STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, di Francesco De Sanctis - pagina 15
...
.
È detta anche «misterio», per la sua natura allegorica.
È uno degli antichissimi misteri liturgici, ritoccato, ripulito, rammodernato e fatto laico a' tempi di Lorenzo de' Medici e forse più in là, a giudicare dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di formazione artistica, come nelle figure del demonio, dell'Odio, della Sensualità, della Povertà, e da un certo non so che beffardo e grottesco, che svela poca serietà e unzione nello scrittore e negli spettatori.
Ma se la trama è moderna, la stoffa è antica, e ricorda il duello del Senso e della Ragione, così comune negli scritti volgari che apparvero prima, e la battaglia de' vizi e delle virtù del Giamboni, e le tre allegorie cristiane.
Anzi questa Commedia dell'anima non è se non le tre allegorie messe in rappresentazione.
Là trovi tre gradi di santificazione, Umano, Spoglia e Rinnova.
E anche qui l'anima è prima combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci, perchè «umana cosa è cascare in errore», poi fa la sua penitenza, si spoglia e si monda della scoria del peccato, e così a Dio si rimarita, come dice Dante, o, come dice il nostro autore, sta «al convito celestiale con veste bella e nuziale».
Questi tre gradi aveano la loro formazione liturgica nell'inferno, purgatorio e paradiso, che erano appunto il senso, l'Umano puro, abbandonato a se stesso, lo Spoglia o la penitenza, che purga o monda l'anima, e il Rinnovamento o la luce mentale, la beatitudine.
Questo era il concetto delle rappresentazioni che aveano a materia l'altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni Villani, che ebbe luogo a Firenze.
L'altro mondo era la storia, o come si diceva la «Commedia dell'anima», la quale non potea giungere a redimersi dall'umanità, dal corpo, dalla carne, dall'inferno, se non con la penitenza, purificandosi e purgandosi, e così contrita e confessa diveniva leggiera, saliva al cielo.
Questa Commedia spirituale dell'anima, di cui ho voluto dare un sunto possibilmente esatto, è il codice di quel secolo, il contenuto astratto e generale, particolarizzato nelle vite, nelle leggende, ne' trattati e nella lirica Spiritus intus alit.
Lo spirito che alita per entro a quelle prose e a quelle poesie è la «Commedia dell'anima».
Ma in tante prose e in tante poesie non ci è ancora un vero lavoro d'individuazione e di formazione.
Il contenuto rimane nella sua astratta semplicità, innominato e impersonale, l'anima.
Essendo il suo fondamento la contemplazione e non l'azione, o un'azione negativa, la resistenza agl'istinti e agli affetti naturali, non penetra nella vita, non ne assume tutte le forme, non diventa la società.
Certo, quell'azione negativa è molto poetica, è il sublime religioso, e tocca il cuore, quando è rappresentata con semplicità e unzione.
Ma in questo contrasto tra il sentimento religioso e la natura, ciò che move più è il grido della natura, come ne' lamenti della madre di santo Alessio o di santa Eugenia, o nel dolore d'Isacco nel Sacrifizio di Abraam, che all'annunzio della sua morte chiama la madre:
O santa Sara, madre di pietade,
se fussi in questo loco, io non morrei...
Tutta è l'anima mia trista e dolente
per tal precetto, e sono in agonia.
Tu mi dicesti già che tanta gente
nascer doveva della carne mia.
Il gaudio volge in dolor sì cocente,
che di star ritto non ho più balìa.
S'egli è possibil far contento Dio
fa ch'io non mora, o dolce padre mio.
Quantunque questo non sia che uno de' lati più angusti e solitari della vita umana, così ricca e varia ne' suoi aspetti, pure offre contrasti e gradazioni, che lo rendono capacissimo di un grande sviluppo artistico.
Ma in quel suo albore la letteratura ha lo stesso carattere che mostra nella decadenza, la naturalità o materialità del contenuto.
Tante vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la curiosità con la varietà e novità degli accidenti, e si attendeva più allo spettacoloso, a colpire l'immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose, che a lavorarle e svilupparle.
Mancava la virtù di mettersi gli oggetti a distanza e trasformarli: la realtà anche nuda era per se stessa maravigliosa e bastava ad ottenere l'effetto, operando in modo semplice e immediato sullo scrittore e su' lettori.
Oltrechè, siccome il contenuto riposava su di una dottrina liturgica, stabilita e inalterabile, poco era accomodato ad una rappresentazione libera e artistica, anche quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da' laici, come fu anche de' misteri.
Impadronirsi di quel contenuto, cacciarlo dalla sua generalità, dargli corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione.
Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di esempli, di sentenze e di allegorie, come si vedea nella Bibbia.
Il reale, il concreto non avea valore se non come figura della dottrina.
Ecco ad esempio in che modo è nella Commedia dell'anima figurato il paradiso:
In su quel monte dove sta il Signore,
v'è una fontana traboccante e bella,
che sempre getta un mirabil liquore.
D'oro e d'argento n'è la sua cannella,
le sponde di smeraldi e d 'oro fine,
e tutta la città circonda quella.
Salite al monte, o alme peregrine,
salite al monte, e lassù troverete
soprabbondanti le grazie divine.
Le ultime parole spiegano la figura.
Quella è la fontana della divina Grazia.
Con questa tendenza lo scrittore sta contento alla semplice personificazione e gli pare di aver fatto assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto.
Oltre a ciò, l'uomo colto, schivo delle forme semplici e volgari dell'umile credente, mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa fede ragionata e sillogizzata fa la filosofia, figliuola di Dio.
Lo studio del secolo è di allegorizzare e dimostrare, anzichè di rappresentare; è di chiarire quel contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anzichè coglierlo in azione e nell'atto della vita.
Perciò l'opera letteraria tiene dell'allegoria e del trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane nell'infanzia.
Mai non ti senti ben fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con tali caratteri, passioni e costumi, anzi lo scrittore ti par quasi estraneo alla società e alle sue lotte, e dimora nell'astratta e monotona generalità della sua contemplazione.
E quando pur scende a rappresentare la vita, ti senti d'un tratto balzato nel regno de' misteri, delle leggende e delle visioni, nell'altro mondo.
La visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto, quando si vuol rappresentarlo.
La vita e la realtà è il senso, la carne, il peccato, e lo scrittore o guarda e passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla, rappresentandola non quale appare in terra, ma quale è nell'altro mondo.
La rappresentazione è dunque la visione della realtà, come sarà dopo la morte, e là si spazia e si diletta l'immaginazione.
E se il mistero è commedia, ed ha per conclusione la santificazione e la beatitudine, la visione è spesso pittura delle pene infernali, lasciate alla libera immaginazione de' predicatori, de' vescovi, de' frati, de' santi Padri, che col terrore operavano sulle rozze immaginazioni.
Laghi di zolfo, valli di fuoco o di ghiaccio, botti d'acqua bollente, rettili, vermi, dragoni da' denti di fuoco, demòni armati di lance, di fruste, di martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al suolo con tanti chiodi che «non pare la carne», o sospesi per le unghie in mezzo al zolfo, o menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a «cerchi rosseggianti», o infissi a spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano di metalli fusi: ecco la realtà delle visioni, rappresentata co' più vivi colori.
I tre monaci che si mettono in viaggio per iscoprire il paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di cammino attraversano l'inferno:
«E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero.
E pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle quali eran confitte nell'un monte e l'altre due nell'altro; e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sì fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi.
E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo, e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra.»
Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone:
«Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori, e la barba e i capelli pareano d'oro, e ' denti suoi parevano di ferro, e gli occhi acuti e lucenti come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la lingua, e parea che per le nari e per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo.»
Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di frate Alberico, e quella d'Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò secondo, narra di un conte ricco, e insieme onesto, «ciò che è proprio un miracolo in questa gente», egli dice.
Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d'una scala lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù nell'inferno.
Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest'ordine, che quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso, dove tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti.
E chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama di sè, si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati, di cui il conte è l'erede in decimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione.
- Questa pena, che colpisce un'intera generazione, è molto poetica, mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano indeterminato, messo costantemente innanzi all'immaginazione de' condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno.
Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato; che la virtù è negazione della vita terrena, e contemplazione dell'altra; che la vita non è la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà non è quello che è, ma quello che dee essere, ed è perciò la scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto, è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia.
Appunto perchè l'individuo è pulvis et umbra, e la realtà è pura scienza ed un di là della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di formazione.
Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell'amore divino.
La donna, come donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l'uomo a Dio.
Il maggior grado di realtà, a cui questo mondo sia pervenuto, è nella lirica di Dante.
La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma, è Beatrice, la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l'anima nella commedia spirituale, breve apparizione, tornata così presto in cielo tra' canti degli angioli.
La sua vita terrena è quasi non altro che nascere e morire.
La sua vera vita comincia dopo la morte, nell'altro mondo.
Ivi è luce mentale o intellettuale, verità e scienza, filosofia.
Ma non è filosofia incarnata, mondo vivente, dove l'idea di Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura scienza, incapace di rappresentazione nella sua forma scolastica di trattato e di esposizione.
È scienza non ancora realizzata, non ancora corpo; è idea, non è visione; è didattica, non è commedia o rappresentazione.
Hai «misteri» e visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè un mondo vivente nel suo insieme e ne' suoi aspetti, dove sia realizzato quel concetto teologico e filosofico dell'umanità, comune al secolo e rimasto ancora nella sua astrazione dottrinale.
Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando una lingua già formata, molta varietà di forme metriche, una poetica, una rettorica, una filosofia, ed un concetto della vita ancora didattico e allegorico, con rozzi tentativi di formazione e individuazione.
Il suo primo individuo poetico è Beatrice, il presentimento e l'accento lirico di un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora fuori della vita.
VI
IL TRECENTO
Quello che il secolo precedente concepì e preparò, fu realizzato in questo secolo detto aureo.
I posteri compresero sotto questo nome tutto un periodo letterario, dove si trovano mescolati dugentisti e quattrocentisti.
E in verità le notizie cronologiche sono sì scarse e incerte, che non è facile assegnare di ciascuno scrittore l'età, seguire strettamente l'ordine del tempo.
Al nostro scopo è più utile seguire il cammino del pensiero e della forma nel suo sviluppo, senza violare le grandi divisioni cronologiche, ma senza cercare una precisione di date, che ci farebbe sciupare il tempo in conietture e supposizioni di poco interesse.
Questo secolo s'apre con un grande atto, il Giubileo, pontefice Bonifazio ottavo.
Tutta la cristianità concorse a Roma, d'ogni età, d'ogni sesso, di ogni ordine e condizione, per ottenere il perdono de' peccati e guadagnarsi la salute eterna.
Tutti animava lo stesso concetto espresso così variamente in tante prose e poesie: la maledizione del mondo e della carne, la vanità de' beni e delle cure terrestri e la vita cercata al di là della vita.
Il nuovo secolo cominciava, consacrando in modo tanto solenne il pensiero comune nella varietà della cultura.
I preti e i frati soprastavano nella riverenza pubblica, non solo pel carattere religioso, ma per la dottrina, tenuta loro privilegio, tanto che il Villani loda di scienza Dante, aggiungendo: «benchè laico», e i dotti uomini, benchè laici, erano detti chierici.
Tutta la società italiana, raccolta colà dallo stesso fine, rendeva una viva immagine di quel pensiero comune e di quella varia cultura.
Vedevi i contemplanti, i remiti, i solitari del deserto e della cella col corpo macero da' digiuni, da' cilizii e dalle vigilie, ritratti viventi de' misteri e delle leggende.
C'erano gli umili di spirito, animati da schietto sentimento religioso e che tenevano la scienza come cosa profana, e ci erano i dotti, i predicatori e i confessori, il cui testo era la Bibbia e i santi Padri.
Vedevi gli scolastici e gli eruditi, teologi e filosofi, che univano in una comune ammirazione i classici e i santi Padri, disputatori sottili di tutte le cose e anche delle cose di fede, parlanti un latino d'uso e di scuola, vibrato, rapido, vivace, dove sentivi il volgare destinato a succedergli, amici della filosofia con quello stesso ardore di fede che gli altri si professavano servi del Signore, ma di una filosofia non ripugnante alla fede, anzi sostegno, illustrazione e ragione di quella, confortata da sillogismi e da sentenze e da citazioni, dove trovi spesso Tullio accanto a san Paolo.
Alteri della loro scienza e del loro latino, spregiatori del volgare, da costoro uscivano que' trattati, que' comenti, quelle «somme», quelle storie, che empivano di maraviglia il mondo.
Accanto a questi veggenti della fede e della filosofia, a questa vita dello spirito, trovi la vita attiva e temporale, affratellati dallo stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali e i priori e gli anziani delle repubbliche, il cavaliere de' romanzi e il mercatante delle cronache.
Là, appiè del Coliseo, un ardito negoziante, Giovanni Villani, pensò che la sua Fiorenza, figliuola di Roma, era non meno degna di avere una storia, e la scrisse.
Fra tanto splendore e potenza del chiericato, lo spregiato laico cominciava a levare la testa e pensava all'antica Roma e a Firenze, figliuola di Roma.
Là molte amicizie si strinsero, molte paci si fecero, come avviene in certi grandi momenti della storia umana; sparirono guelfi e ghibellini, ottimati e popolari, baroni e vassalli, stretti tutti ad una sola bandiera: uno Dio, uno papa, uno imperatore.
Là il papato ebbe l'ultimo suo gran giorno, l'ultimo sogno di monarchia universale, rotto per sempre dallo schiaffo di Anagni.
Il giubileo ci dà una immagine di quello che dovea essere la letteratura nel secolo decimoquarto.
Ebbe dal secolo antecedente la sua materia, i suoi istrumenti e il suo concetto, del quale il giubileo fu una così splendida manifestazione.
Ma quel concetto, rimaso nella sua astrazione intellettuale e allegorica, con così scarsi inizi di rappresentazione ne' misteri e nelle visioni, ancora senza nome altro che di Beatrice, breve apparizione, svaporata subito nelle astrattezze della scienza, ebbe nel Trecento la sua vita, e venne a perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di quel secolo.
L'uomo, che dovea dare il suo nome al secolo, avea già trentatrè anni, avea creato Beatrice e volgea nella mente non so che più ardito, che dovesse abbracciare tutta l'umanità.
Tenzonava nel suo capo il filosofo e il poeta: ci era il Convito e ci era la Commedia.
Ma, per apprezzare più degnamente quella vasta sintesi che ne uscì, è bene preceda l'analisi, studiando la fisonomia del secolo negl'ingegni più modesti che non conobbero, di tutto quel mondo, se non questa o quella parte.
E c'incontriamo dapprima nella letteratura claustrale, ascetica, mistica, religiosa, continuazione in prosa di fra Iacopone, ma in una prosa piena di poesia.
Domenico Cavalca, l'autore de' Fioretti, Guido da Pisa, Bartolomeo da San Concordio, Iacopo Passavanti, Giovanni dalle Celle non sono scrittori astratti e impersonali, come quelli del secolo innanzi, ma, anche volgarizzando, senti che quegli uomini prendono viva partecipazione a quello che scrivono, e vivono là dentro, e ci lasciano l'impronta del loro carattere e della loro fisonomia intellettuale e morale.
Usciamo dalle astrattezze de' trattati e delle raccolte sotto nome di «fiori», «giardini» e «tesori», ed entriamo nella realtà della vita, nel vero giardino dell'arte.
Perchè questi uomini non ragionano, non disputano, e di rado citano: la loro dottrina va poco al di là della Bibbia e de' santi Padri: ma narrano quel medesimo che si rappresentava ne' misteri, vite, leggende e visioni, e sono narrazioni più vive e schiette, che non i misteri del Quattrocento, raffazzonamenti degli antichi, con più liscio, ma dove desideri la purità e semplicità delle prime ispirazioni.
Gli scrittori son tutti frati, ed hanno le qualità degli uomini solitari, il candore, l'evidenza, e l'affetto.
Hanno l'ingenuità di un fanciullo che sta con gli occhi aperti a sentire, e più i fatti sono straordinari e maravigliosi, più tende l'orecchio e tutto si beve: qualità spiccatissima ne' Fioretti di san Francesco, il più amabile e caro di questi libri fanciulleschi.
L'immaginazione concitata dalla solitudine presenta gli oggetti così vivi e propri, che vengon fuori di un getto, non solo figurati, ma animati e coloriti caldi ancora dell'impressione fatta sullo scrittore.
Nel quale l'affetto è tanto più vivace e impetuoso e lirico, quanto la sua vita è più astinente e compressa: quasi vendetta della natura, che grida più alto, dove ha più contrasto.
Non ci è in queste prose alcuna intenzione artistica, nessun vestigio di studio, o di sforzo, o di esitazione, o di scelta; manca soprattutto il nesso, la distribuzione, la gradazione.
Ma si conseguono tutti gli effetti dell'arte che nascono da movimenti sinceri e gagliardi dell'immaginazione e dell'affetto, e n'escon pagine animate, e potenti assai più sul tuo spirito che non tanti romanzi moderni.
Cito fra l'altro la storia di Abraam romito, che prende veste e costume di cavaliere mondano, e mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne per convertire la sua nipote Maria.
Il suo incontro con Maria nella taverna, gli allettamenti lascivi di costei, la sua sorpresa e vergogna quando nel bel cavaliere scopre il suo zio, e i rimproveri affettuosi di lui e le grida strazianti e disperate della bella pentita sono una vera scena drammatica, alla quale non trovi niente comparabile nel teatro italiano.
In queste Vite del Cavalca, che sono traduzioni, ma per la freschezza e spontaneità del dettato e per la commossa partecipazione del frate sono cosa originale, il concetto del secolo, uscito dalle astrattezze teologiche e scolastiche, prende carne, acquista una esistenza morale e materiale.
Il santo è esso medesimo il concetto divenuto persona, e la sua rappresentazione ti offre il nuovo mondo morale aperto al cristiano, fatto attivo e divenuto storia, la storia del santo.
Cardine di questo mondo morale è la realtà della vita nell'altro mondo e la guerra a tutti gl'istinti e affetti terreni, l'astinenza e la pazienza, il «sustine et abstine»; e però le sue virtù non esprimono altro che la vittoria dell'uomo sopra se stesso, sulla sua natura: indi l'umiltà, il perdono delle offese, la povertà, la castità, l'ubbidienza.
Se la vittoria fosse preceduta dalla lotta, lo spettacolo sarebbe sublime; ma il più sovente il santo entra in iscena ch'è già santo e nell'esercizio quieto delle sue cristiane virtù, interrotto a volte dalle tentazioni del demonio cacciato via da scongiuri e segni di croce: ciò che è grottesco più che sublime.
Il santo è troppo santo perchè la sua vita possa offrirti una vera contraddizione e battaglia tra il cielo e la natura, ciò che rende così drammatica la vita di Agostino e di Paolo.
Qui hai racconti uniformi, infinite ripetizioni, rarissimi contrasti, e spesso provi noia e stanchezza.
