STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, di Francesco De Sanctis - pagina 6
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Ecco il principio del cantico 48:
O Signor, per cortesia,
mandami la malsania;
a me la febbre guartana,
la continua e la terzana:
a me venga mal di dente,
mal di capo e mal di ventre,
mal de occhi e doglia di fianco
la postema al lato manco.
La poesia di Iacopone è proprio il contrario di quella de' trovatori.
In questi è poesia astratta e convenzionale e uniforme, non penetrata di alcuna realtà.
In Iacopone è realtà ancora naturale, non ancora spiritualizzata dall'arte; è materia greggia, tutta discorde, che ti dà alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico.
Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di prima impressione spunta la vita morale, un certo modo di condursi con regola e prudenza; e anch'essa è nella sua forma immediata e primitiva.
Non è ragione o filosofia, è pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o proverbio, che riassume la sapienza degli avi.
Il motto rimato è la più antica forma di poesia nel nostro volgare.
Ecco alcuni motti antichissimi:
Ancella donnea,
se donna follea.
In terra di lite
non poner la vite.
Uomo che ode, vede e tace
sì vuol vivere in pace.
Chi parla rado
tenuto è a grado.
Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da Iacopone in un suo carme, una specie di catechismo a uso della vita, illustrati brevemente da qualche immagine o paragone, ora goffo, ora egregio di concetto e di forma.
Sulla vanità della vita dice:
Lo fior la mane è nato,
la sera il vei seccato.
Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia che la elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal Poliziano, la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata:
Fresca è la rosa di mattino: e a sera
ella ha perduta sua bellezza altera.
I motti di Iacopone sono pensieri morali espressi per esempio e per immagini, come fa l'immaginazione popolare, e nella loro brevità e succo è il principale attrattivo.
Ove temi pericolo,
non fare spesso posa.
Sappi di polver tollere
la pietra preziosa,
e da uom senza grazia
parola graziosa;
dal folle sapienzia,
e dalla spina rosa.
Prende esempio da bestia
chi ha mente ingegnosa.
Vediamo bella immagine
fatta con vili deta;
vasello bello ed utile
tratto da sozza creta;
pigliam da laidi vermini
la preziosa seta,
vetro da laida cenere,
e da rame moneta.
Non dimandare agli uomini
che lor nega natura:...
e non pregar la scimia
di bella portatura,
nè il bue, nè l'asino
di dolce parladura...
Quel che non si conviene,
ti guarda di non fare:
nè messa ad uomo laico,
nè al prete saltare;
non dece spada a femmina,
nè ad uom lo filare...
Non piace se 'n suo loco
non ponesi la cosa:
innanzi che ti calzi,
guarda da qual piè è l'uosa.
Se leggi, non far punto
dove non è la posa;
dov'è piana la lettera,
non fare oscura glosa.
In ogni cosa al prossimo
ti mostra mansueto:...
Da nimistate guàrdati,
se vuoi viver quieto...
A quel modo conformati
che trovi nel paese:
al Genovese, in Genova,
ed in Siena, alsSanese...
Uomo che spesso volgesi,
da tuo consiglio caccia.
Se vedi volpe correre,
non dimandar la traccia:
non ti sforzare a prendere
più che non puoi con braccia:
chè nulla porta a casa
chi la montagna abbraccia.
Quando puoi esser umile,
non ti dimostrar forte:
il muro tu non rompere,
se aperte son le porte...
Con signore non prendere,
se tu puoi, quistione;
ch'ei ti ruba ed ingiuria
per piccola cagione,
e tutti gli altri gridano:
- Messere ha la ragione...
-
Uomo senz'amicizia
castello è senza mura...
Quella è buona amicizia,
che d'ogni termpo dura:
povertà non la parte,
nè nulla ria ventura.
Quel che tu dici in camera
non dire in ogni loco:
a piaga metti unguento,
non vi mettere il foco...
E così hai motto a motto, spesso senz'altro legame che il caso, qual più, qual meno felice, in quella forma sentenziosa ed esemplata, che è propria dell'immaginazione popolare, prima ancora che nasca la favola e il racconto.
E trovi certo più gusto in queste prime rozze formazioni così piene della vita e del sentire comune, che ne' sonetti e canzoni morali in forma più artificiosa, ma contorta e scolastica di Onesto e Semprebene e altri trovatori.
Questi uomini con tanti proverbi in bocca e con tanta divozione alla Madonna e a' santi, con l'immaginazione piena di leggende e avventure cavalleresche, avevano nel piccolo spazio del comune una vita politica ancora più vivace e concentrata, che non è oggi, allargata com'è e diffusa in quegl'immensi spazi che si chiamano «regni».
Certo, i costumi si polivano, come la lingua; ma religione e cavalleria, misteri e romanzi, se colpivano le immaginazioni, poco bastavano a contenere e regolare le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali.
Questa vita era troppo reale, troppo appassionata e troppo presente, perchè potesse esser vista con la serenità e la misura dell'arte.
Si manifesta con la forma grossolana dell'ingiuria, appena talora rallegrata da qualche lampo di spirito.
Un esempio è il verso:
Quando l'asino raglia, un guelfo nasce.
Questa forma primitiva dell'odio politico, amara anche nel motteggio e nell'epigramma, e così sventuratamente feconda tra noi anche ne' tempi più civili, non esce mai dalle quattro mura del comune, con particolari e allusioni così personali, che manca con la chiarezza ogni interesse: prova ne sieno i sonetti di Rustico.
Certo, in questo antico esempio di satira politica vedi il volgare condotto a tutta la sua perfezione, e ci senti uno spirito e una vivacità propria dell'acuto ingegno fiorentino.
Ma che interesse volete voi che prendiamo per donna Gemma e messer Fastello e messer Messerino e ser Cerbiolino, con quel suo parlare sotto figura per allusioni, che non ne comprendiamo un'acca? Ciò che è meramente personale muore con la persona.
Il comune sembra un castello incantato, dove l'uomo entrando ignori tutto ciò che vive e si muove al di fuori.
Nessun vestigio de' grandi avvenimenti di cui l'Italia era stata ed era il teatro; niente che accennasse ad alcuna partecipazione alle grandi discussioni tra papato e impero, tra guelfi e ghibellini, o rivelasse un sentimento politico elevato e nazionale, al di sopra della cerchia del comune.
Tutto è piccolo, tutto va a finire là, nella piccola maldicenza sulla piazza del comune.
Di ciò che si passava in Italia, appena un'ombra trovi in un sonetto di Orlandino Orafo, eco delle preoccupazioni e ansietà pubbliche, quando Carlo d'Angiò andava ad investire re Manfredi in Benevento.
Ma ciò che preoccupa Orlandino non è il risultato politico e nazionale della lotta, ma la grande strage che ne verrà:
Ed avverrà tra lor fera battaglia,
e fia sanfaglia - tal, che molta gente
sarà dolente - chi che ne abbia gioia.
E molti buon destrier coverti a maglia,
in quella taglia - saran per niente;
qual fia perdente - allor convien che muoia.
A lui è uguale chi vinca e chi perda.
Ciò che gli fa impressione è la lotta in se stessa co' suoi accidenti.
Lo diresti uno spettatore posto fuori de' pericoli e delle passioni de' combattenti, che contempla avido di emozioni i vari casi della pugna.
Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi vari aspetti, religioso, morale, politico, spicca più, perchè in evidente contrasto con la precoce coltura scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo.
La scienza era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano a guardare.
Ma la scienza era come il Vangelo, che s'imparava e non si discuteva.
A quel modo che troiani, romani, franchi e saraceni, santi e cavalieri erano nell'immaginazione un mondo solo; Aristotile e Platone, Tommaso e Bonaventura erano una sola scienza.
Il maggiore studio era sapere, e chi sapeva più era più ammirato; nessuno domandava quanta concordia e profondità era in quel sapere.
Perciò venne a grandissima fama ser Brunetto Latini.
Il suo Tesoro e il Tesoretto furono per lungo tempo maraviglia delle genti, stupite che un uomo potesse saper tanto, ed esporre in verso Aristotele e Tolomeo.
