LA SERVA AMOROSA, di Carlo Goldoni - pagina 5
...
...
(a Corallina)
COR.
Eh, non importa.
(come sopra)
BRIGH.
La l dise per modestia.
Ma chi sa che no la ghe nabbia bisogno? (a Rosaura)
COR.
Che credete? Chio abbia da comprarmi il pane con questi danari? Mi maraviglio di voi.
In casa del mio padrone non manca niente.
ROS.
Tenete.
Li aveva nella borsa, e non ci aveva pensato.
Eccovi uno zecchino e quattro paoli.
COR.
Non ci erano queste premure; li prendo per obbedirla.
ROS.
A rivederci.
Oggi discorreremo.
(Florindo mi è sempre piaciuto; e costei ha finito dinnamorarmi).
(da sé, parte)
SCENA TREDICESIMA
BRIGHELLA e CORALLINA
BRIGH.
Cara siora Corallina, mi parlo per ben, e vu andè in collera.
COR.
Avete un gran cattivo concetto di me e del mio padrone; e vi assicuro che cè per voi da parte una borsetta, con sei zecchini ruspi di padella.
BRIGH.
Per che rason?
COR.
Se nasce un certo non so che.
BRIGH.
Cossa, cara vu?
COR.
Avete da sapere che il mio padrone...
BRIGH.
Son qua.
I me chiama.
Se parleremo.
COR.
Venite da me, che vi dirò tutto.
BRIGH.
Non occorraltro.
A revéderse.
(Vardè quando i dis: i denari i è dove no se crede).
(da sé, parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
CORALLINA sola.
COR.
Così, a caso, mi è riuscito piantare una bella macchina.
Se la cosa va bene, spero far la fortuna del mio padrone.
Egli è di buona nascita, è figlio di padre ricco, è di buoni costumi, onde non può essere che un buon partito per la signora Rosaura.
Resta a superare la disgrazia che egli ha con suo padre per causa della matrigna.
E questo è quello che mi fa lavorar col cervello.
Sio potessi arrivare a parlare col signor Ottavio, forse forse mi comprometterei assaissimo.
Egli mi voleva gran bene e mi ascoltava, prima che si pigliasse codesto diavolo in casa.
Basta, chi sa? Intanto vo tenendo il signor Florindo in riputazione, e per ciò fare, mi sforzo di dire qualche bugia.
Ne diciamo tante per far del male; non saprei: mi farò lecito dirne quattro per far del bene.
Oh, se mi riesce il colpo, la signora Beatrice vuol restar brutta! Niuno vorrà credere chio ami tanto il signor Florindo, e lo ami senza interesse; poiché le donne sono presso degli uomini in mal concetto.
Ma io farò vedere che anche noi sappiamo essere amorose e disinteressate, e che il mio cuore è di una pasta sì dolce, che chi ne assaggia una volta, non se ne scorda mai più.
(parte)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Strada.
FLORINDO, poi CORALLINA
FLOR.
Misero me! Perfida donna! Fargli far testamento? Perdermi, rovinarmi per sempre?
COR.
Allegri, signor Florindo.
FLOR.
Non ho mai avuto maggior motivo di piangere.
COR.
Ho delle buone nuove.
FLOR.
Ed io ne ho delle pessime.
COR.
Ma voi siete il padre degli spasimi.
Che cosa è stato? Che cè di nuovo?
FLOR.
La signora Beatrice ha indotto mio padre a far il suo testamento.
Figuratevi come sarò io trattato.
COR.
Lo sapete di certo?
FLOR.
Arlecchino è venuto in casa nostra due ore sono, e mi ha narrato lordine avuto di ricercare il notaio.
COR.
Questa cosa mi dispiace assaissimo.
Come mai si è indotto a far testamento? Egli non ne voleva sentir parlare.
FLOR.
A forza di lusinghe e di studiate finzioni, lo ha tirato a in tal passo.
Questa è lultima mia rovina.
COR.
Finalmente non potrà privarvi di tutto.
FLOR.
Se non di tutto, potrà privarmi di molto.
I nostri beni sono tutti liberi, la maggior parte da mio padre acquistati.
Sa il cielo che cosa gli faranno fare.
Fra la moglie e il figliastro mi spogliano, mi rovinano.
COR.
Conviene ritrovarci qualche rimedio.
Arlecchino lha ritrovato il notaio?
FLOR.
Lo ricercava, ed ha lasciato lordine al di lui studio.
COR.
Chi è egli? Come chiamasi?
FLOR.
Un certo Agapito, detto per soprannome degli etcetera.
COR.
So benissimo.
È il notaio di casa.
Lasciate fare a me.
Procurerò di vederlo.
Lo conosco da molti anni; può essere che mi riesca di guadagnarlo.
FLOR.
Eh Corallina mia, senza danaro non si fa niente.
COR.
Belle promesse, e uno zecchino a conto, può fare sperar qualche cosa.
FLOR.
Circa alle promesse si può abbondare, anche con animo di mantenerle: ma la difficoltà maggiore consiste nello zecchino.
COR.
Voi non lavete?
FLOR.
Oh Dio! Non ho un soldo.
COR.
Io nemmeno.
FLOR.
Dunque lo sperarlo è vano.
COR.
Presto; in virtù della mia polvere, comparisca uno zecchino.
Eccolo.
(fa vedere a Florindo lo zecchino)
FLOR.
Dove lavete avuto? (con allegria)
COR.
Non sapete chio faccio venir li zecchini di sotterra?
FLOR.
Ditelo, cara Corallina, dove lavete avuto? Lha mandato forse mio padre?
COR.
Sì, vostro padre! Le mie povere mani.
Le mie calze vendute.
FLOR.
Ah Corallina mia, il cielo vi benedica.
COR.
Con questo zecchino a conto, può essere che facciamo qualche cosa di buono.
FLOR.
E non vi comprerete un pane?
COR.
Presto, in virtù della mia polvere...
(mette la mano in tasca)
FLOR.
Un altro zecchino?
COR.
No, quattro paoli.
Con questi oggi si mangerà.
FLOR.
Ma che provvidenza è mai questa?
COR.
Andate subito a ritrovar ser Agapito.
Procurate condurlo a casa nostra, senza chegli sappia il perché; indi lasciate operare a me.
FLOR.
Vado subito...
Ma qual felice nuova dovevate voi darmi?
COR.
Ne parleremo.
Or non cè tempo.
FLOR.
Datemene un picciol cenno.
COR.
Vi voglio ammogliare.
FLOR.
Oh Dio? Con chi?
COR.
Con una che vi piacerà.
FLOR.
Così miserabile?
COR.
Non importa: lasciate fare a me.
FLOR.
Corallina...
COR.
Andate, prima che il notaio si porti da vostro padre.
FLOR.
Ah, se avessi da maritarmi...
Se fossi in istato..
COR.
Chi prendereste?
FLOR.
Non voglio dirvelo.
COR.
Via, non perdiamo tempo.
FLOR.
(Se non fossi sì misero, vorrei sposar Corallina).
(da sé)
COR.
Presto, camminate.
FLOR.
(La sua bontà lo merita: la mia gratitudine lo vorrebbe).
(da sé, parte)
SCENA SECONDA
CORALLINA sola.
COR.
Io credo benissimo chegli sia innamorato un poco della signora Rosaura; lo vedo spesso alla finestra, ma il povero giovine si avvilisce, e non ha coraggio nemmeno di parlare.
Lamore è una gran passione; ma la fame la supera.
SCENA TERZA
PANTALONE e detta.
PANT.
Oh! quella zovene, giusto vu ve cercava.
COR.
Mi comandi, signor Pantalone.
PANT.
No seu vu, che ha vendù un per de calze a mia fia?
COR.
Sì, signore.
Le ha forse pagate troppo?
PANT.
No digo che la le abbia pagae né troppo, né poco.
No son omo che varda a ste minuzie, e lasso che in ste cosse mia fia se sodisfa.
Ve digo ben, che in casa mia me farè servizio a no ghe vegnir.
COR.
Perché, signor Pantalone? Ho commesso qualche mala creanza?
PANT.
No ve nabbiè per mal.
In casa mia no ghho gusto che ghe vegnì.
COR.
Benissimo: sarà servito.
Ella è padrone di casa sua.
Può ricever chi vuole; può cacciar via chi comanda: è un signore tutto prudenza, non è capace di operar senza fondamento, non è capace di lasciarsi acciecare dalla passione; avrà i suoi giusti motivi, le sue giuste ragioni.
Non mi vuole in casa sua? Pazienza, non ne son degna, e non ci verrò mai più.
Non lo disgusterei per tutto loro del mondo.
Il signor Pantalone de Bisognosi, che con tanto amore, con tanta carità, sè interessato a favore del mio padrone, disgustarlo? Il cielo me ne guardi! No, signor Pantalone, non dubiti, lassicuro: in casa sua non ci verrò mai più.
PANT.
Piuttosto, se ve bisogna qualcossa, comandeme, mandeme a chiamar, vegnì al negozio: vegnì dove che pratico, che ve servirò volentiera.
COR.
Giacché ella ha tanta bontà per me, vorrei supplicarla di una grazia.
PANT.
Disè pur.
In quel che posso, ve servirò.
COR.
Perdoni, se troppo ardisco...
PANT.
Parlè, cara fia; disè cossa che volè.
COR.
Vorrei che per finezza, per grazia, mi dicesse il motivo, perché non vuole chio venga nella sua casa.
