STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, di Francesco De Sanctis - pagina 10
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È la maniera del Guinicelli.
Costui se ne pavoneggia, e vi spiega un lusso e una pompa che passa il segno e affoga il concetto nell'immagine.
Dante è più severo, perchè il concetto non gli è indifferente e non te ne distrae, anzi per troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e irsuto com'è da natura.
Ma egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il suo romanzo, la sua storia intima.
Il concetto allora, non che abbia bisogno di essere illuminato da una immagine tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo l'immagine.
In quest'opera di trasformazione si rivela la fantasia.
Pigmalione non è più una statua di marmo; ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona.
La donna astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi alla filosofia un'idea platonica, l'esemplare di ogni bellezza e di ogni virtù, eccola qui persona viva: è Beatrice, quell'angeletta scesa dal cielo, che annunzia alle genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza:
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute.
Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi che il concetto sia come seppellito e dimenticato nell'immagine (miracolo dell'arte greca), nè questo avviene per manco di calore e di fantasia.
Dante è così immedesimato con quel suo mondo intellettuale e mistico, che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può materializzarlo.
In questa dissonanza può capitare l'artista a cui il contenuto sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello, non il poeta che ha un culto per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il suo limite.
Dante non può paganizzare quel mondo dello spirito, appunto perchè esso è il suo spirito, il suo mondo, il suo modo di sentire e di concepire.
La sua immagine è ricordevole e trascendente, e appena abbozzata è già scorporata, fatta impressione e sentimento.
Non descrive: non può fissare e determinare l'immagine, come quella a cui l'intelletto non giunge.
Gli sta innanzi un non so che, luce intellettuale, superiore all'espressione, visibile non in se stessa ma nelle sue impressioni.
Perciò esprime non quello che ella è, ma quello che pare.
Ciò che è più chiaro innanzi alla sua immaginazione, non è il corpo, ma lo spirito, non è l'immagine, ma il suo «parere», l'impressione:
Quel ch'ella par, quando un poco sorride,
non si può dicer, nè tenere a mente:
sì è novo miracolo e gentile.
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Ed avea seco umiltà sì verace,
che parea che dicesse: - Io sono in pace.
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E par che dalla sua labbia si mova
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uno spirto soave e pien d'amore,
che va dicendo all'anima: - Sospira.
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Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che esprimere impressioni.
Beatrice non la vedi mai.
Ella è come Dio, nel santuario.
Non la vedi, ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di lei.
Ella piange la morte del padre.
Lo sguardo del poeta non è là.
Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che gli sono intorno, che la udirono, e non osarono di guardarla:
che qual l'avesse voluta mirare,
saria dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
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ogni lingua divien tremando muta
e gli occhi non l'ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun atto, non restano che due immagini: del nascere e del morire, l'angeletta scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta.
Dante non vede lei morire.
La vede in sogno, e già morta, e quando le donne la coprian di un velo.
Ma se della morte non ci è l'immagine, ce n'è il vivo sentimento:
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Morte, assai dolce ti tegno:
tu dèi omai esser cosa gentile,
poi che tu se' nella mia donna stata,
e dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi, ch' è sì desideroso vegno
d'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
Vieni, chè 'l cor ti chiede.
L'universo muore con Beatrice:
Ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere appoco appoco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger egli ed ella;
cader gli augelli volando per l'äre,
e la terra tremare:
e uom m'apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua ch'era sì bella.
«Sì bella!» Questa è l'immagine.
Gli basta chiamarla bella, chiamarla Beatrice.
Incontra per via peregrini, essi soli indifferenti in tanto dolore:
Chè non piangete, quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente?
Se voi restate per volere udire,
certo lo core de' sospir mi dice
che lagrimando ne uscirete pui.
Ella ha perduta la sua Beatrice;
e le parole ch'uom di lei può dire,
hanno virtù di far piangere altrui.
La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli altri, in quello che fa sentire.
L'immagine è immediatamente trasformata in sentimento.
E questa immagine spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama il fantasma, esistente più nella immaginazione del lettore che nella espressione del poeta.
Ciascuno si fa una Beatrice a sua maniera e secondo le forze del suo spirito.
Siamo nel regno musicale dell'indefinito.
Beatrice è un rêve, un sogno, una visione.
La stessa sua morte è un sogno, o, come dice Dante, una fantasia, accompagnata di particolari patetici e drammatici, perchè il poeta è vittima de' suoi fantasmi, e vive entro a quel mondo e ne sente e riflette tutte le impressioni.
Beatrice muore, perchè «esta vita noiosa»
non era degna di sì gentil cosa;
e tornata gloriosa nel cielo, diviene «spiritual bellezza grande» che spande per lo cielo luce d'amore e fa la maraviglia degli angioli.
Questa bellezza spirituale, o, come dice Dante altrove, «luce intellettual, piena d'amore», è il mondo lirico realizzato nell'altra vita, dove il fantasma sparisce e la verità ti si porge nel suo splendore intellettuale, pura intelligenza, bellezza spirituale, scorporata.
Il fantasma, quella mezza realtà a contorni vaghi e indecisi, più visibile nelle impressioni e ne' sentimenti che nelle immagini, non era che il presentimento, il velo, la forma preparatoria di questo regno del puro spirito; era l'ombra dello spirito.
Ora la luce intellettuale dissipa ogni ombra: non hai niente più d'indeciso, niente più di corporeo: sei nel regno della filosofia, dove tutto è precisione e dogmatismo, tutto è posto con chiarezza, e discorso a modo degli scolastici.
E poichè la filosofia non è potuta divenire virtù, poichè in terra essa è proscritta, rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale.
L'impressione ultima è che la terra è il regno delle ombre e de' fantasmi, la selva dell'ignoranza e del vizio, la tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore, e che la realtà, l'eterna e Divina Commedia, è nell'altro mondo.
Nè prima, nè poi fu immaginato un mondo lirico così vasto nel suo ordito, così profondo nella sua concezione, così coerente nelle sue parti, così armonico nelle sue forme, così personale e a un tempo così umano.
Esso è l'accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle sue visioni, la voce dell'umanità a quel tempo.
Il mistero di questo mondo religioso-filosofico è la Morte «gentile», come passaggio dall'ombra alla luce, dal fantasma alla realtà, dalla tragedia alla commedia, o, come dice Dante, alla pace.
La morte è il principio della vita, è la trasfigurazione.
Perciò il vero centro di questa lirica, la sua vera voce poetica è il sogno della morte di Beatrice, là dove sono in presenza questa vita e l'altra, e mentre il sole piange e la terra trema, gli angioli cantano «Osanna», e Beatrice par che dica: - Io sono in pace -.
