LA SERVA AMOROSA, di Carlo Goldoni - pagina 4
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No digh miga de volerla menar via; la starà con lu: tra servitor e patron no ghe sarà gnente che dir.
(parte)
SCENA NONA
Camera in casa di Pantalone.
CORALLINA e BRIGHELLA
BRIGH.
Oh siora Corallina! Che bon vento?
COR.
La signora Rosaura vostra padrona è in casa?
BRIGH.
La ghè.
Cossa desidereu dalla mia padrona?
COR.
Ho un paio di calze da vendere; vorrei vedere sella le volesse comprare.
BRIGH.
Volentiera, ghe lo dirò: come vala col vostro patron?
COR.
Eh, così, così.
BRIGH.
Mimagino che venderì ste calze per bisogno de magnar.
COR.
Oh, pensate voi! Per grazia del cielo, sto con un padrone che non mi lascia mancare il mio bisogno.
Le vendo, perché non mi stanno bene, e perché il mio padrone me ne ha regalate un paio di seta.
BRIGH.
Un per de seda el ve nha regalà? Stento a crederlo.
COR.
Eccole qui.
Se non fosse vergogna, ve le mostrerei.
BRIGH.
Le sarà vecchie, reppezzade fin da quando viveva so siora madre.
COR.
O vecchie, o nuove, compatitemi, in questo voi non ci dovete entrare.
BRIGH.
Cara siora Corallina, ve domando scusa; ho sempre fatto stima della vostra persona.
Savì, che quando eri putta, aveva qualche speranza sora dei fatti vostri.
Ve sè maridada, i vostri padroni i vha volesto maridar in casa; mho stretto in te le spalle, e non ho parlà.
Quand sì restada vedua, sha tornà a sveiar in mi el desiderio de prima, e no saria stà lontan da proponerve le segonde nozze, se un certo riguardo no me avesse desconseià.
COR.
Messer Brighella, voi mi fate un discorso curioso.
Pare chio sia venuta a pregarvi che mi sposiate.
Son vedova, ma non son vecchia.
Non son bella, ma credetemi, che se ne volessi, ne troverei.
BRIGH.
Son persuaso; e mi alla bona vho dito el me sentimento.
Tra el numero de quelli che ve vorria, ghe son anca mi; e fursi nissun ha più premura de vu, de quella che provo mi.
Ma basta...
no digo altro.
COR.
Via: che riguardo avreste, se fossimo in caso di far da vero?
BRIGH.
È superfluo parlarghene.
De mi no ghe pensè.
COR.
Non occorre dir così.
Voi qua dentro non ci vedete.
BRIGH.
Parleria, ma se parlo, ve rescalderè.
COR.
Non credo che mi conosciate per una donna irragionevole.
Se parlerete, vi risponderò.
BRIGH.
Orsù, mi son un omo che parla schietto.
Ve stimo, ve voio ben, ve brameria per muier; ma quel star vu sola con un patron zovene, no la xe cossa che me piasa, no la xe cossa che para bon.
COR.
Veramente anchio ci sto mal volentieri.
Ma il signor Ottavio me lo ha raccomandato, e per contentare il vecchio, mi sagrifico ancora per qualche tempo.
BRIGH.
Come per contentar el vecchio, sel lha cazzà fora de casa colle brutte?
COR.
Eh giusto! Siete male informato.
Sono daccordo.
È una finzione per mortificar la matrigna.
Anzi adesso vorrebbero che il signor Florindo tornasse in casa, ma egli per puntiglio non ci vuol tornare.
BRIGH.
El mondo no la discorre cussì; ma in ogni maniera, Corallina cara, vu fe una cattiva figura a star con quel zovene in casa, sola.
COR.
Chi conosce quel giovine, non può pensar male.
È innocente come una colomba.
Le donne non le può vedere.
BRIGH.
Brava! Nol pol véder le donne! E tutto el zorno el sta alla finestra a occhiar la mia padrona.
COR.
Dite davvero?
BRIGH.
Me lha confidà la serva.
COR.
Io credo chegli stia alla finestra per tuttaltro; ma pure, che cosa ne dice la vostra padrona?
BRIGH.
Anca ella par che la ghabbia gusto.
Nol ghe despiase.
COR.
Sa il cielo quanti ne avrà la signora Rosaura degli innamorati.
BRIGH.
Oh, no la xe de quelle che fazza lamor.
Anzi me son maraveià, co ho sentido che la parla de sior Florindo con qualche passion.
COR.
Il signor Pantalone la vorrà maritar bene.
BRIGH.
Certo che a quel spiantà nol ghe la daria.
COR.
Perché spiantato? Il mio padrone è di una casa ricca e civile; e non gli manca niente, e mi maraviglio di voi.
BRIGH.
Via, via, patrona, no la vaga in collera.
Sempre più se cognosse, che ghè un pochettin de attacco.
COR.
Sono una donna onorata.
BRIGH.
Così credo.
COR.
Via, o avvisate la signora Rosaura, o me ne vado.
BRIGH.
Subito; la vado a avvisar.
No ve nabbiè per mal, siora Corallina; parlo perché ve voggio ben.
COR.
Portate rispetto al mio padrone.
BRIGH.
Non occorraltro, no parlo più.
(Ghe scommetteria losso del collo, che se no i lha fatta, i la vorrà far).
(da sé, parte)
SCENA DECIMA
CORALLINA, poi ROSAURA
COR.
Questo sarebbe un buon negozio per il mio padrone; ma come posso mai figurarmelo? Nello stato in cui si trova, chi può fidarsi di prenderlo? Procuro di tenerlo in riputazione; ma il mondo parla, e le cose si sanno.
ROS.
Chi mi vuole?
COR.
Serva umilissima.
ROS.
Riverisco quella giovane.
COR.
Sono venuta a vedere, se a caso le piacesse un paio di calze fine di filo.
ROS.
Non mi abbisognano, ma tuttavia, se saranno di mio genio, le comprerò.
COR.
In verità sono buone, e se tali non fossero, non gliele offrirei.
(le dà ad osservare le calze)
ROS.
Quanto ne volete?
COR.
Il filo costa dieci paoli.
Veda quel che può meritar la fattura: mi rimetto in lei.
ROS.
Io non me ne intendo molto.
Vi contentate che le faccia vedere?
COR.
Anzi mi fa piacere.
ROS.
Brighella.
(chiama)
SCENA UNDICESIMA
BRIGHELLA e dette.
BRIGH.
Signora.
ROS.
Andate qui dalla sposa.
Ditele che mi faccia il piacere di osservar bene questo paio di calze, e dica ella che cosa possono valere.
BRIGH.
La servo subito.
Per mi le stimeria...
COR.
Via, quanto?
BRIGH.
Diese zecchini.
ROS.
Uh che sproposito!
BRIGH.
No considero le calze; stimo el merito de quelle man che le ha fatte.
(parte)
COR.
Brighella è un uomo burlevole.
ROS.
Di voi me ne ha parlato sempre bene.
Sedete.
(siede Rosaura)
COR.
Oh illustrissima...
ROS.
Sedete, senza cirimonie.
COR.
Per obbedirla.
(siede)
ROS.
Voi siete la serva del signor Florindo.
COR.
Sì signora, di quella pasta di zucchero.
Le giuro da donna onorata, che una creatura simile non credo al mondo si sia mai data.
ROS.
In che consiste la sua bontà?
COR.
In tutto.
Egli non grida mai.
Sia ben fatto, non sia ben fatto, egli si contenta di tutto.