PANT.
Ve lo dirò liberamente.
Ho avudo tanto poco gusto, tanta mala fortuna per aver parlà a favor de sior Florindo, che no voggio più intrigarmene né poco, né assae; e no vôi aver da far co nissun, che dependa da quella casa.
COR.
Benissimo; son persuasa; lodo la sua condotta, e non ho motivo di lamentarmi.
Dubitava quasi chella avesse mal concetto di me.
PANT.
Oh no, fia (14).
COR.
Ella saprà benissimo, chio sono una donna onorata.
PANT.
No digo al contrario...
COR.
Che in casa del signor Ottavio, dove sono nata, cresciuta, maritata e rimasta vedova, non ho mai dato motivo di mormorare de fatti miei.
PANT.
Xe verissimo...
COR.
E se sono venuta a stare col signor Florindo, lho fatto per amicizia, per compassione, per carità.
PANT.
Qua mo, qua mo tutti no crede che la sia cussì.
COR.
E che credono? Chio sia una sfacciata, una donna scorretta, una poco di buono? So che il signor Pantalone non lo crede, so che un uomo onesto, un galantuomo, non è capace di pensar male degli altri.
Ma giuro al cielo, se vi fosse persona che ardisse macchiar in un picciol neo la mia reputazione, benché sia donna, avrei coraggio di saltargli alla vita, graffiargli il viso, strappargli la lingua, cavargli il cuore.
PANT.
(Aseo! (15)) Fia mia, per mi digo che sè una donna onoratissima, e non ho mai dito gnente dei fatti vostri.
COR.
Ma in casa sua non mi vuole.
PANT.
No voggio dito el perché?
COR.
Mi fa questo smacco di non volermi.
PANT.
Vavè pur persuaso anca vu.
COR.
Giuoco io, che questo non volermi in casa, deriva dal credermi una donna cattiva.
Signor Pantalone...
(irata)
PANT.
Mo se ve digo de no.
Mo se vho dito el perché.
(Custia xe una bestia, la fa la gatta morta, e po tutto in tuna volta la dà fogo al pezzo).
(da sé)
COR.
Come centro io, come centra il signor Florindo, se dal signor Ottavio e dalla signora Beatrice ha ricevuti degli sgarbi e dei dispiaceri?
PANT.
No vôi dar motivo a siora Beatrice de perderme unaltra volta el respetto, e obbligarme a far de quelle ressoluzion, che son capace de far.
COR.
Anzi, mi perdoni, signor Pantalone ella è un uomo di virtù, di prudenza, ma questa volta singanna.
Una vendetta onesta è lodabile qualche volta.
Per rifarsi delle impertinenze della signora Beatrice, dovrebbe anzi assistere e favorire il povero signor Florindo.
In questa maniera farebbe unopera di pietà; e questopera di pietà tornerebbe in profitto dellinnocente, in danno della matrigna, e in gloria del signor Pantalone, il quale sendo uomo di mente e di cuore, avrebbe ritrovata la maniera di vendicarsi da uomo grande, da uomo celebre, da par suo.
PANT.
Vu disè ben, e me piase la massima, e ghaveva pensà anca mi.
Ma cossa possio far per sto putto? Mi no son so parente, mi no ghho titolo de agir per ello.
Lu el ghha poco spirito, quella donna xe un diavolo; no ghe trovo remedio.
COR.
Eh! ve lo troverei ben io il rimedio, sio fossi ne piedi del signor Pantalone.
PANT.
Via mo, come?
COR.
È un dar acqua al mare, voler dar consigli ad un uomo della sua qualità.
PANT.
Parlè, che me fe servizio.
COR.
Per obbedirla, dirò: vuol ella acquistare un titolo sopra il signor Florindo, e potere a faccia scoperta operar per lui, e far che stieno a dovere il padre, la matrigna, il fratellastro, e tutti li suoi nemici?
PANT.
Via mo, come?
COR.
Lo prenda in casa, gli dia per moglie la signora Rosaura...
PANT.
Mo adasio, adasio.
No la xe miga una bagattella...
COR.
Sa ella che il signor Florindo è figlio unico? Che ha suo padre quattro o cinque mila scudi dentrata? Che se non casca il mondo, hanno ad essere tutti suoi?
PANT.
Xe vero; ma...
COR.
Non vede che il signor Ottavio è vecchio, indisposto, imperfetto; che poco può vivere, e che presto il figlio sarà padrone?
PANT.
Ma intanto...
COR.
E poi quel temperamento adorabile del signor Florindo non è una gioja, non è un tesoro? non è adorabile?
PANT.
Tutto va ben.
Ma mia fia anca ella xe unica, anca ella ghha el so bisogno, e no voggio maridarla co sti pastizzi.
COR.
Favorisca.
Già facciamo così per discorrere, per passare il tempo.
Se il signor Florindo fosse in casa, fosse erede, fosse come dovrebbe essere, avrebbe difficoltà di dargli la sua figliuola?
PANT.
Mi no.
La casa xe bona, el putto me piase.
COR.
Orsù; vede vossignoria questa donnetta? Quanto vale, che non passa domani che il signor Florindo è in casa, è padrone, e la signora Beatrice colle trombe nel sacco batte la ritirata?
PANT.
Magari! Ghaverave gusto da galantomo.
COR.
Allora gliela darebbe la signora Rosaura?
PANT.
Ve digo de sì.
COR.
Chi sa poi allora, se il signor Florindo fosse di tal opinione.
Per questo voleva io che il signor Pantalone avesse merito nel suo accomodamento, acciò ad occhi chiusi il mio padrone prendesse per moglie la signora Rosaura.
PANT.
Mo perché ghaveu sta premura? Che interesse ghaveu per mi, e per Rosaura mia fia?
COR.
Confesso il vero: mi levo la maschera.
Tutto faccio per il mio padrone.
Conosco la signora Rosaura, so chè una buona figlia, so che per lui sarebbe un partito doro.
Ho paura, se entra in grandezza, che gli amici, che i parenti lo tirino a qualche matrimonio avvantaggioso in apparenza, e pregiudiciale in sostanza.
Che gli tocchi qualche vanerella, qualche civettuola di quelle del tempo doggidì; essendovi troppo gran carestia di fanciulle savie, morigerate, come la vostra, che il cielo ve la benedica.
E per questo la vorrei assicurare per il signor Florindo, e gliene ho parlato, e sarebbe contento ed ella forse forse non direbbe di no, e sarebbe un matrimonio che farebbe crepar dinvidia mezza città, e mezza giubilerebbe dal contento.
Ma vossignoria ha i suoi riguardi, non vuole, non le pare.
Non so che dire.
Se il signor Florindo torna in casa, sarà attorniato, sarà sedotto, non mi ascolterà forse più.
Me ne dispiace, ma non cè rimedio.
PANT.
Cara Corallina, no buttè le cosse in desperazion.
Lassè che ghe pensa suso.
Sti negozi no i se fa co sto precipizio.
Me piase lidea, la lodo, ghe trovo delle difficoltà, ma ghe trovo del bon.
Deme tempo, e pol esser che me ressolva.
COR.
E se succede qualche novità?
PANT.
Avviseme.
COR.
In casa sua non ci devo venire.
PANT.
No, no: vegnì pur in casa mia, che ve dago licenza.
Vedo che sè una donna de garbo, e che de vu me posso fidar.
COR.
Basta; non vorrei...
PANT.
E po, co cerchè de maridar sior Florindo, xe segno che con lu no ghè gnente.
COR.
E cerco di maritarmi ancor io.
PANT.
No faressi mal: sè zovene.
COR.
Non vi è altro, che non ho dote.
PANT.
Vu sè pur stada maridada unaltra volta.
Cossa aveu fatto della vostra dota?
COR.
La dote chio aveva allora, è andata.
PANT.
Col vostro spirito no ve mancherà un bon partìo.
COR.
Eh signor Pantalone, ci vuol altro che spirito!
PANT.
Sè una bona donna, el cielo ve provederà.
COR.
Sentite: io vi parlo schietto.
Faccio tanto per il signor Florindo: spero che anchegli qualche cosa farà per me.
Se va bene per lui, per me pure mi lusingo che non anderà male; e se sarà padrone del suo, son certa che un po di dote me la darà.
Conosco il suo buon cuore, so chè un figliuolo grato ed onesto; ma quando ancora mi dovessi ingannare, e meco dovesse essere ingrato, non mi pentirò mai di quello che per lui ho fatto, essendo certa e sicura, che il bene è sempre bene; e che tutto il bene, che da noi si fa, viene ricompensato dal cielo; signor sì, dal cielo, che conosce il cuore delle persone, e premia e rimunera le buone opere e le buone intenzioni.
Signor Pantalone la riverisco divotamente.
(parte)
SCENA QUARTA
PANTALONE, poi LELIO
PANT.
Mo che donna de proposito! Ho ben gusto daverla cognossua.
Vardè quando che i dise delle mormorazion.
Tutti crede che la staga co sior Florindo, perché i sia innamorai.
Oh, semo pur la gran zente cattiva a sto mondo! Sto fatto de sta donna me mette la testa a partìo, e me farà da qua avanti pensar ben, ma ben, avanti de formar giudizio delle persone.
Sto negozio de sto matrimonio no me despiaserìa; se se podesse combinar...
se fusse vero che el tornasse in casa...
LEL.