Di che nessuno oggi saprebbe più nulla, se Dante non avesse eternato l'uomo e il suo libro in quei versi celebri:
sieti raccomandato il mio Tesoro nel quale io vivo ancora.
La scienza in Brunetto è materia così rozza e greggia, com'è la vita religiosa in Iacopone e la vita politica in Rustico.
Il suo studio è di cacciar fuori tutto quello che sa, così crudamente come gli è venuto dalla scuola, e senza farlo passare a traverso del suo pensiero.
Ciò che dice gli pare così importante, e pareva così importante a' suoi contemporanei, ch'egli non chiede altro, e nessuno chiedeva altro a lui.
Quella sua enciclopedia non è che prosa rimata.
Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante, che compirono i loro studi nell'Università di Bologna, dalla quale uscì pure Cino da Pistoia.
Si sente in tutti e tre la scuola di Guido Guinicelli.
Amore si scioglie dalle tradizioni cavalleresche, e diviene materia di teologia e di filosofia.
Si discute sulla sua origine su' suoi fenomeni e sul suo significato.
Nella sua apparenza volgare esso adombra quella forza che move il sole e le stelle; il poeta lascia al volgo il senso letterale e cerca un soprasenso, il senso teologico e filosofico, di cui quello sia il velo.
Il lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza il fenomeno amoroso, e cerca dietro di quello la scienza.
L'esistente non è per lui che un velo del pensiero, una forma dell'essere; Cino da Pistoia chiama Arrigo di Lussemburgo «forma del bene»; il corpo è un velo dello spirito; la donna è la forma di ogni perfezione morale e intellettuale: spiritualismo religioso e idealismo platonico si fondono e fanno una sola dottrina.
L'allegoria, ch'era già prima la forma naturale di una coltura poco avanzata, diviene una forma fissa del pensiero teologico e filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall'uso invalso di cercare il senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico.
Ma il pensiero esercitato nelle lotte scolastiche era già tanto vigoroso che poteva anco bastare a se stesso ed avere la sua espressione diretta.
Perciò nella poesia entra non solo l'allegoria, ma il nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragionamento e da tutt'i procedimenti scolastici.
Cino, Cavalcanti e Dante erano tra' più dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti dalla scuola di Bologna.
La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le cose il generale e l'astratto, e a svilupparlo col sussidio della logica e della rettorica.
Prima di esser poeti sono scienziati.
Anche verseggiando, ciò che ammirano i contemporanei è la loro scienza.
Cino, maestro di Francesco Petrarca e del sommo Bartolo, fu dottissimo giureconsulto.
Il suo comento sopra i primi nove libri del Codice fu la maraviglia di quell'età.
Ristoratore del diritto romano, aperse nuove vie alla scienza, e non fu uomo, come dice Bartolo, che più di lui desse luce alla civil giurisprudenza.
L'amore di Selvaggia lo fece poeta, ma non potè mutare la sua mente.
In luogo di rappresentare i suoi sentimenti, come poeta, egli li sottopone ad analisi, come critico, e ne ragiona sottilmente.
Posto fuori della natura e nel campo dell'astrazione, ogni limite del reale si perde, e quella stessa sottigliezza che legava insieme i concetti più disparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni fuori di ogni realtà e di ogni senso comune, creava ora una scolastica poetica, o, per dirla col suo nome, una rettorica ad uso dell'amore, piena di figure e di esagerazioni, dove vedi comparire gli spiritelli d'amore che vanno in giro e i sospiri che parlano.
In luogo di persone vive, abbondano le personificazioni.
In un suo sonetto de' meglio condotti e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella sua donna è posta la salute: mèta sì alta, che avanza ogni sforzo d'intelletto, e però non resta altro che morire.
Questo è rettorica, non solo per la strana esagerazione del concetto, ma per il modo dell'esposizione scolastico e dottrinale.
Questa donna che andar mi fa pensoso,
porta nel viso la virtù d'Amore:
la qual fa disvegliare altrui nel core
lo spirito gentil che vi è nascoso.
Ella m'ha fatto tanto pauroso,
poscia ch'io vidi quel dolce signore
negli occhi suoi con tutto 'l suo valore,
che io le vo presso e riguardar non l'oso.
E s'avvien poi che quei begli occhi miri,
io veggio in quella parte la salute,
ove lo mio intelletto non può gire.
Allor si strugge sì la mia vertute,
che l'anima, che move li sospiri,
s'acconcia per voler del cor fuggire.
Una così strana esagerazione non può essere scusata che dall'impeto e dalla veemenza della passione.
Ma qui non ce n'è vestigio; ed hai invece una specie di tèma astratto, che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di rettorica.
La prima quartina è una maggiore di sillogismo; intelletto, animo, core, sospiri, virtù di onore e spirito gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole.
Esule ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua morte, scrisse una canzone.
Quale materia di poesia! Dove dovrebbero comparire le speranze, i disinganni, le illusioni e i dolori dell'esule.
Ma è invece una esposizione a modo di scienza sulla potenza della morte e l'immortalità della virtù.
Ancora più astratta e arida è la canzone sulla natura d'amore di Guido Cavalcanti, dottissimo di filosofia e di rettorica: la qual canzone fu tenuta miracolo da' contemporanei.
Adunque, la vita religiosa, morale e politica era appena nella sua prima formazione, e la splendida vita che raggiava da Bologna era anch'essa materia greggia, pretta vita scientifica, messa in versi.
Siamo alla seconda metà del Dugento.
La Sicilia, malgrado la sua Nina, è già nell'ombra.
I due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze, l'una centro del movimento scientifico, l'altra centro dell'arte.
Nell'una prevaleva il latino, la lingua de' dotti; nell'altra prevaleva il volgare, la lingua dell'arte.
L'impulso scientifico partito da Bologna, traendosi appresso anche la poesia, dava il bando alla superficiale galanteria de' trovatori: il pubblico domandava cose e non parole.
E si formò una coscienza scientifica ed una scuola poetica conforme a quella.
Il tempo de' poeti spontanei e popolari finisce per sempre.
Il nuovo poeta scrive con intenzione.
Più che poeta, egli è lume di scienza; si chiama Brunetto Latini, l'enciclopedico, Cino, il primo giureconsulto dell'età, Cavalcanti, filosofo prestantissimo, Dante, il primo dottore e disputatore de' tempi suoi.
Scrivono versi per bandire la verità, spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello spirito e della natura.
La poesia è per loro un ornamento, la bella veste della verità o della filosofia, uso amoroso di sapienza, come dice Dante nel Convito.
Ci è dunque in loro una doppia intenzione.
Ci è una intenzione scientifica.
Ma ci è pure una intenzione artistica, di ornare e di abbellire.
L'artista comparisce accanto allo scienziato.
Questo doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli.
È in Toscana, massime in Firenze, che si forma questa coscienza dell'arte.
Il volgare, venuto già a grande perfezione, era parlato e scritto con una proprietà e una grazia, di cui non era esempio in nessuna parte d'Italia.
Se i poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti incolti e rozzi non piacevano a Firenze.
A lungo andare non vi poterono essere tollerati Guittone e Brunetto, e sorgeva la nuova scuola, la quale, se a Bologna significava scienza, a Firenze significava «arte».
Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è già notato in Cino.
Egli scrive con manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre, e cerca non solo la proprietà, ma anche la venustà del dire.
Aveva animo gentile e affettuoso, e orecchio musicale.
Se a lui manca l'evidenza e l'efficacia, virtù della forza, non gli fa difetto la melodia e l'eleganza, con una certa vena di tenerezza.
Fu il precursore del grande suo discepolo, Francesco Petrarca.
Ecco un esempio della sua maniera:
Poichè saziar non posso gli occhi miei
di guardare a Madonna il suo bel viso,
mireròl tanto fiso
ch'io diverrò beato lei guardando.
A guisa di Angel che di sua natura
stando su in altura divien beato sol vedendo Iddio;
così, essendo umana creatura,
guardando la figura
di questa donna, che tiene il cor mio,
potrei beato divenir qui io.
Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della sua donna, che ispirò le tre sorelle del Petrarca, il quale ne imitò anche la fine, che è piena di grazia:
Or se prendete a noia
lo mio amor, occhi d'amor rubegli,
foste per comun ben stati men begli.
Agli occhi della forte mia nemica
fa', canzon, che tu dica:
- Poi che veder voi stessi non possete,
vedete in altri almen quel che voi sète.
-
E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con semplicità il suo stato, e sono teneri ed affettuosi.
Meno apparisce dotto, e più si rivela artista.
La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualità tecniche ed esteriori della forma.
La sua principale industria è di sviluppare gli elementi musicali della lingua e del verso, nè fino a quel tempo la lingua sonò sì dolce in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito, da cui sia rimossa ogni asprezza e ineguaglianza Ma qualità più serie e più profonde si rivelano in Guido Cavalcanti.
Anche in lui la perfezion tecnica è somma, anzi in lui è scienza.
Innamorato della lingua natia, pose ogni studio a dirozzarla, e fissarla, e scrisse una gramatica e un'arte del dire.
Egli, nota Filippo Villani, dilettandosi degli studi rettorici, essa arte in composizioni di rime volgari elegantemente e artificiosamente tradusse.
Di che si vede quanta impressione dovè fare su' contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte.
Così Guido divenne il capo della nuova scuola, il creatore del nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli:
Così ha tolto l'uno all'altro Guido
la gloria della lingua.
Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza era la filosofia.
Perciò aveva a disdegno Virgilio, parendogli, dice il Boccaccio, «la filosofia, siccome ella è, da molto più che la poesia».
Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de' Medici, introduce nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira a questo, non solo di dir bene, ma dir cose importanti.
I contemporanei studiarono la sua canzone dell'Amore, come si fa un trattato filosofico, e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotele e di san Tommaso: anche più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone.
Così Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso ed elegante dicitore, ma come sommo filosofo.
Questo voleva Guido, e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare il primo posto fra' contemporanei.
Salutavano in lui lo scienziato e l'artista.
Ma Guido fu dotto più che scienziato.
Fu benemerito della scienza perchè la divulgò, non perchè vi lasciasse alcuna sua orma propria.
E fu artefice più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della forma: vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie dell'arte.
La gloria di Guido fu là, dov'egli non cercò altro che un sollievo e uno sfogo dell'animo.
Fu là, ch'egli senza volerlo e saperlo si rivelò artista e poeta.
Vi sono uomini che i contemporanei ed essi medesimi sono incapaci di apprezzare.
Guido era più grande ch'egli stesso e i suoi contemporanei non sapevano.
Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome, perchè è il primo che abbia il senso e l'affetto del reale.
Le vuote generalità de' trovatori, divenute poi un contenuto scientifico e rettorico, sono in lui cosa viva, perchè, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni e i sentimenti dell'anima.
La poesia, che prima pensava e descriveva, ora narra e rappresenta, non al modo semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e finitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata da Guido con perfetta padronanza.
Qui sono due forosette, egregiamente caratterizzate, che gli cavano di bocca il suo segreto d'amore.
Là è una pastorella che incontra nel boschetto, e ti abbozza una scena d'amore colta dal vero.
Sono gli stessi concetti de' trovatori, ma realizzati, non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati nella loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita e azione.
Senti là dentro l'anima dello scrittore, ora lieta e serena che si esprime con una grazia ineffabile, come nelle ballate delle forosette e della pastorella, ora penetrata di una malinconia che si effonde con dolcezza negli amabili sogni dell'immaginazione e nella tenerezza dell'affetto, come nella ballata, che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il presentimento della morte.
Qui lo scienziato sparisce e la rettorica è dimenticata.
Tutto nasce dal di dentro, naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento e l'espressione.
Il poeta non pensa a gradire, a cercare effetti, a fare impressione con le sottigliezze della dottrina e della rettorica: scrive se stesso, come si sente in un certo stato dell'animo, senz'altra pretensione che di sfogarsi, di espandersi, segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino.
I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sè:
Io mi son un, che quando
Amor mi spire, noto, e a quel modo
ch'ei detta dentro, vo significando.
Il che non avvenne di Lentino, di Guittone, rimasti al di qua del «dolce stil nuovo», perchè esagerarono i sentimenti, andarono al di là della natura, per «gradire», piacere a' lettori.
E qual più a gradire oltre si mette,
non vede più dall'uno all'altro stilo.
Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti.
La nuova scuola non era altro che una coscienza più chiara dell'arte.
La filosofia per sè sola fu stimata insufficiente, e si richiese la forma.
Guittone d'Arezzo non fu più apprezzato, quantunque «di filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso», come dice Lorenzo de' Medici, perchè gli mancava lo stile, «alquanto ruvido e severo, nè di alcun dolce lume di eloquenza acceso».
Anche Benvenuto da Imola chiama nude le sue parole e lo commenda per le gravi sentenze, ma non per lo stile.
Nasceva in Firenze un nuovo senso, il senso della forma.
A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i più diversi aspetti.
Dante da Maiano era un'eco de' trovatori, con la sua Nina siciliana.
Guittone, Brunetto, Orbiciani da Lucca erano poeti dotti, ma rozzi, come i bolognesi Onesto e Semprebene.
Ma già il culto della forma, l'amore del bello stile si sente in parecchi poeti.
Dino Frescobaldi, Rustico di Filippo, Guido Novello, Lapo Gianni, Cecco d'Ascoli sono il corteggio, nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti.
Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante Alighieri, legati insieme da un'amicizia che non si ruppe se non per morte.
Parvero le «nuove rime», e fu tale l'impressione ch'ei salì subito accanto a Cavalcanti.
Sembrò che avesse risolto il problema di esprimere le profondità della scienza in bella forma: ultimo segno a cui si mirava.
Perciò ebbe molta voga la sua canzone:
Donne, che avete intelletto d'amore;
e ancora più l'altra:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dante avea la stessa opinione.
Il dotto discepolo di Bologna mira poetando a divulgare la scienza, usando modi piani e aperti alla intelligenza comune.
Nella canzone, dove esorta la donna a dispregiare uomo che «da sè virtù fatta ha lontana», dice:
Ma perocchè il mio dire util vi sia,
discenderò del tutto
in parte ed in costrutto
più lieve, perchè men grave s'intenda;
chè rado sotto benda
parola oscura giugne allo 'ntelletto;
par che parlar con voi si vuole aperto.
E quando pure è costretto a celare sotto benda i suoi concetti aggiunge un comento in prosa e dichiara egli medesimo la sua dottrina.
Tale è il comento che fa alla canzone:
Voi che intendendo il terzo ciel movete;
e parendogli che senza quel comento la canzone presa in se stessa rimanga fuori dell'intelligenza volgare, finisce così:
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragion intendan bene,
tanto lor parli faticosa e forte:
onde se per ventura egli addiviene
che tu dinanzi da persone vadi,
che non ti paian d'essa bene accorte;
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella:
- Ponete mente almen com'io son bella.
-
C'era dunque nell'intenzione di Dante di bandire i veri della scienza ora nella forma diretta del ragionamento, ora sotto il velo dell'allegoria, ma in modo che la poesia quando anche non fosse compresa da' più, avesse un valore in se stessa, fosse bella e dilettasse.
Era la teoria della nuova scuola nella sua più alta espressione, una coscienza artistica più chiara e più sviluppata.
Il rispetto della verità scientifica è tale, che Dante si domanda come, essendo Amore non sostanza, ma accidente, possa egli farlo ridere e parlare, come fosse persona.
E adduce a sua difesa che i rimatori, che fanno versi in volgare, hanno gli stessi privilegi de' poeti, nome che dà a' latini, i quali, come Virgilio, Ovidio, Lucano, Orazio, diedero moto e parole alle cose inanimate: il che egli chiama «rimare sotto vesta di figura o di colore rettorico», qualificando rimatori stolti quelli che domandati non sapessero «dinudare le loro parole da cotal vesta».