Non ha un vizio immaginabile: non giuoca, non va allosteria, non pratica con gioventù.
Eh! le dico che è un portento.
Se ce nè un altro, mi contento che mi taglino il naso.
Felice quella donna, a cui toccherà un tal marito!
ROS.
Vuol prender moglie?
COR.
Converrà chei la prenda per forza.
È figlio unico, suo padre è vecchio e ricco; la casa non sha da estinguere.
ROS.
È ricco dunque suo padre?
COR.
Capperi! Il signor Ottavio Panzoni?
ROS.
Ma perché ha cacciato il suo figliuolo fuori di casa?
COR.
Oh, non si può dire chei labbia cacciato.
Il giovine vorrebbe ammogliarsi; la matrigna vorrebbe esser sola.
Dice egli: Se sto in casa, non faccio niente.
Mintende, illustrissima signora? Alle volte si fissano dei puntigli, e si fanno delle risoluzioni; per altro? Corbezzoli! il signor Florindo è locchio dritto di suo padre.
ROS.
Eppure mi vien detto che il signor Ottavio gli passi pochissimo pel suo mantenimento.
COR.
Sì, signora, è vero, lo fa apposta perché torni in casa.
ROS.
E perché non ci torna? Se è tanto buono, come dite voi, dovrebbe rassegnarsi al voler di suo padre.
COR.
Ah! lo farebbe, ma...
ROS.
Vi sarà qualche imbroglio.
COR.
Non vè imbroglio, se vogliamo.
È un non so che, che lo trattiene...
Ma finalmente...
basta, per ora non posso dir davvantaggio.
ROS.
E che sì che lindovino?
COR.
Niuno meglio di lei lo potrebbe indovinare.
ROS.
Sta volentieri in questa casa, non è vero?
COR.
Oh! brava.
Quelle finestre sono la sua delizia.
ROS.
No, no, le finestre; le camere.
COR.
Le camere? Ho timore che non cintendiamo, signora.
ROS.
Venite qua: già nessuno ci sente.
(si accostano) È innamorato?
COR.
Sì; ma, zitto!
ROS.
E sta qui per godere la sua libertà.
COR.
Ci sta per il comodo.
ROS.
Già me ne sono accorta.
COR.
Voleva dirglielo, e non ha coraggio.
ROS.
Dirlo a me?
COR.
Sì, signora, e non passerà molto, che forse glielo dirà.
ROS.
Ma voi mi dite cose, che non sono da dire.
Se fa allamore con voi, come centro io?
COR.
Con me? Oh pensi lei! Con me? (si scosta un poco)
ROS.
Con chi dunque?
COR.
Ma non dice...
che se nè accorta?
ROS.
Di che?
COR.
Oh! non vorrei aver parlato per tutto loro del mondo.
ROS.
Ma spiegatevi.
COR.
Cara signora Rosaura, mi faccia la finezza di dispensarmi.
ROS.
Ora mi ponete in maggiore curiosità.
COR.
Sia maledetta la mia ignoranza.
ROS.
Che mi dite voi delle finestre?
COR.
Dico delle finestre di casa.
ROS.
Il signor Florindo sta alla finestra?
COR.
Non lo vede tutto il giorno?
ROS.
E per qual motivo ci sta?
COR.
Oh, è meglio chio me ne vada.
Or ora mi crepa il gozzo.
ROS.
Cara Corallina, non mi lasciate con questa curiosità.
Sentite, se dubitate chio parli, non vi è pericolo.
COR.
Ma se il padrone sa che ho parlato, meschina di me!
ROS.
Se è tanto buono, non griderà.
COR.
Non griderà, è vero.
Ma si vergognerà, poverino! Se sapeste come è fatto! pare una ragazza allevata in ritiro.
Oh che buone viscere! che costumi! che bella semplicità! Beata quella, a cui toccherà questa gioja!
ROS.
In verità, lo voleva dire chera un giovine savio e buono.
Lo vedeva sempre in casa, sempre modesto.
Sempre lì...
COR.
Sempre lì a quelle finestre.
(con un poco di caricatura)
ROS.
Sì, è vero.
COR.
Specchiandosi, consolandosi...
ROS.
In che?
COR.
Eh furba, furba!
ROS.
Eh via!
COR.
Sia maledetto! Mi avete fatto cascare.
ROS.
Oh! fate così, per farmi dire.
(vergognandosi)
COR.
Grande oscurità veramente! Non si vede chiaro che sta ad adorarvi, che non batte occhio, che muore lì, muore?
ROS.
Io vi parlo schietto.
Ho sempre creduto chei facesse allamore con voi.
COR.
Sì; se facesse allamore con me, starebbe a prendere il fresco! Prima, egli è un giovine di prudenza, stima lonore della sua casa, e non si abbasserebbe a pigliare una serva.
E poi, ve lo dico liberamente, è innamorato morto di voi.
ROS.
Io rimango sorpresa.
Non mi ha mai dato un segno di avere della premura per me.
COR.
È timido.
Non si arrischia.
ROS.
E che pretende dai fatti miei?
COR.
Far quello per cui è uscito di casa di suo padre.
Maritarsi, e tirar avanti la casa.
ROS.
E sua matrigna?
COR.
Il signor Ottavio è vecchio, e mezzo insensato.
Quando il figlio sarà maritato, la signora Beatrice o se nanderà di casa, o rinuncierà il maneggio.
ROS.
Se ciò fosse, converrebbe chei ne parlasse a mio padre.
COR.
Ha principiato a dirgli qualche cosa questa mattina.
ROS.
Gli ha parlato di me?
COR.
Non gli ha parlato precisamente di voi, perché così di balzo non dovea nemmen farlo; ma sentite con che bella politica si è introdotto.
Sa che il signor Pantalone è amico del signor Ottavio.
Ha finto aver bisogno di danari, e lo ha pregato interporsi per fargliene aver da suo padre.
Naturalmente gli porterà la risposta, ed egli con quelloccasione glintrodurrà il discorso a proposito, e forse forse concluderanno.
ROS.
Sarà difficile che mio padre laccordi, segli non torna in casa.
COR.
E sarà difficile chei torni in casa, se non ha qualche sicurezza di essere consolato.
ROS.
Come si potrebbe condurre questa faccenda?
COR.
In quanto a questo poi, de ripieghi non ne mancano.
Qui batte il punto, signora Rosaura; in confidenza: vi aggrada il signor Florindo? Lo prendereste per marito? (saccosta)
ROS.
Se le cose camminassero con buon ordine...
per dirla...
non mi dispiace.
COR.
Non occorraltro.
Facciamo così.
Sentite sio parlo bene.
Convien procurare...
SCENA DODICESIMA
BRIGHELLA e dette.
BRIGH.
Son qua colla risposta.
ROS.
Che cosa ha detto?
BRIGH.
La le ha stimade vintiquattro paoli.
ROS.
Bene: ventiquattro paoli vi darò.
Siete contenta? (a Corallina)
COR.
Contentissima.
ROS.
Torniamo al nostro discorso.
Andate, non occorraltro.
(a Brighella)
BRIGH.
El padron la domanda.
(a Rosaura)
ROS.
Mio padre? Non vorrei...
Che cosa vuole?
BRIGH.
El la cerca, e ghe preme parlarghe.
ROS.
Bisogna chio vada.
Corallina, ci rivedremo.
Tornate oggi, quando non cè mio padre.
COR.
Sì signora, ritornerò.
ROS.
Vi pagherò le calze.
COR.
Come comanda.
(freddamente)
BRIGH.
