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... . Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per sè stessi, non ancora analizzati e raffinati.
      Di tal natura è il Lamento dell'innamorato per la partenza in Storia della sua amata, di Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo delle Colonne, da Messina, dove l'innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la sua gelosia. Eccone il principio:

      Oi lassa innamorata,
      contar vo' la mia vita,
      e dire ogni fiata,
      come l'amor m'invita,
      ch'io son, senza peccata,
      d 'assai pene guernita
      per uno che amo e voglio,
      e non aggio in mia baglia,
      siccome avere io soglio;
      però pato travaglia.
      Ed or mi mena orgoglio,
      lo cor mi fende e taglia.
      
Oi lassa tapinella,
      come l'amor m'ha prisa!
      Come lo cor m'infella
      quello che m'ha conquisa!
      La sua persona bella
      tolto m'ha gioco e risa,
      ed hammi messa in pene
      ed in tormento forte:
      mai non credo aver bene,
      se non m'accorre morte,
      e spero, là che vene,
      traggami d'esta sorte.
      
Lassa che mi dicia,
      quando m'avìa in celato:
       - Di te, o vita mia,
      mi tegno più pagato,
      che s'io avessi in balìa
      lo mondo a signorato.

      Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian fuori nella loro natia integrità senza immagini e senza concetti. Non ci è poeta di quel tempo, anche tra i meno naturali, dove non trovi qualche esempio di questa forma primitiva, elementare, a suon di natura, come dice un poeta popolare, e com'è una prima e subita impressione colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua esce così viva e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e la diresti «pur mo' nata», e fa contrasto con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla, vi trova questa gemma:

      Giorno non ho di posa,
      come nel mare l'onda:
      core, chè non ti smembri?
      Esci di pene e dal corpo ti parte:
      ch'assai val meglio un'ora
      morir, che ognor penare.

Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma certo lontana da questa perfezione, pur semplice e sincera:

      Perzò meglio varria
      morir in tutto in tutto,
      ch'usar la vita mia
      in pena ed in corrutto,
      come uomo languente.

Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda e stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro crudità elementare. Udite questi versi:

      E par ch'eo viva in noia della gente:
      ogni uono m' è selvaggio:
      non paiono li fiori
      per me, com' già soleano,
      e gli augei per amori
      dolci versi faceano - agli albori.

Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo empiono di maraviglia e lo commuovono e lo interessano, senza ch'ei senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta, e non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore.
      Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di forma e di sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.
      Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di fuori, quella vita cavalleresca, mescolata di colori e rimembranze orientali, non avea riscontro nella vita nazionale. La gaia scienza, il codice d'amore, i romanzi della Tavola rotonda, i Reali di Francia, le novelle arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il soldano, tutto questo era penetrato in Italia, e se colpiva l'immaginazione, rimaneva estraneo all'anima e alla vita reale. Nelle corti ce ne fu l'imitazione. Avemmo anche noi i trovatori, i giullari e i novellatori. Vennero in voga traduzioni, imitazioni, contraffazioni di poemi, romanzi, rime cavalleresche. L'Intelligenzia, poema in nona rima ultimamente scoperto, è una imitazione di simil genere. L'amore divenne un'arte, col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu più questa o quella donna, ma la donna con forme e lineamenti fissati, così come era concepita ne' libri di cavalleria. Tutte le donne sono simili. E così gli uomini: tutti sono il cavaliere con sentimenti fattizii e attinti da' libri. Ma il movimento si fermò negli strati superiori della società, e non penetrò molto addentro nel popolo, e non durò. Forse, se la Casa sveva avesse avuto il di sopra, questa vita cavalleresca e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa sveva e la vittoria de' comuni nell'Italia centrale fecero della cavalleria un mondo fantastico, simile a quel favoleggiare di Roma, di Fiesole e di Troia.
      Essendo idee, sentimenti e immagini una merce bella e fatta, non trovate e non lavorate da noi, si trovano messe lì, come tolte di peso, con manifesto contrasto tra la forma ancor rozza e i concetti peregrini e raffinati. Sono concetti scompagnati dal sentimento che li produsse, e che non generano alcuna impressione. Quando vengono sotto la penna, il cervello e il cuore sono tranquilli. Il poeta dice che amore lo fa «trovare» lo rende un trovatore; ma è un amore come lo trova scritto nel codice e ne' testi, nè ti è dato sentire ne' suoi versi una tragedia sua, le sue agitazioni. Le reminiscenze, le idee in voga gli tengono luogo d'ispirazione. Sono migliaia di poesie, tutte di un contenuto e di un colore, così somiglianti che spesso sei impacciato a dire il tempo e l'autore del canto, ove ne' codici sia discordanza o silenzio: ciò che non di rado accade. La poesia non è una prepotente effusione dell'anima, ma una distrazione, un sollazzo, un diporto, una moda, una galanteria. È un passatempo, come erano le corti d'amore, è la gaia scienza un modo di passarsela allegramente, e acquistarsi facile riputazione di spirito e di coltura, facendo sfoggio della dottrina d'amore; e chi più mostrava saperne, era più ammirato. Invano cerchi ne' canti di Federico, di Enzo, di Manfredi, di Pier delle Vigne le preoccupazioni o le agitazioni della loro vita: vi trovi il solito codice d'amore, con le stesse generalità. L'arte diviene un mestiere, il poeta diviene un dilettante; tutto è convenzionale, concetti, frasi, forme, metri: un meccanismo che dovea destare grande ammirazione nel volgo, specialmente usato dalle donne; la Nina Siciliana e la Compiuta Donzella fiorentina dovettero parere un miracolo.
      Quello che avvenne si può indovinare. Migliori poeti son quelli che scrivono senza guardare all'effetto e senza pretensione, a diletto e a sfogo, e come viene. Anche nelle poesie più rozze trovi bei movimenti di affetto e d'immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di forma, che viene dal di dentro. Sono più vicini al sentimento popolare e alla natura. Ma quando vai su, quando ti accosti a quella poesia che Dante chiama aulica e cortigiana, ti trovi già lontano dal vero e dalla natura, ed hai tutt'i difetti di una scuola poetica, nata e formata fuori d'Italia, e già meccanizzata e raffinata. Hai tutt'i difetti della decadenza, un seicentismo che infetta l'arte ancora in culla. Ci è già un repertorio. Il poeta dotto non prende quei concetti, così crudi e nudi, come fanno i rozzi nella loro semplicità, ma per fare effetto li assottiglia e li esagera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro: in questi un lavoro c'è, ma freddo e meccanico. Concetti, immagini, sentimenti, frasi, metri, rime, tutto è sforzato, tormentato, oltrepassato, sì che il lettore ammiri la dottrina, lo spirito e le difficoltà superate. Trovi insieme rozzezza e affettazione. La lingua ancor giovane non è raffinata, come il concetto, e scopre l'artificio di un lavoro, a cui rimane estranea. E fosse almeno originale questo lavoro, sì che rivelasse nei poeta una vera svegliatezza e attività dello spirito! Ma è un seicentismo venuto anch'esso dal di fuori. Eccone un esempio:

      Umile sono ed orgoglioso,
      prode e vile e coraggioso,
      franco e sicuro e pauroso,
      e sono folle e saggio.
      Facciome prode e dannaggio,
      e diraggio
       - Vi' como
      mal e bene aggio
      più che null'omo. -

Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese, tutta su questo andare, dove la rozzezza e la negligenza della forma esclude ogni serietà di lavoro: è una litania di antitesi racimolate qua e là e messe insieme a casaccio.
      I poeti siciliani di questo genere più ammirati a quei tempi sono Guido delle Colonne e il notaio Iacopo da Lentino.
      Guido, dottore o, come allora dicevasi, giudice, fu uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino, e voltò di greco in latino la Storia della caduta di Troia, di Darete, una versione che fu poi recata parecchie volte in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare, e tende ad alzarsi, ad accostarsi alla maestà e gravità del latino: sì che meritò che Dante le sue canzoni chiamasse tragiche, cioè del genere nobile e illustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta, e la sua dottrina e il lungo uso di scrivere non valse che a fargli conseguire una perfezione tecnica, della quale non era esempio avanti. Hai un periodo ben formato, molta arte di nessi e di passaggi, uno studio di armonia e di gravità: artificio puramente letterario e a freddo. Manca il sentimento; supplisce l'acutezza e la dottrina, studiandosi di fare effetto con la peregrinità d'immagini e concetti esagerati e raffinati, che parrebbero ridicoli, se non fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa apparenza. Ecco un esempio:

      Ancor che l'aigua per lo foco lasse
      la sua grande freddura,
      non cangerea natura,
      se alcun vasello in mezzo non vi stasse:
      anzi avverrea senza alcuna dimura
      che lo foco stutasse,
      o che l'aigua seccasse;
      ma per lo mezzo l'uno e l'alto dura.
      Così, gentil criatura,
      in me ha mostrato amore
      l'ardente suo valore,
      che senz'amore - era aigua fredda e ghiaccia.
      Ma el m'ha sì allumato
      di foco, che m'abbraccia,
      ch'eo fòra consumato,
      se voi, donna sovrana,
      non foste voi mezzana
      infra l'amore e meve,
      che fa lo foco nascere di neve.