Ci è la terra co' suoi dolori e il cielo con le sue estasi, il mondo lirico nel momento misterioso della sua unità.
Non credo che la lirica del medio evo abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante, di una rara perfezione per chiarezza d'intuizione, per fusione di tinte, per profondità di sentimento, per correzione di condotta e di disegno, per semplicità e verità di espressione.
Ma se questo mondo logicamente è uno e concorde, esteticamente è scisso, perchè non è insieme terra e cielo, ma è ora l'uno, ora l'altro, imperfetti ambidue.
Il fantasma è spesso simile più ad un'allegoria che ad una realtà, ed è stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia.
La realtà è pura scienza, in forma scolastica.
Si può dire che quando in questo mondo comincia la realtà, allora appunto muore la poesia, s'inaridisce la fantasia e il sentimento.
È un difetto organico di questo mondo, che resiste a tutti gli sforzi dell'arte, resiste a Dante.
D'altra parte, Dante vi si mostra più poeta che artista.
Quel mondo è per lui cosa troppo seria, perchè possa contemplarlo col sereno istinto dell'arte.
Poco a lui importa che la superficie sia scabra, purchè ci sia sotto qualche cosa che si mova.
Perciò è sempre evidente, spesso arido e rozzo.
L'Italia ha già il suo poeta; non ha ancora il suo artista.
IV
LA PROSA
Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione del volgare, non minore opera vi diedero i bei favellatori, o favoleggiatori.
«Favella» viene da «fabella», favoletta, e perciò le lingue moderne furon dette «favelle», lingue de' favoleggiatori.
Costoro nelle corti e ne' castelli raccontavano novelle, come i rimatori poetavano d'Amore.
Così gl'inizi della nostra lingua furono
versi d'amore e prose da romanzo.
Come i versi, così le prose aveano già tutto un repertorio venuto dal di fuori.
I rimatori attingevano nel codice d'Amore; i novellatori o favellatori attingevano ne' romanzi della Tavola rotonda o di Carlomagno.
Il cavaliere errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.
Questa letteratura non produsse altro che traduzioni come sono i Conti di antichi cavalieri, la Tavola rotonda e i Reali di Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il re Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno, Orlando erano gli eroi dell'immaginazione popolare.
Oggi ancora i cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di fatti maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo.
Anche la storia romana prese questa forma.
Un codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa, ed è la versione del Giulio Cesare, romanzo in versi rimati di Jacques de Forest.
La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca.
Cicerone, «mastro di rettorica» e «buono chierico», così comincia una sua aringa a Pompeo: «Li re e conti e baroni e l'altro popolo ti richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio».
E non è maraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita cavalleresca.
Si leggono non senza diletto i Diurnali, o come oggi si direbbe, giornali di Matteo Spinelli, la più antica cronaca italiana, non solo per la semplicità e naturalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la vaghezza de' fattarelli, che pare un favellatore e non uno storico.
Di maggior mole è la Storia di Firenze di Ricordano Malespini, che dagli inizi della città si stende sino al 1282.
Quando narra fatti contemporanei, è testimonio veridico ed esatto, nè la sua fede guelfa lo induce ad alterare i fatti.
Ma quando esce da' suoi tempi, ti trovi nell'infanzia della coltura.
Anacronismi ed errori geografici sono accoppiati con la più grossolana credulità nelle favole più assurde, improntate di tutto il maraviglioso de' romanzi cavallereschi.
Dice che la chiesa di san Pietro fu fondata a' tempi di Ottaviano, quando san Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di Pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica di Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di san Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da «pisare» o «pesare», Lucca da «luce», e Pistoia da «pistolenzia»; narra gli amori di Catilina con la regina Belisea, moglie del re Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Belisea, e pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.
In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta, desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito: non ci è ancora l'«io», la personalità dello scrittore.
Come la poesia, così la prosa cavalleresca poco attecchì in Italia.
Non solo non ci fu nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione.
Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa aridità e indifferenza, che senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte di Manfredi, o di Bondelmonte.
Come l'uomo inculto parla assai meglio che non scrive, è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con una vivacità d'immaginazione e di affetto, che non trovi ne' racconti e nelle cronache.
Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi e appunti, anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si danno a' giovinetti per esercizio di scrivere.
Il libro fu detto «fiore del parlar gentile»; e veramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più tardi.
Ma se la lingua è assai più schietta e moderna che non è ne' Conti di antichi cavalieri e ne' romanzi di quel tempo, è in tutti la stessa aridità.
Ci è il fatto ne' suoi punti essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli danno colore, e senza le impressioni e i sentimenti che gli danno interesse.
Pure, quando il fatto è semplice e breve, e non richiede arte, basta a conseguire l'effetto quella naturalezza e quel candore pieno di verità che è nel racconto.
Eccone un esempio:
"Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che quando era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade.
Quando lo re Currado fallava, li maestri che gli eran dati a guardia, non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui.
E quei dicea: - Perchè non battete me, chè mia è la colpa? - Diceano li maestri: - Perchè tu sei nostro signore.
Ma noi battiamo costoro per te: onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe.
- E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietà di coloro."
Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi, e non divenne un lavoro d'arte, la ragione è che una materia tanto poetica si mostrò quando lingua e arte erano ancora nell'infanzia, e rimasa fuori della vita e dei costumi riuscì un frivolo passatempo, come fu della poesia cavalleresca.
Trattata da illetterati, questa materia non potè svilupparsi e formarsi, sopravvenuto in breve tempo il risorgimento de' classici e il rifiorire delle scienze, che trasse a sè l'animo delle classi colte.
Quantunque «chierico» significasse ancora uomo dotto, e da' pergami e dalle cattedre si parlasse ancora latino, ed in latino si scrivessero le opere scientifiche, già il laicato usciva dalle università vigoroso ed istrutto, con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza.
Se il chierico tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spirito laicale tendeva a diffonderla, a volgarizzarla, a farla patrimonio comune.
La libertà municipale, aprendo la vita pubblica a tutte le classi, costituiva in modo stabile un laicato colto e operoso, a cui non bastava più il latino, e che, formato nelle scuole, superbo della sua scienza, in quotidiana comunione con le altre classi, aveva già un complesso d'idee comuni, che costituivano la base della coltura.
Erano nuove forze che entravano in azione e davano un indirizzo proprio alla vita italiana.
A quella gente quei romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di oziosi, spasso di plebe.
Le idee religiose, così come venivano bandite dal pergamo, non doveano aver molta grazia a' loro occhi; quella semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco gradire a quegli uomini, che tutto codificavano e sillogizzavano.