Signora padrona, la perdoni.
La ghe le paga subito le calze.
ROS.
Se vi preme...
(a Corallina)
COR.
Eh, non importa.
(come sopra)
BRIGH.
La l dise per modestia.
Ma chi sa che no la ghe nabbia bisogno? (a Rosaura)
COR.
Che credete? Chio abbia da comprarmi il pane con questi danari? Mi maraviglio di voi.
In casa del mio padrone non manca niente.
ROS.
Tenete.
Li aveva nella borsa, e non ci aveva pensato.
Eccovi uno zecchino e quattro paoli.
COR.
Non ci erano queste premure; li prendo per obbedirla.
ROS.
A rivederci.
Oggi discorreremo.
(Florindo mi è sempre piaciuto; e costei ha finito dinnamorarmi).
(da sé, parte)
SCENA TREDICESIMA
BRIGHELLA e CORALLINA
BRIGH.
Cara siora Corallina, mi parlo per ben, e vu andè in collera.
COR.
Avete un gran cattivo concetto di me e del mio padrone; e vi assicuro che cè per voi da parte una borsetta, con sei zecchini ruspi di padella.
BRIGH.
Per che rason?
COR.
Se nasce un certo non so che.
BRIGH.
Cossa, cara vu?
COR.
Avete da sapere che il mio padrone...
BRIGH.
Son qua.
I me chiama.
Se parleremo.
COR.
Venite da me, che vi dirò tutto.
BRIGH.
Non occorraltro.
A revéderse.
(Vardè quando i dis: i denari i è dove no se crede).
(da sé, parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
CORALLINA sola.
COR.
Così, a caso, mi è riuscito piantare una bella macchina.
Se la cosa va bene, spero far la fortuna del mio padrone.
Egli è di buona nascita, è figlio di padre ricco, è di buoni costumi, onde non può essere che un buon partito per la signora Rosaura.
Resta a superare la disgrazia che egli ha con suo padre per causa della matrigna.
E questo è quello che mi fa lavorar col cervello.
Sio potessi arrivare a parlare col signor Ottavio, forse forse mi comprometterei assaissimo.
Egli mi voleva gran bene e mi ascoltava, prima che si pigliasse codesto diavolo in casa.
Basta, chi sa? Intanto vo tenendo il signor Florindo in riputazione, e per ciò fare, mi sforzo di dire qualche bugia.
Ne diciamo tante per far del male; non saprei: mi farò lecito dirne quattro per far del bene.
Oh, se mi riesce il colpo, la signora Beatrice vuol restar brutta! Niuno vorrà credere chio ami tanto il signor Florindo, e lo ami senza interesse; poiché le donne sono presso degli uomini in mal concetto.
Ma io farò vedere che anche noi sappiamo essere amorose e disinteressate, e che il mio cuore è di una pasta sì dolce, che chi ne assaggia una volta, non se ne scorda mai più.
(parte)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Strada.
FLORINDO, poi CORALLINA
FLOR.
Misero me! Perfida donna! Fargli far testamento? Perdermi, rovinarmi per sempre?
COR.
Allegri, signor Florindo.
FLOR.
Non ho mai avuto maggior motivo di piangere.
COR.
Ho delle buone nuove.
FLOR.
Ed io ne ho delle pessime.
COR.
Ma voi siete il padre degli spasimi.
Che cosa è stato? Che cè di nuovo?
FLOR.
La signora Beatrice ha indotto mio padre a far il suo testamento.
Figuratevi come sarò io trattato.
COR.
Lo sapete di certo?
FLOR.
Arlecchino è venuto in casa nostra due ore sono, e mi ha narrato lordine avuto di ricercare il notaio.
COR.
Questa cosa mi dispiace assaissimo.
Come mai si è indotto a far testamento? Egli non ne voleva sentir parlare.
FLOR.
A forza di lusinghe e di studiate finzioni, lo ha tirato a in tal passo.
Questa è lultima mia rovina.
COR.
Finalmente non potrà privarvi di tutto.
FLOR.
Se non di tutto, potrà privarmi di molto.
I nostri beni sono tutti liberi, la maggior parte da mio padre acquistati.
Sa il cielo che cosa gli faranno fare.
Fra la moglie e il figliastro mi spogliano, mi rovinano.
COR.
Conviene ritrovarci qualche rimedio.
Arlecchino lha ritrovato il notaio?
FLOR.
Lo ricercava, ed ha lasciato lordine al di lui studio.
COR.
Chi è egli? Come chiamasi?
FLOR.
Un certo Agapito, detto per soprannome degli etcetera.
COR.
So benissimo.
È il notaio di casa.
Lasciate fare a me.
Procurerò di vederlo.
Lo conosco da molti anni; può essere che mi riesca di guadagnarlo.
FLOR.
Eh Corallina mia, senza danaro non si fa niente.
COR.
Belle promesse, e uno zecchino a conto, può fare sperar qualche cosa.
FLOR.
Circa alle promesse si può abbondare, anche con animo di mantenerle: ma la difficoltà maggiore consiste nello zecchino.
COR.
Voi non lavete?
FLOR.
Oh Dio! Non ho un soldo.
COR.
Io nemmeno.
FLOR.
Dunque lo sperarlo è vano.
COR.
Presto; in virtù della mia polvere, comparisca uno zecchino.
Eccolo.
(fa vedere a Florindo lo zecchino)
FLOR.
Dove lavete avuto? (con allegria)
COR.
Non sapete chio faccio venir li zecchini di sotterra?
FLOR.
Ditelo, cara Corallina, dove lavete avuto? Lha mandato forse mio padre?
COR.
Sì, vostro padre! Le mie povere mani.
Le mie calze vendute.
FLOR.
Ah Corallina mia, il cielo vi benedica.
COR.
Con questo zecchino a conto, può essere che facciamo qualche cosa di buono.
FLOR.
E non vi comprerete un pane?
COR.
Presto, in virtù della mia polvere...
(mette la mano in tasca)
FLOR.
Un altro zecchino?
COR.
No, quattro paoli.
Con questi oggi si mangerà.
FLOR.
Ma che provvidenza è mai questa?
COR.
Andate subito a ritrovar ser Agapito.
Procurate condurlo a casa nostra, senza chegli sappia il perché; indi lasciate operare a me.
FLOR.
Vado subito...
Ma qual felice nuova dovevate voi darmi?
COR.
Ne parleremo.
Or non cè tempo.
FLOR.
Datemene un picciol cenno.
COR.
Vi voglio ammogliare.
FLOR.
Oh Dio? Con chi?
COR.
Con una che vi piacerà.
FLOR.
Così miserabile?
COR.
Non importa: lasciate fare a me.
FLOR.
Corallina...
COR.
Andate, prima che il notaio si porti da vostro padre.
FLOR.
Ah, se avessi da maritarmi...
Se fossi in istato..
COR.
Chi prendereste?
FLOR.
Non voglio dirvelo.
COR.
Via, non perdiamo tempo.
FLOR.
(Se non fossi sì misero, vorrei sposar Corallina).
(da sé)
COR.
Presto, camminate.
FLOR.
(La sua bontà lo merita: la mia gratitudine lo vorrebbe).
(da sé, parte)
SCENA SECONDA
CORALLINA sola.
COR.
Io credo benissimo chegli sia innamorato un poco della signora Rosaura; lo vedo spesso alla finestra, ma il povero giovine si avvilisce, e non ha coraggio nemmeno di parlare.
Lamore è una gran passione; ma la fame la supera.
SCENA TERZA
PANTALONE e detta.