E non si ferma qui, e continua con l'acqua e il foco e la neve, e poi dice che il suo spirito è ito via, e lo «spirito ch'io aggio, credo lo vostro sia che nel mio petto stia», e conchiude ch'ella lo tira a sè, ed ella sola può, come di tutte le pietre la sola calamita ha balìa di trarre: paragone in cui spende tutta la strofa, spiegando come la calamita abbia questa virtù. Questi son concetti e freddure dissimulate nell'artificio della forma; perchè se guardi alla condotta del periodo, all'arte de' passaggi, alla stretta concatenazione delle idee, alla felicità dell'espressione in dir cose così sottili e difficili, hai poco a desiderare.
In Iacopo da Lentino questa maniera è condotta sino alla stravaganza, massime ne' sonetti. Non mancano movimenti d'immaginazione ed una certa energia d'espressione, come:

      Ben vorria che avvenisse
      che lo meo core uscisse
      come incarnato tutto,
      e non dicesse mutto - a voi sdegnosa:
      ch'Amore a tal n 'addusse,
      che se vipera fusse,
      naturia perderea:
      ella mi vederea: - fòra pietosa.

Ma sono affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure, che nella rozza trascurata forma spiccano più, e sono reminiscenze, sfoggio di sapere. Non sente amore, ma sottilizza d'amore, come:

      Fino amor di fin cor vien di valenza,
      e scende in alto core somigliante,
      e fa di due voleri una voglienza,
      la qual è forte più che lo diamante,
      legandoli con amorosa lenza,
      che non si rompe, nè scioglie l'amante.

Su questa via giunge sino alla più goffa espressione di una maniera falsa e affettata, come è un sonetto, che comincia:

      Lo viso, e son diviso dallo viso,
      e per avviso credo ben visare,
      però diviso viso dallo viso,
      ch'altro è lo viso che lo divisare, ecc.

Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero estranei alla serietà e intimità della vita, ebbero non piccola influenza nella formazione del volgare, sviluppando le forme grammaticali e la sintassi e il periodo e gli elementi musicali: come si vede principalmente in Guido delle Colonne. Ne' più rozzi trovi de' brani di un colore e di una melodia che ti fa presentire il Petrarca. Valgano a prova alcuni versi nella canzone attribuita a re Manfredi:

      E vero certamente credo dire,
      che fra le donne voi siete sovrana,
      e d'ogni grazia e di virtù compita,
      per cui morir d'amor mi saria vita.

L'Intelligenzia, poema allegorico, pieno d'imitazioni e di contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che mostra nell'ignoto autore un'anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze della natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma era giunto il volgare. C'è una descrizione della primavera, non nuova di concetti, ma piena di espressione e di soavità, come di chi ne ha il sentimento. E continua così:

      Ed io stando presso a una fiumana
      in un verziere all'ombra di un bel pino,
      d'acqua viva aveavi una fontana
      intorneata di fior gelsomino.
      Sentìa l'àire soave a tramontana:
      udìa cantar gli augei in lor latino;
      allor sentìo venir dal fino amore
      un raggio che passò dentro dal core,
      come la luce che appare al mattino.

E descrive così la sua donna:

      Guardai le sue fattezze dilicate,
      che nella fronte par la stella Diana,
      tant' è d'oltremirabile biltate,
      e nell'aspetto sì dolce ed umana!
      Bianca e vermiglia di maggior clartate
      che color di cristallo o fior di grana:
      la bocca picciolella ed aulorosa,
      la gola fresca e bianca più che rosa,
      la parlatura sua soave e piana.
      Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,
      che stanno in sì salutevole loco,
      quando li volge, son sì dilettosi,
      che il cor mi strugge come cera foco.
      Quando spande li sguardi gaudiosi
      par che 'l mondo si allegri e faccia gioco.

Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento della natura e della bellezza: ond'è nata una mollezza e dolcezza di forma, che con poche correzioni potresti dir di oggi; così è giovine e fresca.
      E se il sonetto dello «sparviere» è della Nina, se è lavoro di quel tempo, come non pare inverisimile, è un altro esempio della eccellenza a cui era venuto il volgare, maneggiato da un'anima piena di tenerezza e d'immaginazione:

      Tapina me che amava uno sparviero,
      amaval tanto ch'io me ne moria;
      a lo richiamo ben m'era maniero,
      ed unque troppo pascer nol dovia.
      