Certo non fu perciò estinta la razza de' novellatori e de' predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne allontanò, e i Conti de' cavalieri e le Vite de' santi rimasero occupazione di uomini semplici e inculti, senza eco e senza sviluppo.
La società mirava a divulgare la scienza, a diffondere le utili cognizioni, a far sua tutta la cultura passata, profana e sacra.
I suoi eroi furono Virgilio, Ovidio, Livio, Cicerone, Aristotile, Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio, santo Agostino e san Tommaso.
Il volgare divenne l'istrumento naturale di questa coltura.
I poeti bandivano la scienza in verso; i prosatori traslatavano dal latino gli scrittori classici, i moralisti e i filosofi.
Era un movimento di erudizione e di assimilazione dell'antichità, che durò parecchi secoli, e che ebbe una grande azione sulla nostra letteratura.
La materia, a cui più volentieri si volgevano i traduttori, era l'etica e la rettorica, l'arte del ben fare e l'arte del ben dire.
Una delle più antiche versioni è il Libro di Cato o Volgarizzamento del Libro de' costumi, opera scritta in distici latini e divisa in quattro libri.
L'opera ebbe tanta voga, che se ne fecero tre versioni, ed è spesso citata dagli scrittori.
Nè è maraviglia, perchè ivi la morale è nella sua forma più popolana, essendo ciascuna regola del ben vivere chiusa in un distico, a guisa di motto o proverbio o sentenza, facile a tenere in memoria.
Ecco un esempio:
Virtutem primam esse puto, compescere linguam:
proximus ille Deo est Qui scit ratione tacere.
Ed è tradotto egregiamente così:
Costringere la lingua credo che sia la prima vertude:
quelli è prossimo di Dio, che sa tacere a ragione.
Esercizio utilissimo a' giovani sarebbe il raffronto delle tre versioni, che ti mostra la lingua ne' diversi stati della sua formazione.
La terza versione, pubblicata dal Manni, ha per compagna l'Etica di Aristotile e la Rettorica di Tullio.
Questa Rettorica di Tullio è il Fiore di rettorica, attribuito a frate Guidotto da Bologna, e da altri con più verisimiglianza a Bono Giamboni, e che comincia così: «Qui comincia la Rettorica nuova di Tullio, traslatata da grammatica in volgare per frate Guidotto da Bologna».
Che importanza avesse la rettorica, e quali miracoli potea produrre, si vede da queste parole del traduttore:
"Fu uno nobile e vertudioso uomo, cittadino nato di Capova del regno di Puglia, il quale era fatto abitante della nobile città di Roma, che avea nome Marco Tullio Cicerone, lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia di rettorica, la quale avanza tutte le altre scienzie per la bisogna di tutto giorno parlare nelle valenti cose, siccome in far leggi e piati civili e cherminali, e nelle cose cittadine, siccome in fare battaglie, ed ordinare schiere, e confortare cavalieri nelle vicende degl'imperii, regni e principati, e governare popoli e regni e cittadi e ville, e strane e diverse genti, come conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra."
Il libro è dedicato a re Manfredi, il quale vi potrà avere «sufficiente e adorno ammaestramento a dire in piuvico e in privato».
Accanto a Cicerone comparisce il grande poeta Virgilio, «il quale Virgilio si trasse tutto il costrutto dello intendimento della rettorica, e ne fece chiara dimostranza».
Il frate, cercando le «magne virtudi» di Cicerone, aggiunge: «Sì mi mosse talento di volere alquanti membri del Fiore di rettorica volgarizzare di latino in nostra lingua, siccome appartiene allo mestiere de' laici, volgarmente».
Onde pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei laici, scrivendo i chierici in latino.
Queste citazioni sono il ritratto del tempo.
Ci si vede la grande impressione che facea su quelle menti Virgilio e Cicerone, «d'arme maraviglioso cavaliere, franco di coraggio, armato di grande senno, fornito di scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le cose».
E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben dire in pubblico e in privato bastasse imparare le regole dell'etica e della rettorica.
Nè si recavano in volgare le opere solo dell'antichità, ma anche le contemporanee scritte in latino.
Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia, notaio pistoiese, de' Trattati di morale, dottissima opera di Albertano da Brescia, scritta in prigione.
Il primo trattato, Della dilezione di Dio e del prossimo e della forma della vita onesta, è composto l'anno 1238.
L'opera levò tal grido, che fu tradotta in francese e in inglese, e veramente ci è lì dentro raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all'onesto vivere, sacra e profana.
L'impulso fu tale che gli uomini più chiari si volsero a tradurre o compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina.
Ristoro di Arezzo scrivea sulla Composizione della terra; Cavalcanti scrivea una grammatica e una rettorica; ser Brunetto traduceva il trattato De inventione di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di Livio, e sotto nome di Fiore di filosofi e di molti savi raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora, Democrito, Socrate, Epicuro, Teofrasto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone.
Ecco i «fiori» di Plato:
"Plato fue grandissimo savio e cortese, in parole, e disse queste sentenzie:
In amistade, nè in fede non ricevere uomo folle: più leggermente si passa l'odio de' folli e de' malvagi, che la loro compagnia.
A neuno uomo ti fare troppo compagno.
L'uomo è cosa troppo singolare: non puote sofferire suo pare, de' suoi maggiori hae invidia, de' suoi minori hae disdegno, a' suoi iguali non leggeremente s'accorda.
Quelli sono pessimi e maliziosi nimici, che sono nella fronte allegri e nel cuore tristi."
Secondo la rettorica di quel tempo si diceva «fiore» quel raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto.
E si diceva anche «giardino», come spiegava Bono Giamboni nel suo Giardino di consolazione, versione del latino: «e chiamasi questo Giardino di consolazione, imperò che siccome nel giardino altri si consola e trova molti fiori e frutti, così in questa opera si trovano molti e begli detti, li quali l'anima del divoto leggitore indolcirà e consolerà».
In effetti questo bel libro, dov'è molta semplicità e grazia di dettato, è una descrizione de' vizi e delle virtù, con sopra ciascuna materia i detti de' savi e de' santi Padri, tanto che si può veramente dire dell'autore: «il più bel fior ne colse».
Ecco il capitolo Dell'Ebrietade:
«Ebrietade, secondo che dice santo Agostino, è vile sepoltura della ragione e furore della mente».
Anche dice: «La ebrietà è lusinghiere demonio, dolce veleno, soave peccato.