PANT.
Oh! quella zovene, giusto vu ve cercava.
COR.
Mi comandi, signor Pantalone.
PANT.
No seu vu, che ha vendù un per de calze a mia fia?
COR.
Sì, signore.
Le ha forse pagate troppo?
PANT.
No digo che la le abbia pagae né troppo, né poco.
No son omo che varda a ste minuzie, e lasso che in ste cosse mia fia se sodisfa.
Ve digo ben, che in casa mia me farè servizio a no ghe vegnir.
COR.
Perché, signor Pantalone? Ho commesso qualche mala creanza?
PANT.
No ve nabbiè per mal.
In casa mia no ghho gusto che ghe vegnì.
COR.
Benissimo: sarà servito.
Ella è padrone di casa sua.
Può ricever chi vuole; può cacciar via chi comanda: è un signore tutto prudenza, non è capace di operar senza fondamento, non è capace di lasciarsi acciecare dalla passione; avrà i suoi giusti motivi, le sue giuste ragioni.
Non mi vuole in casa sua? Pazienza, non ne son degna, e non ci verrò mai più.
Non lo disgusterei per tutto loro del mondo.
Il signor Pantalone de Bisognosi, che con tanto amore, con tanta carità, sè interessato a favore del mio padrone, disgustarlo? Il cielo me ne guardi! No, signor Pantalone, non dubiti, lassicuro: in casa sua non ci verrò mai più.
PANT.
Piuttosto, se ve bisogna qualcossa, comandeme, mandeme a chiamar, vegnì al negozio: vegnì dove che pratico, che ve servirò volentiera.
COR.
Giacché ella ha tanta bontà per me, vorrei supplicarla di una grazia.
PANT.
Disè pur.
In quel che posso, ve servirò.
COR.
Perdoni, se troppo ardisco...
PANT.
Parlè, cara fia; disè cossa che volè.
COR.
Vorrei che per finezza, per grazia, mi dicesse il motivo, perché non vuole chio venga nella sua casa.
PANT.
Ve lo dirò liberamente.
Ho avudo tanto poco gusto, tanta mala fortuna per aver parlà a favor de sior Florindo, che no voggio più intrigarmene né poco, né assae; e no vôi aver da far co nissun, che dependa da quella casa.
COR.
Benissimo; son persuasa; lodo la sua condotta, e non ho motivo di lamentarmi.
Dubitava quasi chella avesse mal concetto di me.
PANT.
Oh no, fia (14).
COR.
Ella saprà benissimo, chio sono una donna onorata.
PANT.
No digo al contrario...
COR.
Che in casa del signor Ottavio, dove sono nata, cresciuta, maritata e rimasta vedova, non ho mai dato motivo di mormorare de fatti miei.
PANT.
Xe verissimo...
COR.
E se sono venuta a stare col signor Florindo, lho fatto per amicizia, per compassione, per carità.
PANT.
Qua mo, qua mo tutti no crede che la sia cussì.
COR.
E che credono? Chio sia una sfacciata, una donna scorretta, una poco di buono? So che il signor Pantalone non lo crede, so che un uomo onesto, un galantuomo, non è capace di pensar male degli altri.
Ma giuro al cielo, se vi fosse persona che ardisse macchiar in un picciol neo la mia reputazione, benché sia donna, avrei coraggio di saltargli alla vita, graffiargli il viso, strappargli la lingua, cavargli il cuore.
PANT.
(Aseo! (15)) Fia mia, per mi digo che sè una donna onoratissima, e non ho mai dito gnente dei fatti vostri.
COR.
Ma in casa sua non mi vuole.
PANT.
No voggio dito el perché?
COR.
Mi fa questo smacco di non volermi.
PANT.
Vavè pur persuaso anca vu.
COR.
Giuoco io, che questo non volermi in casa, deriva dal credermi una donna cattiva.
Signor Pantalone...
(irata)
PANT.
Mo se ve digo de no.
Mo se vho dito el perché.
(Custia xe una bestia, la fa la gatta morta, e po tutto in tuna volta la dà fogo al pezzo).
(da sé)
COR.
Come centro io, come centra il signor Florindo, se dal signor Ottavio e dalla signora Beatrice ha ricevuti degli sgarbi e dei dispiaceri?
PANT.
No vôi dar motivo a siora Beatrice de perderme unaltra volta el respetto, e obbligarme a far de quelle ressoluzion, che son capace de far.
COR.
Anzi, mi perdoni, signor Pantalone ella è un uomo di virtù, di prudenza, ma questa volta singanna.
Una vendetta onesta è lodabile qualche volta.
Per rifarsi delle impertinenze della signora Beatrice, dovrebbe anzi assistere e favorire il povero signor Florindo.
In questa maniera farebbe unopera di pietà; e questopera di pietà tornerebbe in profitto dellinnocente, in danno della matrigna, e in gloria del signor Pantalone, il quale sendo uomo di mente e di cuore, avrebbe ritrovata la maniera di vendicarsi da uomo grande, da uomo celebre, da par suo.
PANT.
Vu disè ben, e me piase la massima, e ghaveva pensà anca mi.
Ma cossa possio far per sto putto? Mi no son so parente, mi no ghho titolo de agir per ello.
Lu el ghha poco spirito, quella donna xe un diavolo; no ghe trovo remedio.
COR.
Eh! ve lo troverei ben io il rimedio, sio fossi ne piedi del signor Pantalone.
PANT.
Via mo, come?
COR.
È un dar acqua al mare, voler dar consigli ad un uomo della sua qualità.
PANT.
Parlè, che me fe servizio.
COR.
Per obbedirla, dirò: vuol ella acquistare un titolo sopra il signor Florindo, e potere a faccia scoperta operar per lui, e far che stieno a dovere il padre, la matrigna, il fratellastro, e tutti li suoi nemici?
PANT.
Via mo, come?
COR.
Lo prenda in casa, gli dia per moglie la signora Rosaura...
PANT.
Mo adasio, adasio.
No la xe miga una bagattella...
COR.
Sa ella che il signor Florindo è figlio unico? Che ha suo padre quattro o cinque mila scudi dentrata? Che se non casca il mondo, hanno ad essere tutti suoi?
PANT.
Xe vero; ma...
COR.
Non vede che il signor Ottavio è vecchio, indisposto, imperfetto; che poco può vivere, e che presto il figlio sarà padrone?
PANT.
Ma intanto...
COR.
E poi quel temperamento adorabile del signor Florindo non è una gioja, non è un tesoro? non è adorabile?
PANT.
Tutto va ben.
Ma mia fia anca ella xe unica, anca ella ghha el so bisogno, e no voggio maridarla co sti pastizzi.
COR.
Favorisca.
Già facciamo così per discorrere, per passare il tempo.
Se il signor Florindo fosse in casa, fosse erede, fosse come dovrebbe essere, avrebbe difficoltà di dargli la sua figliuola?
PANT.
Mi no.
La casa xe bona, el putto me piase.
COR.
Orsù; vede vossignoria questa donnetta? Quanto vale, che non passa domani che il signor Florindo è in casa, è padrone, e la signora Beatrice colle trombe nel sacco batte la ritirata?
PANT.
Magari! Ghaverave gusto da galantomo.
COR.
Allora gliela darebbe la signora Rosaura?
PANT.
Ve digo de sì.
COR.
Chi sa poi allora, se il signor Florindo fosse di tal opinione.
Per questo voleva io che il signor Pantalone avesse merito nel suo accomodamento, acciò ad occhi chiusi il mio padrone prendesse per moglie la signora Rosaura.