Onde si vede che Dante e Cavalcanti, ch'egli qui chiama il suo primo amico, spregiavano e questi rimatori stolti che usavano rettorica vuota di contenuto, e quelli che ti davano un contenuto scientifico nudo, senza rettorica.
Qui è tutta la nuova scuola poetica, rimasa per molti secoli l'ultima parola della critica italiana: ciò che il Tasso chiamò «condire il vero in molli versi».
Con queste teorie, con queste abitudini della mente, parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume di rettorica, concetti coloriti.
Di tal natura è la canzone sulla gentilezza o nobiltà:
Le dolci rime d'amor ch'i' solìa
e l'altra:
Amor, tu vedi ben che questa donna,
dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta gli effetti che sul suo animo produce lo studio della filosofia.
I fenomeni dell'amore e della natura sono spiegati scientificamente, più che rappresentati, com'è l'inverno nella canzone:
Io son venuto al punto della rota,
e come è l'amore nella canzone:
Amor che muovi tua virtù dal cielo,
e come è la bellezza nella canzone:
Amor ci è nella mente mi ragiona.
Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Larghezza, Temperanza, germane d'amore, che cacciate dal mondo vanno mendicando.
Ciascuna par dolente e sbigottita
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca,
e cui virtute e nobiltà non vale.
Tempo fu già, nel quale
secondo il lor parlar, furon dilette
Or sono a tutti in ira ed in non cale.
Qui il poeta non ragiona, ma narra e rappresenta.
Il concetto scientifico è vinto dalla vivacità della rappresentazione e dalla elevatezza del sentimento.
Il colore rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza.
In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra forza e vivacità e ricchezza di concetti e di colori che i due Guidi.
Egli fu il suo proprio comentatore, avendo nella Vita nuova e nel Convito spiegata l'occasione, il concetto, la forma delle sue poesie.
E quanto alla parte tecnica, all'uso della lingua, del verso e della rima, nel suo libro De vulgari eloquio mostra che ne intendeva tutt'i più riposti artifici.
I contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto esempio della loro scuola poetica: la maggior dottrina sotto la più leggiadra veste rettorica.
Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s'era ita finora elaborando, con maggior varietà e con più chiara coscienza.
Il dio di questo mondo è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni della giovanezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo filosofico.
Amore non può operare che ne' cuori gentili: perciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi.
Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da virtù.
E però le virtù sono suore d'Amore e fanno star lucente il suo dardo finchè sono onorate in terra.
Ma la virtù è in pochi, e l'amore è perciò «di pochi vivanda».
L'obbietto dell'amore è la bellezza, non il «bello di fuori», le parti nude, ma il «dolce pomo», concesso solo a chi è amico di virtù.
La bellezza non si mostra se non a chi la intende: amore è chiamato dagli antichi «intendanza», e Dante non dice «sentire amore», ma «avere intelletto d'amore».
Ad appagare l'amore basta il vedere, la contemplazione.
Vedere è amore, amore è intendere.
E chi la vede e non se n'innamora
d'amor non averà mai intelletto.
Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dio move l'universo pensando:
costei pensò chi mosse l'universo.
Nè altro è amore nell'uomo che «nova intelligenza che lo tira su», lo avvicina alla prima intelligenza.
La donna esemplare della bellezza è «nobile intelletto»:
...
O nobile intelletto
oggi fu l'anno che nel ciel partisti.
La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella faccia della scienza, che invaghisce l'uomo e sveglia in lui nova intelligenza lo fa intendere.
La donna dunque è la scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella apparenza: e questo è la bellezza il dolce pomo consentito a pochi.
Intendere è amore, e amore è operare come s'intende; perciò filosofia è «uso amoroso di sapienza», scienza divenuta azione mediante l'amore.
La virtù non è altro che sapienza, vivere secondo i dettati della scienza.
Perciò l'amante è chiamato saggio; e la donna è saggia prima di esser bella:
Beltade appare in saggia donna pui
che piace agli occhi...
La beltà non è altro che l'apparenza della saggezza, sì che piaccia e innamori di sè.
Con questo misticismo filosofico si accordava il misticismo religioso, secondo il quale il corpo è il velo dello spirito, e la bellezza è la luce della verità, la faccia di Dio, somma intelligenza, contemplazione degli angioli e dei santi.
Dio, gli angioli, il paradiso rappresentano anche qui la loro parte.
Teologia e filosofia si danno la mano.
È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella sua integrità e con così perfetta coscienza.
È l'idealismo di quel tempo, con la sua forma naturale, l'allegoria.
Aggiungi l'opera della immaginazione, che dà alle figure tanta vivacità di colorito ed hai l'ultimo segno di perfezione che si poteva allora desiderare.
III
LA LIRICA DI DANTE
Fin qui giunge la coscienza di Dante.
Se gli domandi più in là, ti risponde come Raffaello: «Noto, quando Amor mi spira», ubbidisco all'ispirazione.
E appunto, se vogliamo trovar Dante, dobbiamo cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella spontaneità della sua ispirazione.
Innanzi tutto, Dante ha la serietà e la sincerità dell'ispirazione.
Chi legge la Vita nuova, non può mettere in dubbio la sua sincerità.
Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e di cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio, di poeti e di rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro, ci entra come colorito e ne forma il lato grottesco.
Sotto l'abito dello studente ci è un cuore puro e nuovo, tutto aperto alle impressioni, facile alle adorazioni e alle disperazioni, ed una fervida immaginazione che lo tiene alto da terra e vagabondo nel regno de' fantasmi.
L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che nel cuore.
Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a ideale celeste, che a realtà distinta e che produca effetti propri.
Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di questo amore.
Beatrice morì angiolo, prima che fosse donna, e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un sospiro.
Appunto perchè Beatrice ha così poca realtà e personalità, esiste più nella mente di Dante che fuori di quella, ed ivi coesiste e si confonde con l'ideale del trovatore, l'ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza fatta con perfetta buona fede, e perciò grottesca certo, ma non falsa e non convenzionale.
Queste che presso gli altri sono astrattezze scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo del quadro, sono non il quadro, ma contorni e accessorii.
Il quadro è Beatrice, non così reale che tiri e chiuda in sè l'amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione.
Non ci è proprio l'amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere se stesso in un sonetto o in una canzone.
Quando il suo animo è tranquillo, fa capolino il dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo è veracemente commosso, Dante gitta via il suo berretto di dottore e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce a l'ispirazione.
Allora è Beatrice, solo Beatrice, che occupa la sua mente, e le sue impressioni, appunto perchè immediate e sincere, sono quasi pure di ogni mescolanza.
Il suo amore si rivela schietto come lo sente, più adorazione e ammirazione che appassionato amore di donna.
Tale è il sonetto
Tanto gentile e tanto onesta pare.
E tale è la ballata, ove con la grazia e l'ingenuità di una fanciulla scesa pur ora di cielo così parla Beatrice:
Io mi son pergoletta bella e nova,
e son venuta per mostrarmi a vui
dalle bellezze e loco, dond'io fui.
Io fui del cielo e tornerovvi ancora,
per dar della mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora,
d'amor non averà mai intelletto...
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute:
le mie bellezze sono al mondo nuove,
perocchè di lassù mi son venute.
Questo non è allegoria, e non è concetto scientifico; o per dir meglio, ci è l'allegoria e ci è il concetto scientifico, ma profondato ed obbliato in questa creatura, perfettamente realizzato, conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all'immaginazione giovanile.
Se nell'espressione di questa ingenua ammirazione trovi qualche reminiscenza di repertorio e qualche preoccupazione scientifica, senti un accento di verità puro ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa di questa lirica.
Perchè infine questa breve storia d'amore ha rari intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice, il suo dolore, il presentimento della sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro, il motivo tragico della poesia.
Finchè Beatrice vive, è un secreto del cuore che il poeta s'industria con ogni più sottile arte di custodire; la storia è poco interessante, intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni: ma quando quell'ideale della giovanezza minaccia di scomparire, quando scompare, al poeta manca con quello il fondamento della sua vita, e si sente solo e si sente morire insieme con quello.