La musa di queste cristiane virtù non è la forza, e non è l'azione, ma è un certo languir d'amore, una effusione di teneri e dolci sentimenti, liriche aspirazioni ed estasi e orazioni, un impetuoso prorompere degli affetti naturali tosto sedato e riconciliato, il sacrificio ignorato e oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena dopo la morte.
Una delle vite più interessanti e popolari è quella di santo Alessio, che abbandona la nobile casa paterna e la sposa il dì delle nozze, e va peregrinando e limosinando, e dopo molti anni tornato in patria, serve non conosciuto in casa del padre, e non si scopre alla madre e alla sposa, e i servi gli danno le guanciate, e lui umile e paziente.
Questa vittoria sulla natura non fa effetto, perchè in Alessio non ci è l'«homo sum», non ci è lotta, non la coscienza del sacrifizio, parendo a lui naturale e facile esercizio di virtù quello che a noi uomini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile.
L'innaturale è in lui natura: perfezione ascetica, ma non artistica.
L'interesse comincia, quando la natura fa sentire il suo grido, e col suo contrasto sublima il santo; quando, saputo il fatto, il pontefice con infinita moltitudine traendo a venerare il servo spregiato, si odono tra la folla queste grida: «Prestatemi la via, datemi loco, fate che io vegga il figliuol mio, quello che ha succiato le mammelle mie».
E ragionando col cuore di madre, la donna accusa il figlio e lo chiama «senza cuore», e poi nel suo dolore lo glorifica e ricorda che i servi gli davano le guanciate.
Scene simili non sono scarse in queste Vite: ricorderò la madre di Eugenia e Maria Maddalena, eloquentissima nelle sue lacrime.
Una vera intenzione artistica si scorge nello Specchio di penitenza di Iacopo Passavanti, una raccolta di prediche ridotte in forma di trattati morali, accompagnati con leggende e visioni dell'altro mondo.
Il frate mira a fare effetto, inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione de' vizi e delle pene.
La musa del Cavalca è l'amore, e la sua materia è il paradiso, che tu pregusti in quello spirito di carità e di mansuetudine, che comunica alla prosa tanta soavità e morbidezza di colorito.
La musa del Passavanti è il terrore, e la sua materia è il vizio e l'inferno, rappresentato meno nel suo grottesco e nella sua mitologia, che nel suo carattere umano, come il rimorso è il grido della coscienza.
Intralciato e monotono nel discorso, il suo stile è rapido, liquido pittoresco nel racconto.
Diresti che provi voluttà a spaventare e tormentare l'anima: cerca immagini, accessorii, colori, come istrumenti della tortura, e ti lascia sgomento e assediato da fantasmi.
Il periodo spesso ben congegnato, svelto e libero, la cura de' nessi e de' passaggi, la distribuzione degli accessorii e de' colori, l'intelligenza delle gradazioni, un sentimento di armonia cupo che accompagna lo spettacolo, fanno del Passavanti l'artista di questo mondo ascetico.
Ma ecco fra tante vite di santi il santo in persona, scrittore e pittore di sè medesimo, Caterina da Siena.
Abbandonata la madre e i fratelli, resasi monaca, macerato il corpo co' cilizii e digiuni, vive una vita di estasi e di visioni, e scrive in astrazione anzi dètta con una lucidità di spirito maravigliosa.
Scrive a papi a principi, a re e regine, come alla madre, a' fratelli, a frati e suore, dall'altezza della sua santità, con lo stesso tono di amorevole superiorità.
Nelle più intricate faccende prende il suo partito risolutamente, consigliando e quasi comandando quella condotta che le pare conforme alla dottrina di Cristo.
Ho detto «pare», e dovrei dire «è»: perchè nessun dubbio o esitazione è nel suo spirito, e le dottrine più astruse e mentali le sono così chiare e sicure come le cose che vede e tocca.
Ha la visione dell'astratto, e lo rende come corpo, anzi fa del corpo la luce e la faccia di quello.
Indi un linguaggio figurato e metaforico, spesso sazievole, talora continuato sino all'assurdo.
È un po' il fare biblico; un po' vezzo de' tempi; ma è pure forma naturale della sua mente.
Vivendo in ispirito, le cose dello spirito le si affacciano palpabili e visibili come materia, e così come vede Cristo e angioli, vede le idee e i pensieri.
È una regione spirituale, divenutale per lungo uso così familiare, che ne ha fatto il suo mondo e il suo corpo.
Questa chiarezza d'intuizione, accompagnata con la squisita sensibilità e la perfetta sincerità della fede le fanno trovare forme delicate e peregrine, degne di un artista.
Ma le spesse ripetizioni, l'esposizione didattica, quell'incalzare di consigli, di esortazioni e di precetti senza tregua o riposo rendono il libro sazievole e monotono.
In queste lettere di Caterina quel mondo morale, rappresentato nelle vite, nelle estasi, nelle visioni de' santi, è sviluppato come dottrina in tutta la sua rigidità ascetica.
È il codice d'amore della cristianità.
La perfezione è «morire a se stesso» secondo la sua frase energica, morire alla volontà, alle inclinazioni, agli affetti umani, sino all'amore de' figli, e tutto riferire a Dio, di tutto fare olocausto a Dio.
Il suo amore verso Cristo ha tutte le tenerezze di un amore di donna, che si sfoga a quel modo, lei inconscia.
L'ultima frase di ogni sua lettera è: «Annegatevi, bagnatevi nel sangue di Cristo».
Ardente è la sua carità pel prossimo: «Amatevi, amatevi», grida la santa, e predica pace, concordia, umiltà, perdono, voce inascoltata.
La regina Giovanna rispondea alla santa con riverenza, e continuava la vita immonda.
Lo scisma giungeva al sangue nelle vie di Roma.
Più alto e puro era l'ideale della santa, meno era efficace sugli uomini.
La sua vita si può compendiare in due parole: amore e morte.
Celebre è la sua lettera sul condannato a morte, da lei assistito negli ultimi momenti: «Teneva il capo suo sul petto mio.
Io allora sentivo un giubilo e un odore del sangue suo; e non era senza l'odore del mio, il quale io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù».
Il sangue di Cristo la esalta, la inebbria di voluttà.
Ad una serva di Dio scrive: «Inebriatevi del sangue, saziatevi del sangue, vestitevi del sangue».
«Sudare sangue», «trasformarsi nel sangue», «bere l'affetto e l'amore nel sangue», sono immagini di questo lirismo.
Della cella «si fa un cielo», e vi gusta «il bene degl'immortali, obumbrandola Dio di un gran fuoco d'amore».
Nella estasi o visione o esaltazione di mente, è gittata giù, e le pare come se l'anima sia partita dal corpo.
Il corpo pareva quasi venuto meno.
Le membra del corpo, dice Caterina, si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco.
E altrove: «Nel corpo a me non pareva essere, ma vedevo il corpo mio come se fosse stato un altro».
Questi ardori d'anima, queste illuminazioni di mente, questi martìri d'amore sono espressi con una semplicità ed evidenza, che testimoniano la sua sincerità.
L'anima «innamorata e ansietata d'amore, affocata» dal desiderio «crociato» o della croce, «annegata la propria volontà» nell'amore del «dolce e innamorato Verbo», vive nel corpo come fosse fuori di quello.
Posto il suo amore al di là della vita, vive morendo, dimorando con la mente al di là della vita.
Ma questa morte spirituale non l'appaga: «muoio e non posso morire», dice la santa.
Gli ultimi giorni furono battaglie con le dimonia e colloquii con Cristo, e a trentatrè anni finì la vita, consumata dal desiderio.
La «Commedia dell'anima» è ora pienamente realizzata nel suo aspetto religioso, come espressione letteraria.
Quell'anima ora ha un nome, è una persona, Alessio, Eugenia, Caterina.
Il demonio e la carne sono un mondo pieno di vita ne' racconti del Passavanti.
Quelle virtù allegoriche che escono in processione sulla scena sono le opere, le volontà, le passioni e i pensieri de' santi.
E la Divina Commedia, la trasfigurazione e la glorificazione dell'anima, la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra i canti degli angioli, qui sono estasi, rapimenti dell'anima, colloquii con Dio, mistica unione con Cristo, e dopo la morte la santificazione e la contemplazione nell'eterna luce.
Quel concetto è uscito dall'astrattezza della scienza e dell'allegoria, dalla sua vuota generalità, e si è incarnato, è divenuto uomo.
La prosa italiana in questa letteratura acquista evidenza, colorito, caldezza di affetto, in un andar semplice e naturale, specialmente quando vi si esprimono sentimenti dolci e ingenui.
È perfetto esemplare di stile cristiano, guasto di poi.
Alla sua perfezione manca un più sicuro nesso logico, maggiore sobrietà e scelta di accessorii, ed una formazione grammaticale e meccanica più corretta.
Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a ciò che di più perfetto è nella prosa moderna.
L'Imitazione di Cristo è certo prosa superiore, scritta in tempo di maggior coltura.
Ci è una maggiore virilità intellettuale, una logica più stretta, e pura di quella pedanteria scolastica che inseguiva i frati fino nel convento.
Ma non è superiore, quanto a quelle qualità organiche, dove è il segreto della vita, la schiettezza dell'ispirazione e il calore dell'affetto; e spesso in quella prosa, mirabile di precisione e di proprietà, desideri l'energia e l'intuizione di Caterina.
Nè questa prosa era già fattura di un solo, o di pochi, perchè la trovi anche ne' minori che scrivevano delle cose dello spirito.
Citerò una lettera di un discepolo di Caterina, che annunzia la sua morte:
«Credo che tu sappi come la nostra reverendissima e carissima mamma se ne andò in paradiso domenica, addì 29 di aprile (1380); lodato ne sia il Salvatore nostro, Gesù Cristo crocifisso benedetto.
A me ne pare essere rimaso orfano, però che di lei avevo ogni consolazione, e non mi posso tenere di piangere.
E non piango lei, piango me, che ho perduto tanto bene.
Non potevo fare maggiore perdita, e tu 'l sai...
.Della mamma si vuol fare allegrezza e festa, quanto che è per lei; ma di quelli suoi e di quelle che sono rimasi in questa misera vita, ène da piangere e da avere compassione grandissima.
Con veruna persona mi so dare dolore, quanto che con teco, che mi fusti cagione di acquistare tanto bene.
Prendo alcuno conforto, perchè nel mio cuore ène rimasa e incarnata la mamma nostra assai più che non era in prima; e ora me la pare bene conoscere.
Chè noi miseri ne avevamo tanta copia, che non la conoscevamo e non savamo degni della sua presenzia...
.
Carissimo fratello, io sono fatto tanto smemoriato del bene che ho perduto, ch'io ti scrivo anfanando.
E però di ciò non ti scrivo più.»
Lo stesso stile è in Giovanni dalle Celle, Stefano Maconi e altri frati.
Ecco in che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni particolari della fine di Caterina:
«Nella domenica di sessaggesima svenne, e perdè il vigore di sanità, mantenutole dalla forza dello spirito, e che non pareva scemarsi per inedia.
Il dì poi, un altro svenimento la lasciò lungamente come morta: se non che, risentitasi, stette in piede come se nulla fosse.
Cominciò la quaresima colle solite pratiche, esercizio a lei di consolazioni angosciose.
Ogni mattina, dopo la comunione le è forza rimettersi, sfinita, a letto.
Di lì a due ore usciva a San Pietro un buon miglio di strada, e lì stava orando infino a vespro.
Così fino alla terza domenica di quaresima, quando il male la spossò.
E per otto settimane giacque senza potere alzare il capo, tutta dolori.
A ogni nuovo spasimo alzando il capo, ne ringraziava Iddio lieta.
Alla domenica innanzi l'Ascensione, Il corpo non era omai più che uno scheletro, nel mezzo in giù senza moto, ma nel volto raggiante la vita.
Debole; un alito di respiro; pareva in fine; e le fu data l'estrema unzione.»
Questa eccellenza di dettato trovi pure ne' volgarizzamenti de' classici o di romanzi e storie allora in voga, come sono i volgarizzamenti di Livio e di Sallustio, i Fatti di Enea, gli Ammaestramenti degli antichi, voltati da Bartolomeo da San Concordio con un nerbo ed una vigoria degna del traduttore di Sallustio.
È una prosa adulta, spedita, calda, immaginosa, spesso colorita, con tutto l'andare di lingua viva e parlata, già nel suo fiore.
I romanzi operavano sul popolo non meno vivamente che la letteratura spirituale.
Nella sua immaginazione si confondea il cavaliere di Cristo e il cavaliere di Carlomagno, e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio e i fatti di Enea, e gli amori di Lancillotto e Ginevra.
Caterina trae dalla cavalleria molte sue immagini.
Chiama Cristo un «dolce cavaliere», «cavaliere dolcemente armato»; chiama la Redenzione un «torneo della morte colla vita».
Ma la letteratura cavalleresca rimase stazionaria e non produsse alcun lavoro originale.
Le traduzioni sono fatte senza intenzione seria, in prosa scarna e trascurata, posto il diletto nel maraviglioso de' fatti.
Agli stessi traduttori è materia frivola, buona per passare il tempo, e non vi partecipano, non sentono colà dentro il loro mondo e la loro vita.
Accanto a questo mondo dello spirito e dell'immaginazione c'era il mondo reale, il mondo della carne o della vita terrena, come si dicea, che si potea maledire, ma non uccidere.
Era la cronaca, memoria dì per dì de' fatti che succedevano, inanime come il dizionario, o come la lista delle spese.
Quelli che ne scrivevano con qualche intenzione artistica, la dettavano in latino e la chiamavano storia.
Latini erano anche i trattati scientifici e i lavori propriamente d'arte.
Quella letteratura spirituale e cavalleresca rimanea circoscritta al popolo ed era tenuta in poco conto da' dotti.
Costoro spregiavano il volgare, come buono solo a dir d'amore e di cose frivole, e le gravi faccende della vita le trattavano in latino.
Di questi illustre per ingegno, per coltura e per patriottismo fu Albertino Mussato, coronato poeta in Padova, sua patria.
Abbiamo di lui molte opere, alcune ancora inedite.
Scrisse in quattordici libri De gestis Henrici septimi Caesaris, e anche De gestis italicorum post mortem Henrici septimi, in dodici libri, de' quali alcuni sono in versi esametri.
Fece epistole, egloghe, elegie e due tragedie, l'Achilleis e l'Eccerinis.
Quest'ultima rappresenta la tirannide di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del demonio, e la vittoria de' comuni collegati contro di lui.
È narrazione più che azione, come ne' misteri, un narrare serrato e nervoso, le cui impressioni patetiche e morali sono espresse dal coro.
Sotto a quel latino ossuto e asciutto palpita l'anima del medio evo.
Senti una società ancor rozza, selvaggia negli odii e nelle vendette, senza misura nelle passioni, poco riflessiva, di proporzioni epiche anche in forma drammatica.
Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in modo che n'esca fuori un personaggio drammatico.
Egli rimane ravvolto nel suo manto epico, come Farinata.
È figlio de demonio, e lo sa e se ne gloria, e opera come genio del male, con piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni colossali.
Invoca il padre e dice:
Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;
annue, Satan, et filium talem proba.
E quest'uomo rimane così intero e tutto di un pezzo: manca l'analisi, senza di cui non è dramma.
Il concetto della tragedia è più morale che politico, quantunque il fatto sia altamente politico, rappresentando la lotta tra i comuni liberi e i tirannetti feudali.
Certo, in Mussato c'è il guelfo e ci è il padovano, che l'ispira e l'appassiona.
Ma il motivo tragico è affatto morale.
Ezzelino è punito non perchè offende la libertà, ma perchè opera scelleratamente, e «qui gladio ferit, gladio perit»: ciò che è in bocca al coro la conclusione del fatto:
Consors operum
meritum sequitur quisque suorum.
È il concetto ascetico dell'inferno applicato anche alla vita terrestre.
Questa nella sua prima apparizione letteraria è ancora nella sua generalità morale, non è sviluppata nei suoi interessi, ne' suoi fini, nelle sue passioni e nelle sue idee politiche: di che solo può nascere il dramma.
Il senso del reale era ancora troppo scarso, perchè il dramma fosse possibile.
Non ci è il sentimento collettivo non il partito e non la società: ci è l'individuo appena analizzato, rappresentato buono o cattivo e retribuito secondo le opere, forma elementare della vita reale.
Il feroce e il grottesco delle pene infernali hanno qui un riscontro nelle immani crudeltà di Ezzelino e nella immane punizione.
Questo concetto morale, ancorchè non ancora penetrato e sviluppato in tutti gli aspetti della vita, pure non è più un motto, un proverbio, un ammaestramento, un «fabula docet», una esposizione didattica in prosa o in verso, come nel secolo scorso, ma la vita in atto, con tutt'i caratteri della personalità, così nella vita contemplativa come nella vita attiva, così nel carbonaio del Passavanti come nell'Ezzelino del Mussato.
Onori straordinari furono conferiti al Mussato, tenuto pari a' classici, quando i classici erano ancora così poco noti.
Anche Venezia ebbe i suoi latinisti, che scrissero la sua storia, Andrea Dandolo e Martin Sanuto.
Nell'Italia settentrionale abbondano le cronache latine.
Il volgare vi si era poco sviluppato.
E dappertutto teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina era insegnata e trattata in latino.
Scrissero le loro opere in questa lingua Marsilio da Padova, Cino da Pistoia, Bartolo e Baldo.
Ma in Toscana il Malespini avea già dato l'esempio di scrivere la cronaca in volgare.
E Dino Compagni seguì l'esempio, scrivendo in volgare i fatti di Firenze dal 1270 al 1312.
Attore e spettatore, prende una viva partecipazione a quello che narra, e schizza con mano sicura immortali ritratti.
Non è questa una cronaca, una semplice memoria di fatti: tutto si move, tutto è rappresentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e a tutto lo scrittore è presente, si mescola in tutto, esprime altamente le sue impressioni e i suoi giudizi.
Così è uscita di sotto alla sua penna una storia indimenticabile.
Questa storia è una immane catastrofe.
Da lui preveduta e non potuta impedire.
E non si accorge che di quella catastrofe cagione non ultima fu lui.
O piuttosto ne ha un'oscura coscienza, quando con quel tale «senno di poi» dice: - Oh se avessi saputo! Ma chi poteva pensare? - Ma Dino peccò per soverchia bontà d'animo; gli altri peccarono per malizia, e Dino li flagella a sangue.
Era Bianco; ma più che Bianco, era onesto uomo e patriota.
Gli pareva che que' Neri e que' Bianchi, quei Donati e quei Cerchi, non fossero divisi da altro che da gara d'uffici, e gli parea che, partendo ugualmente gli uffici, quelle discordie avessero a cessare.
Gli parea pure che tutti amassero la città, come facea lui, e fossero pronti per la sua libertà e il suo decoro a fare il sacrificio de' loro odii e delle loro cupidigie.
E gli parea che uomo di sangue regio non potesse mentire nè spergiurare, e che nessuno potesse mancare alle promesse, quando fossero messe in carta.