Or è montato e salito sì altero,
      assai più altero che far non solia;
      ed è assiso dentro a un verziero,
      e un'altra donna l'averà in balìa.
      
Isparvier mio, ch'io t'avea nodrito;
      sonaglio d'oro ti facea portare,
      perchè nell'uccellar fossi più ardito.
      
Or sei salito siccome lo mare,
      ed hai rotto li geti e sei fuggito,
      quando eri fermo nel tuo uccellare.

Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza più chiara di sè e venisse a maturità. La rovina fu tale, che quasi ogni memoria se ne spense, ed anche oggi, dopo tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da grandi lacune.
      Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi già nelle classi inferiori, ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza, nè l'elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall'immaginazione e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella lingua penetra questa mollezza, e le dà una fisonomia abbandonata e musicale, come d'uomo che canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualità spiccata de' dialetti meridionali.
      La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò più. Lo nobile signore Federico e il bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli Angioini, loro fidi. La parte popolana ebbe il disopra in Toscana, e la libertà de' comuni fu assicurata. La vita italiana, mancata nell'Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca e feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta toscana, e toscani furon detti i poeti italiani. De' siciliani non rimase che questa epigrafe:

Che fur già primi: e quivi eran da sezzo.




II
I TOSCANI

Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore e lusso d'immaginazione, e attirava a sè i più chiari ingegni d'Italia, ne' comuni dell'Italia centrale oscuramente, ma con assiduo lavoro, si formava e puliva il volgare. Centri principali erano Bologna e Firenze, intorno a' quali trovi Lucca, Pistoia, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza, Ravenna, Todi, Sarzana, Pavia, Reggio.
      Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime, non vi trovi la vivacità e la tenerezza meridionale; ma uno stile sano e semplice, lontano da ogni gonfiezza e pretensione, e un volgare già assai più fino, per la proprietà de' vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.
      Trovo una tenzone di Ciacco dall'Anguillara, fiorentino, sullo stesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena di costui hai più varietà e più impeto, e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco tutto è su uno stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e in una lingua così propria e sicura, che non ne hai esempio ne' più tersi e puliti siciliani. Comincia così:

AMANTE
O gemma leziosa,
      adorna villanella,
      che sei più virtudiosa
      che non se ne favella;
      per la virtude ch'hai,
      per grazia del Signore,
      aiutami, chè sai,
      ch'io son tuo servo, Amore.

DONNA
Assai son gemme in terra
      ed in fiume ed in mare,
      ch'anno virtude in guerra,
      e fanno altrui allegrare:
      amico, io non son dessa
      di quelle tre nessuna:
      altrove va per essa,
      e cerca altra persona.
Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase, che ti annunzia un volgare già formato e parlato, si accompagna una misura e una grazia ignota alla nudità molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per prova la fine di questa tenzone, di una decenza amabile, così lontana dal plebeo «allo letto ne gimo» di Ciullo:

DONNA
Tanto m'hai predicata,
      e sì saputo dire,
      ch'io mi sono accordata:
      dimmi: che t' è in piacere?

AMANTE
Madonna, a me non piace
      castella, nè monete:
      fatemi far la pace
      con l'amor che sapete.
      Questo addimando a vui,
      e facciovi finita.
      Donna, siete di lui,
      ed egli è la mia vita.

Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua parlata, e sono i più acconci a mostrare a qual grado di finezza e di grazia era giunto il volgare in Toscana, massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dialogo di Ciacco:

      Mentr'io mi cavalcava,
      audivi una donzella;
      forte si lamentava,
      e diceva: - Oi madre bella,
      lungo tempo è passato
      che deggio aver marito,
      e tu non lo m'hai dato.
      La vita d'esto mondo nulla cosa mi pare...
       - Figlia mia benedetta,
      se l'amor ti confonde
      de la dolce saetta,
      ben te ne puoi sofferere...
       - Per parole mi teni,
      tuttor così dicendo;
      questo patto non fina,
      ed io tutta ardo e incendo;.
      La voglia mi domanda
      cosa che non suole,
      una luce più chiara che il sole;
      per ella vo languendo.

In queste rappresentazioni schiette dell'animo, e non astratte e pensate, ma in casi ben determinati e circoscritti il poeta è sincero, vede con chiarezza istintiva quello s'ha a fare e dire, come fa il popolo, e non esprime i suoi sentimenti, perchè non ne ha coscienza, tutto dietro alle cose che gli si presentano, dette però in modo che ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta. A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione, senza dimorarvi sopra, parendogli che la cosa in se stessa dica tutto: semplicità rara ne' meridionali, dov'è maggiore espansione, ma che è qualità principale del parlare fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della Compiuta Donzella fiorentina, la divina Sibilla, come la chiama maestro Torrigiano:

      Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
      accresce gioia a tutt'i fini amanti:
      vanno insieme alli giardini allora
      che gli augelletti fanno nuovi canti.