Ne nasce una situazione nuova nella storia della nostra poesia: l'amore appena nato, simile ancora a' primi fuggevoli sogni della giovanezza, che acquista la sua realtà presso alla tomba ed oltre la tomba.
L'amore si rivela nella morte.
Là perde quell'aria fattizia e convenzionale, che gli veniva da' trovatori e dalla scienza.
Là non è più concetto, nè allegoria, ma è sentimento e fantasia.
Quell'amore che in vita della donna non si è potuto ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta e pura espressione, ora che Beatrice muore.
A questa situazione si rannoda la parte più eletta e poetica di questa lirica.
Poi vengono sentimenti più temperati: il poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice, ita nel cielo, diviene la Verità, la cara immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia della Sapienza.
Non hai più la Vita nuova, hai il Convito.
L'amore non è più un sentimento individuale, ma è il principio della vita divina e umana.
Beatrice nella sua gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo, il dolce nome che il poeta dà al suo nuovo amore, alla Filosofia.
Ma la filosofia non è in Dante astratta scienza: è Sapienza, cioè a dire pratica della vita.
Con che orgoglio si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù, che ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue, e ti dà la vera nobiltà, che ti viene da te e non dagli altri.
Intendere è per lui il principio del fare; e la forza che dà attività all'intelletto ed efficacia alla volontà è l'amore.
In questa triade è l'unità della vita: l'uno non può star senza l'altro.
Or tutto questo in Dante non è mera speculazione, nè vanità scientifica; ma è vero amore, ma è un sentimento morale così profondo ed efficace, come è la fede ne' credenti.
La filosofia investe tutto l'uomo, e si addentra in tutti gli aspetti della vita.
Questa serietà e sincerità di sentimento fa penetrare fra tante sottili e scolastiche speculazioni una elevatezza morale, tanto più poetica, quanto meno espressa, ma che si sente nel tono, nel colorito, nello stile.
Tale è la sublime risposta di Amore alle sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta in sè medesimo:
L'esilio che m'è dato onor mi tegno;
e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria, quanta è nella canzone sulla vera gentilezza.
La quale elevatezza morale non è disgiunta in lui da un certo orgoglio direi aristocratico del sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla sapienza: così alto ha collocato l'ideale della scienza e della virtù:
...
elli son quasi dèi
que' ch'han tal grazia fuor di tutt'i rei;
chè solo Iddio all'anima la dona.
Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini, «bestie che somigliano uomo.
E dove non è virtù, non è amore, e non dovrebbe esser bellezza: onde esorta le donne a partirla da loro:
Chè la beltà ch'Amore in voi consente
a virtù solamente
formata fu dal suo decreto antico
contra lo qual fallate.
Io dico a voi che siete innamorate,
che se beltate a voi
fu data e virtù a noi,
ed a costui di due potere un fare,
voi non dovreste amare,
ma coprir quanto di beltà v'è dato
poichè non è virtù, ch'era suo segno.
Lasso! A che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
sarebbe in donna di ragion lodato
partir da sè beltà per suo comiato.
Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto dell'amore, che fa uno di due, unisce bellezza e virtù.
Ma questo concetto è per Dante cosa vivente, è l'anima del mondo, l'unità della vita.
E poichè vede bellezza, e non trova virtù, sente nella vita una scissura, una discordia, che lo move a sdegno.
Indi quel movimento d'immaginazione così nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar poco un atto di «bel disdegno», per il quale dica: - Poichè nell'uomo non è virtù, cesso di esser bella, cesso di amare.
- Dante si crede obbligato ad argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui è il suo torto, qui è la forma che lo certifica di quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel concetto e la realtà: «Lasso! a che dicer vegno?».
Il poeta sente la vanità de' suoi desidèri e che il mondo andrà sempre a quel modo.
Come l'amore si afferma nella morte, così la filosofia si afferma nella sua morte, cioè nella sua contraddizione con la vita.
Qui trovi un sentimento chiaro e vivo dell'unità della vita, fondata nella concordia dell'intendere e dell'atto o, come si direbbe oggi, dell'ideale e del reale, e insieme il dolore della scissura, che mette il poeta in uno stato di ribellione contro l'uomo «caduto in servo di signore», già signore di sè, ora servo delle sue inclinazioni animali.
Ma il sentimento di questa contraddizione non uccide l'entusiasmo e la fede, come ne' poeti moderni: l'anima del poeta è ancora giovane, piena di una fede robusta, che il disinganno nobilita e fortifica; e però il dolore del disaccordo non lo conduce alla negazione della filosofia, anzi alla sua glorificazione, ad un più ardente amore della derelitta, fiero di possederla e amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio tra la gregge degli uomini.
Adunque, il primo carattere di questo mondo lirico è la sua verità psicologica.
Se c'è negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale, il fondo è vero, è la sincera espressione di quello che si passa nell'animo del poeta.
Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente.
La vita è la filosofia, la verità realizzata; e la poesia è la voce e la faccia della verità.
Amico della filosofia, con orgoglio non minore si chiama poeta, il banditore del vero.
Filosofo e poeta, si sente come investito di una missione, di una specie di apostolato laicale, e parla dal tripode alla moltitudine, con l'autorità e la sicurezza di chi possiede la verità.
Ma il sentimento che move questo mondo lirico così serio e sincero non rimane puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e contingente appena si mostra: esso è l'accento lirico dell'umanità a quel tempo, la sua forma di essere, di credere, di sentire e di esprimersi.
Quell'angeletta scesa dal cielo, che non giunge ad esser donna, breve apparizione, che ritorna al cielo in bianca nuvoletta, seguita dagli angioli che le cantano «Osanna», ma rimasa in terra, come luce della verità, della quale l'amante si fa apostolo, è tutto il romanzo religioso e filosofico di quell'età: è la vita che ha la sua verità nell'altro mondo e che qui non è che Beatrice, fenomeno, apparenza, velo della eterna verità.
Se la terra è un luogo di passaggio e di prova, la poesia è al di là della terra, nel regno della verità.
Beatrice comincia a vivere quando muore.
Un mondo così mistico e spiritualista nel concetto, così dottrinale nella forma, se può essere allegoricamente rappresentato dalla scultura, se trova nella pittura e nella musica le sue movenze, le sue sfumature, il suo indefinito, è difficilissimo a rappresentare con la parola.
Perchè la parola è analisi, distinzione, precisione, e non può rappresentare che un contenuto ben determinato, e ne' suoi momenti successivi, più che nella sua unità.
Analizzate questo mondo, e vi svanisce dinanzi, come realtà o vita: l'analisi vi porta irresistibilmente al discorso, al ragionamento, alla forma dottrinale, che è la negazione dell'arte.
Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo mondo è la scienza, come concetto e come forma, la pura scienza, non penetrata ancora nella vita e divenuta fatto.
È vero che per Dante la scienza dee essere non astratto pensiero, ma realtà.
Se non che il male è appunto in questo «dee essere».
Perchè, prendendo a fondamento non quello che è, ma quello che dee essere, la sua poesia è ragionamento, esortazione, non rappresentazione, se non in forma allegorica, che aggiunge una nuova difficoltà ad un contenuto così in se stesso astruso e scientifico.
I contemporanei sentirono la difficoltà e credettero vincerla con la rettorica, ornando quei concetti di vaghi fiori.
Anche Dante credeva rendere poetica la filosofia, dandole una bella faccia.
Certo, questo era un progresso; ma siamo ancora al limitare dell'arte, nel regno dell'immaginazione.
Guinicelli, Cino, Cavalcanti non possono attirare la nostra attenzione, e neppur Dante, ancorchè dotato di una immaginazione così potente.
Anzi egli riesce meno di questi suoi predecessori nell'arte dell'ornare e del colorire, perchè quelli vi pongono il massimo studio, non essendo il mondo da essi rappresentato che un gioco d'immaginazione, dove a Dante quel mondo è lui stesso, parte del suo essere, e che ha la sua importanza in se stesso: ond'egli è sobrio, severo, schivo del «gradire», e spesso nudo sino alla rozzezza.