PANT.
Mo perché ghaveu sta premura? Che interesse ghaveu per mi, e per Rosaura mia fia?
COR.
Confesso il vero: mi levo la maschera.
Tutto faccio per il mio padrone.
Conosco la signora Rosaura, so chè una buona figlia, so che per lui sarebbe un partito doro.
Ho paura, se entra in grandezza, che gli amici, che i parenti lo tirino a qualche matrimonio avvantaggioso in apparenza, e pregiudiciale in sostanza.
Che gli tocchi qualche vanerella, qualche civettuola di quelle del tempo doggidì; essendovi troppo gran carestia di fanciulle savie, morigerate, come la vostra, che il cielo ve la benedica.
E per questo la vorrei assicurare per il signor Florindo, e gliene ho parlato, e sarebbe contento ed ella forse forse non direbbe di no, e sarebbe un matrimonio che farebbe crepar dinvidia mezza città, e mezza giubilerebbe dal contento.
Ma vossignoria ha i suoi riguardi, non vuole, non le pare.
Non so che dire.
Se il signor Florindo torna in casa, sarà attorniato, sarà sedotto, non mi ascolterà forse più.
Me ne dispiace, ma non cè rimedio.
PANT.
Cara Corallina, no buttè le cosse in desperazion.
Lassè che ghe pensa suso.
Sti negozi no i se fa co sto precipizio.
Me piase lidea, la lodo, ghe trovo delle difficoltà, ma ghe trovo del bon.
Deme tempo, e pol esser che me ressolva.
COR.
E se succede qualche novità?
PANT.
Avviseme.
COR.
In casa sua non ci devo venire.
PANT.
No, no: vegnì pur in casa mia, che ve dago licenza.
Vedo che sè una donna de garbo, e che de vu me posso fidar.
COR.
Basta; non vorrei...
PANT.
E po, co cerchè de maridar sior Florindo, xe segno che con lu no ghè gnente.
COR.
E cerco di maritarmi ancor io.
PANT.
No faressi mal: sè zovene.
COR.
Non vi è altro, che non ho dote.
PANT.
Vu sè pur stada maridada unaltra volta.
Cossa aveu fatto della vostra dota?
COR.
La dote chio aveva allora, è andata.
PANT.
Col vostro spirito no ve mancherà un bon partìo.
COR.
Eh signor Pantalone, ci vuol altro che spirito!
PANT.
Sè una bona donna, el cielo ve provederà.
COR.
Sentite: io vi parlo schietto.
Faccio tanto per il signor Florindo: spero che anchegli qualche cosa farà per me.
Se va bene per lui, per me pure mi lusingo che non anderà male; e se sarà padrone del suo, son certa che un po di dote me la darà.
Conosco il suo buon cuore, so chè un figliuolo grato ed onesto; ma quando ancora mi dovessi ingannare, e meco dovesse essere ingrato, non mi pentirò mai di quello che per lui ho fatto, essendo certa e sicura, che il bene è sempre bene; e che tutto il bene, che da noi si fa, viene ricompensato dal cielo; signor sì, dal cielo, che conosce il cuore delle persone, e premia e rimunera le buone opere e le buone intenzioni.
Signor Pantalone la riverisco divotamente.
(parte)
SCENA QUARTA
PANTALONE, poi LELIO
PANT.
Mo che donna de proposito! Ho ben gusto daverla cognossua.
Vardè quando che i dise delle mormorazion.
Tutti crede che la staga co sior Florindo, perché i sia innamorai.
Oh, semo pur la gran zente cattiva a sto mondo! Sto fatto de sta donna me mette la testa a partìo, e me farà da qua avanti pensar ben, ma ben, avanti de formar giudizio delle persone.
Sto negozio de sto matrimonio no me despiaserìa; se se podesse combinar...
se fusse vero che el tornasse in casa...
LEL.
Signor Pantalone de Bisognosi, la riverisco profondamente.
PANT.
Servitor umilissimo.
(vuol partire)
LEL.
La supplico, ho da parlarle.
PANT.
Cossa vorla, patron?
LEL.
La mia signora madre la riverisce.
PANT.
Obbligatissimo a le so grazie.
(vuol partire)
LEL.
Signore, le ho da parlare duna cosa che preme.
PANT.
Ghho un pochetto da far.
No posso trattegnirme.
LEL.
In due parole la sbrigo.
PANT.
Via mo? la diga.
LEL.
La mia signora madre vuole chio mi mariti.
PANT.
Me ne rallegro infinitamente.
LEL.
E per questo mi ha mandato da vossignoria.
PANT.
Cossa songio mi, sanser da matrimoni?
LEL.
No signore, non mi manda dal sensale.
Mi manda dal mercante a drittura.
PANT.
Se la vuol qualcossa dal mio negozio, la vaga dai zoveni, che mi no me ne impazzo.
LEL.
Dunque mi dà libertà, chio vada a trattar colla giovine?
PANT.
Co la zovene? Ho dito coi zoveni.
LEL.
Ha figliuoli maschi vossignoria?
PANT.
Patron no, no ghho altro che una fia femena.
LEL.
E dice chio me la intenda con lei?
PANT.
Ma che mercanzia cerchela, patron?
LEL.
La mia signora madre vuole chio mi mariti.
PANT.
E la lo manda da mi per comprar i abiti?
LEL.
No signore, non mi manda per gli abiti, mi manda per la sposa.
PANT.
E chi èla la sposa?
LEL.
Non avete una figlia?
PANT.
Patron sì.
LEL.
«Passato ha il merlo il rio:
Intendami chi può, che mintendio».
PANT.
(O che pezzo de matto!) (da sé) Ho capìo tutto, me comandela altro?
LEL.
Non altro.
PANT.
Servitor umilissimo.
LEL.
Ci siamo intesi.
PANT.
Senzaltro.
LEL.
È fatta?
PANT.
E dita.
LEL.
Vuol venir dalla signora madre?
PANT.
No posso in verità.
Ghho un pochetto da far.
LEL.
Che cosa vuol chio le dica?
PANT.
La ghe diga quel che la vol.
LEL.
Posso andare?
PANT.
Per mi, la mando.
LEL.
Servitor umilissimo.
PANT.
Patron mio riveritissimo.
(Oh che allocco! Oh che allocco! O che babbuin!) (da sé, parte)
SCENA QUINTA
LELIO, poi ARLECCHINO
LEL.
Oh me felice! Con quanta facilità il signor Pantalone mi ha accordata la sua figliuola! Con meno parole non si poteva fare un trattato di matrimonio.
ARL.
Dove diavol ve sì ficcado? La patrona ve cerca.
LEL.
Arlecchino, ti ho da dare una buona nuova.
ARL.
Via mo.
LEL.
Io son fatto sposo.
ARL.
Disì da bon?
LEL.
Non vedo lora che lo sappia la signora madre.
ARL.
E chi èla la sposa?
LEL.
Indovinala.
Se lindovini, ti do due soldi.
ARL.
Èla fursi...
LEL.
Signor no.
ARL.
La sarà...
LEL.
Né meno.
ARL.
Mo lasseme dir.
Anca sì che lè...
LEL.
Non la puoi indovinare.
ARL.
Ma donca disìla vu.
LEL.
È la figlia del signor Pantalone.
ARL.
Mo se tra sior Pantalon e la siora Beatrice ghè stà dei radeghi.
LEL.
La signora madre mi ha dato licenza.
ARL.
E cossa dis el sior Pantalon?