Signor Pantalone de Bisognosi, la riverisco profondamente.
PANT.
Servitor umilissimo.
(vuol partire)
LEL.
La supplico, ho da parlarle.
PANT.
Cossa vorla, patron?
LEL.
La mia signora madre la riverisce.
PANT.
Obbligatissimo a le so grazie.
(vuol partire)
LEL.
Signore, le ho da parlare duna cosa che preme.
PANT.
Ghho un pochetto da far.
No posso trattegnirme.
LEL.
In due parole la sbrigo.
PANT.
Via mo? la diga.
LEL.
La mia signora madre vuole chio mi mariti.
PANT.
Me ne rallegro infinitamente.
LEL.
E per questo mi ha mandato da vossignoria.
PANT.
Cossa songio mi, sanser da matrimoni?
LEL.
No signore, non mi manda dal sensale.
Mi manda dal mercante a drittura.
PANT.
Se la vuol qualcossa dal mio negozio, la vaga dai zoveni, che mi no me ne impazzo.
LEL.
Dunque mi dà libertà, chio vada a trattar colla giovine?
PANT.
Co la zovene? Ho dito coi zoveni.
LEL.
Ha figliuoli maschi vossignoria?
PANT.
Patron no, no ghho altro che una fia femena.
LEL.
E dice chio me la intenda con lei?
PANT.
Ma che mercanzia cerchela, patron?
LEL.
La mia signora madre vuole chio mi mariti.
PANT.
E la lo manda da mi per comprar i abiti?
LEL.
No signore, non mi manda per gli abiti, mi manda per la sposa.
PANT.
E chi èla la sposa?
LEL.
Non avete una figlia?
PANT.
Patron sì.
LEL.
«Passato ha il merlo il rio:
Intendami chi può, che mintendio».
PANT.
(O che pezzo de matto!) (da sé) Ho capìo tutto, me comandela altro?
LEL.
Non altro.
PANT.
Servitor umilissimo.
LEL.
Ci siamo intesi.
PANT.
Senzaltro.
LEL.
È fatta?
PANT.
E dita.
LEL.
Vuol venir dalla signora madre?
PANT.
No posso in verità.
Ghho un pochetto da far.
LEL.
Che cosa vuol chio le dica?
PANT.
La ghe diga quel che la vol.
LEL.
Posso andare?
PANT.
Per mi, la mando.
LEL.
Servitor umilissimo.
PANT.
Patron mio riveritissimo.
(Oh che allocco! Oh che allocco! O che babbuin!) (da sé, parte)
SCENA QUINTA
LELIO, poi ARLECCHINO
LEL.
Oh me felice! Con quanta facilità il signor Pantalone mi ha accordata la sua figliuola! Con meno parole non si poteva fare un trattato di matrimonio.
ARL.
Dove diavol ve sì ficcado? La patrona ve cerca.
LEL.
Arlecchino, ti ho da dare una buona nuova.
ARL.
Via mo.
LEL.
Io son fatto sposo.
ARL.
Disì da bon?
LEL.
Non vedo lora che lo sappia la signora madre.
ARL.
E chi èla la sposa?
LEL.
Indovinala.
Se lindovini, ti do due soldi.
ARL.
Èla fursi...
LEL.
Signor no.
ARL.
La sarà...
LEL.
Né meno.
ARL.
Mo lasseme dir.
Anca sì che lè...
LEL.
Non la puoi indovinare.
ARL.
Ma donca disìla vu.
LEL.
È la figlia del signor Pantalone.
ARL.
Mo se tra sior Pantalon e la siora Beatrice ghè stà dei radeghi.
LEL.
La signora madre mi ha dato licenza.
ARL.
E cossa dis el sior Pantalon?
LEL.
È contentissimo.
Qui adesso, in questo momento, gli ho domandata la figlia, ed egli mi ha risposto: è fatta e detta.
ARL.
Bon: evviva, me ne consolo.
Vederemo una bella razza.
LEL.
Orsù andiamo dalla signora madre.
ARL.
Andè pur da per vu, che mi bisogna che torna dal nodaro.
LEL.
Oh sì, dal notaio, che farà la scrittura del mio contratto.
ARL.
Avì parlà colla sposa?
LEL.
Non ancora.
ARL.
Tutto sta a quel primo incontro.
Portarse ben la prima volta, e entrarghe in grazia a drittura.
LEL.
Che cosa pensi tu chio potessi dirle la prima volta, quando le parlo?
ARL.
Dir per esempio: È tanto tempo che sospirando per i crini della vostra bellezza...
LEL.
Oibò, oibò, se i suoi capelli non li ho veduti...
ARL.
Ben, podì dir: che sospirando per le pupille delle vostre luci...
LEL.
Non ho veduto né meno i suoi occhi.
ARL.
Mo cossa avì visto? El so mustazzo?
LEL.
Sì, ma dal zendale coperto.
ARL.
Ho capido.
Podì donca dir cussì: È tanto tempo, che innamorato del vostro zendale...
LEL.
Animalaccio! Il zendale non innamora.
ARL.
Bestiaccia! se non avì visto altro.
LEL.
Ho veduto e non ho veduto...
ARL.
Donca disì cussì: Essendo innamorato della vostra immaginaria bellezza...
LEL.
Non voglio metter la cosa in dubbio.
ARL.
Ma se no savì gnente de siguro.
LEL.
Come non so niente di sicuro? Il signor Pantalone mi ha assicurato chè fatta e detta.
ARL.
Donca scomenzè cussì.
Bellissima fatta e detta...
LEL.
Sei un asino.
ARL.
Sì un ignorante.
LEL.
A me non mancano termini equivalenti al merito della bellezza; e le dirò allimprovviso, che Amore ed Imeneo sono quei due fratelli, che prendendo la di lei bellezza per loro sorella, hanno stimolato il mio cuore ad inquartarsi nel parentado.
Vado a dirlo alla signora madre.
(parte)
SCENA SESTA
ARLECCHINO, poi BRIGHELLA
ARL.
Oh che sacco de spropositi! Più che ghinsegno, e manco limpara.
BRIGH.
Paesan, te saludo.
ARL.
Brighella, me ne consolo.
BRIGH.
De cossa?
ARL.
Semo da nozze.
BRIGH.
Nozze! de chi?
ARL.
De la to patrona col fiol del me patron.
BRIGH.
Ho gusto da galantomo.
Vale avanti? Se faral sto matrimonio?
ARL.
El zovene dis che el la vol; sior Pantalon ghha dà parola; no ghe manca alter che una cossa da niente.
BRIGH.
Che vol dir?
ARL.
Che se contenta la putta.
BRIGH.
E ti ghe disi una cossa da niente? Ma senti, paesan, el negozi se farà, perché so che la putta ghe vol ben.
ARL.
Comala mai fatt a innamorarse de quel mamalucco?
BRIGH.
Mi cred che el sia un maneggio de Corallina.
ARL.
Cossa chintrela Corallina?
BRIGH.
No sat, che Corallina lè quella che fa tutt per el sior Florindo? Lè venuda in casa de la me padrona col pretesto de vender un per de calze, e credo che labbia parlà de sto negozi tra el sior Florindo e la siora Rosaura.
ARL.
Tra el sior Florindo e la siora Rosaura? Ponto e virgola.
BRIGH.
Come? Ghè qualcossaltro?
ARL.
Mi digh che ste nozze le sha da far col sior Leli, e no col sior Florindo.
BRIGH.
Mo ti non ha dito col fiol del to patron?
ARL.
Ben: sior Lelio non èl so fiol?
BRIGH.
Lè fiastro, e no lè fiol.
ARL.
El patron lo chiama per fiol.
Lè fiol de so muier.
El sarà lerede, lè lu el patron, tutti lo chiama el fiol del sior Ottavi, e anca mi ghe digh so fiol.
BRIGH.
E con questo se sposerà la mia padrona?
ARL.
Sigura.
Sior Pantalon ghha dà la parola.
BRIGH.
(Me par impossibile!) (da sé) Mi credeva che ti parlassi de sior Florindo; adesso ho capido.
Ho gusto de saver; ghe lavviserò a Corallina e a sior Florindo.
ARL.
No, no, paesan.
Me pareva...
Ma no sarà vero.
BRIGH.
Eh furbo, te cognosso; ti vorressi voltarla, ma no ghè più tempo.
ARL.
No, caro paesan, lassa che i se destriga tra de lori: no se nimpazzemo.
Fame sto servizio.
BRIGH.
Mo sat che, se no ghel disesse, me vegniria tant de gosso?
ARL.
Perché?
BRIGH.
Perché a chi se trattien de parlar, ghe vien el gosso.
(parte)
ARL.
Mo no vorav miga, che me vegnissel gosso anca a mi.
Vago subito a dirlo al me patron, o alla me patrona, che se manizza stalter negozi...
Ma bisogna che vaga dal nodar...
No, lè mei prima che vaga a cà...
Ma se no vag dal nodar, i me bastona.
Cossè mei, el goss o le bastonade? Lè mei el gosso, finalmente lè una bellezza, e se tornerò al me paese col gosso, poderò vantarme de essere un bergamasco da Bergamo.
(parte)
SCENA SETTIMA
Camera in casa di Ottavio.
OTTAVIO e BEATRICE
OTT.
Mandate a dire al notaio, che verrà un altro giorno; oggi non ho volontà di discorrere.
BEAT.
Caro signor Ottavio, da qualche giorno in qua siete un poco tristerello.