E anche questo gli parea, che gli amici stessero saldi intorno a lui e che ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire.
Che cosa non parea al buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo della repubblica.
È la prima volta che si trova in presenza la morale com'era in Albertano giudice e come fu poi in Caterina, la morale de' libri e la morale del mondo.
E la contraddizione balza fuori con tutta l'energia di una prima impressione.
Il brav'uomo al contatto del mondo reale cade di disinganno in disinganno, e ciascuna volta rivela la sua ingenuità con un accento di maraviglia e d'indignazione.
Immaginatevelo alle prese con Bonifazio ottavo, Carlo di Valois e Corso Donati, ciò che di più astuto e violento era a quel tempo.
L'energia del sentimento morale offeso è il secreto della sua eloquenza.
Qui non ci è nessuna intenzione letteraria: la narrazione procede rapida, naturale, sino alla rozzezza.
Vi è un materiale crudo e accumulato e mescolato, senza ordine o scelta o distribuzione; ignota è l'arte del subordinare e del graduare; mancano i passaggi e le giunture; il fatto è spesso strozzato; spesso il colorito è un po' risentito e teso difetti di composizione gravi.
Pure le qualità essenziali che rendono un libro immortale stanno qui dentro, la sincerità dell'ispirazione, l'energia e la purità del sentimento morale, la compiuta personalità dello scrittore e del tempo, la maraviglia, l'indignazione, il dolore, la passione del cronista, che comunica a tutto moto e vita.
In tempi meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca di Firenze sino al 1348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo.
Mira a dar memoria de' fatti, pigliandoli dove li trova, e spesso copiando o compendiando i cronisti che lo precessero.
Sono nudi fatti, raccolti con scrupolosa diligenza, anche i più minuti e familiari, della vita fiorentina, come le derrate, i drappi, le monete, i prestiti: materiale prezioso per la storia.
Ma questa cruda realtà, scompagnata dalla vita interiore che la produce, è priva di colorito e di fisonomia e riesce monotona e sazievole.
La Cronaca di Dino e le tre Cronache de' Villani comprendono il secolo.
La prima narra la caduta de' Bianchi, le altre raccontano il regno de' Neri.
Tra, vinti erano Dino e Dante.
Tra, vincitori erano i Villani.
Questi raccontano con quieta indifferenza, come facessero un inventario.
Quelli scrivono la storia col pugnale.
Chi si appaga della superficie, legga i Villani.
Ma chi vuol conoscere le passioni, i costumi, i caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino.
Finora non abbiamo creduto necessario di entrare nel vivo della storia, perchè gli scrittori, o ascetici o cavallereschi o didattici, scrivono come segregati dal mondo.
Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che racconta sono i fatti suoi, parte della sua vita, e la sua Cronaca è lo specchio del tempo, non nelle regioni astratte della scienza o nel fantastico della cavalleria e dell'ascetica, ma nella realtà della vita pubblica.
I partiti che straziavano Firenze con nomi venuti da Pistoia erano detti i Neri e i Bianchi, gli uni capitanati da' Donati e gli altri da' Cerchi, famiglie potentissime di ricchezza e di aderenze.
Dante sperò di poter pacificare la città, mandando in esilio i due più potenti e irrequieti capi delle due fazioni, Corso Donati e Guido Cavalcanti.
Venuto malato, il Cavalcanti fu richiamato, ma non Corso Donati: di che si menò molto scalpore, massime che Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.
I Neri erano guelfi puri, e si appoggiavano sui popolani e sul papa, vicino, influente, e centro di tutti gl'intrighi e le cospirazioni guelfe.
Bonifazio ottavo, venuto dopo il giubileo in maggior superbia, avea chiamato a sè con molte promesse Carlo di Valois, detto per dispregio «senza terra», e mandatolo a Firenze sotto colore di pacificare la città, ma col proposito di ristorarvi la parte nera.
Qui comincia il dramma, esposto con sì vivi colori dal nostro Dino nel libro secondo.
Dante si lasciò persuadere di andare legato a Roma.
Si dice abbia detto: - Se io vado, chi resta? - Restò il povero Dino.
Certo, l'opera di Dante sarebbe stata più utile a Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversari.
A Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e non concluse nulla.
Dino comincia il racconto con stile concitato.
Sembra un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:
«Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e distendete le vostre malizie.
Non penate più: andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città.
Spandete il sangue de' vostri fratelli, spogliatevi della fede e dell'amore; nieghi l'uno all'altro aiuto e servigio.
Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende una per una...
Non v'indugiate, o miseri: chè più si consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace, e piccola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.»
Qui non ci è l'uomo politico.
Ci è la realtà vista da un aspetto puramente morale e religioso, come gli ascetici; il concetto è lo stesso; la materia è diversa.
Considerata così, la realtà riesce al buon Dino altra che non pensava, e in luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la realtà e la maledice.
I suoi errori nascono dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose, sì che divenne il trastullo degli uni e degli altri, perdette lo stato e fu calunniato, come avviene a' vinti.
Allora prende la penna, e li maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale ingenuità che se le male passioni degli altri son manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontà.
Mentre gli ambasciatori armeggiano con Bonifazio, largo promettitore purchè «sia ubbidita la sua volontà», furono in Firenze eletti i nuovi signori, e Dino fu di quelli.
Piacque la scelta, perchè «uomini non sospetti e buoni, e senza baldanza, e avevano volontà d'accomunare gli uffici, dicendo: - Questo è l'ultimo rimedio».
Questo è il giudizio che porta Dino di sè e de' suoi colleghi.
Ma i loro avversari «n'ebbono speranza», perchè li conosceano «uomini deboli e pacifici, i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente di poterli ingannare».
Che buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.
I Neri «a quattro e a sei insieme, preso accordo fra loro», li andavano a visitare e diceano: «Voi siete buoni uomini e di tali avea bisogno la nostra città.
Voi vedete la discordia de' cittadini vostri: a voi la conviene pacificare, o la città perirà.
Voi siete quelli che avete la balìa, e noi a ciò fare vi profferiamo l'avere e le persone di buono e leale animo».
E benchè «di così false profferte dubitassero, credendo che la loro malizia coprissero con falso parlare», pure Dino per commessione de' suoi compagni rispose: «Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri, e cominciar vogliamo a usarle: e richieggiamvi che voi ci consigliate, e pogniate l'animo a guisa che la nostra città debba posare».
Che scellerati! E che buoni uomini! Non si può meglio rappresentare la malizia degli uni e l'innocenza degli altri.
Scrivendo dopo i fatti, Dino si picchia il petto e dice il mea culpa: «E così perdemmo il primo tempo, perchè non ardimmo a chiudere le porte, nè a cessare l'udienza ai cittadini.
Demmo loro intendimento di trattar pace, quando si convenia arrotare i ferri».
Poichè si trattava la pace, i Bianchi smessero dalle offese e i Neri presero baldanza.
E Dino confessa questo primo effetto della sua bontà: «La gente, che tenea co' Cerchi, ne prese viltà, dicendo: - Non è da darsi fatica, chè pace sarà.
- E i loro avversari pensavano pur di compiere le loro malizie».
La voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito contrario a' Cerchi e che Carlo di Valois veniva in Firenze, dovea aver tanto imbaldanzito i Neri, che a costoro pareva un atto di debolezza e di paura quello che in Dino era ispirato da sincero amore di concordia.
E quelle pratiche di pace spacciavano covare sotto un tradimento.
La forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza morale passava agli avversari, più audaci, e confidenti in vicina vittoria.
Già ci era un'altra aria in città.
Non pur gl'indifferenti, ma anche noti seguaci de' Cerchi mutavano lingua.
Sicchè l'oratore di Carlo riferì che «la parte de' Donati era assai innalzata e la parte de' Cerchi era assai abbassata», veggendo come dopo le sue parole «molti dicitori si levarono in piè affocati per dire e magnificare messer Carlo».
Dino, volendo negare l'ingresso a Carlo e non osando prendere su di sè la cosa, «essendo la novità grande», si rimise al suffragio de' suoi concittadini.
Fu un plebiscito fatto dal debole e che riuscì in favore de' forti: solito costume de' popoli, e il buon Dino nol sapea.
I soli fornai si mostrarono uomini, dicendo che «nè ricevuto, nè onorato fusse, perchè venìa per distruggere la città».
Dino credette trovare il rimedio, chiedendo a Carlo «lettere bollate, che non acquisterebbe ...
niuna giurisdizione, nè occuperebbe niuno onore della città nè per titolo d'imperio, nè per altra cagione, nè le leggi della città muterebbe, nè l'uso».
Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera, e provvide che il passo gli fosse negato e «vietata la vivanda».
Ma la lettera venne, e «io la vidi e fecila copiare, e quando fu venuto, io lo domandai se di sua volontà era scritta.
Rispose: - Sì, certamente -».
Ora che Dino ha la lettera in tasca, può viver sicuro.
E gli viene «un santo e onesto pensiero, immaginando: Questo signore verrà, e tutt'i cittadini troverà divisi, di che grande scandalo ne seguirà».
Onde li rauna nella chiesa di San Giovanni, e loro fa un fervorino, perchè «sopra quel sacrato fonte onde trassero il santo battesimo», giurino buona e perfetta pace.
Le parole di Dino sono di quella eloquenza semplice e commovente che viene dal cuore.
In quei tempi di lotte così accese il sentimento della concordia era tanto più vivo negli animi buoni e onesti, da Albertano a Caterina.
E non so che in Caterina si trovino parole nella loro semplicità così affettuose come queste di Dino: «Signori, perchè volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? Contro a' vostri fratelli? Che vittoria avrete? Non altro che pianto».
Tutti giurarono; e Dino aggiunge con amarezza: «I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano lacrime, e baciavano il libro, ...
furono i principali alla distruzione della città».
Povero Dino! E si affligge il brav'uomo e si pente, e «di quel sacramento molte lacrime sparsi, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia».
Carlo quintoenne, e diètrogli, dicendo che venìano a onorare il signore, lucchesi, perugini, e Cante d'Agobbio e molti altri, a sei e dieci per volta, tutti avversari de' Cerchi: e «ciascuno si mostrava amico».
Dino fece il ponte d'oro al nemico che entra, contro il proverbio.
E Carlo ebbe in Firenze milledugento cavalli.
Che fa Dino? Sceglie quaranta cittadini di amendue le parti, perchè provveggano alla salvezza della terra.
Ciò che ci era negli animi è qui scolpito in pochi tratti: «Quelli che avevano reo proponimento, non parlavano; gli altri aveano perduto il vigore.
Baldino Falconieri, uom vile, dicea: - Signori, io sto bene, perchè io non dormia sicuro».
Lapo Saltarelli, per riamicarsi il papa, ingiuria la Signoria, e tiene in casa nascosto un confinato.
Albertano del Giudice monta in ringhiera, e biasima i signori.
Pare coraggio civile, ed è viltà e diserzione.
I nemici tacciono.
Gli amici ingiuriano, per farsi grazia.
Cominciano i tradimenti.
«I priori scrissero al papa segretamente; ma tutto seppe la parte nera, perocchè quelli che giurarono credenza non la tennono».
Alfine Dino si risolve ad accomunare gli uffici, parlando «umilmente e con gran tenerezza» dello scampo della città.
Ma era troppo tardi.
I Neri non volevano parte, ma tutto.
«E Noffo Guidi parlò e disse: - Io dirò cosa che tu mi terrai crudele cittadino.
- E io li dissi che tacesse: e pur parlò, e fu di tanta arroganza, che mi domandò che mi piacesse far la loro parte nell'ufficio, maggiore che l'altra; che tanto fu a dire, quanto: - Disfa' l'altra parte - e me porre nel luogo di Giuda.
E io li risposi che innanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei figliuoli a mangiare a' cani.»
Carlo quintoolea in mano i Signori, e li facea spesso invitare a mangiare.
E quelli si ricusavano, adducendo che la legge li costringea che fare non lo potevano; ma era «perchè stimavano che contro a loro volontà li avrebbe ritenuti».
Un giorno disse che in Santa Maria Novella fuori della terra volea parlamentare, e che piacesse alla Signoria esservi.
Dino vi mandò tre soli de' compagni: «a' quali niente disse, come colui che non volea parole, ma sì uccidere».
«Molti cittadini si dolsono con noi di quella andata, parendo loro che andassono al martirio.
E quando furono tornati, lodavano Dio, che da morte gli avea scampati.»
Volevano, se la Signoria vi fosse ita tutta, «ucciderli fuori della porta e correre la terra per loro».
E Dino che facea?
C'è un brano stupendo, che è una pittura.
Vedi come Dino passava i giorni; la sua incapacità e i suoi affanni:
«I Signori erano stimolati da ogni parte.
I buoni diceano che guardassero ben loro, e la loro città.
I rei li contendeano con quistioni.
E tra le domande e le risposte il dì se ne andava.
I baroni di messer Carlo gli occupavano con lunghe parole.
E così viveano con affanno.»
Un rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: - Fate fare processione, e del pericolo cesserà gran parte -.
E Dino fece la processione, e molti lo schernirono, dicendo che «meglio era arrotare i ferri».
E Dino conchiude, parlando di sè e de' colleghi: «Niente giovò, perchè usarono modi pacifici, e voleano essere repenti e forti.
Niente vale l'umiltà contro alla grande malizia».
Tutto ti è messo sott'occhio, come in una rappresentazione drammatica.
Vedi i Neri in istrada, corrompere, far gente, mostrare la loro potenza.
Diceano:
«- Noi abbiamo un signore in casa; il papa è nostro protettore; gli avversari nostri non sono guerniti nè da guerra, nè da pace; danari non hanno; i soldati non sono pagati.
-»
E misero in ordine «tutto ciò che a guerra bisognava, ...
invitati molti villani d'attorno e tutti gli sbanditi».
I Neri si armavano; i Bianchi no, perchè era contro la legge, e Dino minacciava di punirli.
E ora che scrive, a scolparsi nota che fu per avarizia, perchè fece dire a' Cerchi: «- Fornitevi, e ditelo agli amici vostri -».
I Neri, «conoscendo i nemici loro vili e che aveano perduto il vigore», vengono a' ferri.
I Medici lasciano per morto Orlandi, un valoroso popolano.
Si grida a' priori: - Voi siete traditi, armatevi -.
Ecco finalmente sventolare sulle finestre il gonfalone di giustizia.
Molti vanno nascosamente ...
dal lato di parte nera.
Ma traggono alla Signoria i soldati che non erano corrotti, e altre genti, e amici a piè e a cavallo.
Era il momento di operare con vigore.
Ma «i Signori non usi a guerra erano occupati da molti che voleano essere uditi; e in poco stante si fe' notte».
Il podestà non si fe' vivo.
Il capitano non si mosse, come «uomo più atto a riposo e a pace che a guerra.» «La raunata gente non consigliò».
Il giorno finì: e non si concluse nulla, e la gente stanca se ne andò, e ciascuno pensò a se stesso.
E Dino cosa facea? Dava udienza.
I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone parole.
Li Spini diceano alli Scali:
«- Deh! Perchè facciamo noi così? Noi siamo pure amici e parenti e tutti guelfi; noi non abbiamo altra intenzione che di levarci la catena di collo, che tiene il popolo a voi e a noi.
E saremo maggiori che noi non siamo.
Mercè per Dio, siamo una cosa, come noi dovemo essere.
- ...
Quelli che riceveano tali parole, s'ammollavano nel cuore, e i loro seguaci invilirono».
I ghibellini, credendosi abbandonati, si smarrirono, e gli sbanditi si avvicinavano alla città.
Come farli entrare? Carlo primonstava presso la Signoria, perchè si desse a lui la guardia della città e delle porte: che farebbe de' malfattori aspra giustizia.
E sotto questo nascondea la sua malizia, nota l'arguto Dino.
Ma l'arguto Dino gli dà la guardia delle porte d'Oltrarno! Bisogna proprio sentir lui:
«Le chiavi gli furono negate, e le porte di Oltrarno gli furono raccomandate, e levati ne furono i fiorentini, e furonvi messi i franciosi.
E il cancelliere e il manescalco di messer Carlo giurarono nelle mani a me Dino ricevente per lo comune....
E mai credetti che un tanto signore e della casa reale di Francia rompesse la sua fede: perchè passò piccola parte della seguente notte che per la porta che noi gli demmo in guardia, die' l'entrata a ...
molti ...
sbanditi.»
Fatta la breccia, entrano gli altri.
E i signori, venuta meno tutta la loro speranza, «deliberarono, quando i villani fossero venuti in loro soccorso, prendere la difesa.» Che erà quel prender tempo e non risolversi degli animi deboli.
Furono vinti senza combattere.
Tutti si gettarono là dov'era la forza:
«I malvagi villani gli abbandonarono...
e i ...
famigli li tradirono....
Molti soldati si volsono a servire i loro avversari.
Il podestà ...
andava procurando in aiuto di messer Carlo.»
Carlo manda i suoi a' priori, «per occupare il giorno e il loro proponimento con lunghe parole».
Giuravano che il loro signore si tenea tradito», e che farebbe la vendetta grande.
- Tenete per fermo che se il nostro signore non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro modo, fateci levare la testa.
- E ora che scrive, Dino aggiunge: «E non giurò messer Carlo primol vero, perchè [Corso Donati] di sua saputa venne».
Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il comune, ma ad un patto, che si dieno a lui in custodia i più potenti uomini delle due parti.
E Dino consente.
«I Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con temenza.
Messer Carlo li fece guardare; i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne presi quella notte senza paglia e senza materasse, come uomini micidiali.»
Qui Dino non ne può più e prorompe:
«O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ov'è la fede della real casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo vergogna? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta corona fatto non soldato, ma assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il nome della real casa di Francia!»
L'indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo.
Come pensare che il sangue di san Luigi, un Reale di Francia, fosse spergiuro e assassino?
Quando non ci era più il rimedio, si corse al rimedio.
Dino fa sonare la campana grossa, che era un chiamare alle armi.
Ma nessuno uscì: «La gente sbigottita non trasse di casa i Cerchi.
Non uscì uomo a cavallo, nè a pie armato».
Anche il cielo vi si mescola.
Apparisce una croce vermiglia sopra il palagio de' priori:
«Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemmo comprendere che Dio era fortemente contro alla nostra città crucciato.»
La città per sei giorni fu messa a ruba.
In pochi tocchi ti sta innanzi il quadro:
«Gli uomini che temeano i loro avversari si nascondeano per le case de' loro amici.
L'uno nimico offendea l'altro; le case si cominciavano ad ardere; le ruberie si faceano, e fuggivansi gli arnesi alle case degl'impotenti.
I Neri potenti domandavano danaro a' Bianchi; maritavansi le fanciulle a forza; uccideansi uomini; e quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: - Che fuoco è quello? - Eragli risposto che era una capanna, quando era un ricco palazzo.»
I priori, multiplicando il mal fare, e non avendo rimedio, lasciarono il priorato.
E venne al governo la parte nera.
Dino fu il Pier Soderini di quel tempo, e fu a se stesso il suo Machiavelli.