LEL.
È contentissimo.
Qui adesso, in questo momento, gli ho domandata la figlia, ed egli mi ha risposto: è fatta e detta.
ARL.
Bon: evviva, me ne consolo.
Vederemo una bella razza.
LEL.
Orsù andiamo dalla signora madre.
ARL.
Andè pur da per vu, che mi bisogna che torna dal nodaro.
LEL.
Oh sì, dal notaio, che farà la scrittura del mio contratto.
ARL.
Avì parlà colla sposa?
LEL.
Non ancora.
ARL.
Tutto sta a quel primo incontro.
Portarse ben la prima volta, e entrarghe in grazia a drittura.
LEL.
Che cosa pensi tu chio potessi dirle la prima volta, quando le parlo?
ARL.
Dir per esempio: È tanto tempo che sospirando per i crini della vostra bellezza...
LEL.
Oibò, oibò, se i suoi capelli non li ho veduti...
ARL.
Ben, podì dir: che sospirando per le pupille delle vostre luci...
LEL.
Non ho veduto né meno i suoi occhi.
ARL.
Mo cossa avì visto? El so mustazzo?
LEL.
Sì, ma dal zendale coperto.
ARL.
Ho capido.
Podì donca dir cussì: È tanto tempo, che innamorato del vostro zendale...
LEL.
Animalaccio! Il zendale non innamora.
ARL.
Bestiaccia! se non avì visto altro.
LEL.
Ho veduto e non ho veduto...
ARL.
Donca disì cussì: Essendo innamorato della vostra immaginaria bellezza...
LEL.
Non voglio metter la cosa in dubbio.
ARL.
Ma se no savì gnente de siguro.
LEL.
Come non so niente di sicuro? Il signor Pantalone mi ha assicurato chè fatta e detta.
ARL.
Donca scomenzè cussì.
Bellissima fatta e detta...
LEL.
Sei un asino.
ARL.
Sì un ignorante.
LEL.
A me non mancano termini equivalenti al merito della bellezza; e le dirò allimprovviso, che Amore ed Imeneo sono quei due fratelli, che prendendo la di lei bellezza per loro sorella, hanno stimolato il mio cuore ad inquartarsi nel parentado.
Vado a dirlo alla signora madre.
(parte)
SCENA SESTA
ARLECCHINO, poi BRIGHELLA
ARL.
Oh che sacco de spropositi! Più che ghinsegno, e manco limpara.
BRIGH.
Paesan, te saludo.
ARL.
Brighella, me ne consolo.
BRIGH.
De cossa?
ARL.
Semo da nozze.
BRIGH.
Nozze! de chi?
ARL.
De la to patrona col fiol del me patron.
BRIGH.
Ho gusto da galantomo.
Vale avanti? Se faral sto matrimonio?
ARL.
El zovene dis che el la vol; sior Pantalon ghha dà parola; no ghe manca alter che una cossa da niente.
BRIGH.
Che vol dir?
ARL.
Che se contenta la putta.
BRIGH.
E ti ghe disi una cossa da niente? Ma senti, paesan, el negozi se farà, perché so che la putta ghe vol ben.
ARL.
Comala mai fatt a innamorarse de quel mamalucco?
BRIGH.
Mi cred che el sia un maneggio de Corallina.
ARL.
Cossa chintrela Corallina?
BRIGH.
No sat, che Corallina lè quella che fa tutt per el sior Florindo? Lè venuda in casa de la me padrona col pretesto de vender un per de calze, e credo che labbia parlà de sto negozi tra el sior Florindo e la siora Rosaura.
ARL.
Tra el sior Florindo e la siora Rosaura? Ponto e virgola.
BRIGH.
Come? Ghè qualcossaltro?
ARL.
Mi digh che ste nozze le sha da far col sior Leli, e no col sior Florindo.
BRIGH.
Mo ti non ha dito col fiol del to patron?
ARL.
Ben: sior Lelio non èl so fiol?
BRIGH.
Lè fiastro, e no lè fiol.
ARL.
El patron lo chiama per fiol.
Lè fiol de so muier.
El sarà lerede, lè lu el patron, tutti lo chiama el fiol del sior Ottavi, e anca mi ghe digh so fiol.
BRIGH.
E con questo se sposerà la mia padrona?
ARL.
Sigura.
Sior Pantalon ghha dà la parola.
BRIGH.
(Me par impossibile!) (da sé) Mi credeva che ti parlassi de sior Florindo; adesso ho capido.
Ho gusto de saver; ghe lavviserò a Corallina e a sior Florindo.
ARL.
No, no, paesan.
Me pareva...
Ma no sarà vero.
BRIGH.
Eh furbo, te cognosso; ti vorressi voltarla, ma no ghè più tempo.
ARL.
No, caro paesan, lassa che i se destriga tra de lori: no se nimpazzemo.
Fame sto servizio.
BRIGH.
Mo sat che, se no ghel disesse, me vegniria tant de gosso?
ARL.
Perché?
BRIGH.
Perché a chi se trattien de parlar, ghe vien el gosso.
(parte)
ARL.
Mo no vorav miga, che me vegnissel gosso anca a mi.
Vago subito a dirlo al me patron, o alla me patrona, che se manizza stalter negozi...
Ma bisogna che vaga dal nodar...
No, lè mei prima che vaga a cà...
Ma se no vag dal nodar, i me bastona.
Cossè mei, el goss o le bastonade? Lè mei el gosso, finalmente lè una bellezza, e se tornerò al me paese col gosso, poderò vantarme de essere un bergamasco da Bergamo.
(parte)
SCENA SETTIMA
Camera in casa di Ottavio.
OTTAVIO e BEATRICE
OTT.
Mandate a dire al notaio, che verrà un altro giorno; oggi non ho volontà di discorrere.
BEAT.
Caro signor Ottavio, da qualche giorno in qua siete un poco tristerello.
Vi sentite male?
OTT.
Eppure lappetito mi serve.
BEAT.
Questo vostro appetito soverchio non mi piace.
Dice il medico che quasi tutti li vecchi, quando savvicinano alla morte, mangiano più del solito.
OTT.
Ma! voi mi vorreste veder morire.
Siete annoiata di me, signora Beatrice? Pazienza.
BEAT.
Oh caro marito mio, che cosa dite? Desidero la vostra salute più della mia.
Prego il cielo che viviate più di me.
OTT.
Vi posso credere?
BEAT.
Mi fate torto, se ne dubitate.
OTT.
Datemi la mano.
BEAT.
Eccola.
OTT.
Cara!
BEAT.
Poverino!
OTT.
Quando morirò, mi dispiacerà pur tanto di lasciarvi.
BEAT.
Via, non pensiamo a malinconie.
OTT.
Se moro io, ne prenderete altri?
BEAT.
Oh, non cè pericolo.
OTT.
Oh, né men io; se morite voi, non ne prendo altre.
BEAT.
Io ho da pregar il cielo che viviate, per molte ragioni.
OTT.
E quali sono, giojetta mia?
BEAT.
La prima, perché vi voglio bene.
OTT.
In questo poi siete corrisposta.
Son tutto vostro; non ci è pericolo che vi faccia torto.
BEAT.
Secondariamente, perché mi trattate sì bene, che sarei uningrata, se non lo conoscessi.
OTT.
Ah? vi tratto bene in tutto?
BEAT.
Sì, caro signor Ottavio, in tutto.
E per ultimo, se voi moriste, che cosa sarebbe di me, poverina?
OTT.
Ma! non ne trovereste un altro come me.
BEAT.