Vi sentite male?
OTT.
Eppure lappetito mi serve.
BEAT.
Questo vostro appetito soverchio non mi piace.
Dice il medico che quasi tutti li vecchi, quando savvicinano alla morte, mangiano più del solito.
OTT.
Ma! voi mi vorreste veder morire.
Siete annoiata di me, signora Beatrice? Pazienza.
BEAT.
Oh caro marito mio, che cosa dite? Desidero la vostra salute più della mia.
Prego il cielo che viviate più di me.
OTT.
Vi posso credere?
BEAT.
Mi fate torto, se ne dubitate.
OTT.
Datemi la mano.
BEAT.
Eccola.
OTT.
Cara!
BEAT.
Poverino!
OTT.
Quando morirò, mi dispiacerà pur tanto di lasciarvi.
BEAT.
Via, non pensiamo a malinconie.
OTT.
Se moro io, ne prenderete altri?
BEAT.
Oh, non cè pericolo.
OTT.
Oh, né men io; se morite voi, non ne prendo altre.
BEAT.
Io ho da pregar il cielo che viviate, per molte ragioni.
OTT.
E quali sono, giojetta mia?
BEAT.
La prima, perché vi voglio bene.
OTT.
In questo poi siete corrisposta.
Son tutto vostro; non ci è pericolo che vi faccia torto.
BEAT.
Secondariamente, perché mi trattate sì bene, che sarei uningrata, se non lo conoscessi.
OTT.
Ah? vi tratto bene in tutto?
BEAT.
Sì, caro signor Ottavio, in tutto.
E per ultimo, se voi moriste, che cosa sarebbe di me, poverina?
OTT.
Ma! non ne trovereste un altro come me.
BEAT.
Ho un figlio grande, e senza impiego; siamo avvezzi a vivere con tante comodità.
Morto voi, maspetto che Florindo ci cacci villanamente fuori di casa, ci prenda tutto, e in premio davervi servito, davervi amato, davervi fatto vivere tanti anni di più, vedermi strapazzata, vilipesa, scacciata, e in istato forse di dover mendicare il pane.
OTT.
Non vi ho assegnato seimila scudi di dote?
BEAT.
Sì mi avete fatto quella carta, ma non è autenticata.
OTT.
Mi hanno detto che è valida; ma ciò non ostante, per compiacervi, la farò autenticare.
Ricordatemelo domani.
La tengo apposta nel mio scrittoio.
BEAT.
E poi a che servono seimila scudi? Se io restassi vedova con quel figliuolo, come viveremmo con un capitale di seimila scudi? Eh signor Ottavio, prevedo le mie disgrazie, prevedo di dover piangere per troppa mia dabbenaggine.
(piange)
OTT.
Via, cara, non piangete; ci penso, vi provvederò.
BEAT.
Eh sì: lo dite, ma non lo fate.
Il tempo passa, ogni giorno passa un giorno, e se aspettate lultima malattia, avrete altro in capo che pensare alla povera moglie, al povero Lelio, che non ha altro padre che voi.
OTT.
Non dubitate.
Uno di questi giorni farò testamento.
Ho pensato a tutto.
Vi voglio bene.
BEAT.
Ma, caro signor Ottavio, il testamento non accelera già la morte.
Farlo oggi, farlo domani, farlo da qui a un anno, da qui a due, per chi lo fa, è lo stesso.
Anzi, quando un uomo ha fatto testamento, si pone in calma, non ci pensa più, si è sgravato dun peso, e gode tranquillamente i suoi giorni, e vive probabilmente di più.
OTT.
Sapete che non dite male? In fatti tante volte mi sveglio la notte, e penso a questa cosa.
Sovente a tavola ancora ci penso.
Fatto chio labbia, non ci penserò più.
BEAT.
Voi mi benedirete, signor Ottavio, quando lo avrete fatto.
Vi contentate che venga questa sera il notaio?
OTT.
Fate quel che vi piace.
BEAT.
Domani vi parrà desser rinato.
OTT.
Mi fa un poco di ribrezzo questo far testamento, ma procurerò superarlo.
BEAT.
Sarebbe bella, che chiamando il medico per far purga, fosse un motivo per ammalarsi! Così del testamento; si fa per precauzione, e non per necessità.
OTT.
Voi parlate da quella donna che siete.
Oh, se mi foste capitata ventanni addietro! Cara la mia Beatrice, se maveste veduto da giovine!
BEAT.
Non sareste stato tutto mio.
OTT.
Oh, oh! Ventanni sono, trentanni sono...
Basta, ora potete viver sicura; non vi è pericolo.
BEAT.
Mimmagino che avrete preparata la vostra disposizione.
OTT.
Sì; appresso a poco lho divisato il mio testamento.
BEAT.
Ricordatevi che avete un figlio legittimo e naturale, il quale, benché per sua disgrazia sia scellerato, pure è vostro sangue, e non lo dovete privare delleredità.
OTT.
Brava! siete una donna savia e prudente: ammiro la vostra bontà.
Benché colui vabbia offesa, non gli volete male.
BEAT.
Anzi vi prego fargli del bene.
Io vi consiglierei lasciargli almeno almeno trecento scudi lanno.
OTT.
Quanti ne abbiamo ora dentrata? Una volta erano quattromila.
BEAT.
Oh, adesso le cose vanno malissimo.
Dopo che avete tralasciato di negoziare, ognanno si sono intaccati i capitali.
Levando ognanno trecento scudi netti, non vi restano ricchezze nel patrimonio.
OTT.
Basta; lascierò a voi tutte le mie facoltà col titolo di erede universale, con lobbligo di dare a Florindo trecento scudi lanno, e il testamento sarà presto fatto.
BEAT.
Con facoltà chio possa col mio testamento beneficar chi voglio.
OTT.
Ci sintende.
BEAT.
Questa sera lo fate, e domani non ci pensate più.
OTT.
Non vedo lora daverlo fatto.
SCENA OTTAVA
ARLECCHINO e detti.
ARL.
Signori...
(forte)
BEAT.
Zitto con quella voce, che fai stordire il signor Ottavio.
(Hai trovato il notaio?) (piano)
ARL.
(El vegnirà stassera).
(piano) Siori, ghè una novità.
BEAT.
Che cè?
ARL.
Se tratta matrimonio tra la fiola de sior Pantalon...
BEAT.
E Lelio mio figlio.
Lo sappiamo.
ARL.
Siora no.
Co sior Florindo.
BEAT.
Eh via, pazzo.
ARL.
Me lha dit Brighella, e chi tratta sto matrimonio, lè Corallina.
BEAT.
Ah indegna!
OTT.
Non andate in collera.
(a Beatrice) Ma come può essere? (ad Arlecchino)
ARL.
Lè cussì de siguro.
Brighella me lha confidà.
BEAT.
(Ah, questa è una cosa che sconcerta tutti i miei disegni.
Se ciò succede, Pantalone farà valere le ragioni del genero).
(da sé)
OTT.
Quietatevi, per carità.
Sia maledetto quando sei qui venuto! (ad Arlecchino)
ARL.
Mi ho fatt per ben.
OTT.
Va via di qua; non sarà vero.
ARL.
Se no lè vero, prego el ciel che possì (16) crepar.
OTT.
Maledetto! (gli dà una bastonata)
ARL.
Tolì, lera mei che me lassasse vegnir el gosso.
(parte)
SCENA NONA
OTTAVIO e BEATRICE
BEAT.
Perfida Corallina! me la pagherai.
OTT.
Cuor mio, non andate in collera.
BEAT.
Sentite la vostra cara Corallina? la vostra serva fedele?
OTT.
Via, siate buonina.
BEAT.
Le farò fare uno sfregio.
OTT.
Sì, cara, sì, quietatevi.
BEAT.
Lasciatemi stare, non mi seccate.
OTT.
Via, che farò testamento.
BEAT.
Quando?
OTT.
Questa sera.
BEAT.
Ah! tutti mi vogliono male.
OTT.
Ma io vi voglio bene.
BEAT.
Lo vedremo.
OTT.
Vi lascierò erede di tutto.
BEAT.
Me lo sarò guadagnato questo poco di bene.
OTT.
Ma non intendo già di morire per ora.
BEAT.
Corallina indegna!
OTT.
Siamo da capo.
BEAT.
Voglio farla pentire de suoi maneggi; e se non giovano le minacce, metterò in opra i fatti.
(parte)
SCENA DECIMA
OTTAVIO solo.
OTT.
Beatrice cara, sentite.
Uh povero me! sempre in collera, sempre grida.
Dopo chio lho, non è stata un giorno senza gridare; ed io non parlo mai.
Le voglio bene, mi piace, in questa età mè dun gran comodo, e non so disgustarla.
Questa sera mi converrà far testamento.
Non ne ho veramente gran volontà, ma per contentarla, lo farò.
Oh, quando siamo vecchi, bisogna pur soffrir le gran cose! Se siam poveri: quando crepa? Se siam ricchi: quando fa testamento? Ah misera umanità! Sarebbe ora chio pensassi a morire! Eh, un altro poco.
(parte)
SCENA UNDICESIMA
Camera in casa di Florindo.
CORALLINA e poi BRIGHELLA
COR.
A buon conto il notaio è dalla mia.
Conosce lingiustizia che si vuol fare a questo giovine, e mi darà campo di rimediarvi.
Non ha nemmeno voluto lo zecchino.
