LA SERVA AMOROSA, di Carlo Goldoni - pagina 2
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La Scena si rappresenta in Verona.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Ottavio.
OTTAVIO e PANTALONE
OTT.
Qui, qui, signor Pantalone, in questa camera parleremo con libertà.
PANT.
Son qua, dove che volè.
OTT.
Ehi, se venisse mia moglie, avvisatemi.
(verso la porta)
PANT.
Caro sior Ottavio, ve tolè una gran suggizion de sta vostra muggier.
OTT.
Per vivere in pace, mi convien fare così.
Che avete voi da comandarmi?
PANT.
Mi vegno qua per un atto de compassion.
Giersera ho visto el povero sior Florindo, vostro fio, a pianzer con tanto de lagreme, che el me cavava el cuor.
Caro sior Ottavio, un putto de quella sorte, scazzarlo de casa, farlo penar in sta maniera! Mo perché mai? Mo cossa mai alo fatto?
OTT.
In casa non ci lasciava avere unora di bene.
Sempre cerano dei litigi, cera il diavolo giorno e notte.
PANT.
Mo, con chi criàvelo? (3)
OTT.
Con tutti; ma principalmente colla signora Beatrice mia consorte: non le ha mai voluto portar rispetto.
PANT.
Sentì, sior Ottavio: cognosso appressa poco lindole de sior Florindo, e tutti dise chel xe un bon putto.
Bisogna chel mal no vegna da ello.
OTT.
Da chi dunque?
PANT.
Ah! Ste maregne (4)...
ghe ne xe poche che voggia ben ai fiastri.
OTT.
Oh! la signora Beatrice è buona, che non si può fare di più.
Basta saperla prendere pel suo buon verso, è una pasta di zucchero.
PANT.
Bisogna che la sabbia muà (5) de temperamento, perché me recordo che sior Fabrizio, bona memoria, so primo mario, che gierimo amici come fradei, el vegniva a sfogarse con mi, e el me diseva che la giera terribile, che no la lo lassava magnar un boccon in pase; e tutta Verona dise, che la lha fatto morir desperà.
OTT.
Il signor Fabrizio era un uomo collerico.
Me ne ricordo.
Voleva contradire a tutto.
La signora Beatrice, poverina, è un poco caldetta, un poco puntigliosetta; bisogna secondarla.
Io non le contradico mai, la lascio fare, la lascio dire, e fra di noi non cè mai una differenza.
PANT.
In sta maniera, credo anca mi che no ghe sarà gnente che dir.
Co (6) fe tutto a so modo, la taserà.
Ma intanto, per causa soa, sior Florindo xe cazzà fora de casa.
OTT.
Suo danno.
Le doveva portar rispetto.
PANT.
E sior Lelio, fio de quellaltro so mario, el se la gode in sta casa, e el fa da paron (7).
OTT.
È un buon ragazzo.
Di lui non mi posso dolere.
PANT.
El xe un sempio, un allocco, un papagà, pezo del vostro servitor Arlecchin.
Basta: son un galantomo, no voggio far cattivi offizi per nissun.
Solamente me sento mosso a pietà del povero sior Florindo, e me par impussibile che un omo della vostra sorte abbia sto cuor de véder a penar in sta maniera el so sangue.
OTT.
In verità dispiace anche a me.
PANT.
Mo perché no lo feu tornar in casa?
OTT.
Per ora non posso.
La signora Beatrice è ancora contro di lui sdegnata.
Si placherà a poco per volta, e spero che le cose si accomoderanno.
PANT.
Ma almanco (compatime, sior Ottavio, se intro in ti fatti vostri: lo fazzo per el vostro decoro), almanco passeghe un mantenimento onesto e discreto.
Cossa voleu chei fazza con sie scudi al mese?
OTT.
Con due paoli al giorno, dice mia moglie che può vivere, e gliene deve avanzare.
PANT.
I xe do da mantegnir: ello e la serva.
OTT.
Che bisogno ha della serva? Corallina è nata ed allevata in casa mia; si è maritata, ed è rimasta vedova in casa mia; perché ha voluto andare a star con lui? Oh, se sapeste quanto me ne dispiace! Corallina lho amata come una figliuola, ed ora ha lasciato me, per andare a star con lui.
PANT.