Anche dice: la ebrietà molti ne ha guasti, toglie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno, accende alla lussuria, mai non tiene segreto, induce a male parole.» Santo Basilio dice: «l'ebro, quando pensa bere, sì è beuto: come lo pesce che con grande desiderio inghiottisce l'esca nella sua gola e non sente l'amo; così l'ebro, bevendo il vino, riceve in sè nemico senza ragione.» E santo Paolo dice: «non t'inebriare di vino, imperò che di vino esce lussuria.»
Nè solo «fiore» o «giardino», ma si diceva pure «tesoro» o «convito», quasi mostra di ricche pietre preziose, o di elettissime vivande.
Brunetto, che scrisse il Fiore, avea già scritto il Tesoro, «in romanzo o lingua francesca», come «più dilettevole e più comune che tutti gli altri linguaggi», e voltato poi in volgare da Bono Giamboni.
Il Tesoro è il Cosmos di quel tempo, l'universalità della scienza come s'insegnava nelle scuole, la somma o il compendio del sapere, e per dirla con le parole di Brunetto, «un'arnia di mèle tratta di diversi fiori», un «estratto di tutt'i membri di filosofia in una somma brevemente».
Prende capo dalla filosofia, siccome «radice di cui crescono tutte le scienze», ed è descrizione di Dio, dell'uomo, della natura.
Segue l'etica, o filosofia pratica, e poi la rettorica, che ha come appendice la politica, o l'arte di ben governare gli stati.
È il disegno di una prima facoltà universitaria, che prepara con questi studi i giovani alle scienze speciali.
Questa vasta compilazione, di cui non era esempio, parve una maraviglia.
Ma più importanti erano i trattati speciali, dove gli scrittori mostravano qualche originalità, come furono i tre trattati di Albertano e il famoso trattato De regimine principum di Egidio Colonna, dottissimo patrizio napolitano, volgarizzato da un toscano.
Il luogo che teneva la fede, venne occupato dalla filosofia.
Non che la filosofia negasse la fede, anzi era proprio di quel tempo aver fede in tutto quello che era scritto; ma sotto quella forma s'affermava la società colta, e si distingueva da' semplici e dagl'ignoranti.
Il luogo comune di tutte le invenzioni era l'eterno Giobbe l'uomo colpito dall'avversità, che maledice prima alla vita e trova poi rimedio e consolazione nella filosofia, ovvero nello studio della scienza, nella visione delle opere divine e umane.
Questo spiega la grande popolarità del libro di Boezio Della consolazione, fondato appunto su questa base, dove la filosofia è rappresentata «in sembianza di donna, in tale abito e in sì maravigliosa potenzia, che cresceva quando le piaceva, tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al cielo, e poggiava a monte e a valle».
Tale è pure la visione di ser Brunetto Latini nel Tesoretto, ch'è visione delle cose umane «secondo il corso stabilito a ciascheduna»:
Io le vidi ubbidire,
finire e incominciare,
morire e 'ngenerare.
La stessa base ha il libro, Introduzione alle virtù, di Bono Giamboni.
È un giovine, «caduto di buono luogo in malvagio stato», che narra di sè in questo modo:
"Seguitando il lamento che fece Giobbe, cominciai a maledire l'ora e il die che io nacqui e venn'in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo m'avea nutricato e governato.
E pienamente luttando con guai e gran sospiri, i quali venieno della profondità del mio petto, fra me medesimo dissi: - Dio onnipotente, perchè mi facesti tu vivere in questo misero mondo, acciocch'io patissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche e sostenessi cotante pene? Perchè non mi uccidesti nel ventre della madre mia, o incontanente che nacqui non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempio alle genti, che neuna miseria d'uomo potesse nel mondo più montare? - Lamentandomi duramente nella profondità di un'oscura notte nel modo che avete udito di sopra, e dirottamente piangendo m'apparve di sopra al capo una figura, che disse: - Figliuolo mio, forte mi maraviglio, che essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, perciocchè stai sempre col capo chinato, e guardi le oscure cose della terra, laonde sei infermato e caduto in pericolosa malattia.
Ma se tu dirizzassi il capo e guardassi il cielo e le dilettevoli cose del cielo considerassi, come dee fare uomo naturalmente, e di ogni tua malattia saresti purgato, e vedresti la malizia de' tuoi reggimenti, e sarestine dolente.
Or non ti ricorda di quello che disse Boezio: che, conciossiacosachè tutti gli altri animali guardino la terra, e seguitino le cose terrene per natura, solo all'uomo è dato a guardare il cielo, e le celestiali cose contemplare e vedere? - Quando la boce ebbe parlato...
, si riposò una pezza, aspettando se alcuna cosa rispondessi o dicessi; e vedendo che stava mutolo, e di favellare neuno sembiante facea, si rappressò verso me, e prese i ghironi del suo vestimento, e forbimmi gli occhi, i quali erano di molte lacrime gravati per duri pianti ch'io avea fatto...
Allora apersi gli occhi e guardaimi dintorno, e vidi appresso di me una figura bellissima e piacente, quanto più innanzi fue possibile alla natura di fare.
E della detta figura nascea una luce tanto grande e profonda, che abbagliava gli occhi di coloro che guardare la volieno: sicchè poche persone la poteano fermamente mirare.
E della detta luce nasceano sette grandi e maravigliosi splendori che alluminavano tutto il mondo.
E io vedendo la detta figura così bella e lucente, avvegna che avessi dallo incominciamento paura, m'assicurai tostamente, pensando che cosa rea non potea così chiara luce generare.
Cominciai a guardar la figura tanto fermamente, quanto la debolezza del mio viso poteva sofferire.
E quando l'ebbi assai mirata, conobbi certamente ch'era la Filosofia, nelle cui magioni avea lungamente dimorato.
Allora incominciai a favellare e dissi: - Maestra delle virtudi, che vai tu facendo in tanta profondità di notte per le magioni de' servi tuoi? - "
Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la Filosofia, il cui costrutto è questo: che la vita terrestre è vita di prova; e la vera vita è in cielo, se però «porti in pace le pene e le tribulazioni di questo mondo, chi vuole essere verace figliuolo di Dio, e non bastardo, pensando, che s'egli sarà compagno di Dio nelle passioni, sarà suo compagno nelle consolazioni».
La Filosofia finisce con questo lamento:
«O umana generazione, quanto se' piena di vanagloria, e hai gli occhi della mente, e non vedi! Tu ti rallegri delle ricchezze e della gloria del mondo, e di compiere i desidèri della carne, che possono bastare quasi per uno momento di tempo, perchè poco basta la vita dell'uomo: e queste sono veracemente la morte tua, perchè meritano nell'altro mondo molte pene eternali.