È galantuomo, è disinteressato.
Ma se a negozio finito gliene darò dieci, li prenderà.
BRIGH.
O de casa.
(di dentro)
COR.
Oh! Messer Brighella! Venite avanti.
BRIGH.
El vostro padron ghèlo?
COR.
No, non cè.
Che volete da lui?
BRIGH.
Da lu gnente.
Anzi ho gusto che nol ghe sia.
La mia padrona la vorria far un contrabando.
COR.
In che genere?
BRIGH.
La vorria vegnir qua da vu segretamente, per dirve una cossa che ghe preme.
COR.
Se vuol venire, è padrona.
Ma se comanda, verrò da lei.
BRIGH.
No, la ghha gusto de vegnir da vu per parlar con più libertà.
Ma no la vorria che ghe fusse sior Florindo.
COR.
Non cè, e non verrà per adesso.
BRIGH.
Vago donca a dirghelo.
COR.
Il signor Pantalone è in casa?
BRIGH.
El dorme, e per un per de ore nol se desmissia (17).
COR.
A questora calda può venire senza che nessuno la veda.
BRIGH.
E po, serrada in tel zendà (18), nissun la cognosse.
Avì savudo la nova?
COR.
Di che?
BRIGH.
Sior Lelio ha domandà la putta al patron.
COR.
Oh diavolo! Ed egli che cosa gli ha detto?
BRIGH.
I dise chel ghabbia dito de sì.
COR.
Possibile?
BRIGH.
Vado a darghe sta risposta a siora Rosaura, e po parleremo.
COR.
Io resto attonita!
BRIGH.
Ghho po un altro discorsetto da farve.
COR.
In materia di che?
BRIGH.
Tra vu e mi, a quattrocchi.
COR.
In che proposito?
BRIGH.
Basta...
So che tra vu e sior Florindo no ghe xe gnente de mal...
COR.
Eh, sì sì, caro.
Quando il sasso è tratto, non si ritira indietro.
BRIGH.
La giusteremo.
Schiavo, schiavo, la giusteremo.
(parte)
SCENA DODICESIMA
CORALLINA, poi FLORINDO
COR.
In fatti, se dovessi rimaritarmi, Brighella sarebbe per me un buon partito.
È uomo di garbo, ha qualche cosa del suo...
Ma chi sa come anderanno le cose del signor Florindo? Spero bene, ma possono anche andar male.
Questa novità sconcerta, e bisogna sollecitare il rimedio.
FLOR.
E bene, Corallina?
COR.
Oh siete qui? Avete veduto Brighella?
FLOR.
Io no, vengo ora da dormire.
COR.
Ed io credeva che foste fuori di casa.
Presto, presto prendete la spada ed il cappello, e andate a fare una passeggiata.
FLOR.
Perché?
COR.
Vi dirò.
La signora Rosaura vuol venire da me, e non ha piacere che ci siate voi.
FLOR.
Che vorrà mai la signora Rosaura?
COR.
Non vho detto chella vi vuol bene? Che spero di concludere questo buon negozio per voi?
FLOR.
Se non saggiustano le cose mie, è superfluo trattarne.
COR.
Non dubitate, anderà tutto bene.
FLOR.
E se saggiustano, Corallina mia, ho qualche altra idea per il capo.
COR.
Come, signor Florindo, avete voi qualche altro amoretto?
FLOR.
Damoretti non mi diletto, ma sono un uomo onesto, un galantuomo; povero sì, ma grato.
COR.
Tutte queste cose vi fanno meritevole di un buon partito, e quello della signora Rosaura non è fortuna da trascurarsi.
FLOR.
Per ora sospendete il parlar di ciò.
COR.
Ma capperi! Ella or ora verrà da me, e ripigliando il discorso della mattina, mi porrà forse in necessità di dirle qualche cosa di positivo.
FLOR.
Al vostro spirito non mancheranno pretesti per disimpegnarvi.
COR.
Ditemi, in grazia.
Che cosa vi dispiace nella signora Rosaura? Non è bella?
FLOR.
Sì, bellissima.
COR.
Non è di buon parentado?
FLOR.
È vero.
COR.
Non è ricca?
FLOR.
Non dico il contrario.
COR.
Dunque che difficoltà ci avete?
FLOR.
Corallina, per ora non mi obbligate a dirvi di più.
COR.
Bravo! Bella gratitudine che dimostrate dellamor che ho per voi! Mi negate, perfido, la confidenza del vostro cuore.
Pazienza! Ho fatto tanto, e non ho fatto nulla.
Già maspetto vedervi amante di una fraschetta, e andar in fumo que bei disegni, che ho con tanto studio in vostro pro divisati.
FLOR.
Ah Corallina, non sono di ciò capace.
Conosco il bene che voi mi fate, non sono ingrato...
lo vederete...
Non sono ingrato.
COR.
Dunque, se grato siete, parlatemi con sincerità, e sia una ricompensa allamor che ho per voi, la confessione dei vostri occulti pensieri.
FLOR.
Voi mi obbligate, ed io parlerò.
Corallina mia, se vorrà il cielo che mi sia fatta giustizia, se andrò al possesso de beni miei, sarà giusto chio mi mariti, ma sarà giusto altresì, che premiando il merito dellamor vostro, scelga voi per mia sposa.
COR.
Me, signore, per vostra sposa?
FLOR.
Sì, voi, che per tanti titoli ne siete degna.
COR.
Ci avete voi pensato?
FLOR.
Anzi questè il maggiore de miei pensieri.
Volea sospendere a dirvelo, sin tanto che il dirlo e il farlo stesse in mia mano; ma poiché mi violentate a spiegarmi, sì, ve lo replico, voi, e non altra sarà mia sposa.
COR.
Eh! via!
FLOR.
Ve lo giuro per quanto di più sacro...
COR.
Zitto: prima dimpegnarvi col giuramento, pensate meglio a ciò che siete per fare.
Lasciate chio vi parli da madre, piucché da serva, e che spogliandomi affatto dellamor proprio, vi apra gli occhi a meglio conoscere voi medesimo.
Vi ho amato, signor Florindo, posso dir dalle fasce, perché ambi in quelle rivolti, siamo insieme cresciuti.
Ebbi compassione di voi, scacciato dal padre, maltrattato dalla matrigna, oppresso dalla fortuna; e abbandonando il mio pane, il mio stato e le mie convenienze, venni ad assistervi, e soffrite chio il dica, colle mie sostanze ad alimentarvi.
Superai ogni riguardo, dissimulai le mormorazioni, soffersi deglincomodi, degli stenti, e talora perfino la privazione del pane.
Tutto ciò merita qualche cosa, e la vostra gratitudine è impegnata a ricompensarmi.
Non facciamo però che la ricompensa in voi oscuri il lume della ragione, e in me distrugga il merito della servitù.
Se mi premiaste col matrimonio, comparirebbe troppo interessato linnocente amor mio, e direbbesi che fu scorretta la nostra amicizia, e che per tirarvi io nella rete, avessi contribuito a distaccarvi dal padre.
A me preme lonor mio sopra tutto, e a voi deve premere il vostro.
Figlio unico di casa ricca e civile, vorreste avvilirvi collo sposare una serva? Ah, signor Florindo, non ci pensate nemmeno.
Se mi amate, ascoltatemi; se avete stima di me, arrendetevi ai miei consigli e se volete essermi grato, siatelo per ora col rassegnarvi.
Se il cielo vi renderà più felice, sarete in grado di rendermi ben per bene, amor per amore.
Una piccola dote, che per me estrar vogliate da vostri beni, sarà bastevole ricompensa ai servigi che vi ho prestati; e godendomi, senza rimorsi al cuore, una fortuna che a me convenga, vi sarò sempre amica, vi sarò sempre serva, sarò sempre la vostra amorosissima Corallina.
FLOR.
Ah, voi mintenerite a tal segno...
COR.
Manca il meglio dellopera, signor Florindo; quel che ho fatto finora contasi per nulla, se la macchina non ha il suo fine.
FLOR.
Possibile che non vogliate?...
COR.
Ho parlato col notaio.
Egli è persuaso a favorirci nei limiti dellonesto.
Sapete che è un uomo piuttosto facile, però aveva delle difficoltà.
Siamo rimasti, chei vada questa sera dal signor Ottavio.
FLOR.
Ma farà poi testamento?
COR.
Vi dirò: vuole il notaio parlar con voi.
Cercate anche voi di persuaderlo, ed io questa sera...
Sento gente; ecco la signora Rosaura.
FLOR.
Mi rincresce...
COR.
Nascondetevi.
FLOR.
Perché?
COR.
Fatemi questo piacere.
Nascondetevi.
FLOR.
Lo farò per compiacervi.
COR.
E stateci fino che io vi chiami.
FLOR.
Ma, Corallina, pensateci: non ricusate...
COR.
Se ne parlate più, mi fate montar in bestia.
FLOR.
(Che donna savia! Che donna amorosa!) (si ritira)
SCENA TREDICESIMA
CORALLINA, poi ROSAURA in zendale.
COR.
Povero padrone! Se fossi una di quelle che ambiscono, accetterei il partito.
Mi sposerebbe ora per gratitudine, ma poi, dopo qualche tempo, se ne pentirebbe e in vece di ringraziarmi di quel che ho fatto per lui, maledirebbe la mia pietà interessata.
ROS.
Corallina, cè nessuno?
COR.