Anca mi ho dito qualcossa su sto proposito; e lu anca el faria de manco, ma Corallina la dise cussì che la xe nata, se pol dir, insieme co sior Florindo, che i ha magnà el medesimo latte, che la ghe vol ben come se el fusse so fradello, e che la vol star con ello, se la credesse magnar pan e agio (8).
OTT.
Ecco quello che dice la signora Beatrice; tutte due si vogliono troppo bene; sempre chiacchieravano insieme, avevano sempre dei segreti, e dicevano male di mia consorte.
Ho dovuto mandarlo via per disperazione.
PANT.
E una serva sarà più amorosa de un padre? Sior Ottavio, tiolè in casa sto putto.
OTT.
Lo prenderò.
PANT.
Quando?
OTT.
Parlerò con mia moglie, e si vedrà...
PANT.
Tornerò qua doman.
Intanto el mha dito chel ghaveria bisogno de un per de calze e de un per de scarpe.
I sie scudi che ghavè dà, el li ha magnai; el ve prega de un poco de bezzi.
OTT.
Ma io...
PANT.
Via; ghe neghereu anca questo? Un omo comodo de la vostra sorte, negherà un per de zecchini a so fio?
OTT.
Glieli darò.
PANT.
Demeli a mi, che ghei porterò.
OTT.
Ora; anderò da mia moglie.
PANT.
A cossa far?
OTT.
Ella ha le chiavi di tutto.
I due zecchini li domanderò a lei.
PANT.
Bravo! Sè un omo de garbo!
OTT.
Oh, in verità mi trovo contento.
Non penso a niente; ella fa tutto.
PANT.
Oh, quanto che averessi fatto meggio a no ve maridar.
OTT.
Obbligato.
Averei fatto meglio! Sono stato sempre avvezzo ad essere accompagnato.
Non poteva star senza moglie.
È anche assai, che la signora Beatrice mi abbia preso.
Potrebbessere mia figliuola.
E in verità credetemi, mi vuol bene.
Se vi potessi dir tutto...
Ah Pantalone mio, fareste meglio a maritarvi anche voi.
PANT.
Mi ghho una putta da maridar; e i pari che ghha giudizio, co i resta vedui e che i ghha dei fioi, no i se ha da tornar a maridar.
SCENA SECONDA
BEATRICE e detti.
BEAT.
Eh, che non cè bisogno dambasciata.
(verso la porta)
PANT.
Servitor umilissimo.
BEAT.
Serva sua.
Oh guardate! Quel caro staffiere non voleva che io venissi, senza avvisarvi.
(ad Ottavio)
PANT.
El xe sta ello che ghe lha dito...
(a Beatrice)
OTT.
Ah? Non è vero? Non ho io detto al servitore, se vien la padrona, lasciala venire? (a Pantalone)
PANT.
Sior sì, quel che la vol.
(El ghha una paura de so muggier, chel trema).
(da sé)
BEAT.
Il signor Pantalone è venuto a favorirci.
Vuole restar servito della cioccolata?
PANT.
Grazie in verità.
Cioccolata no ghe ne bevo.
Vago allantiga.
Ogni mattina bevo la mia garba (9).
BEAT.
E il mio signor Ottavio prende la sua zuppa ogni mattina nel brodo grasso, con un torlo duovo, e si beve il suo vino di Cipro.
Mi preme conservarmelo il mio vecchietto.
OTT.
Oh cara signora Beatrice, che siate benedetta! Signor Pantalone, maritatevi.
PANT.
Se fusse seguro de trovar una bona muggier come siora Beatrice, fursi, fursi anca lo faria.
BEAT.
Oh signor Pantalone, mi fa troppo onore.
OTT.
Ah! Che dite? Che ve ne pare? Sarebbe degna dun giovinotto? E pure la signora Beatrice è di me contenta: non è vero? (a Beatrice)
BEAT.
Oh caro signor Ottavio, non vi cambierei con un re di corona.
OTT.
Sentite, signor Pantalone? Queste sono espressioni, che fanno innamorare per forza.
PANT.
Siora Beatrice, za che la xe una donna savia e prudente, e che la vol tanto ben a so mario, la fazza unazion da par suo; la procura che torna in casa sior Florindo.
BEAT.
Tornar in casa Florindo? Segli entra per una porta, io vado fuori per laltra.
OTT.
No, vita mia, non dubitate...
(a Beatrice)
PANT.
Mo cossa mai ghalo fatto?