E della povertà e delle tribulazioni del mondo ti turbi e lamenti, che poco tempo possono durare: e queste sono veracemente la tua vita, perchè se si comportano in pace, meritano nell'altro mondo molta gloria perpetuale...
Disse uno savio: - Quello che ne diletta nel mondo è cosa di momento, e quello che ne tormenta nell'altro, durerae mai sempre.»
E segue, citando i detti dell'Apostolo, di san Pietro e di Salomone.
Questo era il tèma comune delle prediche, salvo che qui il predicatore è la Filosofia, che si fa interprete di Dio, e cita Salomone e san Pietro e i santi Padri.
Questo concetto è l'idea fondamentale della «leggenda», una storia fantastica, la cui base è il peccatore condannato o redento.
In queste leggende Dio e il demonio sono gli attori principali: Dio che co' suoi angioli e le sue virtù tira l'anima alla rinunzia de' beni terrestri e alla contemplazione delle cose celesti, e il demonio che la tiene stretta e affezionata alla terra.
L'uomo, mosso dalle naturali inclinazioni, vende l'anima al demonio pur d'essere felice in terra, e lo spettacolo finisce nelle tenebre e nel fuoco dell'inferno.
Ma spesso la tragedia si solve nella commedia, cioè nel trionfo e nel gaudio dell'anima, quando, aiutata dalla divina grazia, sa riscattarsi dal demonio e acquistare il paradiso.
Questa lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi, che nella Introduzione alle virtù del Giamboni la Filosofia mostra al suo servo, perchè in quella immagine fortifichi la sua fede.
Questa è pure la base della leggenda del dottore Fausto che vendè l'anima al diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale da Goethe.
E questo è anche il concetto del mondo lirico dantesco, dove Beatrice diviene la Filosofia, e le gioie e i dolori dell'amore terrestre svaniscono nella contemplazione intellettuale della Scienza.
Così il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso concetto, esposto in prosa e in poesia.
Brunetto, Giamboni e Dante s'incontrano nella stessa idea, o per dir meglio, era questa l'idea comune, elaborata in tutto il medio evo, e che sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta, consapevole di sè.
Ma in prosa non trovò quell'adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo lirico.
Mancò la leggenda, com'era mancata la novella, e mancò il romanzo religioso o spirituale, com'era mancato il romanzo cavalleresco.
Lo scrittore è più intento a raccogliere che a produrre.
Fra tanti «Fiori» e «Giardini» e «Tesori» manca l'albero della vita, l'anima impressionata e fatta attiva che produca.
Ci è un lavoro di traduzione e di compilazione, non ci è ancora un lavoro di assimilazione, e tanto meno di produzione.
Le ricchezze son tante, che tutta l'attività dello spirito è consumata a raccoglierle, anzi che a crearne di nuove.
Senti una stanchezza a leggere queste traduzioni o compilazioni, dove niente è affermato senza un «ipse dixit», o piuttosto «ipsi dixerunt», tante e così accumulate sono le citazioni.
E non ci è tregua, non digressioni, non varietà in questi «giardini», dove hai innanzi un cicerone insopportabile, sempre con la stessa voce e lo stesso tuono.
Nessun movimento d'immaginazione o di affetto; nessun vestigio di narrazione o descrizione; l'esposizione didattica, il trattato, riempie l'intelletto, e t'uccide l'anima.
L'espressione più chiara del secolo furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e compilatori infaticabili.
Basti dire che il Giamboni, oltre le opere avanti accennate, ha tradotto pure le Storie di Paolo Orosio, l'Arte della guerra di Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di Martino Dumense.
La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltà, è di aver preparato il secolo appresso, lasciandogli in eredità una ricca messe di cognizioni fatte volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica.
Quel tradurre fu un esercizio utilissimo, che diede forma e stabilità alla nuova lingua, e quella pieghevolezza ed evidenza che viene dalla necessità di rendere con esattezza il pensiero altrui.
Principe de' traduttori fu Bono Giamboni, così terso e fresco che molte pagine con lievi correzioni si direbbero scritte oggi, soprattutto dove sono descrizioni di animali o di virtù e di vizi.
In queste prose didattiche non ci è di arte neppure intenzione.
Ai contemporanei di Cino, di Cavalcanti, di Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai povera cosa.
E si venne confermando l'opinione che il volgare non fosse buono che a dire di amore, e che le materie gravi si dovessero trattare in latino, come costumavano gli scrittori di polso.
V
I MISTERI E LE VISIONI
Al punto a cui siamo giunti, ci si porge chiara l'immagine delsecolo decimoterzo.
Due sono le fonti di quella letteratura primitiva: la cavalleria e le sacre scritture.
L'eroe della cavalleria, il cavaliere, è l'uomo che si sforza di realizzare in terra la verità e la giustizia, di cui è immagine la donna, suo culto e amore.
La sua vita è attiva, piena di avventure e di fatti maravigliosi.
Senti la sua presenza nella più antica lirica, nelle novelle, ne' romanzi e nelle cronache.
Ma la cavalleria, venutaci di fuori, con gli stranieri che occupavano il nostro suolo, non prese radice, non si sviluppò, non produsse alcuna opera originale, rimase stazionaria.
Perdette il suo carattere serio e quasi religioso e restò un puro gioco d'immaginazione, che si mescola come colorito e accessorio in tutte le storie, sacre e profane.
Di ben altra efficacia era l'idea religiosa, penetrata ne' sentimenti e ne' costumi e nelle istituzioni, compagna dell'uomo in tutti gli stati della vita.
L'eroe cristiano è chiamato pure «cavaliere», il «cavaliere di Cristo»; ma è un eroe contemplativo, il cui tipo è il frate, il romito, il santo.
Come il cavaliere errante, anche lui rinunzia ed ha a vile i beni terrestri, ma la vita dell'uno è militante, quella dell'altro è contemplante: ci è in fondo la stessa idea, di cui l'uno è il soldato, l'altro è il sacerdote.
Certo, questi due tipi entrano spesso l'uno nell'altro, e il frate diviene il templario o il cavaliere di Malta, soldato della fede, e il cavaliere errante finisce romito e penitente.
Ma il cavaliere, gittandosi nelle più strane avventure, dimentica e fa dimenticare il cielo, attirata l'attenzione dal maraviglioso delle opere, sì che destano uguale curiosità e interesse le geste de' cristiani e de' saracini, e la rappresentazione rimane terrena.
L'altro al contrario passando la vita ne' digiuni, nella povertà, nella castità e nell'orazione, ci tien sempre viva innanzi l'immagine dell'altro mondo; e perciò questa vita contemplativa è schiettamente religiosa; anzi è ivi la perfezione, ivi il più alto ideale.