      La franca gente tutta s'innamora
      ed in servir ciascun traggesi innanti,
      ed ogni damigella in gioi' dimora,
      e a me ne abbondan smarrimenti e pianti.

      Chè lo mio padre m'ha messa in errore,
      e tienemi sovente in forte doglia:
      donar mi vuole a mia forza signore.

      Ed io di ciò non ho disio, nè voglia,
      e in gran tormento vivo a tutte l'ore:
      però non mi rallegra fior, nè foglia.

Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo di concetto e di condotta, con minor movimento e grazia e freschezza, ma superiore d'assai per arte e perfezione di forma:

      Quando l'aria rischiara e rinserena,
      il mondo torna in grande dilettanza,
      e l'acqua surge chiara dalla vena,
      e l'erba vien fiorita per sembianza,

      e gli augelletti riprendon lor lena,
      e fanno dolci versi in loro usanza,
      ciascun amante gran gioi' ne mena
      per lo soave tempo che s'avanza.

      Ed io languisco ed ho vita dogliosa:
      come altro amante non posso gioire,
      chè la mia donna m' è tanto orgogliosa.

      E non mi vale amar, nè ben servire:
      però l'altrui allegrezza m'è noiosa,
      e dogliomi ch'io veggio rinverdire.

In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero e di andamento, e una perfetta misura. Si ha aria di narrare quello si vede o si sente, senza riflessioni ed emozioni, ma con una vivacità ed un colorito, che suscita le più vive impressioni. Il secondo sonetto è cosa perfetta, se guardi alla parte tecnica, ed accenna a maggior coltura; non solo la nuova lingua è pienamente formata, ma è già elegante, già la frase surroga i vocaboli propri: a me piace più la perfetta semplicità del sonetto femminile, con movenza più vivace, più immediata e più naturale.
      La proprietà, la grazia e la semplicità sono le tre veneri che si mostrano nel volgare, come si era ito formando in Toscana; qualità che trovi ancora dove è più difficile a serbarle, quando per una impazienza interna si rompe il freno e si dicono i secreti più delicati dell'animo, con tanta più audacia, quanto maggiore è stata la compressione, e con la sicurezza di chi sente che non ha torto, ma ragione: è una violenza raddolcita da una grazia ineffabile, e che per una naturale misura rimane ipotetica nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:

      In pena vivo qui sola soletta
      giovin rinchiusa dalla madre mia,
      la qual mi guarda con gran gelosia.
      Ma io le giuro, alla croce di Dio,
      s'ella mi terrà più sola serrata,
      ch'i' dirò: - Fa' con Dio, vecchia arrabbiata. -
      E gitterò la rocca, il fuso e l'ago,
      amor, fuggendo a te, di cui m'appago.

Questa bella forma, in tanto spirito e vivacità così castigata, propria e semplice e piena di grazia, si andò sviluppando non perchè il suo contenuto voleva così, ma in opposizione ad esso contenuto, vuoto ed astratto. Anzi che qualità del contenuto, o di questo e quel poeta, sembra il progresso naturale dello spirito toscano, dotato di un certo senso artistico, che lo tirava alla forma, nella piena indifferenza del contenuto. Perciò queste qualità spiccano più, dove il poeta non è impedito da un contenuto convenzionale, ma si abbandona a rappresentare i fatti e i moti dell'animo, come gli si affacciano in situazioni ben determinate, e come sono nella realtà della vita. Allora contenuto e forma sono una cosa stessa, ed hai ciò che di più perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito toscano: come è in parecchie poesie già citate. Potremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita formando per un movimento ingenito, naturale e popolare, com'è stato presso altri popoli. Ma sono desidèri sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava, il contenuto era già formato e meccanizzato e convenzionale: la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario, lo stesso ne' più puliti scrittori, tutti del pari dimenticati, perchè quello solo sopravvive, che ha una forma prodotta da un contenuto attivo e reale, vivente della vita comune.
      Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a quei tempi. In Toscana, come in Sicilia, ci era già tutto un mondo poetico, non formato a poco a poco insieme col volgare, ma già fissato con lineamenti precisi e costanti. C'era già una poetica, e c'era anche un vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt'i trovatori gli stessi. Come più tardi avemmo le maschere, cioè caratteri comici con line ...
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