Venga, signora, non cè nessuno.
ROS.
Non siete più venuta da me, ed io son venuta da voi...
COR.
Questo è un onore che io non merito.
Se avesse ella comandato, sarei venuta a servirla: saccomodi.
ROS.
Ora mio padre dorme.
Posso pigliarmi questa poca di libertà.
(siede)
COR.
Siamo tanto vicine...
ROS.
Ma con tutto questo vo riguardata.
Via, sedete anche voi.
COR.
Che cosa ha da comandarmi, signora Rosaura? (siede)
ROS.
Avete saputo la bella novità?
COR.
In che proposito?
ROS.
Quello scimunito di Lelio ha avuto ardire di presentarsi a mio padre, e chiedermi a lui in isposa.
COR.
Che cosa gli ha risposto il signor Pantalone?
ROS.
Potete figurarvelo.
Mio padre non mi ama sì poco chio abbia a temere chei mi volesse precipitare.
COR.
In fatti sarebbe un peccato, che una signorina così gentile e garbata andasse in potere di un uomo senza spirito e senza grazia.
ROS.
Mi ricordo ancora un giorno, che ei mi tenne dietro per la strada.
Faceva ridere tutta la gente, e quando passa sotto le mie finestre, è il divertimento del vicinato.
COR.
Anchio qualche volta ho riso alle di lui spalle.
ROS.
Per altro ha egli fatto quello che il signor Florindo non si sente di fare.
Ha parlato egli al mio genitore, cosa che il signor Florindo non ha forse ancora pensato.
COR.
Oggi ha destinato di farlo.
ROS.
Basta, Corallina mia, lasciate chio vi parli con libertà.
Non vorrei che questa cosa fosse promossa da voi per qualche buon genio che abbiate per me, e che il signor Florindo cinclinasse poco, e lo facesse per complimento.
Io lo stimo assaissimo, e accomodate che sieno le cose sue, desidererei che mio padre me lo proponesse: però, segli non mi volesse veramente bene, non sono ancora in istato di non potermelo staccar dal cuore, e non vorrei che facessimo la sua e la mia infelicità.
COR.
Ella parla, signora mia, da donna assennata, non da giovinetta comè.
Gli stessi stessissimi sentimenti li ha il signor Florindo.
Dubita anchegli, che un trattato fatto per via di terze persone, impegni più per convenienza che per affetto.
E in verità, in materia di matrimoni, sarebbe sempre ben fatto, che gli sposi prima di concludere si parlassero una volta almeno, e si assicurassero della loro reciproca inclinazione.
Così i matrimoni riuscirebbero bene.
Altrimenti la distanza inganna; le finestre confondono la verità, e si suol dire per proverbio: non ti conosco, se non ti pratico.
ROS.
Ma! Come mai potrebbe accadere, che il signor Florindo mi vedesse da vicino e mi parlasse? Io lo credo difficile.
In casa mia non verrà, se mio padre non gli dà parola e non la riceve da lui; e data la parola, non cè più rimedio.
COR.
Non potrebbe ella venire una mattina, o un giorno, così segretamente da me; e qui col signor Florindo vedersi?...
ROS.
Oibò, oibò, il cielo me ne guardi.
Se ci fosse il signor Florindo, non ci verrei per tutto loro del mondo.
Per questo ho mandato Brighella innanzi, e segli cera, non ci veniva.
Anzi sarà bene chio parta innanzi chegli ritorni...
(alzandosi)
COR.
Eh, si fermi liberamente, per ora non torna.
ROS.
Dovè andato?
COR.
Credo che sia da suo padre.
ROS.
Si accomodano le cose sue?
COR.
Questa sera le spero accomodate.
ROS.
Ma perché non parla dunque a mio padre?
COR.
Egli, per quel chio credo, vorrebbe prima parlar con lei.
ROS.
Se sapessi come!
COR.
Assolutamente non vè altro rimedio, che venire una mattina da me.
ROS.
E se si vien a sapere?
COR.
Non lo saprà né men laria.
ROS.
Come faremo a saper il quando?
COR.
Lasci fare a me.
Basta che mi dia parola di venir a parlar con lui, quando io lavviserò.
ROS.
Se sarà in mio potere, verrò senzaltro.
COR.
Mi dà parola?
ROS.
Vi do parola.
COR.
Quandè così, linvito adesso.
ROS.
A far che?
COR.
A parlare col signor Florindo.
ROS.
Dove?
COR.
Qui, in questa casa.
ROS.
Non ho tempo per aspettar chei ritorni.
COR.
È ritornato.
ROS.
Come?
COR.
Signora Rosaura, perdoni; non si adiri.
Egli è in quella camera.
ROS.
Questo è un tradimento.
COR.
Tradimento? Lho io mandata a chiamare?
ROS.
Avete detto a Brighella chegli non cera.
COR.
E allora non cera.
ROS.
Ed ora...
COR.
Ed ora cè.
ROS.
Vado via.
COR.
E la vostra parola?
ROS.
Che parola?
COR.
Non avete promesso, che avvisandovi sareste venuta?
ROS.
Ho detto, potendo.
COR.
Oh bella! Come non potete venire, se già ci siete?
ROS.
Corallina, lasciatemi andare.
COR.
Voi mancherete alla vostra parola.
ROS.
Me lavete carpita.
Siete una donna astuta.
COR.
Oh, quandè così, da me non ci venite più.
ROS.
Compatitemi, non vi adirate.
COR.
Vengo, vengo.
(fingendo esser chiamata)
ROS.
Dove, Corallina?
COR.
Non sente? Sono chiamata.
ROS.
Da chi?
COR.
Dal signor Florindo, dal mio padrone.
ROS.
Mi ha veduta?
COR.
Se non è cieco.
ROS.
Che dirà della mia debolezza?
COR.
Vuol dire perché se ne va?
ROS.
No: perché qui son venuta.
COR.
Dirà chella fa il giocolino dei bambini.
ROS.
Che vale a dire?
COR.
Fa capolino e fugge.
ROS.
Oimè!
COR.
Vengo, vengo.
(come sopra)
ROS.
Unaltra volta, se mi avviserete a tempo, verrò.
COR.
Eh! via, che occorre far meco cotanti fichi? Chi sono io? Una sguaiataccia da non fidarsene? Sono una ciarliera, che vada a dirlo al mercato? Non son io quella, in cui diceste di confidarvi? Il rossore, la timidezza, va bene sino ad un certo segno, ma la melensaggine poi non è da una par vostra.
Se avete intenzione di parlare col signor Florindo, che importa oggi o domani? Non è tuttuno? Non sono freddure? Certe cose non le posso soffrire.
Già che ci siete, stateci.
Il signor Florindo è lì, lo meno qui; lo vedete, vi spicciate, e ve nandate con un poco più di proposito e di convenienza.
(va nella camera di Florindo)
ROS.
Oh Dio! Che faccio? Resto o me ne vado? Corallina mi ha confusa, mi ha stordita.
SCENA QUATTORDICESIMA
CORALLINA, FLORINDO e ROSAURA
COR.
Oh via, anche voi fatemi il vergognoso.
(a Florindo, spingendolo verso Rosaura)
FLOR.
Non vorrei che ella credesse...
COR.
Che ha da credere? Quando crede che le vogliate bene, ha finito.
ROS.
Di quelle calze, Corallina, ne avrete delle altre?
COR.
Oh sì signora, delle calze ne avrò quante volete, ma dei padroni non ho altro che questo.
FLOR.
Servo suo, mia signora.
ROS.
La riverisco divotamente.
COR.
Eh via, via, mi contento.
ROS.
Addio, Corallina.
(in atto di partire)
COR.
Andate via? (a Rosaura)
ROS.
Mio padre dorme.
FLOR.
Se dorme, può trattenersi.
(a Rosaura)
ROS.
Sarà svegliato forse.
COR.
Vi è tempo unora.
Quando salza, io lo vedo dalla finestra.
FLOR.
Oggi mi preme di parlare al signor Pantalone.
ROS.
Ha qualche interesse con lui?
FLOR.
Sì, signora, ho un picciolo affare.
ROS.
Affar picciolo?
FLOR.
Voglio dire...
COR.
Così e così.
FLOR.
(Quanto è più bella da vicino, che da lontano!) (da sé)
ROS.
(Sudo da capo a piè).
(da sé)
COR.
Mimmagino, signor Florindo, che vi premerà vedere il signor Pantalone, per parlargli della signora Rosaura.
FLOR.
Per lappunto.
ROS.
Per me, signore? (a Florindo)
FLOR.
Ah, se fossi degno...
ROS.
Mi mortifica.
COR.
Poverini! Parlate poco, ma i vostri occhi dicono molto.
FLOR.
Signora Rosaura, supererò il rossore, e vi dirò chio vi amo.
COR.
Bravo!
ROS.
Non merito le sue grazie...
ma...
COR.
Via, dite su.
ROS.
Ma si assicuri che ho della stima...
COR.
Che volete voi di più? Ella ha della stima per voi.
(a Florindo)
FLOR.
Troppa bontà, signora mia.
ROS.
È il suo merito.
FLOR.
Se il cielo mi assisterà, farò quei passi che sono convenevoli per ottenervi.
ROS.
Mi confonde.
FLOR.
Sarete voi contenta, se il signor Pantalone mi onorerà del suo assenso?
ROS.
Perché no?
FLOR.
Potrò assicurarmi della vostra fede?
ROS.