BEAT.
Mille impertinenze.
Mille male creanze.
Mi ha perduto cento volte il rispetto.
OTT.
Sentite, non ve lo diceva io? (a Pantalone)
BEAT.
È un temerario, presontuoso, superbo.
Ha tutti i malanni addosso.
OTT.
Ah? (a Pantalone)
PANT.
El xe zovene, el xe stà avvezzo a esser carezzà...
BEAT.
Che non ho io fatto con quellasinaccio? Lho trattato più che da madre.
Gli ho fatto mille finezze.
Non è vero? (ad Ottavio)
OTT.
È verissimo.
Anzi, quasi quasi, mi parevano un poco troppe.
BEAT.
Ed egli, ingrato, mi rese male per bene.
PANT.
A sto mondo tutto se comoda.
In che consiste i so mancamenti?
BEAT.
Ecco qui suo padre.
Domandateli a lui.
PANT.
Via, mettemo in chiaro tutte ste cosse, e vedemo se ghe xe caso de giustarla.
Parlè, sior Ottavio, cossa alo fatto?
OTT.
Io, per dirvela, di certe cose procuro scordarmene per non inquietarmi.
Ne ha fatte tante, che ho dovuto cacciarlo via.
PANT.
El ghe nha fatte tante, ma co no ve le arecordè, bisogna che le sia liziere.
BEAT.
Sì, leggiere? Non vi ricordate, signor Ottavio, quando ha avuto ardire di strapazzarmi in presenza vostra?
OTT.
Sì, è vero, me ne ricordo.
PANT.
Bisogna véder...
BEAT.
Vi ricordate, quando voleva dare uno schiaffo a Lelio mio figlio? (ad Ottavio)
OTT.
Aspettate...
Forse allora quando Lelio gli ha dato quel pugno?
BEAT.
Eh, che non glielha dato, no, il pugno.
Lo minacciò solamente, ed egli ardì menargli uno schiaffo.
OTT.
E pur mi pare che il pugno glielabbia dato nella testa.
BEAT.
Come volete voi sostenere che glielabbia dato, se siete vecchio, e senza gli occhiali non ci vedete?
OTT.
È vero, signor Pantalone, ci vedo poco.
BEAT.
E quando mi ha detto che sono venuta in casa a mangiare il suo...
OTT.
Uh! lho sentito.
BEAT.
E che ha rimproverato voi per un tal matrimonio?
OTT.
Ah, briccone! Me ne ricordo.
BEAT.
Ah! che ne dite?
OTT.
Sentite, signor Pantalone, le belle cose?
BEAT.
In casa non ce lo voglio più.
OTT.
Ve lho detto, signor Pantalone, non si può.
PANT.
Ma queste le xe cosse da gnente.
BEAT.
E poi quella bricconcella di Corallina protetta da lui...
e tutti due daccordo contro di me...
Basta; è finita.
PANT.
Corallina finalmente la xe una serva.
La se pol far mandar via.
BEAT.
Quanto volete giuocare, che Florindo la sposa?
OTT.
Non crederei...
Corallina è una donna di giudizio.
BEAT.
Lasciatelo fare; se la vuole sposare, la sposi; peggio per lui; si soddisfaccia pure, ma fuori di questa casa.
PANT.
Ma, cari siori, perché no succeda sto desordene, xe ben torlo in casa.
BEAT.
In casa no certo.
Lo torno a dire: dentro colui, fuori io.
OTT.
Oh cara Beatrice mia, non dite così, che mi fate morire.
BEAT.
Se non vi volessi tanto bene, me ne sarei andata dieci volte.
OTT.
Poverina! vi compatisco.
BEAT.
Mi maraviglio di voi, signor Pantalone, che venghiate ad inquietarci.
OTT.
Caro amico, vi prego, non ne parliamo più.
(a Pantalone)
PANT.
No so cossa dir; parlo per zelo donor, e da bon amigo.
No volè? Pazienza.
Almanco mandeghe sti do zecchini.
OTT.
Oh sì, signora Beatrice, date due zecchini al signor Pantalone.
BEAT.
Per farne che?
OTT.
Florindo ha bisogno di calze, di scarpe...
BEAT.
Eh, mi maraviglio di voi.
Volete andare in rovina per vostro figlio? Sei scudi il mese sono anche troppi.
Lentrate non rendono tanto.
