora.
E sotto il giogo era una vacca bianca
e un rosso toro, che di quando in quando
il rauco fiato si gemean sui collo,
molto anelando. E la città futura
stava e mirava, coi vincastri in mano
e con indosso pelli irte di capre.
Ma gli altri fieri, a chi piacea l'andare
col gregge errante, e l'erba che più bella
rinasce sempre sotto il dente al gregge,
ridean dei semi che dovean sotterra
marcire al buio. E gli uni e gli altri torvi
aveano gli occhi, e l'ansito ondeggiante.
Stava il fratello, qua, del Capo, anch'esso,
con lui, lattonzo della lupa; ed ora
schifiva, lui villano, egli pastore.
Taciti i buoi tiravano nel cupo
tacer di tutti; ché fuggiano il grande
bifolco orrendo ch'era loro a tergo.
E qui, con l'ale largamente aperte
al sole, apparve un'aquila, che ferma
mirava a lungo qual lavoro in terra.
Poi, fisa sempre, s'affondò nel cielo.
LE VOCI DEL FIUME E DEL MARE
Il pazïente aratro col suo coltro,
allora, più splendente della spada,
prendeva a forza, con ferite a fondo,
la terra; e il Tebro che lambiva il colle
con l'acque torbe, vie più alto un suono
mettea chiamando l'anima dei forti:
«Oh! voi, che aprite con un rostro adunco
la terra, omai la prora che toglieste
alla mia nave, a lei rendete, o figli;
ed ora in me, con quella ch'è il mio coltro,
segnate un lungo solco sino al mare,
sino al gran mare, azzurro e piano; e ...
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