Sì signore.
FLOR.
Datemene una caparra colla vostra mano.
COR.
Oh, basta così.
Le cirimonie vanno troppo avanti.
Premeva sapere, se il vostro genio è daccordo; ora che ne siete assicurati, shanno a far le cose a dovere, e lha da sapere il signor Pantalone, prima che vi tocchiate la mano.
Sono una donna onesta, e non permetterò che così di nascosto...
ROS.
Zitto, Corallina, non mi fate arrossir davvantaggio.
Serva sua.
(parte)
FLOR.
Dove? (vuol seguitarla)
COR.
Fermatevi.
FLOR.
Lavete disgustata.
COR.
Carino! Vi siete svegliato tutto in una volta.
FLOR.
Oh cieli! Non sono finalmente di sasso.
Sapete quel che vi ho detto.
La mia mano lho esibita a voi di cuore; ma se voi la ricusate, se voi mi ponete al cimento, torno a dirvi, non sono di sasso.
(parte)
COR.
Ed io ho piacere che si vadano a genio.
Spero che in breve saranno consolati, se il mio disegno non va fallito.
Se alcuno mi avesse in tal incontro veduta, mi avrebbe onorato del titolo di mezzana; ma tali si direbbono egualmente tutti quelli che trattano e che procurano un lecito matrimonio.
Alfine si saprà dal mondo chi sono.
Si saprà che ho avuto cuore di rinunziare uno sposo civile, unoccasione invidiabile, una grandissima fortuna, per delicatezza donore, per zelo di fedeltà, per impegno di vera onestà e disinteressata amicizia.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera di Ottavio, con tavolino da scrivere, lumi, sedie e porta segreta da un lato.
BEATRICE ed un SERVITORE
BEAT.
Sta attento quando viene il notaio; fallo passare per la scala segreta, e avvisami, che lo faremo entrar per di qui.
(accenna una porticina)
SERV.
Sarà servita.
BEAT.
Che cosa fa in sala il signor Ottavio?
SERV.
Passeggia, e sospira.
BEAT.
Digli che venga in camera, che gli voglio parlare.
SERV.
Sì, signora.
(parte)
BEAT.
E pur è vero, questo testamento gli fa paura.
Dubito anche, che qualche volta gli vengano delle tenerezze per il suo figliuolo.
E per questo fo bene a non fidarmi, fo bene a sollecitare la sua disposizione.
È vero che il testamento lo potrebbe disfare, ma sino che vivo io sarà difficile.
Non gli lascierò campo di farlo.
Eccolo; convien divertirlo.
SCENA SECONDA
OTTAVIO e detta.
OTT.
Che mi comanda la signora Beatrice?
BEAT.
Venite qui, il mio caro consorte.
Che cosa mai avete, che passeggiate così da voi solo?
OTT.
Ho un flato che mi tormenta.
Il moto mi fa bene.
BEAT.
Via, avete passeggiato abbastanza: sedete.
OTT.
Sì signora; me lo dite voi, lo farò volentieri.
BEAT.
Eh! io penso sempre alla vostra salute, al vostro comodo, al vostro piacere.
OTT.
Che siate benedetta! Lora si va avanzando.
Può essere che il notaio non venga altrimenti.
BEAT.
Oh, non istate ora a pensare al notaio.
Se verrà, verrà; se non verrà, buon viaggio.
Se non si farà stassera, si farà unaltra volta: non ci sono queste premure.
OTT.
È vero, così diceva anchio.
BEAT.
Che cosa volete questa sera da cena?
OTT.
Un poco di zuppa; e se vi pare, due polpettine.
BEAT.
Vi ho preparato una buona cosa.
OTT.
Davvero!
BEAT.
Fatta colle mie mani.
OTT.
Eh via!
BEAT.
Una torta derbe col latte.
OTT.
Oh buona! Lavete fatta voi?
BEAT.
Io.
OTT.
Oh, sarà pur buona!
BEAT.
La mangeremo insieme.
OTT.
Meglio! Ma spicciamoci presto.
Ceniamo, e andiamocene a letto.
BEAT.
La torta si cucina.
OTT.
Intanto facciamo qualche cosa.
BEAT.
Che cosa vorreste fare?
OTT.
Giuochiamo un poco alle carte.
BEAT.
Da noi due?
OTT.
Sì, da noi due.
Voi ed io.
BEAT.
A che giuoco?
OTT.
A viva lamore.
BEAT.
In due non si può.
OTT.
Voglio giuocare a viva lamore, a viva lamore.
BEAT.
Piuttosto giuochiamo a bazzica (19).
OTT.
Sì cara, a quel che volete voi.
BEAT.
(Che pazienza con questo vecchiaccio!) (da sé) Ecco, faccio io le carte.
OTT.
Di quanto volete che giuochiamo?
BEAT.
Per giuocare di qualche cosa, giuochiamo dun soldo la partita.
OTT.
Sì, dun soldo.
E se guadagno, voglio esser pagato.
BEAT.
Ci sintende.
(dà le carte)
OTT.
Scarto.
BEAT.
Anchio.
OTT.
Oh, aspettate.
Ho bazzica, e non laveva veduta.
BEAT.
Signor no; avete detto scarto, avete da scartare.
OTT.
Ma se ho la bazzica.
BEAT.
Non importa.
OTT.
Non laveva veduta.
BEAT.
Se siete cieco, vostro danno.
OTT.
Le butterò via tutte.
(getta le carte in tavola e si ammutisce)
BEAT.
Schiavo.
(Un tedio di meno).
(da sé; le getta anche ella.
Stanno un pezzo mutoli tutti e due senza parlare e senza guardarsi; poi Ottavio tira fuori gli occhiali, se li mette al naso, e mescola le carte)
OTT.
Alzate.
BEAT.
(Alza, senza parlare)
OTT.
(Dà le carte)
BEAT.
Bazzica.
OTT.
Buona...
No, no.
Bazzicotto, bazzicotto (20).
BEAT.
Non è più tempo: bazzica.
OTT.
Non aveva conosciuto il comodino.
BEAT.
Via, vi meno buono il bazzicotto.
OTT.
Segno sette punti.
Fate voi: vi ringrazio, carina.
BEAT.
(Non posso più!) (da sé; fa le carte e le dà fuori)
OTT.
Bazzica!
SCENA TERZA
Il SERVITORE e detti.
SERV.
(Signora, è qui il notaio).
(piano a Beatrice)
OTT.
Che cè? Bazzica.
BEAT.
(Apri quella porta, e fallo passare) (piano al Servitore)
OTT.
Bazzica.
È buona?
BEAT.
Buona.
OTT.
Eccola: di sei.
Carte.
(chiede altre carte)
BEAT.
(Gli dà una carta)
OTT.
Carte.
(come sopra)
SCENA QUARTA
Ser AGAPITO dalla porta segreta, e CORALLINA vestita da notaio, che resta indietro; e detti.
AGAP.
Servo di lor signori.
OTT.
Schiavo suo.
Carte.
(a Beatrice)
BEAT.
Ben venuto, signore Agapito.
OTT.
(Maledetto!) Carte.
(come sopra)
BEAT.
(Mette giù il mazzo)
OTT.
Finiremo dopo.
Ho sette punti.
Ho bazzica, e mi avete dato una carta.
BEAT.
Signor Agapito.
Chi è quel signore? (accennando Corallina)
AGAP.
Un mio giovine, che soglio condurre con me.
Fa le minute sotto la mia dettatura; copia, mi serve per testimonio, e impara la professione.
BEAT.
Fatelo venire avanti.
AGAP.
Perdoni: non gli do tanta confidenza.
Verrà innanzi, quando bisognerà.
BEAT.
Ecco qui il signor Ottavio; egli ha desiderio di fare il suo testamento.
OTT.
Eh! Non ho poi questo gran desiderio.
Grazie al cielo, non sono ancora decrepito.
Sto bene di salute, e posso ancora pensarci.
AGAP.
Vossignoria si accomodi.
Io non sono venuto per consigliarla a far testamento.
Mi hanno chiamato, ed io per obbedire sono comparso.
OTT.
Che nuove abbiamo, signor Agapito?
AGAP.
Non saprei...
OTT.
Volete giuocare a bazzica? (ad Agapito)
BEAT.
Ma signore Ottavio, voi diventate peggio assai di un bambino.
Ogni momento vi cambiate di opinione.
Ora sì, ora no.
Ora voglio, ora non voglio.
Volete che ve la dica? Sono scandalezzata di voi, e credo che lo facciate o per farmi disperare, o per burlarmi ben bene, e far ridere i miei nemici.
OTT.
Guardate che pensieracci vi vengono per il capo! Signore Agapito, son qui, voglio far testamento.
AGAP.
Benissimo, io la servirò.
Ha fatto niente da sé? Ha preparato la sua disposizione in iscritto?
OTT.
Non ho fatto niente.
Faremo fra voi e me.
AGAP.
La signora Beatrice favorirà di lasciarci in libertà.
BEAT.
Perché? Io non ci posso essere?
AGAP.
Chi fa testamento, non ha daver soggezione.
Perdoni, io costumo così.
BEAT.
Ditemi, signor Ottavio, vi ricordate voi di tutte le cose vostre? Di tutto quello che possedete? Delle disposizioni che avete detto di voler fare?
OTT.
In verità, ora ho la testa confusa.
Non mi ricordo di niente.
BEAT.
Faremo così, se vi contentate.