Nessuno può dipingerlo meglio che non fa egli medesimo.
In questa maravigliosa cronaca non ci è una parola di più.
Tutto è azione, che corre senza posa sino allo scioglimento.
Ma è azione, dove paion fuori caratteri e passioni.
Un motto, un tratto è un carattere.
Carlo, dopo di aver tratto da' fiorentini molti danari, va a Roma e chiede danari a Bonifazio.
- Ma io ti ho mandato alla fonte dell'oro, - risponde il papa.
È una risposta, che è un ritratto dell'uno e dell'altro.
I discorsi sono sostanziosi, incisivi, non meno pittoreschi: vedi personaggi vivi, con la loro natura e i loro intendimenti, e fanno più effetto che non le studiate e classiche orazioni venute poi.
Uomo d'impressione più che di pensiero, Dino intuisce uomini e cose a prima vista, e ne rende la fisonomia che non la puoi dimenticare.
Di Bonifazio ottavo dice:
«Fu di grande ardire e alto ingegno, e guidava la Chiesa a suo modo, e abbassava chi non li consentia.»
Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto:
«Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore; adorno di belli costumi, sottile d'ingegno, coll'animo sempre intento a mal fare (col quale molti masnadieri si raunavano, e gran sèguito avea) molte arsioni e molte ruberie fece fare;...
molto avere guadagnò e in grande altezza salì.
Costui fu messer Corso Donati che per sua superbia fu chiamato il barone, che, quando passava per la terra, molti gridavano: - Viva il barone.
- E parea la terra sua.
La vanagloria il guidava e molti servigi facea.»
La stessa sicurezza è nella rappresentazione delle cose.
Rapido, arido, tutto fatti, che balzan fuori coloriti dalle sue vivaci impressioni, dalla sua maraviglia, dalla sua indignazione.
Una cosa soprattutto lo colpisce, che «molte lingue si cambiarono in pochi giorni».
Non vi si sa rassegnare, e li chiama ad uno ad uno, e ricorda loro quello che diceano e quello che erano.
Il mutarsi dell'animo secondo gli eventi non gli potea entrare:
«Donato Alberti, ...
dove sono le tue arroganze, che ti nascondesti in una vile cucina? O messer Lapo Salterelli, minacciatore e battitore de' rettori che non ti serviano nelle tue quistioni, ove t'armasti? In casa i Pulci, stando nascoso, ...
O messer Manetto Scali, che volevi esser tenuto sì grande e temuto, ove prendesti le armi? ...
O voi popolani, che desideravate gli ufici e succiavate gli onori, e occupavate i palagi de' rettori, ove fu la vostra difesa? Nelle menzogne, simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando i nemici, solamente per campare.
Adunque piangete sopra voi e la vostra città.»
I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e ingenerose sono da lui rappresentati con lo stesso accento di maraviglia, come di cose non viste mai, e svegliano nel suo animo onesto una indignazione eloquente.
Ed è da quei sentimenti che è uscito questo capolavoro di descrizione:
«Molti nelle pie opere divennero grandi, i quali avanti nominati non erano, e nelle crudeli opere regnando, cacciarono molti cittadini e feciongli rubelli, e sbandeggiarono nell'avere e nella persona.
Molte magioni guastarono, e molti ne puniano, secondo che tra loro era ordinato e scritto.
Niuno ne campò che non fosse punito.
Non valse parentado nè amistà; nè pena si potea minuire, nè cambiare a coloro a cui determinate erano.
Nuovi matrimoni niente valsero, ciascuno amico divenne nimico; i fratelli abbandonavano l'un l'altro, il figliuolo il padre, ogni amore, ogni umanità si spense.
...
Patto, pietà nè mercè in niuno mai si trovò.
Chi più dicea: - Muoiano, muoiano i traditori -, colui era il maggiore.»
Tra' proscritti fu Dante.
Condannato in contumacia, non rivide più la sua patria.
Ira, vendetta, dolore, disdegno, ansietà pubbliche e private, tutte le passioni che possono covare nel petto di un uomo, lo accompagnarono nell'esilio.
Chi ha visto l'indignazione di Dino, può misurare quella di Dante.
Il priorato fu il principio della sua rovina, com'egli dice, ma fu anche il principio della sua gloria.
Non era uomo politico; mancavagli flessibilità e arte di vita; era tutto un pezzo, come Dino.
Priore, volle procurare una concordia impossibile, e non riuscì che a farsi ingannare da' Neri in Firenze e da Bonifazio in Roma.
Esule, non valse a mantenere quella preminenza che era debita al suo ingegno e alla sua virtù, si lasciò soverchiare da' più audaci e arrischiati, e non potendo impedire e non volendo accettare molti disegni, si segregò e si fece parte per se stesso.
Toltosi alle faccende pubbliche, ripiegatosi in sè, sviluppò tutte le sue forze intellettive e poetiche.
Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore allo studio che la vista ne fu debilitata.
Finisce la Vita Nuova con la speranza «di dire di lei quello che non fu mai detto di alcuna».
E fece di questo suo primo e solo amore «la bellissima e onestissima figlia dell'Imperatore dell'universo, alla quale Pitagora pose nome Filosofia».
Frutto di questi nuovi studi furono le sue canzoni allegoriche e scientifiche.
Tra questi studi nacque la seconda Beatrice, luce spirituale, unità ideale, l'amore che congiunge insieme intelletto e atto, scienza e vita.
Intelletto, amore, atto, era questa la trinità, che fu il suo secondo amore, la sua filosofia.
Beatrice divenne un simbolo, e la poesia vanì nella scienza.
Quel mondo lirico, che a noi pare troppo astratto, parve poco spirituale ai contemporanei, che chiamavano «sensuale» quel primo amore di Dante, e poco intendevano questo suo secondo amore.
E Dante, per cessare da sè l'infamia e per mostrare la dottrina «nascosa sotto figura di allegoria», volle illustrare e comentare le sue canzoni egli medesimo.
Era dottissimo.
Teologia, filosofia, storia, mitologia, giurisprudenza, astronomia, fisica, matematica, rettorica, poetica, di tutto lo scibile avea notizia e non superficiale: perchè di tutto parlò con chiarezza e con padronanza della materia.
Il disegno gli si allargò: al poeta tenne dietro lo scienziato; e pensò di chiudere in quattordici trattati, quante erano le canzoni, tutta la scienza nella sua applicazione alla vita morale.
Un lavoro simile, che Brunetto chiamò Tesoro, e altri chiamavano Fiore o Giardino, egli chiamò Convito, quasi mensa dov'è imbandito «il pane degli angeli», il cibo della sapienza.
Brunetto avea scritto il Tesoro in francese, gli altri trattavano la scienza in latino.
La prosa volgare era tenuta poco acconcia a questa materia, massime dopo l'infelice versione dell'Etica di Aristotile, fatta da un tal Taddeo, celebre medico, nominato «l'ippocratista».
Bisogna vedere quante sottili ragioni adduce Dante per scusarsi di scrivere in volgare.
Celebra il latino come «perpetuo e non corruttibile», e perchè «molte cose manifesta concepute nella mente, che il volgare non può», e perchè «il ...
volgare seguita uso e il latino arte»; onde il latino è «più bello, più virtuoso e più nobile».
Ma appunto per questo il comento latino non sarebbe stato «suggetto alle canzoni» scritte in volgare, ma «sovrano», e il comento per sua natura è servo e non signore, e dee ubbidire e non comandare.
Ora il latino non può ubbidire, perchè «comandatore» e sovrano del volgare.
Oltrechè, come può il latino comentare il volgare, non conoscendo il volgare? E che il latino non è conoscente del volgare, si vede: «chè uno abituato di latino non distingue, s'egli è d'Italia, lo volgare provenzale dal tedesco nè il tedesco lo volgare italico o provenzale ».
Ecco le opinioni, le forme e le sottigliezze della scuola.
Questa novità di scrivere di scienza in volgare, che è come dare a' convitati «pane di biado e non di formento», gli pare così grande che a difendersene spende otto capitoli, modello di barbarie scolastica.
Lasciando stare le sottigliezze, la sostanza è questa, ch'egli usa «il volgare di sì», perchè loquela propria e «delli suoi generanti», e suo «introducitore» nello studio del latino, e perciò «nella via di scienza, ch'è ultima perfezione».
Scrisse in volgare le rime, il volgare usò «deliberando, interpretando e quistionando»; dal principio della vita ebbe con esso «benivolenza e conversazione»; il volgare è l'amico suo, dal quale non si sa dividere.
Coloro «fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza», che per «iscusarsi del non dire o dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio».
La plebe, o come dice egli, le «popolari persone» cadono «nella fossa» di questa falsa opinione per poca discrezione: «per che incontra che molte volte gridano: - Viva la loro morte - e: - Muoia la loro vita -, purchè alcuno cominci», e sono da chiamare «pecore, e non uomini».
Gli altri vi caggiono per vanità o per vanagloria, o per invidia o per pusillanimità.
Questo disamare lo volgare proprio e pregiare l'altrui, gli pare un adulterio, conchiudendo con queste sdegnose parole: «E tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d'Italia, che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri».
E però egli scrive questo comento in volgare, per fargli avere «in atto e palese quella bontade che ha in potere e occulto», mostrando che la sua virtù si manifesta anche in prosa, senza le accidentali adornezze della rima e del ritmo, come donna «bella per natural bellezza e non per gli adornamenti dell'azzimare e delle vestimenta», e che altissimi e novissimi concetti convenientemente, sufficientemente e acconciamente, «quasi come per esso latino», vi si esprimono.
E finisce con queste profetiche parole: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà, ove l'usato tramonterà».
Tanta veemenza nell'accusare, tanto ardore nel magnificare può fare intendere quanto radicata e sparsa era l'opinione degl'infiniti «ciechi», com'egli li chiama, che tenevano il volgare inetto alla prosa.
E non ottenne l'intento.
Il latino continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato a mezza via il Convito, trattò in latino la rettorica e la politica, che insieme con l'etica era la materia ordinaria dei trattati scientifici.
Il libro De vulgari eloquio non è un fior di rettorica, quale si costumava allora, un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi, ma è vera critica applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati.
La base di tutto l'edifizio è la lingua nobile, aulica, cortigiana, illustre, che è dappertutto e non è in alcuna parte, di cui ha voluto dare esempio nel Convito.
Questo ideale parlare italico è illustre, in quanto si scosta dagli elementi locali, ove prendono forma i dialetti e si accosta alla maestà e gravità del latino, la lingua modello.
Voleva egli far del volgare quello che era il latino, non la lingua delle persone popolari, ma la lingua perpetua e incorruttibile degli uomini colti.
Sogno assai simile a quello di una lingua universale, fondata con procedimenti artificiali della scienza.
Scegliere il meglio di qua e di là e far cosa una e perfetta, sembra cosa facile e assai conforme alla logica, ma è contro natura.
Le lingue, come le nazioni, vanno all'unità per processi lenti e storici; e non per fusioni preconcette, ma per graduale assorbimento e conquista degli elementi inferiori.
Il ghibellino che dispregiava i dialetti comunali e voleva un parlare comune italico, di cui abbozzava l'immagine, ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.
Il trattato, De Monarchia, è diviso in tre libri.
Nel primo dimostra la perfetta forma di governo essere la monarchia; nel secondo prova questa perfezione essere incarnata nell'impero romano, sospeso, non cessato, perchè preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni tra l'impero e il sacerdozio, l'unico imperatore e l'unico papa.
L'eccellenza della monarchia è fondata sull'unità di Dio.
Uno Dio, uno imperatore.
Le oligarchie e le democrazie sono «polizie oblique», governi «per accidente», reggimenti difettivi.
Fin qui tutti erano d'accordo, guelfi e ghibellini.
Non ci erano due filosofie: le premesse erano comuni ai due partiti.
E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo, e la preminenza di quello, base della filosofia cristiana.
E ne inferivano che nella società sono due poteri, lo spirituale e il temporale, il papa e l'imperatore.
Il contrasto era tutto nelle conseguenze.
Se lo spirito è superiore al corpo, dunque, conchiudeva Bonifazio ottavo, il papa è superiore all'imperatore.
«Il potere spirituale - dic'egli - ha il diritto d'instituire il potere temporale e di giudicarlo, se non è buono.
E chi resiste, resiste all'ordine stesso di Dio, a meno ch'egli non immagini, come i manichei, due princìpi, Ciò che sentenziamo errore ed eresia.
Adunque ogni uomo dee essere sottoposto al pontefice romano, e noi dichiariamo che questa sottomissione è necessaria per la salute dell'anima».
Filosofia chiara, semplice, popolare, irresistibile per il carattere indiscusso delle premesse consentite da tutti e per l'evidenza delle conseguenze.
Quando lo spirito era il sostanziale e il corpo in se stesso era il peccato, e non valea se non come apparenza o organo dello spirito, cos'altro potevano essere i re e gl'imperatori, che erano il potere temporale, se non gl'investiti dal papa, gli esecutori della sua volontà? I guelfi, che, salve le franchigie comunali, ammettevano premesse e conseguenze, erano detti «la parte di santa Chiesa».
Dante ammetteva le premesse, e per fuggire alla conseguenza suppone che spirito e materia fossero ciascuno con sua vita propria, senza ingerenza nell'altro, e da questa ipotesi deduce l'indipendenza de' due poteri, amendue «organi di Dio» sulla terra, di diritto divino, con gli stessi privilegi, «due soli», che indirizzano l'uomo, l'uno per la via di Dio, l'altro per la via del mondo, l'uno per la celeste, l'altro per la terrena felicità.
Perciò il papa non può unire i due reggimenti in sè, congiungere il pastorale e la spada; anzi, come vero servo di Dio e immagine di Cristo, dee dispregiare i beni e le cure di questo mondo, e lasciare a Cesare ciò che è di Cesare.
L'imperatore dal suo canto dee usar riverenza al papa, appunto per la preminenza dello spirito sul corpo; e poichè il popolo è corrotto e usurpatore, e la società è viziosa e anarchica, il suo uffizio è di ridurre il mondo a giustizia e concordia, ristaurando l'impero della legge.
Nè è a temere che sia tiranno, perchè nella stessa sua onnipotenza troverà il freno a se stesso: perciò rispetterà le franchigie de' comuni e l'indipendenza delle nazioni.
Questa era l'utopia dantesca o piuttosto ghibellina.
Dante ne ha fatto un sistema e ne è stato il filosofo.
Scendendo alle applicazioni, Dante mostra nel secondo libro che la monarchia romana fu di tutte perfettissima.
La sua storia risponde alle tre età dell'uomo.
Nell'infanzia ebbe i re: adulta, e rettasi a popolo, con geste maravigliose, una serie di miracoli che attestano la sua missione provvidenziale, si apparecchiò alla età virile, ordinandosi a monarchia sotto Augusto, che san Tommaso chiama vicario di Cristo, e che Dante, seguendo la tradizione virgiliana, dice discendente da Enea fondatore dell'impero, per disegno divino.
E fu a quel tempo che nacque Cristo, e «fu suddito dell'impero», e compì l'opera della redenzione delle anime, mentre Augusto componeva il mondo in perfetta pace.
Da queste premesse storiche Dante conchiude che Roma per dritto divino dee essere la capitale del mondo, e che giustizia e pace non può venire in terra se non con la ristaurazione dell'impero romano, «la monarchia predestinata» di cui la più bella parte il giardino, era l'Italia.
In apparenza, questo era un ritorno al passato, ma ci era in germe tutto l'avvenire: ci era l'affrancamento del laicato e l'avviamento a più larghe unità.
I guelfi si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di là del comune vedi la nazione, e al di là della nazione l'umanità, la confederazione delle nazioni.
Era un'utopia che segnava la via della storia.
Guelfi e ghibellini aveano comune la persuasione che la società era corrotta e disordinata, e chiedevano il paciere.
La selva, immagine della corruzione, è un punto di partenza comune a Brunetto guelfo e a Dante ghibellino.
I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie un legato del papa, come Carlo di Valois, «che giostrò con la lancia di Giuda», come dice Dante.
I ghibellini invocavano l'imperatore.
E credesi che Dante abbia scritto questo trattato per agevolare la via all'imperatore Arrigo settimo di Lucemburgo, sceso a pacificare l'Italia e morto al principio dell'impresa, glorificato da Dante, celebrato da Mussato, lacrimato da Cino.
Non avevano ancora imparato, e guelfi e ghibellini, che chiamar pacieri è mettersi a discrezione altrui, e che metter l'ordine e salvar la società dalle fazioni è antico pretesto di tutt'i conquistatori.
Dante scrisse lettere anche in latino.
Una ne scrisse appunto ad Arrigo nella sua venuta.
Raccogliendo insieme le sue opere latine, di cui la più originale è quella De vulgari eloquio, e unendovi il Convito, si può avere un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.
Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo.
Nè la filosofia fu la sua vocazione, lo scopo a cui volgesse tutte le forze dello spirito.
Fu per lui un dato, un punto di partenza.
L'accettò come gli veniva dalla scuola, e ne acquistò una piena notizia.
Seppe tutto, ma in nessuna cosa lasciò un'orma del suo pensiero, posto il suo studio meno in esaminare che in imparare.
Accoglie qualsiasi opinione anche più assurda, e gran parte degli errori e de' pregiudizi di quel tempo.
Cita con uguale riverenza Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio, scrittori pagani e cristiani.
La citazione è un argomento.
Il suo filosofare ha i difetti dell'età.
Dimostra tutto, anche quello che non è controverso; dà pari importanza a tutte le quistioni.
Ammassa argomenti di ogni qualità, anche i più puerili; spesso non vede la sostanza della quistione, e si perde in minuterie e sottigliezze.
Aggiungi il gergo scolastico e le infinite distinzioni.
Pure, se fra tanti viottoli ti regge ire sino alla fine, troverai nella sua Monarchia un'ampiezza ed unità di disegno ed una concordanza di parti, che ti fa indovinare il grande architetto dell'altro mondo.
I difetti delle opere latine sono comuni al Convito, e gl'intralciano lo stile, e gl'impediscono quell'andamento naturale e piano del discorso, che potea renderlo accessibile agl'illetterati, a' quali era destinato.
La sua teoria della lingua illustre lo allontana da quell'andare soave e semplice della prosa volgare, e quando gli altri volgarizzano il latino, egli latinizza il volgare, cercando nobiltà e maestà nelle perifrasi, ne' contorcimenti e nelle inversioni.
Usa una lingua ibrida, non italiana e non latina, spogliata di tutte le movenze e attitudini vivaci del dialetto, e lontana da quella dignità e misura, che ammira nel latino e a cui tende con visibile e infelice sforzo.
Se la natura gli avesse concesso un più squisito senso artistico, avrebbe forse potuto essere fondatore della prosa.
Ma gli manca la grazia, e senti la rozzezza nello sforzo della eleganza.
Salvo qualche raro intervallo, che la passione lo scalda e lo fa eloquente, la sua prosa, come la sua lirica, fa desiderare l'artista.
Vocazione di Dante non fu la filosofia e non fu la prosa.