La passione dell'anima è l'esser legata al corpo, alla carne, e la sua beatitudine o santificazione è sciogliersi da quella e star con Cristo: al che è via la contemplazione e la preghiera.
Nelle tre allegorie sull'anima pubblicate dal Palermo è detto: «Ogni bene e virtù, qualunque vogli, e buono in sè medesimo, ma la preghiera solamente trae a sè tutte le altre virtù».
In queste allegorie compariscono tre esseri, che sono i tre gradi della santificazione: «Umano», «Spoglia» e «Rinnova».
Dapprima l'anima, impacciata dal terrestre, dall'«Umano», non può scorgere il vero che sotto figura, nel sensibile.
Il secondo essere, «Spoglia», è la virtù che monda e purga l'anima dagli affetti terrestri, insino a che viene «Rinnova», luce mentale, che «rinnova l'anima in tutto e mostra la verità senz'ombra e senza figura».
Questi tre gradi di santificazione comprendono tutta la vita del cavaliere cristiano.
Inviluppato nel senso e nella carne, non vede che un barlume del vero, e non giunge all'ultima luce mentale, all'ultimo grado, se non purificandosi e mondandosi della parte terrestre.
Anch'egli ha le sue battaglie, ma col demonio e con la carne, ch'egli macera e mortifica d'ogni maniera, e le sue armi sono la contemplazione e la preghiera.
Il maraviglioso di questa vita non è solo ne' miracoli, ma in quella forza di volontà che trae l'uomo a vincere tutti gli affetti e le inclinazioni naturali, com'è in santo Alessio, il tipo più commovente di questi cavalieri di Cristo.
La creazione del mondo, il peccato originale, le profezie, la venuta di Cristo, la sua passione, morte e trasfigurazione, l'anticristo e il giudizio universale sono l'epopea, il fondo storico a cui si annodano tante vite di santi.
E questa storia dell'umanità era tutt'i giorni innanzi al popolo, nella predica, nella confessione, nella messa, nelle feste.
La messa non è altro che una rappresentazione simbolica di questa storia, un vero dramma senza che ce ne sia l'intenzione, rappresentato dal prete e da' fedeli.
Ogni atto che fa il prete, è pieno di significato, è rappresentazione mimica.
La prima parte della messa è epica o narrativa; è il Verbum Dei, l'esposizione che comprende le profezie e il Vangelo, e finisce con la predica.
La seconda parte è drammatica, è l'azione, il Sacrificium, l'adempimento delle profezie.
La terza parte è lirica, come nelle risposte de' fedeli (il coro) al prete, o quando due cori si alternano nel canto, e negl'inni e nelle preghiere: ciò che ha luogo principalmente nella messa cantata.
Aggiungi le immagini de' santi e i fatti dell'antico e del nuovo Testamento in quelle cappelle, in quelle finestre variopinte, in quelle cupole, e quelle grandi ombre, e quelle moli restringentisi sempre più e terminate da croci slanciate verso il cielo, ed avrai l'immagine e l'effetto musicale di questo stacco dalla terra, di questo volo dell'anima a Dio.
Dopo l'evangelo, il predicatore talora, per fare più effetto sull'immaginazione, esponeva la sua storia sotto forma di rappresentazione, come si fa in parte anche oggi ne' quaresimali.
I monaci e i preti rappresentavano il fatto, e il predicatore aggiungeva le sue spiegazioni e considerazioni.
Era una rappresentazione liturgica, cioè legata al culto, parte del culto, detta «divozione» o «mistero».
Di tal natura sono due divozioni, che si rappresentavano il giovedì e il venerdì santo, e sono piuttosto due atti di una sola rappresentazione che due rappresentazioni distinte.
La prima comincia col banchetto che Cristo ebbe in casa di Lazzaro sei giorni avanti Pasqua, e che qui è il giovedì santo.
Cristo viene da Gerusalemme, Maria con Maddalena e Marta gli va incontro.
Maria prega il figlio di non tornare a Gerusalemme, perchè vogliono la sua morte.
Cristo risponde dover ubbidire al Padre: pur si conforti, che niente farà che non lo dica a lei.
Alla fine del banchetto Cristo scopre a Maddalena che dee ire a Gerusalemme, dove patirà il supplizio della croce, e le raccomanda la madre.
Cristo esce.
Sopraggiunge Maria, che ha visto il figlio turbato, e la prega a svelarle quello che il figlio le ha detto.
Maddalena tace.
E la madre va a Cristo tutta in lacrime, e dice:
Dimilo, figlio, dimilo a mi,
perchè stai tanto afannato?
Amara mi, piena de suspiri,
perchè a mi lo hai celato?
De gran dolore se spezzano le vene,
e de doglia, figlio, me esse il fiato,
chè t'amo, o figlio, con perfecto core,
dimilo a mi, o dolce Segnore.
Cristo dice che pel riscatto del mondo dee ire a morte, e Maria sviene.
Tornata in sè e lamentandosi, raccomanda il figlio a Giuda, che risponde in modo equivoco: - So quello che ho a fare.
- Poi si volge a Pietro, che promette difendere il figlio contro tutto il mondo.
Giunti a una porta della città, Maria non vuol separarsi dal figlio; ma quando non lo vede più e sa che per un'altra porta è entrato in Gerusalemme, fa pietosi lamenti innanzi al popolo:
O figlio mio, tanto amoroso,
o figlio mio, due se' tu andato?
O figlio mio, tuto gracioso,
per quale porta se' tu entrato?
O figlio mio, assai deletoso,
tu sei partito tanto sconsolato!
Ditime, donne, per amor de Dio,
dov'è andato lo figlio mio?
Segue il racconto secondo la Bibbia.
Le parole di Cristo, tolte al Vangelo, sono dette in latino.
E la «divozione» finisce con la prigionia di Cristo.
La «divozione» del venerdì santo racconta la passione e la morte di Cristo.
Il predicatore interrompe la rappresentazione con le sue spiegazioni, e fa cenno quando si ha a continuare.
Maria vi rappresenta una gran parte.
Mentre Cristo prega pe' suoi nemici, ella dice alla croce:
Inclina li toi rami, o croce alta,
dona riposo a lo tuo Creatore;
lo corpo precioso ià se spianta;
lasa la tua forza e lo tuo vigore.
Cristo la raccomanda a Giovanni, che inginocchiandosi e baciandole i piedi cerca racconsolarla.
Ma essa abbraccia la croce e si lamenta:
O figlio mio, figlio amoroso,
come mi lasi sconsolata!