E non corre agli ornamenti, come mezzo rettorico e a fine di ornare e di lisciare, ma per rendere palpabile ed evidente il suo concetto.
Ma Dante vince in gran parte la difficoltà appunto per questo, che quel mondo è vita della sua vita e anima della sua anima.
Esso opera non pure sulla sua mente, ma su tutto il suo essere.
Questa sua fede assoluta in quel mondo non è però sufficiente a farne un poeta.
La fede è la base, il sottinteso, la condizione preliminare e necessaria della poesia, ma non è la poesia.
Il poeta dee essere un credente, ma non ogni credente è poeta; può essere un santo, un apostolo, un filosofo.
Dante non fu il santo, nè il filosofo del suo mondo: fu il poeta.
La fede svegliò le mirabili facoltà poetiche che avea sortito da natura.
Dante ha in supremo grado la principale facoltà di un poeta, la fantasia, che non si vuol confondere con l'immaginazione, facoltà molto inferiore.
L'immaginazione ti dà l'ornato e il colore, liscia la superficie: il suo maggiore sforzo è di offrirti un simulacro di vita nell'allegoria e nella personificazione.
La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea, è la vera musa, il «deus in nobis», che possiede il secreto della vita, e te la coglie a volo anche nelle sue più fuggevoli apparizioni, e te ne dà l'impressione e il sentimento.
L'immaginazione è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: «pulcra species, sed cerebrum non habet»: l'immagine è il fine ultimo in cui si adagia.
La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non come espressione e parola della vita interiore.
L'immaginazione è analisi, e più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le fugge il sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita.
La fantasia è sintesi: mira all'essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni e i sentimenti di persona viva e te ne porge l'immagine.
La creatura dell'immaginazione è l'immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il «fantasma», figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito.
L'immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia e alla prosa, a' sommi e a' mediocri; la fantasia è essenzialmente organica, ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.
Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo secolo, così mistico e spirituale, resiste a tutti gli sforzi dell'immaginazione.
In balìa di questa esso non è che un mondo rettorico e artificiale, di bella apparenza, ma freddo e astratto nel fondo.
Tale è il mondo di Guinicelli, di Cavalcanti e di Cino.
L'organo naturale di questo mondo è la fantasia, e la sua forma è il fantasma.
Il suo primo e solo poeta è Dante, perchè Dante ha l'istrumento atto a generarlo, è la prima fantasia del mondo moderno.
Dante non accarezza l'immagine, non vi s'indugia sopra, se non quando essa è lume che come paragone dia una faccia al suo concetto.
Sia d'esempio la sua canzone all'Amore:
Amor che movi tua virtù dal cielo
come 'l sol lo splendore,
chè là s'apprende più lo suo valore,
dove più nobiltà suo raggio trova...
Ed hammi in foco acceso,
come acqua per chiarezza foco accende...
È sua beltà del tuo valor conforto,
in quanto giudicar si puote effetto
sopra degno suggetto,
in guisa che al sol raggio di foco;
lo qual non dà a lui, nè to' virtute;
ma fallo in alto loco
nell'effetto parer di più salute.
Queste immagini non sono il concetto esso medesimo, ma paragoni atti a lumeggiarlo.
È la maniera del Guinicelli.
Costui se ne pavoneggia, e vi spiega un lusso e una pompa che passa il segno e affoga il concetto nell'immagine.
Dante è più severo, perchè il concetto non gli è indifferente e non te ne distrae, anzi per troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e irsuto com'è da natura.
Ma egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il suo romanzo, la sua storia intima.
Il concetto allora, non che abbia bisogno di essere illuminato da una immagine tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo l'immagine.
In quest'opera di trasformazione si rivela la fantasia.
Pigmalione non è più una statua di marmo; ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona.
La donna astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi alla filosofia un'idea platonica, l'esemplare di ogni bellezza e di ogni virtù, eccola qui persona viva: è Beatrice, quell'angeletta scesa dal cielo, che annunzia alle genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza:
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute.
Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi che il concetto sia come seppellito e dimenticato nell'immagine (miracolo dell'arte greca), nè questo avviene per manco di calore e di fantasia.
Dante è così immedesimato con quel suo mondo intellettuale e mistico, che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può materializzarlo.
In questa dissonanza può capitare l'artista a cui il contenuto sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello, non il poeta che ha un culto per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il suo limite.
Dante non può paganizzare quel mondo dello spirito, appunto perchè esso è il suo spirito, il suo mondo, il suo modo di sentire e di concepire.
La sua immagine è ricordevole e trascendente, e appena abbozzata è già scorporata, fatta impressione e sentimento.
Non descrive: non può fissare e determinare l'immagine, come quella a cui l'intelletto non giunge.
Gli sta innanzi un non so che, luce intellettuale, superiore all'espressione, visibile non in se stessa ma nelle sue impressioni.
Perciò esprime non quello che ella è, ma quello che pare.
Ciò che è più chiaro innanzi alla sua immaginazione, non è il corpo, ma lo spirito, non è l'immagine, ma il suo «parere», l'impressione:
Quel ch'ella par, quando un poco sorride,
non si può dicer, nè tenere a mente:
sì è novo miracolo e gentile.
...
.....
Ed avea seco umiltà sì verace,
che parea che dicesse: - Io sono in pace.
-
E par che dalla sua labbia si mova
...
.....
uno spirto soave e pien d'amore,
che va dicendo all'anima: - Sospira.
-
Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che esprimere impressioni.
Beatrice non la vedi mai.
Ella è come Dio, nel santuario.
Non la vedi, ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di lei.
Ella piange la morte del padre.
Lo sguardo del poeta non è là.
Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che gli sono intorno, che la udirono, e non osarono di guardarla:
che qual l'avesse voluta mirare,
saria dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
...
.
ogni lingua divien tremando muta
e gli occhi non l'ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun atto, non restano che due immagini: del nascere e del morire, l'angeletta scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta.
Dante non vede lei morire.
La vede in sogno, e già morta, e quando le donne la coprian di un velo.
Ma se della morte non ci è l'immagine, ce n'è il vivo sentimento:
...
Morte, assai dolce ti tegno:
tu dèi omai esser cosa gentile,
poi che tu se' nella mia donna stata,
e dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi, ch' è sì desideroso vegno
d'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
Vieni, chè 'l cor ti chiede.
L'universo muore con Beatrice:
Ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere appoco appoco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger egli ed ella;
cader gli augelli volando per l'äre,
e la terra tremare:
e uom m'apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua ch'era sì bella.
«Sì bella!» Questa è l'immagine.
Gli basta chiamarla bella, chiamarla Beatrice.
Incontra per via peregrini, essi soli indifferenti in tanto dolore:
Chè non piangete, quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente?
Se voi restate per volere udire,
certo lo core de' sospir mi dice
che lagrimando ne uscirete pui.
Ella ha perduta la sua Beatrice;
e le parole ch'uom di lei può dire,
hanno virtù di far piangere altrui.
La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli altri, in quello che fa sentire.
L'immagine è immediatamente trasformata in sentimento.
E questa immagine spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama il fantasma, esistente più nella immaginazione del lettore che nella espressione del poeta.
Ciascuno si fa una Beatrice a sua maniera e secondo le forze del suo spirito.
Siamo nel regno musicale dell'indefinito.
Beatrice è un rêve, un sogno, una visione.
La stessa sua morte è un sogno, o, come dice Dante, una fantasia, accompagnata di particolari patetici e drammatici, perchè il poeta è vittima de' suoi fantasmi, e vive entro a quel mondo e ne sente e riflette tutte le impressioni.
Beatrice muore, perchè «esta vita noiosa»
non era degna di sì gentil cosa;
e tornata gloriosa nel cielo, diviene «spiritual bellezza grande» che spande per lo cielo luce d'amore e fa la maraviglia degli angioli.