Quello ch'egli cercava, non potè realizzarlo come scienza e come prosa.
- Che cerchi? - Gli domandò un frate.
Rispose: - Pace.
- E questo cercavano tutt'i contemporanei.
Pace era concordia del regno terrestre col regno celeste, dell'anima con Dio, il regno di Dio sulla terra.
«Adveniat regnum tuum.» Pace vera quaggiù non può essere; vera pace è in Dio, nel mondo celeste; Beatrice morendo parea che dicesse: «Io sono in pace».
La vita è una prova, un tirocinio, per accostarsi quanto si può all'ideale celeste e meritarsi l'eterna pace.
Lo scopo della vita è la salvazione dell'anima, la pace dell'anima nel mondo celeste.
Vivere è morire alla terra per vivere in cielo.
La vita è la storia dell'anima, è un «mistero».
Uscita pura dalle mani di Dio «che la vagheggia», è sottoposta quaggiù al male e al dolore, e non può tornare nella patria che purificata di ogni macula terrestre.
Per giungere a pace bisogna passare per tre gradi, personificati ne' tre esseri, Umano, Spoglia e Rinnova, e a' quali rispondono i tre mondi, inferno, purgatorio e paradiso.
Il «mistero» o la storia finisce al primo grado, quando l'anima sopraffatta dall, Umano e vinta nella sua battaglia col demonio viene in potere di questo: è la tragedia dell'anima, la tragedia di Fausto, prima che Goethe, ispirato da Dante, lo avesse riscattato.
Ma quando l'anima vince le tentazioni del demonio, e si spoglia e si purga dell'Umano, hai la sua glorificazione nell'eterna pace: hai la «commedia» dell'anima.
Questo è il mistero, ora tragedia, ora commedia, secondo che prevale l'umano o il divino, il terrestre o il celeste, che giace in fondo a tutte le rappresentazioni e a tutte le leggende di quell'età.
Messo in iscena, era detto «rappresentazione»: narrato.
Era «leggenda» o «vita», esposto in figura era «allegoria», rappresentato in modo diretto e immediato, era «visione»; anzi le due forme si compenetravano, e spesso l'allegoria era una visione, e la visione era allegorica.
Allegorie, visioni, leggende, rappresentazioni erano diverse forme di questo mistero dell'anima, del quale i teologi erano i filosofi, e i predicatori erano gli oratori, che aggiungevano spesso alla dottrina l'esempio, qualche leggenda o visione, com'è nello Specchio di vera penitenza.
Il mistero dell'anima era in fondo tutta una metafisica religiosa, che comprendeva i più delicati e sostanziali problemi della vita, e produceva una civiltà a sè conforme.
Ci entrava l'individuo e la società, la filosofia e la letteratura.
La letteratura volgare in senso prettamente religioso si stende per due secoli da Francesco di Assisi e Iacopone sino a Caterina.
L'Allegoria dell'anima, la rappresentazione del Giovane monaco, l'Introduzione alle virtù, la Commedia dell'anima sono in forma letteraria la teoria di questo mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge la sua perfezione dottrinale, ed acquista la sua individuazione o realtà storica ne' Fioretti, nelle leggende e nelle visioni del Cavalca e del Passavanti.
Ma questa letteratura era senza eco nella classe colta da cui esce l'impulso della vita intellettuale.
Dante spregiava il latino della Bibbia, come privo di dolcezza e di armonia.
Quello scrivere così alla buona e come si parla era tenuto barbarie e rozzezza.
Vagheggiavano una forma di dire illustre e nobile, prossima alla maestà del latino, della quale Dante die' nel Convito un saggio poco felice.
Nè potea piacere quella semplicità di ragionamento con tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano dalle scuole con tanta filosofia in capo, con tanta erudizione sacra e profana.
Ma se aveano in poco conto quella letteratura, giudicata povera e rozza, non era diverso il concetto che essi avevano della vita.
I teologi filosofavano e i filosofi teologizzavano.
La rivelazione rimaneva integra nelle sue basi essenziali, ammesse come assiomi indiscutibili.
Tali erano l'unità e personalità di Dio, l'immortalità dello spirito e lo scopo della vita oltre terreno.
Ma se il concetto era lo stesso, la materia era più ampia, abbracciando la coltura, oltre la Bibbia e i santi Padri, quanto del mondo antico era noto, e la forma era più libera, paganizzando sotto lo scudo dell'allegoria e voltando il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.
Il regno di Dio chiamavano regno della filosofia.
E realizzare il regno di Dio era conformare il mondo a' dettati della filosofia unificare intelletto e atto.
Il mediatore era l'Amore, principio delle cose divine e umane, e non l'amore sensuale, ch'era peccato, ma un amore intellettuale, l'amore della filosofia.
Il frutto dell'amore è la sapienza, che non è puro intelletto, ma intelletto e atto congiunti, la virtù.
Il regno di Dio in terra era dunque il regno della virtù, o come dicevano, della giustizia e della pace.
A realizzare questo regno erano istrumenti i due Soli, i due organi di Dio, il papa e l'imperatore.
La politica era l'arte di realizzare questo regno della giustizia e della pace, rendendo gli uomini virtuosi e felici.
Il criterio politico era puramente etico, come s'è visto in Albertano giudice, in Egidio Colonna, in Mussato, in Dino Compagni.
All'effettuazione di questo regno etico concorreva la tradizione virgiliana; perchè Virgilio era un testo non meno rispettabile che la Bibbia.
E si attendeva la monarchia predestinata da Dio, la ristorazione dell'impero romano.
In questi due secoli abbiamo due letterature quasi parallele, e persistenti l'una accanto all'altra: una schiettamente religiosa, chiusa nella vita contemplativa, circoscritta alla Bibbia e a' santi Padri, e che ha per risultato inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni, e l'altra che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema filosofico, e abbraccia i vari aspetti della vita, e dà per risultato somme, enciclopedie, trattati, cronache e storie, sonetti e canzoni.
Tra queste due letterature erra la novella e il romanzo, eco della cavalleria, rimasti senza seguito e senza sviluppo, quasi cosa profana e frivola.
Gli uomini istrutti si studiavano di render popolare la cultura, specialmente nella sua parte più accessibile e pratica, l'etica e la morale.
Indi le tante versioni e raccolte di precetti etici sotto nome di Fiori, Giardini, Tesori, Ammaestramenti.
Un tentativo di questo genere fu il Tesoretto.
Nella prima parte della lirica dantesca hai la storia ideale della santa, nella sua purezza soppresso il demonio e le tentazioni della carne.
È il mistero dell'anima così come è rappresentato nella Commedia dell'anima.
L'anima, che uscita pura dalle mani di Dio, dopo breve pellegrinaggio ritorna in cielo bellezza spirituale, o luce intellettuale, è Beatrice; e Beatrice è la santa della gente colta, è la donna platonica e innominata de' poeti, battezzata e santificata.
Nella seconda parte Beatrice è la filosofia, che riceve la sua esplicazione dottrinale nelle Canzoni e nel Convito.
La poesia va a metter capo nella pura scienza, nell'esposizione scolastica di un mondo morale, dell'etica.
La letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali e monotone di Caterina: il suo difetto ingenito è l'astrazione dell'ascetismo.
La letteratura dotta va a finire nelle sottigliezze scolastiche del Convito: il suo difetto intrinseco è l'astrazione della scienza.
Tutte e due hanno una malattia comune, l'astrazione, e la sua conseguenza letteraria, l'allegoria.
Ma il mondo di Dante non potea rimaner chiuso in questi limiti, o piuttosto non era questo il suo mondo naturale e geniale, conforme alle qualità del suo spirito e del suo genio, e ci sta a disagio.
La sua forza non è l'ardore della ricerca e della investigazione, che è il genio degli spiriti speculativi.
La scienza è per lui un dogma: il cervello rimane passivo in quelle scolastiche esposizioni.
Avea troppa immaginazione, perchè potesse rimaner nell'astratto, e studia più a figurarlo e colorirlo che a discuterlo e interrogarlo.
La fantasia creatrice, il vivo sentimento della realtà, le passioni ardenti del patriota disingannato e offeso, le ansietà della vita pubblica e privata, non poteano avere appagamento in quella regione astratta della scienza, che pur gli era tanto cara.
Sentiva il bisogno meno di esporre che di realizzare.
E volle realizzare questo regno della scienza o regno di Dio che tutti cercavano, farne un mondo vivente.
Il mondo è una selva oscura, corrotto dal vizio e dall'ignoranza.
Rimedio è la scienza, secondo i cui princìpi dovrebb'esser conformato.
La scienza è il mondo ideale, non qual è, ma quale dee essere.
Questo ideale si trova realizzato nell'altra vita, nel regno di Dio, conforme alla verità e alla giustizia.
Perciò ad uscir dalla selva non ci è che una via, la contemplazione e la visione dell'altra vita.
Per questa via l'anima, superate le battaglie del senso e purificatasi, ha la sua pace, la sua eterna commedia, la beatitudine.
Da questo concetto semplice e popolare uscì la contemplazione o visione, detta la Commedia, rappresentazione allegorica del regno di Dio, il «mistero dell'anima» o la «Commedia dell'anima.»
VII
LA COMMEDIA
Chi mi ha seguito vede che la «Divina Commedia» non è un concetto nuovo, nè originale, nè straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo maravigliato.
Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati, tesori, giardini, sonetti e canzoni.
L'Allegoria dell'anima e la Commedia dell'anima sono gli schemi, le categorie, i lineamenti generali di questo concetto.
Nel Convito la sostanza è l'etica, che Dante cerca di rendere accessibile agl'illetterati, esponendola in prosa volgare.
Qui il problema è rovesciato.
La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al mistero dell'anima, il concetto di tutt'i misteri e di tutte le leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo.
Con questa felice ispirazione, pigliando a base della coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le due letterature, che si contendevano il campo, intorno al comune concetto che le ispirava, il mistero dell'anima.
La rappresentazione e la leggenda esce dalla sua rozza volgarità e si alza a' più alti concepimenti della scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e leggenda.
Indi l'immensa popolarità di questo libro, che gl'illetterati accettavano nel senso letterale e i dotti comentavano come un libro di scienza, come la Somma di san Tommaso.
Il popolo vedeva in quei versi quel medesimo che sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni, nè è maraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia pensosa e come alienata, dicesse: - Costui par veramente uscito ora dall'inferno.
- Gli eruditi si affannavano a cercare il senso de' versi strani, e il Boccaccio iniziava quella serie di comenti che spesso in luogo di squarciare il velo lo fanno più denso.
In effetti la Divina Commedia è una visione dell'altro mondo allegorica.
Cristianamente, la visione e la contemplazione dell'altra vita è il dovere del credente, la perfezione.
Il santo vive in ispirito nell'altro mondo; le sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita, a cui sospira.
Dante accetta questa base ascetica, popolarissima: contemplare e vedere l'altro mondo è la via della salvazione.
Per campare dalla selva del vizio e dell'ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa, vede in ispirito l'altro mondo e narra quello che vede.
Questo è il motivo ordinario di tutte le visioni, è la storia di tutt'i santi, è il tema di tutt'i predicatori, è la lettera della Commedia, visione dell'altro mondo, come via a salute.
Ma la visione è allegoria.
L'altro mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in fondo la storia o il mistero dell'anima ne' suoi tre stati, detti nell'Allegoria dell'anima Umano, Spoglia, Rinnova, che rispondono a' tre mondi, Inferno, Purgatorio e Paradiso.
È l'anima intenebrata dal senso, nello stato puramente umano, che spogliandosi e mondandosi della carne si rinnova, ritorna pura e divina.
Questa allegoria era popolare e comune non meno che la lettera.
Ciascuno vedeva un po' l'altro mondo con l'occhio di questo mondo, con le sue passioni e interessi.
I predicatori, soprattutto nella descrizione delle pene infernali, cercavano immagini delle passioni terrene.
Il mistero dell'anima era la base di tutte le invenzioni, la leggenda delle leggende.
L'uomo, caduto nell'errore e nella miseria, che finisce o vendendo l'anima al demonio o purgandosi e salvandosi, era il fondamento di tutte le storie popolari, come s'è visto nell'Introduzione alle virtù e nella Commedia dell'anima.
La Commedia dell'anima è l'anima uscita dalle mani di Dio pura, che in terra combatte le sue battaglie con la carne e col demonio, e vince assistita dalla grazia di Dio.
Vizi e virtù combattono, come gli dei di Omero, intorno all'anima; le virtù vincono e l'anima è salva.
Nell'Introduzione alle virtù è un giovane caduto in miseria, a cui apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e signora, e gli mostra la battaglia de' Vizi e delle Virtù; e il giovane, spregiando i beni terrestri, si leva al cielo.
La filosofia è anche la divina consolatrice di Boezio, così popolare, e di Dante, a cui dopo la morte di Beatrice apparve questa «nobilissima figlia dell'Imperatore dell'universo», facendolo suo amico e servo.
Il vizio e l'ignoranza, la conversione per opera di Dio o della filosofia, la redenzione e beatificazione, visione di Dio e della scienza, era il luogo comune delle due letterature, de' semplici e degli uomini colti.
E Dante fonde insieme le due forme, e tira nella sua allegoria filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio e scienza, e fa un mondo armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo.
L'anima nell'inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora dal terreno ha a guida il lume naturale, la ragione o la filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta libera e monda e leggiera, ha nel paradiso maestra la grazia o la teologia, luce intellettuale, che le mostra la scienza senza velo, o Dio nella sua essenza.
Perchè l'altro mondo è allegorico, figura dell'anima nella sua storia, il poeta è sciolto da' vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo libero dell'immaginazione.
Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adopera alla sua costruzione tutt'i materiali della scienza, sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano, mescolando insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane.
Così ha realizzato quel mondo universale della coltura, tanto desiderato dalle classi colte e fino allora tentato invano, cristiano nel suo spirito e nella sua lettera, ma dove già penetra da tutte le parti il mondo antico.
Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e grottesca, legittimata qui dall'allegoria, che concede al poeta libertà di forme ch'egli creda più acconce a significare i suoi concetti.
Il mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali di costruzione, usati a edificare un tempio cristiano, a quel modo che colonne egizie e greche si veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de' nuovi tempi e delle nuove idee.
Così a questa costruzione gigantesca prendon parte tutte le età e tutte le forme, fuse insieme e battezzate, penetrate da un solo concetto, il concetto cristiano.
L'ordito è semplicissimo: è la storia o mistero dell'anima nella sua espressione elementare, come si trova nella rappresentazione della Commedia dell'anima; e l'hai già tutta e chiara innanzi, fin dal primo canto.
Dante nel giorno del Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua possanza e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui, si trova smarrito in una selva oscura, e sta per soggiacere all'assalto delle passioni, figurate nella lonza, il leone e la lupa, quando a camparlo dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco a contemplare l'inferno e il purgatorio, ove, confessati i suoi falli, guidato da Beatrice, sale in paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio.
Allegoricamente, Dante è l'anima, Virgilio è la ragione, Beatrice è la grazia, e l'altro mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale, è l'etica realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia e della morale, il mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.
Dante è l'anima non solo come individuo, ma come essere collettivo, come società umana, o umanità.
Come l'individuo, così la società è corrotta e discorde, e non può aver pace se non instaurando il regno della giustizia o della legge, riducendosi dall'arbitrio de' molti sotto unico moderatore.
E qui entra la tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio, fondata da Augusto, discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo del mondo.
Questo concetto politico non è intruso e soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso concetto etico, applicato all'individuo e alla società.
È tale la medesimezza, che la stessa allegoria si può interpretare in un senso puramente etico, per rispetto all'individuo, e in un senso politico, per rispetto alla società.
E non è perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilità alle più diverse interpretazioni.
Se l'allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertà di forme, gli rende d'altra parte impossibile la loro formazione artistica.
Dovendo la figura rappresentare il figurato, non può essere persona libera e indipendente, come richiede l'arte, ma semplice personificazione o segno d'idea, sicchè non contenga se non i tratti soli che hanno relazione all'idea, a quel modo che il vero paragone non esprime di se stesso se non quello solo che sia immagine della cosa paragonata.
L'allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un concetto a sè estrinseco.
Hai due realtà distinte, l'una fuori dell'altra, l'una figura e adombramento dell'altra, perciò amendue incompiute e astratte.
La figura, dovendo significare non se stessa, ma un altro, non ha niente d'organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sè, com'è il grifone del Purgatorio, l'aquila del Paradiso, e il Lucifero, e Dante con le sette «P» incise sulla fronte.
La poesia non s'era ancora potuta sciogliere dall'allegoria.
Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl'idoli, ma anche alla poesia, tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità.
E verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa.
La poesia era stimata un tessuto di menzogne, e «poeta» e «mentitore», come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i versi erano chiamati, come dice san Girolamo, «cibo del diavolo».
La poesia perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l'allegoria fu una specie di salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini.
Erano detti «poeti solenni», a distinzione de' «popolari», i dotti che esprimevano in poesia la dottrina sotto figura, o in forma diretta.
Dante definisce la poesia «banditrice del vero», sotto «il velame della favola ascoso», di modo che il lettore «sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare, trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti».
La poesia è in sè una «bella menzogna», che non ha alcun valore, se non come figura del vero.
Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l'influenza ne' nostri lirici, Dante lavora sopra idee astratte: trova una serie di concetti, e poi ti forma una serie corrispondente di oggetti.
Le menti erano assuefatte a questo processo, a correre al generale.
Il campo ordinario della filosofia scolastica era l'Ente con tutte le altre generalità, e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti, anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la proposizione generale.
Ora quel mondo di concetti è la maggiore dell'altro mondo.
Quali sieno questi concetti, io dirò quasi con le stesse parole di Dante.
La patria dell'anima è il cielo, e come dice Dante, discende in noi da altissimo abitacolo.
Essa partecipa della natura divina.
L'anima, uscendo dalle mani di Dio, è «semplicetta», «sa nulla»; ma ha due facoltà innate, la ragione e l'appetito, «la virtù che consiglia», e l'esser «mobile ad ogni cosa che piace», l'esser «presta ad amare».
L'appetito (affetto, amore) la tira verso il bene.
Ma nella sua ignoranza non sa discernere il bene, segue la sua falsa immagine e s'inganna.
L'ignoranza genera l'errore, e l'errore genera il male.
Il male o il peccato è posto nella materia, nel piacere sensuale.
Il bene è posto nello spirito: il sommo Bene è Dio, puro spirito.
L'uomo dunque, per esser felice, dee contrastare alla carne e accostarsi al sommo Bene, a Dio.
A questo fine gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la moralità delle sue azioni.
La ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e del male.
Lo studio della filosofia è perciò un dovere, è via al bene, alla moralità.
La moralità è la «bellezza della filosofia»: è l'etica, «regina delle scienze», «il primo cielo cristallino».
A filosofare è necessario amore.
L'Amore (appetito) può esser sementa di bene e di male, secondo l'oggetto a cui si volge.
Il falso amore è «appetito non cavalcato dalla ragione».