O figlio mio tanto precioso,
come rimango trista, adolorata!
Lo tuo capo è tutto spinoso,
e la tua faza di sangue bagnata!
altri che ti non voglio per figlio,
o dolce fiato e amoroso giglio.
Quando Cristo muore, Maddalena gli sta a' piedi, al capo Giovanni, Maria nel mezzo.
E bacia il corpo di Cristo, gli occhi, le guance, la bocca, i fianchi, le mani «con le quali benediva il mondo», i piedi su' quali «Maddalena sparse tante lacrime».
Queste rappresentazioni erano antichissime, e si scrivevano in latino, come il Ludus paschalis, rappresentazione di Pasqua, dove è messo in azione l'anticristo.
Le due «divozioni» avanti discorse non sono probabilmente che versioni o imitazioni di opere più antiche, rimase nella tradizione.
Tale era pure la rappresentazione del Nostro Signore Gesù Cristo, che ebbe luogo a Padova nel 1243, e il Ludus Christi, una trilogia rappresentata dal clero in Cividale negli ultimi due giorni di maggio il 1298.
Nella Pentecoste e ne' tre seguenti giorni il capitolo di questa città, in presenza del vescovo e del patriarca di Aquileia, diede questa serie di rappresentazioni: la creazione di Adamo ed Eva, la profezia o l'annunzio, la nascita, morte e risurrezione di Cristo, la discesa dello Spirito santo, l'Anticristo, e la venuta di Cristo nel giudizio universale.
Era tutta l'epopea biblica, fatta evidente e sensibile dalla musica, dal canto, dalle scene, dalla mimica e dalla parola.
Tale era pure la Passione, rappresentata a Roma nel Coliseo il venerdì santo, dalla Compagnia del gonfalone nel 1264.
Queste rappresentazioni, di cui i preti erano attori e attrici, aveano tutto il carattere di solennità o feste o cerimonie religiose.
Il diavolo vi ha pure la sua parte di tentatore, ma parla in modo serio e semplice, secondo la sua natura, e non ha niente di grottesco e di ridicolo.
Chiuse nel recinto delle chiese, de' conventi e delle curie vescovili, rimangono tradizionali e immobili, senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon in parte nelle feste del contado.
La moralità di queste rappresentazioni era che il fine dell'uomo è nell'altra vita, o come si diceva, è la salvazione dell'anima; che per conseguire questo fine si ha a imitare Cristo, soffrire in questo mondo per godere nell'altro.
Perciò l'ideale, l'eroico o, come si diceva, la «perfezione della vita» era il dispregio de' beni di questo mondo, la resistenza a tutte le inclinazioni naturali e il vivere in ispirito nell'altro mondo con la contemplazione e la preghiera.
Questa è la vita de' santi, della quale si dava anche rappresentazione a' fedeli.
E tra le più antiche è una ancora inedita, che ha per titolo: D'uno monaco che andò a servizio di Dio, probabilmente recitata a monaci da monaci in un convento.
L'eroe è questo monaco, un giovinetto che resiste alle lacrime della madre, alle querele del padre, alle tentazioni del compare, e si rende frate nel deserto, dove è accolto come figlio da un romito.
Ma ivi prove più dure l'attendono.
Mentre egli va a raccogliere per il pasto radici, frutta, castagne e noci, il romito prega, e mosso da curiosità chiede a Dio qual luogo spetti al suo novizio in paradiso, e un angelo risponde che sarà dannato.
Non perciò della notizia si turba il giovinetto, anzi risponde tranquillo che continuerà ad amare e servire Dio.
Invano il demonio lo tenta, dicendogli che «ha guastato l'amor naturale», e che il meglio sarà tornare in casa del padre, chè forse Dio gli avrà misericordia.
Il giovinetto con gli scongiuri fuga il demonio, e rimane fermo nella sua risoluzione.
Allora l'angiolo annunzia al romito ch'egli è salvo.
E il monaco e il romito intuonano il Te Deum o una lauda.
Nell'epilogo o commiato sono esortati gli spettatori a castigare la carne e a pensare alla vita eterna.
Anima della rappresentazione è l' invitta fede del giovane monaco, che la preghiera e la contemplazione è la più sicura guardia contro il peccato e la tentazione della carne, e che si giunge alla santificazione con rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in Dio.
Questo concetto è espresso in una forma scolastica nel canto del monaco, di cui ecco alcuni brani:
L'anima sensitiva che s'inchina
nel mondo a tutto quel che la diletta,
apprezza poco la legge divina...
L'alma piena di fede e semplicetta
spesso si leva pura a contemplare
quel ben che veramente la diletta.
e quando a quel più intenta esser le pare,
allor dal grave corpo è sì constretta,
che giuso afflitta le convien tornare,
e umile e isdegnosa piange e dice:
- Deh! Chi mi sturba il mio esser felice? -
Quell'anima gentile è sempre viva,
e vive Iddio in lei per unione...
,
e tutta sta nella contemplativa,
e gode tutta; e s'ella ha passione,
è per esser legata al corpo tristo,
dal qual desia disciòrsi e star con Cristo.
Ci è una rappresentazione, intitolata Commedia dell'anima, che è una storia ideale della vita de' santi, una specie di logica, dove sono le idee fondamentali della santificazione, l'ossatura e lo scheletro di tutte le vite de' santi.
L'anima esce pura dalle mani di Dio e a sua immagine.
Dio la contempla con amore, dicendo:
Quando io risguardo quella creatura,
che all'immagine mia io ho formata,
e ch'io la veggo immaculata e pura
starmi dinanzi, la m'è accetta e grata:
ma l'ha bisogno d'una buona cura,
la quale a custodirla sia parata;
e perchè ha in sè l'immagine d'Iddio,
vo' che la guardi un angel santo e pio.
Ma il demonio, invidioso che «sì vil cosa abbia a fruire quel regno, del qual esso è privato», si apparecchia a darle battaglia.
L'angelo custode conforta l'anima, e le presenta la Memoria, l'Intelletto e la Volontà: le sue «potenzie».
L'Intelletto parla dopo la Memoria e dice:
Io son di te la seconda potenzia
e il nome mio è detto Intelligenzia.
La mia quiete si sta nel Verbo eterno,
e quivi sempre debb'esser saziato:
però che in questo esilio io non discerno
com'io sarò in quel regno beato.
Allora io sarò sazio in sempiterno,
e quivi il mio obbietto arò trovato,
fermandomi in quel razzo rilucente,
che senza quello inquieta è la mia mente.