Questa bellezza spirituale, o, come dice Dante altrove, «luce intellettual, piena d'amore», è il mondo lirico realizzato nell'altra vita, dove il fantasma sparisce e la verità ti si porge nel suo splendore intellettuale, pura intelligenza, bellezza spirituale, scorporata.
Il fantasma, quella mezza realtà a contorni vaghi e indecisi, più visibile nelle impressioni e ne' sentimenti che nelle immagini, non era che il presentimento, il velo, la forma preparatoria di questo regno del puro spirito; era l'ombra dello spirito.
Ora la luce intellettuale dissipa ogni ombra: non hai niente più d'indeciso, niente più di corporeo: sei nel regno della filosofia, dove tutto è precisione e dogmatismo, tutto è posto con chiarezza, e discorso a modo degli scolastici.
E poichè la filosofia non è potuta divenire virtù, poichè in terra essa è proscritta, rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale.
L'impressione ultima è che la terra è il regno delle ombre e de' fantasmi, la selva dell'ignoranza e del vizio, la tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore, e che la realtà, l'eterna e Divina Commedia, è nell'altro mondo.
Nè prima, nè poi fu immaginato un mondo lirico così vasto nel suo ordito, così profondo nella sua concezione, così coerente nelle sue parti, così armonico nelle sue forme, così personale e a un tempo così umano.
Esso è l'accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle sue visioni, la voce dell'umanità a quel tempo.
Il mistero di questo mondo religioso-filosofico è la Morte «gentile», come passaggio dall'ombra alla luce, dal fantasma alla realtà, dalla tragedia alla commedia, o, come dice Dante, alla pace.
La morte è il principio della vita, è la trasfigurazione.
Perciò il vero centro di questa lirica, la sua vera voce poetica è il sogno della morte di Beatrice, là dove sono in presenza questa vita e l'altra, e mentre il sole piange e la terra trema, gli angioli cantano «Osanna», e Beatrice par che dica: - Io sono in pace -.
Ci è la terra co' suoi dolori e il cielo con le sue estasi, il mondo lirico nel momento misterioso della sua unità.
Non credo che la lirica del medio evo abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante, di una rara perfezione per chiarezza d'intuizione, per fusione di tinte, per profondità di sentimento, per correzione di condotta e di disegno, per semplicità e verità di espressione.
Ma se questo mondo logicamente è uno e concorde, esteticamente è scisso, perchè non è insieme terra e cielo, ma è ora l'uno, ora l'altro, imperfetti ambidue.
Il fantasma è spesso simile più ad un'allegoria che ad una realtà, ed è stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia.
La realtà è pura scienza, in forma scolastica.
Si può dire che quando in questo mondo comincia la realtà, allora appunto muore la poesia, s'inaridisce la fantasia e il sentimento.
È un difetto organico di questo mondo, che resiste a tutti gli sforzi dell'arte, resiste a Dante.
D'altra parte, Dante vi si mostra più poeta che artista.
Quel mondo è per lui cosa troppo seria, perchè possa contemplarlo col sereno istinto dell'arte.
Poco a lui importa che la superficie sia scabra, purchè ci sia sotto qualche cosa che si mova.
Perciò è sempre evidente, spesso arido e rozzo.
L'Italia ha già il suo poeta; non ha ancora il suo artista.
IV
LA PROSA
Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione del volgare, non minore opera vi diedero i bei favellatori, o favoleggiatori.
«Favella» viene da «fabella», favoletta, e perciò le lingue moderne furon dette «favelle», lingue de' favoleggiatori.
Costoro nelle corti e ne' castelli raccontavano novelle, come i rimatori poetavano d'Amore.
Così gl'inizi della nostra lingua furono
versi d'amore e prose da romanzo.
Come i versi, così le prose aveano già tutto un repertorio venuto dal di fuori.
I rimatori attingevano nel codice d'Amore; i novellatori o favellatori attingevano ne' romanzi della Tavola rotonda o di Carlomagno.
Il cavaliere errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.
Questa letteratura non produsse altro che traduzioni come sono i Conti di antichi cavalieri, la Tavola rotonda e i Reali di Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il re Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno, Orlando erano gli eroi dell'immaginazione popolare.
Oggi ancora i cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di fatti maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo.
Anche la storia romana prese questa forma.
Un codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa, ed è la versione del Giulio Cesare, romanzo in versi rimati di Jacques de Forest.
La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca.
Cicerone, «mastro di rettorica» e «buono chierico», così comincia una sua aringa a Pompeo: «Li re e conti e baroni e l'altro popolo ti richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio».
E non è maraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita cavalleresca.
Si leggono non senza diletto i Diurnali, o come oggi si direbbe, giornali di Matteo Spinelli, la più antica cronaca italiana, non solo per la semplicità e naturalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la vaghezza de' fattarelli, che pare un favellatore e non uno storico.
Di maggior mole è la Storia di Firenze di Ricordano Malespini, che dagli inizi della città si stende sino al 1282.
Quando narra fatti contemporanei, è testimonio veridico ed esatto, nè la sua fede guelfa lo induce ad alterare i fatti.
Ma quando esce da' suoi tempi, ti trovi nell'infanzia della coltura.
Anacronismi ed errori geografici sono accoppiati con la più grossolana credulità nelle favole più assurde, improntate di tutto il maraviglioso de' romanzi cavallereschi.
Dice che la chiesa di san Pietro fu fondata a' tempi di Ottaviano, quando san Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di Pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica di Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di san Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da «pisare» o «pesare», Lucca da «luce», e Pistoia da «pistolenzia»; narra gli amori di Catilina con la regina Belisea, moglie del re Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Belisea, e pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.
In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta, desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito: non ci è ancora l'«io», la personalità dello scrittore.
Come la poesia, così la prosa cavalleresca poco attecchì in Italia.
Non solo non ci fu nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione.
Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa aridità e indifferenza, che senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte di Manfredi, o di Bondelmonte.
Come l'uomo inculto parla assai meglio che non scrive, è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con una vivacità d'immaginazione e di affetto, che non trovi ne' racconti e nelle cronache.
Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi e appunti, anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si danno a' giovinetti per esercizio di scrivere.
Il libro fu detto «fiore del parlar gentile»; e veramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più tardi.
Ma se la lingua è assai più schietta e moderna che non è ne' Conti di antichi cavalieri e ne' romanzi di quel tempo, è in tutti la stessa aridità.
Ci è il fatto ne' suoi punti essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli danno colore, e senza le impressioni e i sentimenti che gli danno interesse.
Pure, quando il fatto è semplice e breve, e non richiede arte, basta a conseguire l'effetto quella naturalezza e quel candore pieno di verità che è nel racconto.
Eccone un esempio:
"Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che quando era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade.
Quando lo re Currado fallava, li maestri che gli eran dati a guardia, non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui.
E quei dicea: - Perchè non battete me, chè mia è la colpa? - Diceano li maestri: - Perchè tu sei nostro signore.
Ma noi battiamo costoro per te: onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe.
- E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietà di coloro."
Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi, e non divenne un lavoro d'arte, la ragione è che una materia tanto poetica si mostrò quando lingua e arte erano ancora nell'infanzia, e rimasa fuori della vita e dei costumi riuscì un frivolo passatempo, come fu della poesia cavalleresca.
Trattata da illetterati, questa materia non potè svilupparsi e formarsi, sopravvenuto in breve tempo il risorgimento de' classici e il rifiorire delle scienze, che trasse a sè l'animo delle classi colte.
Quantunque «chierico» significasse ancora uomo dotto, e da' pergami e dalle cattedre si parlasse ancora latino, ed in latino si scrivessero le opere scientifiche, già il laicato usciva dalle università vigoroso ed istrutto, con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza.
Se il chierico tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spirito laicale tendeva a diffonderla, a volgarizzarla, a farla patrimonio comune.
La libertà municipale, aprendo la vita pubblica a tutte le classi, costituiva in modo stabile un laicato colto e operoso, a cui non bastava più il latino, e che, formato nelle scuole, superbo della sua scienza, in quotidiana comunione con le altre classi, aveva già un complesso d'idee comuni, che costituivano la base della coltura.