Vi sono da pagare gli aggravi, i debiti, i livelli.
Non cè denaro, non ce nè.
Faccia con quelli che gli si danno; ed ella, signor Pantalone, vada a impacciarsi ne fatti suoi, non faccia il dottore in casa degli altri.
PANT.
Basta cussì, patrona.
In casa soa no ghe vegnirò più; no ghe darò più incomodo; ma ghe digo che la xe uningiustizia, una barbarità.
Ghe son intrà per amicizia, per compassion, ma za che la me tratta con tanta inciviltà, pol esser che ghe la fazza véder, che ghe la fazza portar (10).
BEAT.
In che maniera?...
PANT.
No digo altro, patrona; schiavo, sior Ottavio.
Tegnive a cara la vostra zoggia.
(parte)
BEAT.
Ah vecchio maledetto...
OTT.
Zitto; non vinquietate.
BEAT.
A me questo?
OTT.
Per amor del cielo, non andate in collera.
BEAT.
Temerario!
OTT.
Signora Beatrice...
BEAT.
Lasciatemi stare.
Farmela vedere?
OTT.
Via, se mi volete bene.
BEAT.
Andate via di qui.
OTT.
Sono il vostro Ottavino.
BEAT.
Il diavolo che vi porti.
OTT.
(Pazienza! È in collera; bisogna lasciarla stare).
(si va accostando alla porta)
BEAT.
Me la pagherà.
OTT.
Beatricina.
(di lontano)
BEAT.
Chi sa cosa medita!
OTT.
Sposina.
(come sopra)
BEAT.
Se non mi lasciate stare...
(adirata)
OTT.
Zitto.
Addio.
(parte con un sospiro)
SCENA TERZA
BEATRICE sola.
BEAT.
Pantalone è capace di sollevar mio marito.
Egli è un buon pastricciano: fa tutto a modo mio, e non vorrei che me lo svolgessero, e me lo maneggiassero a loro modo.
Florindo in casa non lo voglio: mi preme fare la fortuna di Lelio; e se muore il vecchio, che Florindo non ci sia e Lelio sì, posso sperare un testamento a lui favorevole.
Pantalone si vuol impacciare ne fatti miei? Lo preverrò.
SCENA QUARTA
LELIO e la suddetta.
LEL.
Signora, il signor padre mi manda a vedere, se siete più in collera.
Cara signora madre, con chi lavete?
BEAT.
Lho con quellimpertinente di Pantalone de Bisognosi.
LEL.
Che vi ha egli fatto?
BEAT.
È venuto a parlare in favor di Florindo, e mi ha detto delle parole insolenti.
LEL.
Mi dispiace assaissimo.
BEAT.
Andate, figliuolo mio, andate a ritrovare quel vecchio.
Ditegli che abbia giudizio; e se persiste, minacciatelo bruscamente.
LEL.
Cara signora madre, mi dispiace chio non potrò riscaldarmi troppo con questo signor Pantalone.
BEAT.
Perché?
LEL.
Perché ha una bella figliuola, che mi piace infinitamente.
BEAT.
Non mancano donne.
Non vimpacciate con quella gente.
LEL.
Ha una grossa dote, suo padre è ricco, è figlia unica, e sarebbe per me il miglior negozio di questo mondo.
BEAT.
Pantalone mi ha provocata: io, provocata, confesso averlo ingiuriato: non vorrà per genero mio figliuolo.
LEL.
In quanto al signor Pantalone, mimpegno io colle mie parole, colle mie maniere, obbligarlo; e poi, se la figlia mi vuol bene, sono a cavallo.
BEAT.
Con qual fondamento potete dire chella vi voglia bene?
LEL.
Se non ne fossi sicuro, non parlerei.
BEAT.
Le avete parlato?
LEL.
Le ho parlato, ed ella ha parlato a me.
Le ho detto, ed ella ha detto a me...
etcetera.
BEAT.
Non vorrei che vingannaste.
Voi, figliuolo mio, facilmente vi lusingate.
Non sarebbe la prima volta che vi foste innamorato solo.
Colle fanciulle avete poca fortuna, e mi avete posto altre volte malamente in impegno.
LEL.
Voglio raccontarvi tutta listoria, e vedrete, signora madre, se ho fondamento di dire quello chio dico.
Sei giorni sono, passando per la Via Nuova, ho veduto una figurina, che per di dietro mi pareva qualche cosa di buono.
