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chiare di dei, di semidei, le traccie.
Rossa la veste dei remigatori
divini; capo era il divino Ulisse.
E tu combatti ancora e sempre. Alfine
re dell'Italia tutta imponi al capo
il ferro e l'oro della sua corona.
La croce alfine segno di vittoria,
splendé dal cielo sulla terra verde
ch'ha neve al sommo e che nel fondo ha fuoco.
Ed a nessuno e in nulla mai secondo,
piccolo alpino re selvaggio, a Roma
stai grande, e resti eternamente a Roma.
V
Accampamento fatto a piè del monte
già dal grifagno Cesare ai futuri
figli d'Italia, o tempio dei vessilli,
o ara donde il Console gli augùri
prendeva, augusti, col nemico a fronte!
Per guerre, qui di secoli lontani,
erano poste le aquile dell'oro;
qui ripetea la bùccina i suoi squilli
brevi, che un coro ricevea canoro
di trombe e il busso dei timpani vani.
Qui sempre il suolo trito di stridenti
plaustri, qui di concordi ferree péste.
Erano le coorti e le legioni.
Qui si guardava la purpurea veste
da dar, sull'alba della pugna, ai venti.
Qui sempre avvenne di mirar le squadre
dei fluttuanti veliti e il tumulto
delle torme dai quadruplici tuoni;
qui sempre alcun triario, come sculto,
star tra' novelli: - Narra dunque, o padre! -
Perché accampato in questo accampamento
era un ultimo esercito romano.
La sua milizia era infinita e dura.
Esso tra il monte s'attendava e il piano,
fedele ad un antico giuramento.
Scórsero gli anni e i secoli. Ed armato
esso aspettava di ritornar, quando
fosse chiamato, sotto quelle mura.
Aspettò qui per secoli, il comando;
ma Roma ve l'avea dimenticato.
Bianchi frattanto, sotto il muschio e i pruni,
marmi e colonne e lapidi, grandi orme
della gran madre, archi e sepolcri infranti,
vedeano intorno, e dure austere forme,
stele di primipili e di tribuni.
Vedean già rotti ancor salire al monte
archi che l'acque conduceano al basso.
Parean lontane file di giganti,
d'ardui giganti, i quali passo passo
salìan con l'urne, un dopo l'altro, al fonte.
E custodìano, nel domar la rude
terra, l'antica arte e l'antico onore
dei forti aratri e delle industri falci.
Ondeggia il campo di frumento in fiore,
di verdi steli ondeggia la palude!
Verdi, i bei campi, verdi, le canore
acque, ma più sorridono i giocondi
clivi con l'ampio serpeggiar dei tralci,
donde i purpurei calici ed i biondi,
che dà nno gioia o dà nno forza al cuore.
L'un vino, austero per gli austeri, ed abbia
lode dai forti. L'altro poi s'effonde
aureo nell'ampio calice iridato
col tremolante mormorio dell'onde
cui, vasta, succhia, nel tornar, la sabbia.
Ma l'uno e l'altro, è bello, tra i nepoti
e i dolci amici, nella patria terra,
bere in convito parco, ove l'armato
deposte l'armi narri della guerra
e sciolga, salvo e di sé pago, i voti.
VI
Salve, o città forte di vallo e fosso!
salve, o bivacco italico di scelte
anime! o campo che non fu mai mosso!
o insegne mai dal loro suolo svelte!
Te la dea Roma disegnò quadrata,
qual essa fu, premendo il solco a fondo,
col grande aratro dalla prua ferrata,
con cui fendé fecondatrice il mondo.
Come legione ferrea che si schiera,
con pari file, dritte e quadre, invade
il vasto campo; così tu, guerriera,
con le tue case e con le tue contrade.
In te milizia è tutto; anche l'austere
voci e parole e l'anime dei tuoi;
che, se squilli la tromba del dovere,
corrono a morte, umili ed alti eroi.
Né, pur sempre crescendo in ogni parte,
oblìo ti prese del mensor di Roma,
o fida al primo cardine, ed all'arte,
ubbidïente, dell'antica groma.
Ma le diritte nuove strade intorno
son or tenute da coorti nuove,
e un fragor d'armi nuovo, e notte e giorno,
l'immenso accampamento empie e sommuove.