Il vero amore è studio della filosofia, «unimento spirituale dell'anima con la cosa amata».
Filosofia è «amistanza a sapienza», amicizia dell'anima con la sapienza.
Nelle nature inferiori l'amore è «sensibile dilettazione».
Solo l'uomo, come «natura razionale, ha amore alla verità e alla virtù» (alla filosofia).
Ciò è vera felicità, che per contemplazione della verità si acquista.
In questi concetti si trova il succo della morale antica.
Già i filosofi pagani aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste della vita: esser filosofo significava e significa anche oggi resistere alle passioni ed a' piaceri, vincer se stesso, serbare l'eguaglianza dell'animo nelle umane vicissitudini.
Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.
L'umanità per il peccato d'origine cadde in servitù dei sensi (del male o del peccato), e la ragione e l'amore non furono più sufficienti a salvarla.
La ragione andava a tentoni e menava all'errore; «i filosofi andavan e non sapevan dove»; l'amore rimaso senza «rettore» divenne appetito sensuale.
Era necessaria una redenzione soprannaturale.
Dio si fece uomo e redense l'umanità, offrendosi vittima espiatoria per lei.
Mediante questo sacrificio, la ragione è stata avvalorata dalla fede, l'amore avvalorato dalla grazia, la filosofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.
Redenta l'umanità, ciascun uomo ha acquistato la virtù di salvarsi con l'aiuto di Dio.
Guidato dalla ragione e dalla fede, fortificato dall'amore e dalla grazia, può affrancarsi da' sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio, al sommo Bene.
Questo cammino dalla materia o dal peccato sino allo spirito o al bene comprende tutto il circolo della morale o etica.
La conoscenza della morale (naturale e rivelata, filosofia e teologia) è perciò necessaria a salute.
La morale è il «Nosce te ipsum», la conoscenza di se stesso.
L'uomo si trova in questa vita in uno de' tre stati di cui tratta la morale, stato di peccato, stato di pentimento, stato di grazia.
L'altro mondo è figura della morale.
L'inferno è figura del male o del vizio; il paradiso è figura del bene o della virtù; il purgatorio è il passaggio dall'uno all'altro stato mediante il pentimento e la penitenza.
L'altro mondo è perciò figura de' diversi stati ne' quali l'uomo si trova in questa vita.
La rappresentazione dell'altro mondo è dunque un'etica applicata, una storia morale dell'uomo, com'egli la trova nella sua coscienza.
Ciascuno ha dentro di sè il suo inferno e il suo paradiso.
Il viaggio nell'altro mondo è figura dell'anima nel suo cammino a redenzione.
Ed è Dante stesso che fa questo viaggio.
Si trova in una selva oscura (stato d'ignoranza e di errore, la selva erronea del Convito), vede il dilettoso colle, principio e cagione di tutta gioia (la beatitudine), illuminato dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (la scienza), ma tre fiere (la carne, gli appetiti sensuali) gli tengono il passo.
L'uomo da sè non può salire il calle, non può giungere a salute: viene dunque il deus ex machina, l'aiuto soprannaturale.
Si richiede non solo ragione, ma fede, non solo amore, ma grazia.
Virgilio (ragione e amore) lo guida, insino a che, confesso e pentito e purgato d'ogni macula terrena, succede Beatrice (ragione sublimata a fede, amore sublimato a grazia).
Con questo aiuto esce dallo stato d'ignoranza e di errore (la selva), e prende il cammino della scienza (l'altro mondo, il mondo etico e morale).
Gli si affaccia prima l'inferno (l'anima nello stato del male) e conosce il male nella sua natura, nelle sue specie, ne' suoi effetti (vedi canto XI).
Entra allora in purgatorio (pentimento ed espiazione), dove ancor vive la memoria e l'istinto del male, e conosciuto il suo stato, pentito e mondo, diventa libero (dalla carne o dal peccato).
Si trova allora ricondotto allo stato d'innocenza, nel quale era l'uomo avanti il peccato d'origine, e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice (fede e grazia) Con la sua guida sale in paradiso (l'anima nello stato di beatitudine), di grado in grado si leva sino alla conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di Dio, del sommo Bene, e in questa mistica congiunzione dell'umano e del divino si riposa (è beato).
La redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl'individui.
La società serva della materia è anarchia, discordia sviata dall'ignoranza e dall'errore.
E come l'uomo non può ire a pace, se non vinca la carne ed ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi a concordia, se non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l'imperatore) che faccia regnare la legge (la ragione), guida e freno dell'appetito.
Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo, metafisica, morale, politica, storia, fisica, astronomia, ecc
Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia è il problema dell'umana destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie, il mistero dell'anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte le sue forme.
Il problema è posto ed è sciolto cristianamente.
L'umanità ha perduto ed ha racquistato il paradiso; questa storia epica di Milton è l'antecedente del problema.
L'umanità ha racquistato il paradiso, cioè ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi.
Ma in che modo? Qual è la via di salvazione? La Commedia è la risposta a questa domanda, la soluzione del problema.
Il cristianesimo ne' primi tempi di fervore rispondea: - L'uomo si salva, imitando Cristo che ha salvato l'umanità, si salva con l'amore.
Bisogna volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare.
- Di qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama eccellentissima e simile alla vita divina.
Il che dovea menar dritto alla visione estatica, alla comunione tra l'anima e Dio, al misticismo, tanta parte della letteratura volgare.
Gli uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri, e nutrivano l'anima del pensiero della morte, della meditazione dell'altra vita; i santi Padri esortano spesso i fedeli a volger la mente all'altro mondo; anche oggi le prediche, i libri ascetici, i libri di preghiera non sono che un continuo «Memento mori»; è famoso il «Pensa, anima mia», frase formidabile, a cui il lettore vede già in aria venir dietro il giudizio universale e le fiamme dell'inferno.
Se le cose di quaggiù sono caduche e «nulla promission rendono intera», se il significato serio della vita è nell'altro mondo, se là è il vero, è la realtà: l'Iliade, il poema della vita è la Commedia, la storia dell'altro mondo.
In quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute, anzi i cristiani menavano vanto della loro ignoranza: «Beati pauperes spiritu».
Avendo per avversari gli uomini più dotti del paganesimo, rispondevano ex abundantia cordis, con la sicurezza e l'eloquenza della fede, la loro lingua di fuoco.
Ma questo amore di cuori semplici, che spesso umiliava l'orgoglio di una scienza vòta e arida, non bastò più appresso.
Aristotele dominava nelle scuole; la scienza si era introdotta nella teologia e ne avea fatto un cumulo di sottigliezze: lo stesso misticismo avea preso forme scientifiche, divenuto ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino, Bernardo e Bonaventura.
L'Amore dunque prende un contenuto, diviene scienza, e la loro unità è la filosofia, uso amoroso di sapienza.
La scienza però non contraddice, non annulla, anzi fortifica e dimostra lo stesso concetto della vita.
Anche per Dante la santificazione è posta nella contemplazione; l'oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine è la visione di Dio; al sommo della scala de' beati mette i contemplanti, non gli operanti; ma per giungere all'unione con Dio non basta volere, bisogna sapere, ci vuole la sapienza che è amore e scienza, unità del pensiero e della vita.
Perciò Virgilio non può esser ragione, che non sia anche amore, e Beatrice non può esser fede, che non sia anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a un tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere.
L'intelletto è in cima della scala: l'amore dee essere inteso, se ne dee avere intelletto.
Tale è la soluzione dantesca.
A quattro secoli di distanza il problema si ripresenta, ma i termini sono mutati.
Il punto di partenza non è più l'ignoranza, la selva oscura, ma la sazietà e vacuità della scienza, l'insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva.
La sapiente Beatrice si trasforma nell'ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera; anzi il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde della vita.
Ma al tempo di san Tommaso la ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto più confidente, quanto meno esperta della misura di sè e delle cose; le si domandava tutto e prometteva tutto.
Dovea ella darci la pietra filosofale del mondo morale, la felicità.
Lo scopo della scienza non era speculativo solamente, ma pratico.
Nell'ordine speculativo era già conseguito il suo scopo, divenuta per Dante un libro chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte.
Ma la scienza dee operare anche sulla volontà, menare a virtù e felicità.
E se questo miracolo non era ancora avvenuto, se la realtà era tanto disforme alla scienza, doveasene recare la cagione, secondo Dante e i contemporanei, all'ignoranza.
Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla all'opera.
Indi l'importanza che ebbe l'etica e la rettorica, la scienza de' costumi e l'arte della persuasione.
I tentativi fatti, compreso il Convito, furono infelici.
Trattandosi di verità da esporre e non da cercare, manca lo spirito e l'ardore scientifico, manca in tutti, anche in Dante.
La stessa esposizione non è libera, predeterminata da forme scolastiche.
Da queste condizioni non potea uscire una letteratura filosofica, quella forma, propria degli uomini meditativi, che ti rivela non solo l'idea, ma come in te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti che l'accompagnano, pregna di altre idee, le quali per la potenza comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni, mobili, nasciture.
Qui sta la vita superiore della forma filosofica, generata immediatamente dal travaglio del pensiero, che mette in moto tutte le altre facoltà, compresa l'immaginazione.
In quei tentativi il contenuto scientifico ci sta, non nel punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma già trovato, divenuto nello spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e grezzo dalla scuola.
La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario.
Dante sa di avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli, non vive della vita de' campi, non li lavora, li conosce sulla carta.
Rimane una proprietà astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non è fatto parte dell'anima mia.
Non ci è investigazione e non ci è passione, dico la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale.
Il filosofo fora la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove, come dice Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza.
Ma qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i frutti senza fatica.
Tutto è dato, la scienza con esso le sue prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili le parti superiori della scienza, non riman libera che l'ultima e più bassa operazione dell'intelletto, distinguere e sottilizzare.
Essendo la scienza base di tutto l'edificio, ne seguitò quella falsa poetica di cui è detto.
La letteratura solenne e dotta divenne un istrumento della scienza, un modo di volgarizzarla.
E tenne due vie, l'esposizione diretta o l'allegorica.
Nè altro fu l'intendimento di Dante nella rappresentazione dell'altro mondo.
Come que' filosofi che sotto nome di utopia costruiscono un mondo dove sia realizzato il loro sistema, Dante costruisce il mondo allegorico della scienza, dove pur trova modo di esporla in forma diretta nelle sue parti sostanziali.
Egli ha aria di dire: - Volete salvarvi l'anima? Venite appresso a me nell'altro mondo; ivi impareremo dalla bocca de' morti la filosofia morale, la scienza della salvazione.
- E i morti parlano ed espongono la scienza, soprattutto in paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in vere cattedre o pulpiti.
Nè la scienza è solo nelle parole de' morti, ma anche nella costruzione e rappresentazione dell'altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in forma allegorica.
Il sistema insegue il poeta in mezzo a' suoi fantasmi, e dice: - Bada che tu non passeggi per curiosità, per osservare e dipingere: il tuo scopo è l'insegnamento della scienza per la salute dell'anima; non ti dimenticare della scienza.
- E la poetica gli soggiunge: - Pensa che tutte le tue invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono nè più nè meno che sciocche bugie, quando non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale si dee nascondere la dottrina.
- Ond'è che il poeta costringe la stessa realtà a produrre un contenuto scientifico: dietro la realtà ci è la scienza, come dietro l'ombra ci è il corpo; qui la scienza è il corpo, e la realtà è l'ombra, «ombrifero prefazio del vero», anzi è meno che ombra, perchè nell'ombra ci è pure l'immagine del corpo.
È l'alfabeto della scienza, come la parola è del pensiero, un alfabeto composto non di lettere, ma di oggetti, ciascuno segno della tale e tale idea.
Questi erano i concetti, e queste le forme, a cui lo spirito era giunto.
Perciò quel concetto fondamentale dell'età, il mistero dell'anima o dell'umana destinazione, non era ancora realizzato come arte; perchè l'arte è realtà vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se stessa, e qui la scienza, in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sè.
Il mistero dell'anima era dunque o rozza e greggia realtà nella letteratura popolare, o trattato e allegoria nella letteratura dotta e solenne.
Dante s'impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come arte.
Ma ci si mise con le stesse intenzioni e con le stesse forme.
Prese quella rozza realtà degli ascetici, e volle farne l'ombrifero prefazio del vero, l'allegoria della scienza.
Da questa intenzione non potea uscir l'arte.
Neppure l'esposizione della scienza in forma diretta è arte.
Il poeta che vuole esporre la scienza, e vuol pur fare una poesia, si propone un problema assurdo, voler dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo.
La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore, non penetra l'idea, non se l'incorpora; l'idea rimane invitta nella sua astrazione.
Dante spiega in questo assunto tutte le forze della sua immaginazione; nessuno più di lui ha saputo con tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e farle forza; ma questo connubio della poesia e della scienza, ch'egli chiama nel Convito un «eterno matrimonio», non è uno di due, è un eterno due.
La poesia può farle preziosi doni, può vestirla sontuosamente, ingemmarla, girarle attorno carezzevole, può abbigliarla, non possederla.
E la possiede allora solamente, quando non la vede più fuori di sè, perchè è divenuta la sua vita e anima, la realtà.
L'allegoria è una prima forma provvisoria dell'arte.
È già la realtà, che però non ha valore in se stessa, ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di sè, nel figurato, oggetto o concetto che sia.
E poichè nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtà divenuta allegorica vi è necessariamente guasta e mutilata.
O il poeta le attribuisce qualità non sue, ma del figurato come il veltro che si ciba di sapienza e di virtude, o esprime di lei solo alcune parti, e non perchè sue, ma perchè si riferiscono al figurato, come il grifone del Purgatorio.
In tutti e due i casi la realtà non ha vita propria, o per dir meglio non ha vita alcuna: l'interesse è tutto nel figurato, nel pensiero.
Ora, o il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio, di maniera che ti si affaccino più sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato; o è chiaro, e lo hai innanzi nella sua generalità, senza carattere poetico.
La selva è figura della vita terrena.
E la vita terrena, appunto perchè figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e immobile come un concetto.
Questo povero figurato è condannato, come Pier delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta; e non propriamente suo, perchè quel corpo singolare, che chiamasi figura, serve a due padroni, è sè ed un altro, è insieme lettera e figura, un corpo a due anime, rappresentato in guisa, che prima paia se stesso, la selva, e considerato attentamente mostri in sè le orme di un altro.
Talora la figura fa dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura.
Per lo più nel senso letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano, e per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.
Adunque in queste forme non ci è ancora arte.
La realtà ci sta o come immagine del pensiero astratto ed estrinseco, o come figura di un figurato parimente astratto ed estrinseco.
Non ci è compenetrazione dei due termini.
Il pensiero non è calato nell'immagine; il figurato non è calato nella figura.
Hai forme iniziali dell'arte non hai ancora l'arte.
Dante si è messo all'opera con queste forme e con queste intenzioni.
Se l'allegoria gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia, ha d'altra parte viziato nell'origine questo vasto mondo, togliendogli la libertà e spontaneità della vita, divenuto un pensiero e una figura, una costruzione a priori, intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.
E se la Commedia fosse assolutamente in questi termini, sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi, grottesca figura d'idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e reale, la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri, nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta già tutta una letteratura.
Era la letteratura degli uomini semplici, poveri di spirito.
A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici, figurativi della scienza ma reali; Dio, la Vergine, Cristo, gli angioli, i santi, l'inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che essi chiamavano l'altra vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità.
Il contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l'apostolo, banditore della parola di Dio; Dante, l'amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo il filosofo, ma il profeta e l'apostolo, rivelandolo e predicandolo agli uomini; diviene il missionario dell'altro mondo, ed è san Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:
Apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo.
Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per lui una cosa così seria, come per tutt'i credenti, seria nel suo spirito e nella sua lettera.
Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza, ma la scienza non lo dissolveva, anzi lo illustrava e lo confermava.
Supporre che esso fosse una figura, una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a Goethe.
La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura.
E come la natura, così l'altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà, che ha in se stessa il suo valore e il suo significato.
Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa, com'è nei cantici, nelle prediche e ne' misteri e leggende.
Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva e si concreta nella vita reale.
Essendo la perfezione religiosa nel dispregio de' beni terreni, i credenti, da Francesco d'Assisi a Caterina, non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de' chierici e de' frati, la corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni giorno, il papa divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni, in tresca adultera co' re.
Su questo punto i santi sono così severi, come Dante; più avean fede, e maggiore era l'indignazione.
Venendo più al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo il Bello contro l'imperatore, ciò che Dante chiama un adulterio, inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi i guelfi.
Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del re di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili.
Come potere e interesse temporale, era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione stabile delle nazioni, e massime d'Italia, in quella unità civile o imperiale, che rendea immagine dell'unità del regno di Dio.
A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de' tempi evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città, prima che vi entrasse la corruzione e la licenza de' costumi, di cui la Chiesa dava il mal esempio.
Come si vede, il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano, e ne facea parte sostanziale.
La politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi: era un'appendice dell'etica e della rettorica.
E come vita reale il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava un'immagine pura in tempi più antichi, una specie di età dell, oro della vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione astratta e filosofica.
Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte.
Offeso da Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra speranze e timori, fra gli affetti più contrari, odio e amore, vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione, con l'occhio sempre volto alla patria che non dovea più vedere, in quella catastrofe italiana c'era la sua catastrofe, le sue opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell'età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino.
Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue.
Non è Omero, contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la sua personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto quel mondo, di cui era insieme l'apostolo e la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne' concetti dell'età, volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica, come entra in quel mondo, non vi trova più la figura.
Simile a quel pittore che s'inginocchia innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi nell'immaginazione la figura nella persona del santo, egli cerca la figura e trova una realtà piena di vita, trova se stesso.
Oltre a ciò, Dante era poeta.
Invano afferma che «poeta» vuol dire «profeta», banditore del vero.
Sublime ignorante, non sapea dov'era la sua grandezza.
Era poeta e si ribella all'allegoria.
La favola, ciò ch'egli chiama «bella menzogna», lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir dietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a mezza via.
Nel caldo dell'ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi e formar figure mozze, che vi rispondano appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce a' mediocri.
La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene se stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari.
Indi la disperazione de' comentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Per metter d'accordo la sua poetica con la sua poesia, Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee essere indipendente dall'allegorico, di modo che sia intelligibile per se stesso.
Con questa scappatoia si è salvato dalle strette dell'allegoria, ed ha conquistato la sua libertà d'ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue creature.
Sia pure l'altro mondo figura della scienza; ma è prima e innanzi tutto l'altro mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se di alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.
Sicchè nella Commedia, come in tutt'i lavori d'arte, si ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto.
L'uomo non fa quello che vuole, ma quello che può.
Il poeta si mette all'opera con la poetica, le forme, le idee e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista, più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza.
Vedete Brunetto e Frezzi.
Ivi tutto è chiaro, logico e concorde: la realtà è una mera figura.
Ma se il poeta è artista, scoppia la contraddizione vien fuori non il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell'arte.