Corro per passarle avanti, mi volto indietro, ed ella si copre il viso collo zendale.
Dissi subito: questa è una che mi vuol dare la corda.
Mi fermo: lascio che vada innanzi, e poi corro, corro, e torno a rivoltarmi, ed ella presto si copre.
Io allora, accorgendomi desser preso di mira, mi fermai, e quando mi fu vicina, gettai un sospiro.
Indovinate? Si è messa a ridere.
Allora mi sono assicurato, che aveva qualche inclinazione per me.
Le sono andato dietro bel bello dieci o dodici passi lontano, sempre esitando fra il sì ed il no; dicendo: mi vuol bene, o non mi vuol bene? Ma sì! Me ne sono poi assicurato.
La serva si è rivoltata due volte a vedere sio la seguitava; lo ha detto alla padrona, e tutte due ridevano per la consolazione.
Io non sapeva chi fosse; finalmente, arrivata a casa, la serva aprì luscio.
Mi accorsi chi era, accelerai il passo, e giunsi in tempo che mi serrarono luscio in faccia.
Gran modestia! dissi fra me medesimo.
Ma lamore non si può tenere nascosto.
Corse subito alla finestra per riverirmi.
La vidi, mi cavai il cappello, ed ella si pose a ridere così forte, che fece ridere ancora me.
Si ritirò per allora; ma sette o otto volte il giorno passo di lì.
La vedo una o due volte, e quando mi vede, sempre ride, e mi fa de vezzi, e mi fa de gesti, e dimena il capo, e guardandomi, parla colla serva, e mi mostra alle sue vicine; in somma è innamorata morta de fatti miei.
BEAT.
Bel fondamento per dire che è innamorata di voi! Io credo più tosto...
SCENA QUINTA
Un SERVITORE e detti.
SERV.
Signora, che cosha il padrone che piange e si dà dei pugni pel capo?
BEAT.
(Povera me! È disperato, perché io sono in collera seco.
È vecchio, la passione lo potrebbe far morire.
Non ha fatto ancor testamento...
Presto, presto...) (da sé; va per partire)
LEL.
Vi assicuro, signora, che mi vuol bene...
BEAT.
Sì, sì, pazzo, ne parleremo.
(parte)
SERV.
(Dopo che il mio padrone si è rimaritato, ha perso affatto il giudizio).
(da sé, parte)
LEL.
Se quel giorno chio lincontrai per la strada, lavessi conosciuta, la cosa era fatta.
Con quattro parole di quelle che so dir io, con un testoncello alla serva, il negozio sincamminava a dovere.
Maledetti i zendali! Sono la mia disperazione: non si sa mai, se una donna sia bella o brutta.
Le belle si coprono per modestia, le brutte per vergogna; le giovani per vezzo, e le vecchie per disperazione.
(parte)
SCENA SESTA
Camera in casa di Florindo.
CORALLINA terminando una calzetta.
COR.
Anche questa è fatta.
Non aveva calzette da mutarmi: manco male che mi è rimasto questo poco di refe, donatomi dalla buona memoria della mia padrona.
Dove sono andati quei tempi! Ma! Son nellimpegno, conviene starci, e non me ne pento.
Povero signor Florindo! Gli voglio bene, come se fosse mio fratello.
Ha succhiato del latte che ho succhiato io; lo ha allattato mia madre; siamo stati allevati insieme, e poi son di buon cuore: quando prendo a voler bene ad una persona, mi disfarei, farei di tutto per aiutarla.
Poverino! Lhanno cacciato di casa.
E perché? Per causa della matrigna.
Già tutte le matrigne sogliono perseguitare i figliastri; ma questa poi, che ha un figlio grande e grosso come un asino, vorrebbe potere scorticar il figliastro per raddoppiar la pelle al figliuolo.
Poverino! Lhanno cacciato di casa con sei scudi il mese.
Dopo venti giorni, era ridotto che non si riconosceva più: lacero, sporco, malandato.
Se non veniva io a star con lui, si dava affatto alla miseria, alla disperazione.
Pazienza! Mi contento patire per non vederlo perire; e se congiurano contro di lui una matrigna avara, un padre pazzo, un fratello balordo, lo assiste una vedova onesta, una serva fedele e amorosa.
SCENA SETTIMA
FLORINDO e detta.
FLOR.