Sono telai dalle infinite spole,
dagli infiniti pettini sonanti;
sono gran magli che sulla gran mole
del rosso ferro piombano incessanti.
Esce il vapor con fischi di tempesta.
Ogni metallo intenerisce e strugge.
Morsa da mille denti ogni foresta
si fende e scinde, e intanto freme e fugge.
Fiumi lontani che, da un alto balzo,
a valle giù precipitano bianchi
di schiuma, un uom divino, nel rimbalzo
loro, li prese e li serrò nei fianchi.
Così cavalli come prima, a schiere
ubbidïenti, li guidò dall'erte
al piano, dando ai vento le criniere,
spruzzando l'acqua dalle froge aperte.
Mentre là stanno tra ghiacciai, tra foci
crine, lontani dal rumor del volgo;
li chiama un cenno, un lieve urto, e veloci
scendono più del solco della folgore...
ove con morsi e redini li frena
l'artiere, o caccia con la sferza al segno;
l'artier che intento a un canto di sirena
doma, con loro, il ferro, il marmo, il legno.
Non solo. I chicchi ai bimbi e' foggia, e, come
pegni d'amor, già prima li accarezza;
ciò che ti fa non nota sol per nome,
ma dolce ancora d'intima dolcezza,
ad ogni madre, o città buona, o pia
madre su tutte, che con dolce affetto
la prole tua, per tanta ch'ella sia,
tutta la stringi e te la scaldi al petto.
A lei prepari i bei giardini in fiore,
le scuole ornate, l'agile palestra:
così ti muti, non mutando amore,
da dolce madre, in dolce e pia maestra.
O Iulia Augusta armipotente! In pace,
non sembri un campo cinto d'armi attorno;
un nido sembri, un gran nido loquace
di mille cuori salutanti il giorno;
schiere bensì, ma parvole, vestite
di bianco e rosa, altre e le stesse ogni anno:
né paga tu di tante proprie vite,
altre ne cerchi che pur me saranno.
O Grande Madre, hai del tuo grande cuore
dato ai fanciulli, dato alle fanciulle,
o sotto volte splendide e sonore,
o sotto travi di capanne brulle.
A tutti, a tutte! Sia dolore o gioia
la vita loro, spremi a lor quel pianto
che fa non che l'un cresca e l'altra muoia:
fa pia la gioia ed il dolor fa santo.
Simili quindi, ormai stretti ad un patto,
ad una mensa siedono imbandita
del pane stesso. O festa del riscatto
sul limitar del tempio e della vita!
O sacrifizio onde ogni dì t'elevi,
Amor, Pietà , Pace albeggiante, a volo!
O fiori umani, tremoli di lievi
petali, o fiori che ne fate un solo!
Viene scorrendo sulle penne, appena
battute, viene, lievemente anelo,
lo stormo e un inno per la via serena
canta, che pare un astro nuovo in cielo...
VII
E voi cantate - ché la madre Italia
non altre voci ode al cuor suo più care -
cantate dunque: Italia! Italia! Italia!
Gracili voci: ma da queste pare
balzar l'eco di quelle dei grandi avi:
marcie, comandi, cariche, fanfare.
Dite, o fanciulli e vergini soavi,
l'Italia ch'ora è su lontane sponde:
la Patria: itale tende, itale navi.
Forse il gabbier ch'esplora ciò che asconde
la notte e il flutto, in mezzo al ciel sospeso,
sopra l'oscuro murmure dell'onde;
forse il vegliante bersaglier, che, teso
l'Occhio nel buio, tra' palmizi esplora
un guizzo spento prima ancor che acceso;
alzano il capo a quel trillar d'aurora,
levano gli occhi all'improvvisa romba,
all'improvvisa nuvola canora.
- Era sepolta; e il nome sulla tomba
era la lode simile ad oltraggio:
ma balzò su, come ad un suon di tromba.
Balzò, sbocciò, come un fiorir di maggio.
Ecco, sublime con la spada in mano,
al mondo chiede il suo grande retaggio.
Ogni straniero ella cacciò lontano,
ogni barbarie, gli altrui mali e i suoi,
e il suo destino strinse a sé, romano. -
Per onde e sabbie i giovinetti eroi
in sentinella, dà nno il «Chi va là ?».
- Quella ch'è dietro voi, ch'è innanzi voi,
ch'è sopra voi: l'Italia, eroi, che va! -