Andremo in camera mia col signor Agapito, faremo un sommarietto di tutto: poi egli ve lo leggerà; vedrete se va bene, e circa alla disposizione, vi consiglierete con lui, e farete tutto quello che il cielo vinspirerà.
Siete contento?
OTT.
Contentissimo.
BEAT.
Anderà bene così, signor Agapito?
AGAP.
Benissimo.
BEAT.
Dunque andiamo.
AGAP.
Sono a servirla.
Signor Narciso, restate a far compagnia al signor Ottavio, sino chio torno.
(a Corallina)
COR.
(Fa una riverenza dal luogo indietro dove si trova)
BEAT.
Non ha parole? (a ser Agapito)
AGAP.
È timido.
BEAT.
Fra il signor Ottavio e lui dormiranno.
(Ed io veglierò per il mio interesse.
Il signor Agapito farà un testamento a mio modo).
(da sé, parte)
AGAP.
(Corallina farà da sé quello che insieme dovevamo fare).
(da sé, parte)
SCENA QUINTA
OTTAVIO e CORALLINA
OTT.
(Non vedo lora desser fuori da questimpiccio.
Mi par davere una montagna addosso.) (da sé)
COR.
(Si viene avanzando)
OTT.
Signore, accomodatevi.
(a Corallina)
COR.
Ricevo le sue grazie.
OTT.
Anche voi volete fare il notaio?
COR.
Sì signore.
OTT.
Quanti anni avete?
COR.
Venti passati.
OTT.
Oh! quando io era della vostra età!
COR.
(Ancora non mi conosce).
(da sé)
OTT.
Di che paese siete?
COR.
Di questa città.
OTT.
Di chi siete figlio?
COR.
Signore, non mi conosce?
OTT.
No davvero.
Voi mi conoscete?
COR.
E come!
OTT.
Dove mi avete veduto?
COR.
In questa casa.
OTT.
(Si mette gli occhiali) Eppure non vi conosco.
COR.
Mi pare assai.
OTT.
Avete una fisonomia, che non mi par nuova ai miei occhi, ma non mi ricordo chi siate.
COR.
Guardatemi meglio, e mi conoscerete.
OTT.
Anche questa voce mi par di conoscerla...
Oh benedetta vecchiaia! Capisco che sono un pezzo in là! Vado perdendo anche la memoria.
COR.
Signore, laria di quella porta gli farà male: permette che io la chiuda?
OTT.
Sì, caro, chiudetela.
(Bel ragazzetto!) (da sé)
COR.
(Salza e va chiuder luscio per dove è andata Beatrice) (Ci vuol coraggio.
Ora son nellimpegno).
(da sé; torna a sedere)
OTT.
E così, ditemi: chi siete?
COR.
Ma possibile che non mi conosciate?
OTT.
Sono degli anni che non pratico nessuno.
Non vi conosco.
COR.
Non sentite la voce femminile?
OTT.
Compatitemi...
Siete musico?
COR.
Non signore, sono musica.
OTT.
Come! donna?
COR.
Ancora non mi conoscete?
OTT.
Avete serrata la porta?
COR.
Sì signore.
OTT.
Avete bisogno di qualche cosa? Comandate.
COR.
Il cielo vi benedica.
Comparite sempre più giovine.
OTT.
Mi governo.
Non fo strapazzi: dite, cara figlia, come avete nome?
COR.
Ho nome Corallina.
OTT.
Che?...
Oh diamine!...
Corallina?...
(con gli occhiali)
COR.
Si vede che vi siete affatto dimenticato di me.
OTT.
Ih! io era lontano da voi mille miglia.
In questabito, a questora, chi se lo poteva sognare? E poi, sapete che ci vedo poco.
Come qui? Qual motivo?
COR.
Eccomi qui, in pericolo di perder anche la vita per amor vostro.
OTT.
Oimè! Che è stato?
COR.
Signor padrone, siete assassinato.
OTT.
Da chi?
COR.
Da vostra moglie.
OTT.
Oh via! Siete qui colle vostre solite canzonette.
Tutti contro quella povera donna.
COR.
Ma ora si tratta di tutto...
OTT.
Non mi venite ad inquietare.
COR.
Volete precipitare...
OTT.
Chiamerò la signora Beatrice.
COR.
Chetatevi, signor padrone; per amor del cielo, non vi alterate.
Sono venuta per desiderio di vedervi, dopo tanto tempo che sono priva della vostra cara presenza.
Questi preziosi momenti non li voglio perdere in cose odiose.
Siete uomo prudente, non avete bisogno de miei consigli.
Parliamo daltro.
State bene? Siete sano? Vi ricordate più della vostra Corallina? Caro signor padrone, io vi amo teneramente.
Lasciate che vi baci la mano.
OTT.
Cara la mia Corallina, vho sempre voluto bene, e voi in mia vecchiezza mi avete abbandonato.
COR.
Lho fatto per compassione di un vostro figliuolo.
OTT.
Che fa colui?
COR.
Poverino! Ve lo potete immaginare.
OTT.
Suo danno.
Doveva essere meno altiero.
COR.
Ma! In sua gioventù gli tocca a soffrire delle gran cose!
OTT.
Che cosa soffre?
COR.
Scarsezza di pane, necessità di tutto, il rossore di vedersi fuori di casa sua, e sopratutto piange amaramente la privazione della vista del suo caro padre...
OTT.
Oh via! non mi venite a rattristare.
In questa età non ho bisogno di piangere.
(alterato)
COR.
È vero, sono una bestia.
Compatitemi, e parliamo di cose allegre.
Signor padrone, io mi vorrei rimaritare.
OTT.
Sarà ben fatto.
Sei ancor giovine; e per dirtela, a star con Florindo non fai buona figura.
COR.
È vero; lo diceva ancor io; mi preme la mia riputazione, e non ci voglio star più.
Finalmente non è niente del mio.
Vada lacero, vada pezzente, consumi in un giorno quello che gli date voi per un mese, che cosa ha da premere a me? Faccia delle male pratiche, a me che cosa deve importare? Io non sono sua madre; finora ho procurato di assisterlo, di governarlo, di soccorrerlo colle mie fatiche, coi miei lavori.
Sono stanca di farlo, voglio pensare a me.
Vada in rovina, vada in precipizio.
Suo danno.
Signor padrone, parliamo di cose allegre.
OTT.
Ma! Perché ha dandare in rovina? Non gli bastano sei scudi il mese? Non gli bastano per mangiare due paoli il giorno?
COR.
Sì, gli basteranno.
E poi, che singegni.
Per vestirsi ci pensi da sé.
Che vada a giuocare, che faccia quello che fanno tanti altri disperati suoi pari.
OTT.
Come! Vorresti chegli si gettasse coi vagabondi?
COR.
Sentite: un giovine ozioso, fuori di casa sua, con pochi assegnamenti, e bisognoso di tutto, non può fare a meno di non gettarsi alla mala vita.
Io sinora lho tenuto in freno.
Ma sono stanca di farlo; voglio maritarmi, signor padrone, voglio goder il mondo, voglio stare allegra, non voglio pensar a guai.
Voglio far come fate voi.
Allegramente, allegramente.
OTT.
Voi mi dite delle gran cose di questo mio figliuolo.
COR.
Oh bella! Procuro divertirvi, e voi badate a rattristarvi.
Io non ne ho colpa.
Parliamo di cose allegre.
OTT.
Non so che cosa sia questa smania che mi sento di dentro.
Le vostre parole mi hanno rattristato.
COR.
Eh signor padrone, non sono state le mie parole, che vi hanno sconcertato.
OTT.
Ma che dunque?
COR.
La vostra coscienza.
OTT.
Che male ho fatto io? In che ho mancato?
COR.
Vi par poco eh, aver rovinato un figlio per secondare lavarizia della matrigna? Non sapete che linnocenza oppressa del povero signor Florindo grida vendetta al cielo contro lei, contro voi? Se egli si getterà per disperazione alla vita trista, chi sarà causa del suo precipizio? Chi sarà colpevole de suoi vizi? Chi meriterà la pena delle sue colpe? Voi, signor padrone, voi.
E dopo essere vissuto per tanti anni uomo onorato, uomo savio e dabbene, per causa di vostra moglie morirete pieno di rimorsi, pieno di rossore e di pentimento.
Ma non voglio più affliggervi; parliamo di cose allegre.
OTT.
Eh! ora non cerco allegria.
Cara Corallina, sento una spina al cuore.
Son vecchio, son vicino alla morte.
Oimè! Tremo.
Illuminatemi per carità.
COR.
Conoscete voi la signora Beatrice?
OTT.
La conosco.
COR.
Quanto vale, che non la conoscete?
OTT.
È mia moglie, la conosco.
COR.
Quantè che è vostra moglie?
OTT.
Non lo sai? Un anno.
COR.
A conoscere una donna non bastano dieci anni.
Voi non la conoscete.
OTT.
Ma perché?
COR.
Perché, se la conosceste, non vi lascereste da lei menar per il naso.
OTT.
Oh via: sapete che le voglio bene, son contento di lei, non minquietate.
COR.
Avete ragione.
Parliamo di cose allegre.
Finalmente io non ci devo entrare.
È vero che sono nata in casa vostra, che vi ho amato e vi amo come padre; ma finalmente sono una povera serva.
Che ha da importare a me, che il mio padrone si lasci ingannare da una do
...
[Pagina successiva]