Ah Corallina! son disperato.
COR.
Eh, fatevi animo.
Che cosa sono queste disperazioni? Che è stato?
FLOR.
Ho parlato al signor Pantalone, come voi mi avete consigliato.
COR.
E non ha voluto ascoltarvi?
FLOR.
Anzi mi ha compatito moltissimo, e si è impegnato di parlar a mio padre.
COR.
Eh, in casa non vi vorrà; me limmagino.
FLOR.
Per causa di mia matrigna.
Ed io ho da soffrire così?
COR.
Quietatevi, signor Florindo, ci troveremo rimedio.
Queste non sono cose da accomodarsi così ad un tratto.
Per ora io vi aveva detto, che col mezzo del signor Pantalone procuraste aver qualche soccorso di denaro, che ne avete tanto bisogno.
FLOR.
E questo ancora me lha negato.
Oh me infelice! Son disperato.
COR.
Eh via, acchetatevi.
Volete perdere anche la salute?
FLOR.
Ma io non ho un soldo.
Oggi non so come fare a pranzare.
COR.
Cingegneremo.
FLOR.
Ho impegnato tutto; e voi ancora, povera donna, avete impegnato il meglio che avete; non so più come fare.
Alla fine del mese ci sono ancora dieci giorni, e mi nega soccorso? E mi vuol veder disperato?...
COR.
Zitto, zitto, badate a me.
Stiamo allegri, non pensiamo a malinconie.
Ehi, ho finito le calze.
FLOR.
Corallina, voi mi fate pietà.
Oggi non so come ci caveremo la fame.
COR.
Come? Eh, non vi disperate.
Ecco qui, ho terminate le calze; le venderò, e mangeremo.
Non dubitate: mangeremo, staremo allegri.
Sì, ci vuol altro che questo, a farmi perdere di coraggio.
Forti, finché son viva io, non dubitate di niente.
FLOR.
Oh Dio! Corallina, lamor vostro, la vostra bontà mintenerisce a segno, che mi fate piangere.
COR.
Oh, queste son debolezze.
FLOR.
Vedervi priva di tutto per me! (piange)
COR.
Ma se vi dico...
che io...
(singhiozzando) Oh via, stiamo allegri; queste calze mi sono riuscite un poco strette e corte, e poi sono troppo fine; per me non servono.
Già le voleva vendere, le venderò.
Un giorno poi mi pagherete di tutto.
FLOR.
Voglia il cielo...
COR.
Eh, non intendo donarvi niente, sapete? Tengo nota di tutto.
FLOR.
Se muor mio padre...
COR.
E voglio il salario sino ad un quattrino.
FLOR.
Ma intanto, povera Corallina...
(sospirando)
COR.
Eh, intanto, intanto...
Non sapete pagarmi con altro che con dei sospiri, dei lamenti e dei piagnistei.
Voglio che stiate allegro, se volete che non me ne vada da voi; non voglio che mi facciate morir di malinconia.
Lavorerò, venderò, impegnerò, mingegnerò.
Ma allegramente, signor padroncino caro, non siamo morti.
Chi sa! forti, coraggio.
Vado a vendere le calzette; compro qualche cosa di buono; torno a casa, e mangeremo in santa pace, alla barba di chi non vuole.
Il maggior dispetto che possiate fare ai vostri nemici, è il soffrire con costanza, ridere con indifferenza, e far vedere che sapete e potete vivere senza di loro.
(parte)
SCENA OTTAVA
FLORINDO, poi ARLECCHINO
FLOR.
Oh benedetta Corallina! Tu sei la mia unica consolazione.
Il cielo a me ti ha dato per conforto alle mie disgrazie.
Dove mai si è trovato una donna di miglior cuore? Ah padre barbaro! specchiati in questa donna dabbene, e vergognati che una serva abbia in verso del padrone quella pietà, che tu non hai in verso di un figlio.
ARL.
Oh de casa? (di dentro)
FLOR.
Ecco il servo di mio padre.
Che vorrà mai?
ARL.
Se pol vegnir? (di dentro)
FLOR.
Sì, vieni.
ARL.
Servitor umilissimo.
Corallina ghela (11)?
FLOR.
Non cè: che cosa vuoi?
ARL.
Lè un pezz che no la vedo.
Jera vegnù a trovarla.
FLOR.
Che fa mio padre?
ARL.