Come l'argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro.
Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d'un autore.
È difficile far la geologia di un lavoro d'arte, trovare nel definitivo le tracce del provvisorio.
È probabile che la Commedia sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad imitazione di quelle «commedie dell'anima», di quelle visioni dell'altra vita, così in voga; e che dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse de' frammenti e anche de' canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente.
Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente drammatico, il tempo de' tentennamenti, del silenzioso contendere con se stesso, degli abbozzi, del va e vieni, storia intima del poeta.
Il quale, quando gli si mostra l'argomento, vede per prima cosa dissolversi quella parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti.
Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla.
Ma sono frammenti già penetrati di virtù attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati.
La creazione comincia veramente, quando quel mondo tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi.
Allora esce dall'illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza.
Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.
La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento, è insito nell'altro mondo, è il suo concetto; perchè senza di quella l'altro mondo non ha ragion d'essere.
La base dunque è vera, è nell'argomento; e se difetto c'è, il difetto è nella natura dell'argomento.
Ma Dante meditandovi sopra, e non come poeta ma come filosofo, valicò l'argomento.
Non è contento che la ci sia, ma la mostra e la spiega.
E non si contenta neppure di questo.
Quella idea diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non è più la base, il senso interiore dell'altro mondo a quel modo che lo spirito è nella natura, ma è essa il contenuto, essa l'argomento, essa lo scopo.
Così quella vivace realtà si va ad evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell'altro mondo.
Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne.
Descrivere l'altro mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo passatempo, la maniera de' narratori volgari.
La lettera ci è, ma è per i profani, per gli uomini semplici, che non vedono di là dell'apparenza.
Ma egli scrive per gl'iniziati, per gl'intelletti sani, e loro raccomanda di non fermarsi alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son messi a guardare di là.
Così sono nati due mondi danteschi, uno letterale e apparente, l'altro occulto, la figura e il figurato.
E poichè l'interesse è in questo senso occulto, in questo di là, i dotti si son messi a cercarlo.
L'hanno cercato, e non l'hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture, esce infine il buon senso, esce Voltaire e dice: «Gl'italiani lo chiamano divino ma è una divinità occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre, perchè nessuno lo legge».
E Voltaire vuol dire: - Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti; e poichè non ti vuoi far capire, statti con Dio -.
E vuol dire ancora: - Ne val poi la pena? È una falsa divinità quella che rimane nascosta -.
Pure nè il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo disprezzo ad intiepidire l'ammirazione.
Con nuovo ardore italiani e stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi, l'uno visibile e l'altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il dio.
Ma nè acutezza d'ingegno, nè copia di dottrina, nè profonda conoscenza di quei tempi, nè studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture.
Gli antichi interpreti dissentivano ne' particolari; il dissenso de' moderni è più profondo: hai interi sistemi che si confutano a vicenda.
Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania, che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere una critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un pelago di quistioni.
Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti: - Qual è il vero Dante? - Poichè ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà, di umanità, di nazionalità, chi un precursore di Lutero, chi un santo Padre.
Cercano Dante dove non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando, si sia affrettato a conchiudere: «Dunque Dante non esiste»? Io ne conchiudo: - Poichè non è là, cerchiamolo altrove.
- La grandezza del dio non è nel santuario, ma là dove si mostra con tanta pompa al di fuori.
A forza di cercar maraviglie in un mondo ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano innanzi.
Parlando a coro della dignità della Commedia e de' veri e del senso arcano, si è data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico, se non fosse per altro, per la fatica che ci si è spesa.
Se Dante tornasse in vita, sentendo a dire che Beatrice è l'eresia o la sua anima, che le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che il suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono affibbiati, potrebbe a più d'uno tirargli le orecchie e dire: - Cotesto «arri» non ci misi io -.
Ma gli si potrebbe rispondere: - Vostra colpa: perchè non siete stato più chiaro? Ci avete promessa un'allegoria: perchè non ci avete data un'allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perchè l'avete fatta sì bella? Perchè le avete data tanta realtà? In tanta ricchezza di particolari dove o come trovare l'allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per me e una per voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all'allegorico, ci è il senso morale e l'anagogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora la carne.
E anche voi gridate che i versi sono un velo della dottrina; e, come il peccatore, piantate lì il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di là dal quale non si vede nulla, e perciò si vede tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo noi.
Se dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco, messa tra voi e noi, che ci toglie la vostra vista, se il vostro poema è divenuto un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che sono un elogio.
Così è.
Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva.
Ciascuno è quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere un altro.
Dante è poeta, e avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l'aria e la luce.
Tratto ad una falsa concezione dal vezzo de' tempi, valica l'argomento e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne vuol fare la figura de' suoi concetti.
Ma, come attinge il reale, ivi sente se stesso, ivi genera, ivi l'ingegno trova la sua materia; quelle figure prendono corpo, acquistano una vita propria; e le diresti creature libere e indipendenti, se quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando a volta a volta i loro movimenti.
Così quel mondo intenzionale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo reale, solo rimasto vivo.
Tutto l'altro è l'astratto di quel mondo, è il lavoro oltrepassato: non è la Commedia, è il suo di là, la sua nebbia, che pur penetra qua e là e lascia delle grandi ombre, che gl'interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra.
A quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette, che attestano la lenta e progressiva formazione della materia, qui si discernono i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale, allegorico, scissi, isolati, sterili, più o meno tollerabili, secondo la maggiore o minore abilità dell'esposizione, inviluppati in una forma più alta, alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua poetica.
I quali frammenti sono i fossili della Commedia, morti già da gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il rimanente, gli è che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita così fresca e tenace, che distende un po' di sua luce anche sulle parti morte.
Quel contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato: spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe più.
Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei.
E guardate che gran cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell'arte.
La religione era misticismo la filosofia scolasticismo.
L'una scomunicava l'arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale.
L'altra viveva di astrazioni e di formole e di citazioni, drizzando l'intelletto a sottilizzare intorno a' nomi e alle vacue generalità che si chiamavano «essenze».
Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il contrario dell'arte.
Ne' poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne' misteri, nelle visioni, nelle leggende.
Ne' poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o figurativa e allegorica.
L'arte non era nata ancora.
C'era la figura; non c'era la realtà nella sua libertà e personalità.
Dante raccoglie da' misteri la Commedia dell'anima, e fa di questa storia il centro di una sua visione dell'altro mondo.
Tutta questa rappresentazione non è che senso letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito, lo porta verso la figura e non verso il figurato.
La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi e lo costringe a concretare, a materializzare, a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio.
Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più lettera, ma è spirito, non è più figura, ma è realtà, è un mondo in sè compiuto e intelligibile, perfettamente realizzato.
Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme, in questo gran mistero dell'anima o dell'umanità, poema universale, dove si riflettono tutt'i popoli e tutti i secoli che si chiamano il «medio evo».
Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l'intenzione del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia.
La falsa coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale spontaneità, e vi gitta dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e crudezza di colori.
Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d'immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte.
Le sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che persone conscie e libere.
Preoccupato del secondo senso che ha in mente, spesso gli escono particolari estranei alla figura, che turbano e distraggono il lettore e gli rompono l'illusione.
La presenza perenne di un altro senso, che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando, ne turba la chiarezza e l'armonia.
Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità e riesce intralciato e torbido.
Non è un tempio greco: è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non bene armonizzati.
Or rozzo, or delicato.
Ora poeta solenne, or popolare.
Ora perde di vista il vero e si abbandona a sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con semplicità.
Ora rozzo cronista, ora pittore finito.
Ora si perde nelle astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita.
Qui cade in puerilità, là spicca il volo a sopraumane altezze.
Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce dell'immagine.
E mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento.
Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne.
Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora la sua audacia ti fa stupire.
Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva tutta l'esistenza, com'era allora.
I contrari elementi, che fermentavano in una società ancora nello stato di formazione, contendevano in lui.
E senza che ne avesse coscienza.
Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è armonia.
Filosofo, pensa il regno della scienza e della virtù.
Cristiano, contempla il regno di Dio.
Patriota, sospira al regno della giustizia e della pace.
Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armonia, lo bello stile: il suo autore è Virgilio.
Maggiore era la barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo armonico e concorde.
Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza realtà e in quelle forme discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la serenità dell'artista.
E gli esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una materia non perfettamente doma.
Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo.
Perchè un argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a genio, ma è marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto e le leggi del suo sviluppo.
La più grande qualità del genio è d'intendere il suo argomento, e diventare esso, risecando da sè tutto ciò che non è quello.
Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte; e giudicare con lo stesso criterio la Commedia e l'Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica, cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile.
Che cosa è l'altro mondo?
È il problema dell'umana destinazione sciolto, è il mistero dell'anima spiegato, è la fine della storia umana, il mondo perfetto l'eterno presente, l'immutabile necessità.
Nella natura non ci è più accidente, nell'uomo non ci è più libertà.
La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta, secondo l'idea morale.
Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza è tutt'uno.
L'uomo non ha più libero arbitrio: è lì, fissato e immobilizzato, come natura.
Ogni azione è cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi.
Non c'è più successione, nè sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma.
L'individuo scompare nel genere.
Il carattere, la personalità, non ha modo di manifestarsi.
Eterno dolore, eterna gioia, senza eco, senza varietà, senza contrasto nè gradazione.
Non ci è epopea, perchè manca l'azione; non ci è dramma, perchè manca la libertà; la lirica è l'immutabile e monotona espressione di una sola aria; rimane l'esistenza nella sua immobile estrinsechezza, descrizione della natura e dell'uomo.
Che cosa è dunque l'altro mondo per rispetto all'arte? È visione, contemplazione, descrizione, una storia naturale.
Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perchè ivi dentro è rappresentata la commedia o redenzione dell'anima nel suo pellegrinaggio dall'umano al divino, «di Fiorenza in popol giusto e sano».
Ci hai dunque l'apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro mondo, i cui attori sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san Bernardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica è la Commedia dell'anima.
Dico apparenza di un dramma, perchè la santificazione nasce non dall'operare, ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e gli altri mostrano, insegnano.
Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.
Questo mondo così concepito era il mondo de' misteri e delle leggende, divenuto mondo teologico-scolastico in mano a' dotti.
Dante lo ha realizzato, gli ha dato l'esistenza dell'arte, ha creato quella natura e quell'uomo.
E se il suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto non è in lui, ma in quel mondo, dove l'uomo è natura e la natura è scienza, e da cui è sbandito l'accidente e la libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell'arte.
Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell'allegoria.
Ma Dante, entrando nel regno de' morti, vi porta seco tutte le passioni de' vivi, si trae appresso tutta la terra.
Dimentica di essere un simbolo o una figura allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di quel tempo, nella quale è compendiata tutta l'esistenza, com'era allora, con le sue astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose, con la sua civiltà e la sua barbarie.
Alla vista e alle parole di un uomo vivo, le anime rinascono per un istante, risentono l'antica vita, ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il tempo; in seno dell'avvenire vive e si muove l'Italia, anzi l'Europa di quel secolo.
Così la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternità, umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno, con la propria impronta dell'uomo e del tempo.
Riapparisce la natura terrestre, come opposizione, o paragone, o rimembranza.
Riapparisce l'accidente e il tempo, la storia e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita, ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo, Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i Donati, la nuova e l'antica Firenze, la storia d'Italia e la sua storia, le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.
Così la vita s'integra, l'altro mondo esce dalla sua astrazione dottrinale e mistica, cielo e terra si mescolano, sintesi vivente di questa immensa comprensione Dante, spettatore, attore e giudice.
La vita guardata dall'altro mondo acquista nuove attitudini, sensazioni e impressioni.
L'altro mondo guardato dalla terra veste le sue passioni e i suoi interessi.
E n'è uscita una concezione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo.
Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza d'azione, che si succedono, si avvicendano, s'incrociano, si compenetrano, si spiegano e s'illuminano a vicenda, in perpetuo ritorno l'uno nell'altro.
La loro unità non è in un protagonista, nè in un'azione, nè in un fine astratto ed estraneo alla materia, ma è nella stessa materia; unità interiore e impersonale, vivente indivisibile unità organica, i cui momenti si succedono nello spirito del poeta, non come meccanico aggregato di parti separabili, ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, com'è la vita.
Questa energica e armoniosa unità è nella natura stessa de' due mondi, materialmente distinti ma una cosa nell'unità della coscienza.
Cielo e terra sono termini correlativi, l'uno non è senza l'altro; il puro reale ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il suo ideale; ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti gli dei d'Olimpo: lo scettico può abolire l'inferno, non può abolir la coscienza.
Appunto perchè i due mondi sono la vita stessa nelle sue due facce, in seno a questa unità si sviluppa il più vivace dualismo, anzi antagonismo: l'altro mondo rende i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe, ma in quelle ombre freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano d'imprecazioni terrene fino le tranquille vòlte del cielo.
Gli uomini, con esso le loro passioni e vizi e virtù rimangono eterni, come statue, in quell'attitudine, in quella espressione di odio, di sdegno, di amore, che sono stati colti dall'artista; ma mentre l'altro mondo eterna la terra, trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto l'immagine dell'infinito, ne scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi in un diverso teatro, che è la loro ironia.
Questa unità e dualità uscente dall'imo stesso della situazione balena al di fuori nelle più varie forme, ora in un'apostrofe, ora in un discorso, ora in un gesto, ora in un'azione, ora nella natura, ora nell'uomo.
In questa unità penetra la più grande varietà, nè è facile trovare un lavoro artistico, in cui il limite sia così preciso e così largo.
Niente è nell'argomento che costringa il poeta a preferire il tal personaggio, il tal tempo, la tale azione: tutta la storia, tutti gli aspetti sotto a' quali si è mostrata l'umanità, sono a sua scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni, e può intramettere nello scopo generale fini particolari, senza che ne scapiti l'unità.
Il che dà al suo universo compiuta realità poetica, veggendosi nella permanente unità tutto ciò che sorge e dalla libertà dell'umana persona e dall'accidente, e moversi con vario gioco tutt'i contrasti, e il necessario congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.
Adunque, che poesia è codesta? Ci è materia epica, e non è epopea; ci è una situazione lirica, e non è lirica; ci è un ordito drammatico, e non è dramma.
È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere enciclopedie, bibbie nazionali, non questo o quel genere, ma il tutto, che contiene nel suo grembo ancora involute tutta la materia e tutte le forme poetiche, il germe di ogni sviluppo ulteriore.
Perciò nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato: l'uno entra nell'altro, l'uno si compie nell'altro.
Come i due mondi sono in modo immedesimati, che non puoi dire: - Qui è l'uno, e qui è l'altro -; così i diversi generi sono fusi di maniera, che nessuno può segnare i confini che li dividono, nè dire: - Questo è assolutamente epico, e questo è drammatico.
-
È il contenuto universale, di cui tutte le poesie non sono che frammenti, il «poema sacro», l'eterna geometria e l'eterna logica della creazione incarnata ne' tre mondi cristiani: la città di Dio, dove si riflette la città dell'uomo in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal tempo; la sfera immobile del mondo teologico, entro di cui si movono tempestosamente tutte le passioni umane.
L'idea che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo, è il concetto di salvazione, la via che conduce l'anima dal male al bene, dall'errore al vero, dall'anarchia alla legge, dal molteplice all'uno.
È il concetto cristiano e moderno dell'unità di Dio sostituita alla pluralità pagana.
Questo concetto, se fosse solo un di fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pensiero, o rappresentato in forma allegorica come figurato, non basterebbe a generare un'opera d'arte.
Ma qui è non solo il di fuori, ma il di dentro, non solo il significato e la scienza di quel mondo opera di filosofo e di critico, ma principio attivo, com'è nell'uomo e nella natura, che costruisce e forma quel mondo, e gli dà una storia e uno sviluppo.
Questo principio attivo, se nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o la virtù o la legge, come realtà viva e operosa è lo spirito, che ha per suo contrario la materia o la carne, dove sta come in una prigione o in un «vasello», da cui si sforza di uscire.
La vita è perciò un antagonismo, una battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio.
E la sua storia è la progressiva vittoria dello spirito, la costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive, il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio, assoluto spirito, la Verità, la Bontà, l'Unità, l'ultimo Ideale.
Il concetto dantesco, lo spirito che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l'emancipazione della materia e del senso mediante l'espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l'inferno e il paradiso, posta e sciolta.
Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell'altro mondo e li spiritualizza.
La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l'infinito spirito; tutto l'altro è «vanità che par persona».
Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente.
L'Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell'altro mondo e s'immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena eterna.
Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell'intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione.
Nel Paradiso l'umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione s'idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell'assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:
...
...
tutta cessa
mia visione e ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di Sibilla.
Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la storia; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco, ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita, sotto tutte le forme, in tutte le quistioni che si affacciano al poeta, in religione, in filosofia, in politica, in morale, e così si concreta e compie in tutti gl'indirizzi della vita.
In religione è il cammino dalla lettera allo spirito, dal simbolo all'idea, dal vecchio al nuovo Testamento; nella scienza dall'ignoranza e dall'errore alla ragione e dalla ragione alla rivelazione; in morale dal male al bene, dall'odio all'amore, mediante l'espiazione; in politica dall'anarchia all'unità.
Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo, diventa storia: il tale uomo, il tale popolo, il tale secolo.
In religione vi sta innanzi la Chiesa romana, il papato, che il poeta vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni, le discordie, le colpe e i vizi della barbara età, dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel vostro cammino verso il sommo bene; in politica è l'Italia anarchica e sanguinosa che il poeta aspira a comporre a pace e concordia nell'unità dell'impero.
Così un solo concetto penetra il tutto, come forma, come pensiero e come storia.
Mai più vasta e concorde comprensione non era uscita da mente di uomo.
Alcuni ci vedono dentro l'altro mondo, e il resto è una intrusione e quasi una profanazione; Edgardo Quinet rimane choqué veggendo come le passioni del poeta lo inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico, di cui quello sia la rappresentazione sotto figura.
Chiamano questo poema o «religioso», o «politico», o «didascalico», o «morale», lo riducono a querele di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi e ghibellini.
Guardano non dall'alto del monte, dalla pianura, e prendono per il tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro cammino.
Ciascuno si fabbrica un piccolo mondo e dice: - Questo è il mondo di Dante.
- E il mondo di Dante contiene tutti quei mondi in sè.
È il mondo universale del medio evo realizzato dall'arte.
Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre mondi, de' quali l'inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spirito, odio e amore, e il purgatorio è il termine medio o di passaggio: tre mondi, de' quali la letteratura non offriva che povere e rozze indicazioni, e che escono dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.
L'inferno è il regno del male, la morte dell'anima e il dominio della carne, il caos: esteticamente è il brutto.
Dicesi che il brutto non sia materia d'arte, e che l'arte sia rappresentazione del bello.
Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che non possa esser nell'arte.
Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sè contraddittoria, cioè l'informe o il deforme o il difforme: e perciò non è arte il confuso, l'incoerente, il dissonante, il manierato, il concettoso, l'allegorico, l'astratto, il generale, il particolare: tutto questo non è vivo, è abbozzo o aborto di artisti impotenti.