Erano nuove forze che entravano in azione e davano un indirizzo proprio alla vita italiana.
A quella gente quei romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di oziosi, spasso di plebe.
Le idee religiose, così come venivano bandite dal pergamo, non doveano aver molta grazia a' loro occhi; quella semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco gradire a quegli uomini, che tutto codificavano e sillogizzavano.
Certo non fu perciò estinta la razza de' novellatori e de' predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne allontanò, e i Conti de' cavalieri e le Vite de' santi rimasero occupazione di uomini semplici e inculti, senza eco e senza sviluppo.
La società mirava a divulgare la scienza, a diffondere le utili cognizioni, a far sua tutta la cultura passata, profana e sacra.
I suoi eroi furono Virgilio, Ovidio, Livio, Cicerone, Aristotile, Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio, santo Agostino e san Tommaso.
Il volgare divenne l'istrumento naturale di questa coltura.
I poeti bandivano la scienza in verso; i prosatori traslatavano dal latino gli scrittori classici, i moralisti e i filosofi.
Era un movimento di erudizione e di assimilazione dell'antichità, che durò parecchi secoli, e che ebbe una grande azione sulla nostra letteratura.
La materia, a cui più volentieri si volgevano i traduttori, era l'etica e la rettorica, l'arte del ben fare e l'arte del ben dire.
Una delle più antiche versioni è il Libro di Cato o Volgarizzamento del Libro de' costumi, opera scritta in distici latini e divisa in quattro libri.
L'opera ebbe tanta voga, che se ne fecero tre versioni, ed è spesso citata dagli scrittori.
Nè è maraviglia, perchè ivi la morale è nella sua forma più popolana, essendo ciascuna regola del ben vivere chiusa in un distico, a guisa di motto o proverbio o sentenza, facile a tenere in memoria.
Ecco un esempio:
Virtutem primam esse puto, compescere linguam:
proximus ille Deo est Qui scit ratione tacere.
Ed è tradotto egregiamente così:
Costringere la lingua credo che sia la prima vertude:
quelli è prossimo di Dio, che sa tacere a ragione.
Esercizio utilissimo a' giovani sarebbe il raffronto delle tre versioni, che ti mostra la lingua ne' diversi stati della sua formazione.
La terza versione, pubblicata dal Manni, ha per compagna l'Etica di Aristotile e la Rettorica di Tullio.
Questa Rettorica di Tullio è il Fiore di rettorica, attribuito a frate Guidotto da Bologna, e da altri con più verisimiglianza a Bono Giamboni, e che comincia così: «Qui comincia la Rettorica nuova di Tullio, traslatata da grammatica in volgare per frate Guidotto da Bologna».
Che importanza avesse la rettorica, e quali miracoli potea produrre, si vede da queste parole del traduttore:
"Fu uno nobile e vertudioso uomo, cittadino nato di Capova del regno di Puglia, il quale era fatto abitante della nobile città di Roma, che avea nome Marco Tullio Cicerone, lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia di rettorica, la quale avanza tutte le altre scienzie per la bisogna di tutto giorno parlare nelle valenti cose, siccome in far leggi e piati civili e cherminali, e nelle cose cittadine, siccome in fare battaglie, ed ordinare schiere, e confortare cavalieri nelle vicende degl'imperii, regni e principati, e governare popoli e regni e cittadi e ville, e strane e diverse genti, come conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra."
Il libro è dedicato a re Manfredi, il quale vi potrà avere «sufficiente e adorno ammaestramento a dire in piuvico e in privato».
Accanto a Cicerone comparisce il grande poeta Virgilio, «il quale Virgilio si trasse tutto il costrutto dello intendimento della rettorica, e ne fece chiara dimostranza».
Il frate, cercando le «magne virtudi» di Cicerone, aggiunge: «Sì mi mosse talento di volere alquanti membri del Fiore di rettorica volgarizzare di latino in nostra lingua, siccome appartiene allo mestiere de' laici, volgarmente».
Onde pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei laici, scrivendo i chierici in latino.
Queste citazioni sono il ritratto del tempo.
Ci si vede la grande impressione che facea su quelle menti Virgilio e Cicerone, «d'arme maraviglioso cavaliere, franco di coraggio, armato di grande senno, fornito di scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le cose».
E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben dire in pubblico e in privato bastasse imparare le regole dell'etica e della rettorica.
Nè si recavano in volgare le opere solo dell'antichità, ma anche le contemporanee scritte in latino.
Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia, notaio pistoiese, de' Trattati di morale, dottissima opera di Albertano da Brescia, scritta in prigione.
Il primo trattato, Della dilezione di Dio e del prossimo e della forma della vita onesta, è composto l'anno 1238.
L'opera levò tal grido, che fu tradotta in francese e in inglese, e veramente ci è lì dentro raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all'onesto vivere, sacra e profana.
L'impulso fu tale che gli uomini più chiari si volsero a tradurre o compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina.
Ristoro di Arezzo scrivea sulla Composizione della terra; Cavalcanti scrivea una grammatica e una rettorica; ser Brunetto traduceva il trattato De inventione di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di Livio, e sotto nome di Fiore di filosofi e di molti savi raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora, Democrito, Socrate, Epicuro, Teofrasto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone.
Ecco i «fiori» di Plato:
"Plato fue grandissimo savio e cortese, in parole, e disse queste sentenzie:
In amistade, nè in fede non ricevere uomo folle: più leggermente si passa l'odio de' folli e de' malvagi, che la loro compagnia.
A neuno uomo ti fare troppo compagno.
L'uomo è cosa troppo singolare: non puote sofferire suo pare, de' suoi maggiori hae invidia, de' suoi minori hae disdegno, a' suoi iguali non leggeremente s'accorda.
Quelli sono pessimi e maliziosi nimici, che sono nella fronte allegri e nel cuore tristi."
Secondo la rettorica di quel tempo si diceva «fiore» quel raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto.
E si diceva anche «giardino», come spiegava Bono Giamboni nel suo Giardino di consolazione, versione del latino: «e chiamasi questo Giardino di consolazione, imperò che siccome nel giardino altri si consola e trova molti fiori e frutti, così in questa opera si trovano molti e begli detti, li quali l'anima del divoto leggitore indolcirà e consolerà».
In effetti questo bel libro, dov'è molta semplicità e grazia di dettato, è una descrizione de' vizi e delle virtù, con sopra ciascuna materia i detti de' savi e de' santi Padri, tanto che si può veramente dire dell'autore: «il più bel fior ne colse».
Ecco il capitolo Dell'Ebrietade:
«Ebrietade, secondo che dice santo Agostino, è vile sepoltura della ragione e furore della mente».
Anche dice: «La ebrietà è lusinghiere demonio, dolce veleno, soave peccato.
Anche dice: la ebrietà molti ne ha guasti, toglie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno, accende alla lussuria, mai non tiene segreto, induce a male parole.» Santo Basilio dice: «l'ebro, quando pensa bere, sì è beuto: come lo pesce che con grande desiderio inghiottisce l'esca nella sua gola e non sente l'amo; così l'ebro, bevendo il vino, riceve in sè nemico senza ragione.» E santo Paolo dice: «non t'inebriare di vino, imperò che di vino esce lussuria.»
Nè solo «fiore» o «giardino», ma si diceva pure «tesoro» o «convito», quasi mostra di ricche pietre preziose, o di elettissime vivande.
Brunetto, che scrisse il Fiore, avea già scritto il Tesoro, «in romanzo o lingua francesca», come «più dilettevole e più comune che tutti gli altri linguaggi», e voltato poi in volgare da Bono Giamboni.
Il Tesoro è il Cosmos di quel tempo, l'universalità della scienza come s'insegnava nelle scuole, la somma o il compendio del sapere, e per dirla con le parole di Brunetto, «un'arnia di mèle tratta di diversi fiori», un «estratto di tutt'i membri di filosofia in una somma brevemente».
Prende capo dalla filosofia, siccome «radice di cui crescono tutte le scienze», ed è descriz
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