Poverin! poco fa el pianzeva.
FLOR.
Piangeva? E perché?
ARL.
Perché so muier lera in collera, e no la voleva farghe carezze.
FLOR.
Ah vecchio rimbambito!
ARL.
Adess mo i è là in allegria: i ride, i se coccola (12), i par do sposini de quindesanni.
FLOR.
Colei conosce il suo debole, e lo tiene al laccio.
ARL.
Era in camera, e i mha mandà in tun servizio.
FLOR.
Buono! dove ti hanno mandato?
ARL.
I mha mandà a cercar un beccavivo.
FLOR.
Che è questo beccavivo?
ARL.
Lè el contrario del beccamorto.
FLOR.
Io non ti capisco.
ARL.
El beccamorto vien a beccar quando lomo è morto, e questo el vien a beccar quando lomo lè ancora vivo.
FLOR.
Ma chi è costui?
ARL.
El nodaro.
FLOR.
Come! Ti hanno mandato a cercar un notaro? Per farne che?
ARL.
Mi credo per beccar el patron.
FLOR.
Vogliono forse fargli far testamento?
ARL.
Me par sta parola testamento averla sentida a dir.
FLOR.
Da chi lhai sentita dire?
ARL.
Dalla patrona.
FLOR.
(Oh me infelice! Ella sedurrà mio padre a privarmi).
(da sé) Dimmi, dimmi, che hai tu sentito?
ARL.
Mi veramente no so tutta linfilzadura del discorso.
Ma la patrona lè vegnuda, che el patron pianzeva.
Con quatter carezzine la lha fatt consolar.
El dis el patron: Me fe irrabiar, son vecchio, morirò presto.
La padrona no lho ben intesa, ma ho visto che la lha fatto ingalluzzar.
I ha parlà a pian, pareva che i contendesse, e po tuttin una volta, allegri e contenti, i mha dit che vada a chiamar el beccavivo, cioè el nodar.
FLOR.
(Ho inteso.
Lha colto nel punto, e gli fa far testamento.
Come mai posso io rimediar al disordine?) (da sé)
ARL.
Corallina vegnirala prest a casa?
FLOR.
Lhai ritrovato il notaro?
ARL.
No lho trovà, ma ho lassà lordene, che col vien, i lo manda a beccar.
FLOR.
E chi è il notaro che hai tu ricercato?
ARL.
Lè sior Agapito dai etecetera.
FLOR.
Dove mai sarà Corallina?
ARL.
Dovèla Corallina? Ghho da dar un non so che.
FLOR.
Che cosa le vuoi tu dare?
ARL.
Una cossa...
FLOR.
Via, che cosa?
ARL.
Me vergogno.
FLOR.
Eh, dimmela.
ARL.
Un salame.
FLOR.
Lavrai rubato a mio padre.
ARL.
Tutti becca, becco anca mi.
FLOR.
Ed io peno, ed io non ho il bisogno per vivere.
ARL.
Se la comanda...
(gli offre il salame)
FLOR.
Sei un briccone, non si ruba.
ARL.
Mi, per dirla, no lho manc (13) robà.
FLOR.
Dunque, come lhai avuto?
ARL.
Sior Lelio ghe nha beccà una sporta, e quest el me lha dà, perché ghho fatto lume a beccar.
FLOR.
Quello sciocco, quellindegno, rovina il mio patrimonio.
Ah se sapessi dove rinvenir Corallina!
ARL.
Anca mi la vorria véder.
Ghe vôi ben, e ho ancora in te la testa de far un sproposito.
FLOR.
Che sproposito?
ARL.
De sposarla.
FLOR.
Animalaccio! goffo! ignorante! Felice te, se avessi una tal fortuna! Tu non sei degno.
Corallina merita un partito migliore.
Io la conosco, so quanto vale il suo spirito, il suo bel cuore, la sua bontà.
Vattene, sciocco, che non sei degno daverla.
(parte)
ARL.
Ho inteso.
El la vol per lu; ma la discorreremo.
No digh miga de volerla menar via; la starà con lu: tra servitor e patron no ghe sarà gnente che dir.
(parte)
SCENA NONA
Camera in casa di Pantalone.
CORALLINA e BRIGHELLA
BRIGH.
Oh siora Corallina! Che bon vento?
COR.
La signora Rosaura vostra padrona è in casa?
BRIGH.
La
...
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