Ho un figlio grande, e senza impiego; siamo avvezzi a vivere con tante comodità.
Morto voi, maspetto che Florindo ci cacci villanamente fuori di casa, ci prenda tutto, e in premio davervi servito, davervi amato, davervi fatto vivere tanti anni di più, vedermi strapazzata, vilipesa, scacciata, e in istato forse di dover mendicare il pane.
OTT.
Non vi ho assegnato seimila scudi di dote?
BEAT.
Sì mi avete fatto quella carta, ma non è autenticata.
OTT.
Mi hanno detto che è valida; ma ciò non ostante, per compiacervi, la farò autenticare.
Ricordatemelo domani.
La tengo apposta nel mio scrittoio.
BEAT.
E poi a che servono seimila scudi? Se io restassi vedova con quel figliuolo, come viveremmo con un capitale di seimila scudi? Eh signor Ottavio, prevedo le mie disgrazie, prevedo di dover piangere per troppa mia dabbenaggine.
(piange)
OTT.
Via, cara, non piangete; ci penso, vi provvederò.
BEAT.
Eh sì: lo dite, ma non lo fate.
Il tempo passa, ogni giorno passa un giorno, e se aspettate lultima malattia, avrete altro in capo che pensare alla povera moglie, al povero Lelio, che non ha altro padre che voi.
OTT.
Non dubitate.
Uno di questi giorni farò testamento.
Ho pensato a tutto.
Vi voglio bene.
BEAT.
Ma, caro signor Ottavio, il testamento non accelera già la morte.
Farlo oggi, farlo domani, farlo da qui a un anno, da qui a due, per chi lo fa, è lo stesso.
Anzi, quando un uomo ha fatto testamento, si pone in calma, non ci pensa più, si è sgravato dun peso, e gode tranquillamente i suoi giorni, e vive probabilmente di più.
OTT.
Sapete che non dite male? In fatti tante volte mi sveglio la notte, e penso a questa cosa.
Sovente a tavola ancora ci penso.
Fatto chio labbia, non ci penserò più.
BEAT.
Voi mi benedirete, signor Ottavio, quando lo avrete fatto.
Vi contentate che venga questa sera il notaio?
OTT.
Fate quel che vi piace.
BEAT.
Domani vi parrà desser rinato.
OTT.
Mi fa un poco di ribrezzo questo far testamento, ma procurerò superarlo.
BEAT.
Sarebbe bella, che chiamando il medico per far purga, fosse un motivo per ammalarsi! Così del testamento; si fa per precauzione, e non per necessità.
OTT.
Voi parlate da quella donna che siete.
Oh, se mi foste capitata ventanni addietro! Cara la mia Beatrice, se maveste veduto da giovine!
BEAT.
Non sareste stato tutto mio.
OTT.
Oh, oh! Ventanni sono, trentanni sono...
Basta, ora potete viver sicura; non vi è pericolo.
BEAT.
Mimmagino che avrete preparata la vostra disposizione.
OTT.
Sì; appresso a poco lho divisato il mio testamento.
BEAT.
Ricordatevi che avete un figlio legittimo e naturale, il quale, benché per sua disgrazia sia scellerato, pure è vostro sangue, e non lo dovete privare delleredità.
OTT.
Brava! siete una donna savia e prudente: ammiro la vostra bontà.
Benché colui vabbia offesa, non gli volete male.
BEAT.
Anzi vi prego fargli del bene.
Io vi consiglierei lasciargli almeno almeno trecento scudi lanno.
OTT.
Quanti ne abbiamo ora dentrata? Una volta erano quattromila.
BEAT.
Oh, adesso le cose vanno malissimo.
Dopo che avete tralasciato di negoziare, ognanno si sono intaccati i capitali.
Levando ognanno trecento scudi netti, non vi restano ricchezze nel patrimonio.
OTT.
Basta; lascierò a voi tutte le mie facoltà col titolo di erede universale, con lobbligo di dare a Florindo trecento scudi lanno, e il testamento sarà presto fatto.
BEAT.
Con facoltà chio possa col mio testamento beneficar chi voglio.
OTT.
Ci sintende.
BEAT.
Questa sera lo fate, e domani non ci pensate più.
OTT.
Non vedo lora daverlo fatto.
SCENA OTTAVA
ARLECCHINO e detti.
ARL.
Signori...
(forte)
BEAT.
Zitto con quella voce, che fai stordire il signor Ottavio.
(Hai trovato il notaio?) (piano)
ARL.
(El vegnirà stassera).
(piano) Siori, ghè una novità.
BEAT.
Che cè?
ARL.
Se tratta matrimonio tra la fiola de sior Pantalon...
BEAT.
E Lelio mio figlio.
Lo sappiamo.
ARL.
Siora no.
Co sior Florindo.
BEAT.
Eh via, pazzo.
ARL.
Me lha dit Brighella, e chi tratta sto matrimonio, lè Corallina.
BEAT.
Ah indegna!
OTT.
Non andate in collera.
(a Beatrice) Ma come può essere? (ad Arlecchino)
ARL.
Lè cussì de siguro.
Brighella me lha confidà.
BEAT.
(Ah, questa è una cosa che sconcerta tutti i miei disegni.
Se ciò succede, Pantalone farà valere le ragioni del genero).
(da sé)
OTT.
Quietatevi, per carità.
Sia maledetto quando sei qui venuto! (ad Arlecchino)
ARL.
Mi ho fatt per ben.
OTT.
Va via di qua; non sarà vero.
ARL.
Se no lè vero, prego el ciel che possì (16) crepar.
OTT.
Maledetto! (gli dà una bastonata)
ARL.
Tolì, lera mei che me lassasse vegnir el gosso.
(parte)
SCENA NONA
OTTAVIO e BEATRICE
BEAT.
Perfida Corallina! me la pagherai.
OTT.
Cuor mio, non andate in collera.
BEAT.
Sentite la vostra cara Corallina? la vostra serva fedele?
OTT.
Via, siate buonina.
BEAT.
Le farò fare uno sfregio.
OTT.
Sì, cara, sì, quietatevi.
BEAT.
Lasciatemi stare, non mi seccate.
OTT.
Via, che farò testamento.
BEAT.
Quando?
OTT.
Questa sera.
BEAT.
Ah! tutti mi vogliono male.
OTT.
Ma io vi voglio bene.
BEAT.
Lo vedremo.
OTT.
Vi lascierò erede di tutto.
BEAT.
Me lo sarò guadagnato questo poco di bene.
OTT.
Ma non intendo già di morire per ora.
BEAT.
Corallina indegna!
OTT.
Siamo da capo.
BEAT.
Voglio farla pentire de suoi maneggi; e se non giovano le minacce, metterò in opra i fatti.
(parte)
SCENA DECIMA
OTTAVIO solo.
OTT.
Beatrice cara, sentite.
Uh povero me! sempre in collera, sempre grida.
Dopo chio lho, non è stata un giorno senza gridare; ed io non parlo mai.
Le voglio bene, mi piace, in questa età mè dun gran comodo, e non so disgustarla.
Questa sera mi converrà far testamento.
Non ne ho veramente gran volontà, ma per contentarla, lo farò.
Oh, quando siamo vecchi, bisogna pur soffrir le gran cose! Se siam poveri: quando crepa? Se siam ricchi: quando fa testamento? Ah misera umanità! Sarebbe ora chio pensassi a morire! Eh, un altro poco.
(parte)
SCENA UNDICESIMA
Camera in casa di Florindo.
CORALLINA e poi BRIGHELLA
COR.