L'altro, bello o brutto che si chiami in natura, esteticamente è sempre bello.
In natura il brutto è la materia abbandonata a' suoi istinti, senza freno di ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso estetico.
Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato se stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: - Tu sei brutto.
- Più il suo senso morale ed estetico è sviluppato, e più la sua impressione è gagliarda, più lo vede vivo e vero innanzi alla immaginazione.
Perciò non pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo, anzi lo pone in evidenza e lo ritrae co' suoi propri colori.
Il brutto è elemento necessario così nella natura, come nell'arte; perchè la vita è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto.
Togliete la contraddizione, e la vita si cristallizza.
Verità così palpabile che le immaginazioni primitive posero della vita due princìpi attivi, il bene e il male, l'amore e l'odio, Dio e il demonio; antagonismo che si sente in tutte le grandi concezioni poetiche.
Perciò il brutto, così nella natura, come nell'arte, ci sta con lo stesso dritto che il bello, e spesso con maggiori effetti, per la contraddizione che scoppia nell'anima del poeta.
Il bello non è che se stesso; il brutto è se stesso e il suo contrario, ha nel suo grembo la contraddizione, perciò ha vita più ricca, più feconda di situazioni drammatiche.
Non è dunque maraviglia che il brutto riesca spesso nell'arte più interessante e più poetico.
Mefistofele è più interessante di Fausto, e l'inferno è più poetico del paradiso.
Dante concepisce l'inferno come la depravazione dell'anima, abbandonata alle sue forze naturali, passioni, voglie, istinti, desidèri, non governati dalla ragione o dall'intelletto; contraddizione ch'egli esprime con l'energia di uomo offeso nel suo senso morale:
...
...
le genti dolorose,
che hanno perduto il ben dell'intelletto...
Che libito fe' licito in sua legge...
Che la ragion sommettono al talento...
L'anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza; peccatrice in vita, peccatrice ancor nell'inferno, salvo che qui il peccato è non in fatto, ma in desiderio.
Onde nell'inferno la vita terrena è riprodotta tal quale, essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora presente al dannato.
Il che dà all'inferno una vita piena e corpulenta, la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi diviene povera e monotona.
Gli è come un andare dall'individuo alla specie e dalla specie al genere.
Più ci avanziamo, e più l'individuo si scarna e si generalizza.
Questa è certo perfezione cristiana e morale, ma non è perfezione artistica.
L'arte come la natura è generatrice, e le sue creature sono individui, non specie o generi, non tipi o esemplari; sono res, non species rerum, Perciò l'inferno ha una vita più ricca e piena, ed è de' tre mondi il più popolare.
Aggiungi che la vita terrena o infernale è colta dal poeta nel vivo stesso della realtà in mezzo a cui si trova, essendo essa la rappresentazione epica della barbarie, nella quale il rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori.
Dante stesso è un barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo, libera ed energica natura.
Al contrario la vita negli altri due mondi non ha riscontro nella realtà, ed è di pura fantasia, cavata dall'astratto del dovere e del concetto, e ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e contemplativa.
Essendo l'inferno il regno del male o della materia in se stessa e ribelle allo spirito, la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi dello spirito, insino alla sua estinzione, alla materia assoluta.
Il suo punto di partenza è l'indifferente, l'anima priva di personalità e di volontà, il negligente.
Il carattere qui è il non averne alcuno.
In questo ventre del genere umano non è peccato, nè virtù, perchè non è forza operante: qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il preludio di esso.
Ma se, moralmente considerati, i negligenti tengono il più basso grado nella scala de' dannati e paiono a Dante «sciaurati» più che peccatori, il concetto morale rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare i dannati.
Altri sono i criteri del poeta.
La morale pone i negligenti sul limitare dell'inferno, la poesia li pone più giù dell'ultimo scellerato, che Dante stima più di questi mezzi uomini.
E la poesia è d'accordo con la tempra energica del gran poeta e de' suoi contemporanei.
A quegli uomini vestiti di ferro anima e corpo questi esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il più alto dispregio.
E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi.
Sono uomini che vissero senza infamia e senza lode», anzi «non fur mai vivi».
La loro pena è di essere stimolati continuamente, essi che non sentirono stimolo alcuno nel mondo.
La pena è minima, eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono così vinti nel «duolo», che lacrimano e gettano le alte strida, che fanno tumultuare l'aria
come la rena quando il turbo spira.
A' loro piedi è la loro immagine, il verme.
Turba infinita, senza nome: appena accenna ad un solo, e senza nominarlo,
colui che fece per viltate il gran rifiuto
Il loro supplizio è la coscienza della loro viltà, il sentirsi dispregiati, cacciati dal cielo e dall'inferno.
Ritratto immortale e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono rimasti proverbiali.
Esseri poetici, appunto perchè assolutamente prosaici, la negazione della poesia e della vita: onde nasce il sublime negativo degli ultimi tre versi:
Fama di loro il mondo esser non lassa:
Misericordia e Giustizia gli sdegna.
Non ragioniam di lor; ma guarda e passa.
Se i negligenti non sono nell'inferno, perchè mancò loro la forza del bene e del male, gl'innocenti e i virtuosi non battezzati non sono in paradiso, perchè mancò loro la fede, sono nel Limbo.
E anche qui il concetto teologico ci sta per memoria, per semplice classificazione.
La poesia nasce da altre impressioni e da altri criteri.
Il valore poetico dell'uomo non è nella sua moralità e nella sua fede, ma nella sua energia vitale; non è una idea, ma una forza, il personaggio poetico.
Perciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo, la negazione della forza, il non esser vivo.
E perciò qui nel Limbo la mancanza di fede è un semplice accessorio, e l'interesse è tutto nel valore intrinseco dell'uomo, come essere vivo, come forza.
Dio ha lo stesso criterio poetico e dà ad alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore bontà, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell'ingegno e delle opere:
...
...
L'onrata nominanza
che di lor suona su nel vostro mondo,
grazia acquista nel ciel che sì gli avanza.
Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un pantheon di uomini illustri.
E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando alzava questo magnifico tempio della storia e della coltura antica, e le impressioni che ne dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue impressioni quando giovinetto su' banchi della scuola gli si affacciavano le maraviglie di questo mondo greco-latino.
Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare, Bruto, ciascuno di questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava! Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti caratteristici che segnano i protagonisti, il «signore dell'altissimo canto» e il «maestro di color che sanno».
E colui, che a quella vista si sente «esaltare» in se stesso e s'incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de' tempi nuovi, «sesto tra cotanto senno», è non il Dante dell'altro mondo, ma Dante Alighieri.
Ecco ciò che rende il Limbo così interessante, come il mondo de' negligenti, due concezioni originalissime, uscite da un profondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime ne' secoli.
Molti tratti sono ancora oggi in bocca del popolo.
Come l'inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel canto undecimo il poeta stesso, architetto e filosofo delle sue costruzioni.
Quel regno del male è partito in tre mondi, rispondenti alle tre grandi categorie del delitto: la incontinenza e violenza, la malizia, e la fredda premeditazione.
Ciascuna di queste categorie si divide in generi e specie, in cerchi e gironi.
Il concetto etico di questa scala de' delitti è che dove è più ingiuria è più colpa, e l'ingiuria non è tanto nel fatto, quanto nell'intenzione.
Perciò la malizia e la frode è più colpevole della incontinenza e violenza, e la fredda premeditazione de' traditori è più colpevole della malizia.
Indi la storica evoluzione dell'inferno, dove da' meno colpevoli, gl'incontinenti, si passa alla città di Dite, sede de' violenti, e poi si scende in Malebolge, e di là nel pozzo de' traditori.
Questo è l'inferno scientifico o etico.
Ma non è ancora l'inferno poetico.
La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in natura vivente.
L'ordine scientifico presenta una serie di concetti astratti, il poetico una serie di figure, di fatti e d'individui: il primo una serie di delitti, il secondo una serie non solo d'individui colpevoli, ma di tali e tali individui.
Dividere in categorie significa considerare in un gruppo d'individui non quello che ciascuno ha di proprio, ma quello che ha di comune col gruppo a cui appartiene.
Così una classificazione è possibile, una esatta riduzione a generi e specie.
Ma la poesia ritorna l'individuo nella sua libera personalità, e lo considera non come essere morale, ma come forza viva e operante.
E più in lui è vita, più è poesia.
Perciò, se l'inferno, come mondo etico, è il successivo incattivirsi dello spirito, sì che alla violenza, comune all'uomo e all'animale, succede la malizia, «male proprio dell'uomo», e alla malizia la fredda premeditazione, questo concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione.
Come natura vivente o come forma, l'inferno è la morte progressiva della natura, la vita e il moto che manca a poco a poco sino alla compiuta immobilità, alla materia come materia, dove insieme con la vita muore la poesia.
Indi la storia dell'inferno.
Dapprima la situazione è tragica: il motivo è la passione, dove la vita si manifesta in tutta la sua violenza; perchè la passione raccoglie tutte le forze interiori, distratte e sparpagliate nell'uso quotidiano della vita, intorno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista la coscienza della sua libertà infinita.
Preso per se stesso lo spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e non può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio fare ch'esso non creda, non senta e non voglia quello che crede, sente e vuole.
Non vi è donnicciuola, così vile, che non si senta forza infinita, quando è stretta dalla passione.
- Io ti amo e ti amerò sempre, e se dopo morte si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con te in inferno che senza te in paradiso.
- Queste sono le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore appassionato, e che rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.
Ma quando la passione vuole realizzarsi, s'intoppa in un altro infinito, nell'ordine generale delle cose, di cui si sente parte e innanzi a cui è un fragile individuo.
E n'esce la tragica collisione tra la passione e il fato, l'uomo e Dio, il peccato.
Nella vita nè la passione, nè il fato sono nella loro purezza: la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni; il fato talora è il caso, o l'espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in cui intoppa il protagonista.
Ma nell'inferno l'anima è isolata dal fatto ed è pura passione e puro carattere, perciò inviolabile e onnipotente, e il fato è Dio, come eterna giustizia e legge morale: onde la prima parte dell'inferno, ove incontinenti e violenti, esseri tragici e appassionati, mantengono la loro passione di rincontro a Dio, è la tragedia delle tragedie, l'eterna collisione nelle sue epiche proporzioni.
Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto.
La natura infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt'i caratteri che la rendono un sublime negativo, l'eternità, la disperazione, le tenebre.
L'eterno è sublime, perchè ti mostra un di là sempre allo stesso punto, per quanto tu ti ci avvicini; la disperazione è sublime, perchè ti mostra un fine non possibile a raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è sublime, come annullamento della forma e morte della fantasia, per quella stessa ragione che è sublime la morte, il male, il nulla.
Leggete la scritta sulla porta dell'inferno.
Ne' primi tre versi è l'eterno immobile che ripete se stesso, dolore, dolore e dolore, quel luogo, quel luogo e quel luogo, per me, per me e per me, insino a che in ultimo l'eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
La luce, il «dolce lome», rende sublimi le tenebre, morte del sole e delle stelle e dell'occhio, come è «l'aer senza stelle», e il «loco d'ogni luce muto», e quel «ficcar lo viso al fondo» e «non discernere alcuna cosa».
Certo, l'eternità, le tenebre e la disperazione sono caratteri comuni a tutto l'inferno; ma solo qui sono poesia, quando l'inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime impressioni.
Appresso, diventano spettacolo ordinario, come è il sole, visto ogni giorno.
E Dante, che parte da princìpi preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche, quando è tutto nel realizzare e formare i suoi mondi, opera con piena spontaneità, abbandonato alle sue impressioni.
Il canto terzo è il primo apparire dell'inferno, e come ci si sente la prima impressione, come si vede il poeta esaltato, turbato dalla sua visione, assediato di forme, di fantasmi, impazienti di venire alla luce! In quel «diverse voci, orribili favelle» ecc., non ci è solo il grido de' negligenti: ci è lì tutto l'inferno, che manda il suo primo grido.
Quel canto del sublime è una sola nota musicale variamente graduata, è l'eterno, il tenebroso, il terribile, l'infinito dell'inferno, che invade e ispira il poeta e vien fuori co' vivi colori della prima impressione, è il vero canto del regno de' morti, della «morta gente», è l'albero della vita, che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa, e ne toglie la speranza:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
E ne toglie le stelle:
risonavan per l'aer senza stelle.
E ne toglie il tempo:
facevano un tumulto il qual s'aggira
sempre in quell'aria senza tempo tinta.
E ne toglie il cielo:
non isperate mai veder lo cielo.
E ne toglie Dio:
ch'hanno perduto il ben dello intelletto.
Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza contorni, cerchio, loco, null'altro: la diresti natura vuota, se non la riempissero l'eternità e le tenebre e la morte e la disperazione.
Nel regno de' violenti prende una forma.
Si esce dal sublime: si entra nel bello negativo.
Incontri tutto ciò che è figura, ordine, regolarità, proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città, la città di Dite.
Vedi selve, laghi, sepolcri; e l'effetto poetico nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti gli accessorii che la rendono bella in terra.
Non frondi verdi, ma di color fosco:
non rami schietti, ma nodosi e involti
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
La natura spogliata della sua vita, del suo cielo, della sua luce, delle sue speranze, è un sublime che ti gitta nell'animo il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello negativo pieno di strazio e di malinconia.
È la natura snaturata, depravata, a immagine del peccato: con la virtù se n'è ita la bellezza, sua faccia.
Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle pene.
Perchè il concetto nella natura sta immobile come nell'architettura e nella scultura; dove nelle pene acquista ogni varietà di attitudini e di movenze.
Le pene sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza della passione.
In quella natura eterna e tenebrosa odi un mugghio, «come fa mar per tempesta», e il rovescio della grandine, e il cozzo delle moltitudini: moti disordinati, violenti, come i moti dell'animo.
Vedi tombe ardenti, laghi di sangue, alberi che piangono e parlano, la natura sforzata e snaturata dal peccatore.
Gli strani accozzamenti producono l'effetto del maraviglioso e del fantastico, ma il fantastico è presto vinto e ti piglia il raccapriccio e l'orrore.
Il poeta prende in troppa serietà il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderti con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto sulla tua immaginazione, vuol colpire la tua coscienza.
Dove il fantastico è più sviluppato, è nella selva de' suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione, e la maraviglia dà luogo a una profonda tristezza.
Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività, non è ancora anima.
Un primo grado di questa forma è nel demonio.
Cielo e inferno sono stati sempre popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l'intervallo tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e Satana.
È la storia del bene e del male che si sviluppa nella nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi.
Diversi di nomi e di forme secondo le religioni e le civiltà, i demòni hanno per base i diversi gradi del male, e per forma il gigantesco e il mostruoso, il puro terrestre, il bestiale giunto all'umano, e spesso preponderante, come nella sfinge, nella chimera, in Cerbero.
Il demonio di Dante non ha più la sua storia, come in terra, spirito tentatore accanto all'uomo e ribelle e rivale di Dio.
Qui è immobilizzato come l'uomo; la sua storia è finita; cosa gli resta? Soffrire e far soffrire, vittima e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato che flagella nell'uomo.
Il Satana di Milton e Mefistofele, che combattono contro Dio e contro l'uomo, erano compiute persone poetiche.
Altra è qui la situazione, e altro è il demonio.
Esso è il vinto di Dio, e meno che uomo, perchè non è dell'uomo che una sua parte sola, il peccato.
È piuttosto tipo, specie, simbolo, che persona.
È il più basso gradino nella scala degli esseri spirituali, lo spirito tra l'umano e il bestiale, in cui l'intelletto è ancora istinto e la volontà è ancora appetito.
Figure vive e mobili della colpa, ma figure, semplice esteriorità: non carattere, non passione, non intelligenza, non volontà.
Fra gl'incontinenti e i violenti il demonio è tragico e serio: è azione mimica e tutta esterna, passione tradotta in moti e gesti, senza la parola, salvo brevi imprecazioni.
La natura ti dà figura e colore: qui la figura si muove e il colore si anima, è la figura in azione.
Il poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane, e le ha rifatte e rinnovate.
Come a costruire il suo inferno toglie alla terra le sue forme, e strappandole dal circolo loro assegnato, le compone diversamente e ti crea una nuova natura; così ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache, Minos Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le arpie, le furie, e le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto, di vita e di religione, e le ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo pensiero e la sua religione.
Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte, in cui vien fuori l'apparenza di un carattere: impaziente rissoso, manesco, che grida e batte.
Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non fa dissonanza con la solennità della natura infernale, dove si trova collocata.
Minos è il giudizio rappresentato in modo affatto esteriore e plastico, e rapido come saetta:
dicono e odono e poi son giù vòlte.
Le altre figure sono schizzi, appena disegnati; ingegnoso è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle più belle ottave dell'Ariosto.
Noi concepiamo oramai la costruzione de' singoli canti.
Il poeta comincia col porci innanzi la natura del luogo e la qualità della pena; il demonio ora precede, ora vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme e misti, non ancora l'individuo, ma l'uomo collettivo, gruppi di mezzo a' quali spesso si stacca l'individuo e tira la tua attenzione.
I gruppi sono l'espressione generale del sentimento che riempie i peccatori nella società infernale; sono la parentela del delitto, dove trovi nello stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.
Come nella natura e nel demonio, così ne' gruppi l'aspetto è dapprima severo e tragico.
Essi esprimono il sublime dello spirito la disperazione.
L'uomo ha bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia sentimento; l'uomo vive quando è in un'onda assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è l'annullamento della vita morale, la stagnazione del pensiero e del sentimento, la morte, il nulla, il caos, le tenebre dello spirito, un sublime negativo.
Come il sublime delle tenebre è nella luce che muore, il sublime della disperazione è nella morte della speranza:
nulla speranza gli conforta mai
non che di posa, ma di minor pena.
L'espressione estetica della disperazione è la bestemmia, violenta reazione dell'anima, innanzi a cui tutto muore, e che nel suo annichilamento involge l'universo:
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
l'umana specie e il luogo e il tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
La passione trasforma la faccia dell'uomo, abitualmente tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi: momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne' suoi gruppi.
Gli avari stanno col pugno chiuso, gl'irosi si lacerano le membra: violenza di moti appassionati, niente che sia basso o vile: puoi abborrirli, non puoi disprezzarli.
Immaginate una piramide.
Nella larghissima base vedete la natura infernale.
Più su è il demonio, figura bestiale in faccia umana, bestia talora in tutto, mai in tutto uomo.
Alzate ancora l'occhio, e vedete gruppi nella violenza della passione.
È la stessa idea che si sviluppa e si spiritualizza, insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla cima la statua, l'individuo libero, l'idea nella sua individuale realtà, e più che l'idea, se stesso nella sua libertà.
È di mezzo a quella folla confusa, a quei gruppi, che escono i grandi uomini dell'inferno o piuttosto della terra; è da questa triplice base dell'eternità che esce fuori
...
[Pagina successiva]