A buon conto il notaio è dalla mia.
Conosce lingiustizia che si vuol fare a questo giovine, e mi darà campo di rimediarvi.
Non ha nemmeno voluto lo zecchino.
È galantuomo, è disinteressato.
Ma se a negozio finito gliene darò dieci, li prenderà.
BRIGH.
O de casa.
(di dentro)
COR.
Oh! Messer Brighella! Venite avanti.
BRIGH.
El vostro padron ghèlo?
COR.
No, non cè.
Che volete da lui?
BRIGH.
Da lu gnente.
Anzi ho gusto che nol ghe sia.
La mia padrona la vorria far un contrabando.
COR.
In che genere?
BRIGH.
La vorria vegnir qua da vu segretamente, per dirve una cossa che ghe preme.
COR.
Se vuol venire, è padrona.
Ma se comanda, verrò da lei.
BRIGH.
No, la ghha gusto de vegnir da vu per parlar con più libertà.
Ma no la vorria che ghe fusse sior Florindo.
COR.
Non cè, e non verrà per adesso.
BRIGH.
Vago donca a dirghelo.
COR.
Il signor Pantalone è in casa?
BRIGH.
El dorme, e per un per de ore nol se desmissia (17).
COR.
A questora calda può venire senza che nessuno la veda.
BRIGH.
E po, serrada in tel zendà (18), nissun la cognosse.
Avì savudo la nova?
COR.
Di che?
BRIGH.
Sior Lelio ha domandà la putta al patron.
COR.
Oh diavolo! Ed egli che cosa gli ha detto?
BRIGH.
I dise chel ghabbia dito de sì.
COR.
Possibile?
BRIGH.
Vado a darghe sta risposta a siora Rosaura, e po parleremo.
COR.
Io resto attonita!
BRIGH.
Ghho po un altro discorsetto da farve.
COR.
In materia di che?
BRIGH.
Tra vu e mi, a quattrocchi.
COR.
In che proposito?
BRIGH.
Basta...
So che tra vu e sior Florindo no ghe xe gnente de mal...
COR.
Eh, sì sì, caro.
Quando il sasso è tratto, non si ritira indietro.
BRIGH.
La giusteremo.
Schiavo, schiavo, la giusteremo.
(parte)
SCENA DODICESIMA
CORALLINA, poi FLORINDO
COR.
In fatti, se dovessi rimaritarmi, Brighella sarebbe per me un buon partito.
È uomo di garbo, ha qualche cosa del suo...
Ma chi sa come anderanno le cose del signor Florindo? Spero bene, ma possono anche andar male.
Questa novità sconcerta, e bisogna sollecitare il rimedio.
FLOR.
E bene, Corallina?
COR.
Oh siete qui? Avete veduto Brighella?
FLOR.
Io no, vengo ora da dormire.
COR.
Ed io credeva che foste fuori di casa.
Presto, presto prendete la spada ed il cappello, e andate a fare una passeggiata.
FLOR.
Perché?
COR.
Vi dirò.
La signora Rosaura vuol venire da me, e non ha piacere che ci siate voi.
FLOR.
Che vorrà mai la signora Rosaura?
COR.
Non vho detto chella vi vuol bene? Che spero di concludere questo buon negozio per voi?
FLOR.
Se non saggiustano le cose mie, è superfluo trattarne.
COR.
Non dubitate, anderà tutto bene.
FLOR.
E se saggiustano, Corallina mia, ho qualche altra idea per il capo.
COR.
Come, signor Florindo, avete voi qualche altro amoretto?
FLOR.
Damoretti non mi diletto, ma sono un uomo onesto, un galantuomo; povero sì, ma grato.
COR.
Tutte queste cose vi fanno meritevole di un buon partito, e quello della signora Rosaura non è fortuna da trascurarsi.
FLOR.
Per ora sospendete il parlar di ciò.
COR.
Ma capperi! Ella or ora verrà da me, e ripigliando il discorso della mattina, mi porrà forse in necessità di dirle qualche cosa di positivo.
FLOR.
Al vostro spirito non mancheranno pretesti per disimpegnarvi.
COR.
Ditemi, in grazia.
Che cosa vi dispiace nella signora Rosaura? Non è bella?
FLOR.
Sì, bellissima.
COR.
Non è di buon parentado?
FLOR.
È vero.
COR.
Non è ricca?
FLOR.
Non dico il contrario.
COR.
Dunque che difficoltà ci avete?
FLOR.
Corallina, per ora non mi obbligate a dirvi di più.
COR.
Bravo! Bella gratitudine che dimostrate dellamor che ho per voi! Mi negate, perfido, la confidenza del vostro cuore.
Pazienza! Ho fatto tanto, e non ho fatto nulla.
Già maspetto vedervi amante di una fraschetta, e andar in fumo que bei disegni, che ho con tanto studio in vostro pro divisati.
FLOR.
Ah Corallina, non sono di ciò capace.
Conosco il bene che voi mi fate, non sono ingrato...
lo vederete...
Non sono ingrato.
COR.
Dunque, se grato siete, parlatemi con sincerità, e sia una ricompensa allamor che ho per voi, la confessione dei vostri occulti pensieri.
FLOR.
Voi mi obbligate, ed io parlerò.
Corallina mia, se vorrà il cielo che mi sia fatta giustizia, se andrò al possesso de beni miei, sarà giusto chio mi mariti, ma sarà giusto altresì, che premiando il merito dellamor vostro, scelga voi per mia sposa.
COR.
Me, signore, per vostra sposa?
FLOR.
Sì, voi, che per tanti titoli ne siete degna.
COR.
Ci avete voi pensato?
FLOR.
Anzi questè il maggiore de miei pensieri.
Volea sospendere a dirvelo, sin tanto che il dirlo e il farlo stesse in mia mano; ma poiché mi violentate a spiegarmi, sì, ve lo replico, voi, e non altra sarà mia sposa.
COR.
Eh! via!
FLOR.
Ve lo giuro per quanto di più sacro...
COR.
Zitto: prima dimpegnarvi col giuramento, pensate meglio a ciò che siete per fare.
Lasciate chio vi parli da madre, piucché da serva, e che spogliandomi affatto dellamor proprio, vi apra gli occhi a meglio conoscere voi medesimo.
Vi ho amato, signor Florindo, posso dir dalle fasce, perché ambi in quelle rivolti, siamo insieme cresciuti.
Ebbi compassione di voi, scacciato dal padre, maltrattato dalla matrigna, oppresso dalla fortuna; e abbandonando il mio pane, il mio stato e le mie convenienze, venni ad assistervi, e soffrite chio il dica, colle mie sostanze ad alimentarvi.
Superai ogni riguardo, dissimulai le mormorazioni, soffersi deglincomodi, degli stenti, e talora perfino la privazione del pane.
Tutto ciò merita qualche cosa, e la vostra gratitudine è impegnata a ricompensarmi.
Non facciamo però che la ricompensa in voi oscuri il lume della ragione, e in me distrugga il merito della servitù.
Se mi premiaste col matrimonio, comparirebbe troppo interessato linnocente amor mio, e direbbesi che fu scorretta la nostra amicizia, e che per tirarvi io nella rete, avessi contribuito a distaccarvi dal padre.
A me preme lonor mio sopra tutto, e a voi deve premere il vostro.
Figlio unico di casa ricca e civile, vorreste avvilirvi collo sposare una serva? Ah, signor Florindo, non ci pensate nemmeno.
Se mi amate, ascoltatemi; se avete sti
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