Lièvati sopra te tutta in fervore,
e guarda un po' del ciel quell'ornamento:
vedra'lo circondato di splendore;
poi pensa, anima mia, quel che v'è drento.
Lascia un po' star le cose esteriore,
se vuoi aver di quell'intendimento:
per questo i santi tutti innamorati
il mondo disprezzorno, pompe e stati.
E la Volontà dice:
Io son la Volontà che ho a fruire
quel ben c'ha dichiarato l'Intelletto,
e in quel fermando tutto il mio desire,
perchè creata sono a quest'effetto...
,
e perchè l'occhio corporal non vede,
credendo ho da seguir con pura fede.
L'Intelletto dice alla Volontà:
A te s'appartien sol deliberare
di far quel che ti è mostro fedelmente;
l'ufizio tuo è sempremai d'amare
ed unirti con Dio perfettamente.
E la Volontà risponde:
Nella tua spera i' m'ho sempre a guardare,
benchè la mostri un po' con pura mente;
quand'io sarò nella gloria beata,
ciascuna cosa mi fie dichiarata.
L'anima confortata alza la preghiera a Dio, e l'angelo custode aggiunge:
Dàgli, Signore, un'ardente fiammella,
che la difenda da drago feroce:
tu sai che l'è nel corpo incarcerata,
e non può a te senza te esser grata.
Cioè a dire, non bastano le tre potenzie naturali, Memoria, Intelligenzia, Volontà, perchè l'anima piaccia al Signore; ci vuole anche la sua grazia, l'ardente fiammella che dee cacciare il drago, il demonio.
E Dio manda ad assisterla le virtù teologiche, Fede vestita di colore celeste, con una croce nella mano destra e nella sinistra un calice e suvvi la patena; Speranza vestita di verde, con gli occhi fissi al cielo e le mani giunte, Carità vestita di rosso, con un parvolino per mano.
Intanto il demonio chiama l'Eresia, la Disperazione, la Sensualità e tutte le sue forze capitanate dall'Odio.
Le tre virtù intorniano l'anima.
La Fede dice dell'esser suo, e san Giovanni Crisostomo celebra la sua potenza.
Ma l'Infedeltà con acri parole la rampogna:
È vien da levità chi crede presto.
Tu ne sei ita quasi che per terra,
e puossi dir che la fede è mancata;
uomini grandi e dotti ti fan guerra,
chi t'esaltò, or t'ha perseguitata...
Va' nel Levante e in tutto l'Occidente,
e guarda di noi dua chi ha più gente.
Allora la Speranza viene in soccorso:
Leva su gli occhi alla città superna,
ch'è fabbricata senz'ingegno umano.
Ma l'anima teme, pensando la sua debolezza:
Come io digiuno un dì, i' son sì bianca
che par che un curandaio m'abbi imbiancato
io mi stare' a dormir sur una panca
e il corpo vuole un letto sprimacciato.
La Speranza le pone avanti l'esempio de' santi, e soprattutto di santo Agostino:
Quando diceva orando: - Signor mio,
questo mio cor non si può consolare:
tu solo se' quel che lo puoi quietare.
Allora l'assale la Disperazione e dice:
Pensa che la giustizia arà il suo loco
e tu hai fatt'assai ben di peccati:
- O tu dirai: - io non vo' disperarmi
perchè Dio è parato a perdonarmi? -
Ma l'anima risponde allo scherno, cacciandola da sè:
E tu va via, bestiaccia maledetta.
Segue un'altra disputa tra la Carità, della quale san Paolo celebra le lodi, e l'Odio, in cui spunta l'ombra di un carattere, qualche cosa di simile a un capitano millantatore:
Vòltati in qua, porgimi un po' l'orecchio
e non guardar ch'io sie canuto e vecchio.
Guardami un po' s'i' sono un bel vecchiardo,
e per antichità tutto canuto,
nell'operar son giovane e gagliardo,
a ricordar l'ingiuria molto astuto,
nel mio discorrer non son pigro o tardo,
conosco tutte le persone al fiuto:
subito che tu pigli qualche sdegno,
in un momento io vi fo su disegno.
La Carità t'exorta a perdonare,
ed io ti dico: - Non lo voler fare.
-
Il perdonar vien da poltroneria
e d'animo ch' è pien di debolezza;
e chi t'ingiuria o dice villania,
quando che tu sopporti, e' vi s'avvezza:
rendigli il cambio a ognun, sia chi si sia,
mettigli al collo una grossa cavezza,
non lasciar mai la vendetta a chi resta,
e a chi fosse, dàgli in su la testa.
Io venni qui con una spada in mano
per istar teco e messimi l'elmetto,
io son del Satanasso capitano,
attengo volentier quel ch'io prometto:
quand'io veggo per terra il sangue umano,
mi genera a vederlo un gran diletto,
e tengo sempre 'l mio caval sellato
per esser presto presto in ogni lato.
Oh quante brighe, oh quante occisioni
son per me fatte in città e in castella:
ho buon affar nelle religioni,
Vommene pe' conventi in ogni cella,
metto l'un l'altro in gran divisioni
i' facendo mormorar di chi favella,
poi mi metto in cammino e in poch'ore
mi trovo in corte di qualche signore.
L'ultima battaglia è tra il Senso o la Sensualità e la Ragione.
L'anima pregando si sente sopraffatta dal corpo:
Io ti vorrei, Signor, sempre servire,
ma questo corpo m' è molto molesto;
che s'io voglio vegliar, e' vòl dormire,
ogni po' di disagio lo fa mesto,
e comincia di fatto a impallidire.
la Sensualità che vede questo mi dice:
- Tu vorrai volar senz'ale,
e dare un buon guadagno allo spedale.
-
E la Sensualità, così invocata, le dice beffando:
Tu vorresti ir al ciel così vestita:
io ti vo' dire il ver senza rispetto:
a me pare che tu ti sie smarrita,
faresti meglio a picchiarti un po' il petto:
non vorresti patir caldo, nè gielo,
e calzata e vestita andare in cielo.
Ma ecco la Ragione dire all'anima:
Deh dimmi, anima mia, ch'hai tu avuto,
io m'era appunto appunto addormentata.
E saputo il fatto, dice della sua nemica:
Ella è una bestiaccia sì insolente,
bisogna non lasciar punto la briglia:
battila spesso senza discrezione,
e non gli mostrar mai compassione.
- Ma che dovevo fare? - dice l'anima:
Dovevi tutta aprirti nelle braccia,
a pigliare una mazza tanto grossa,
che rompessi la carne e tutte l'ossa.
La Sensualità non se ne spaventa, e dopo uno scambio di villanie aggiunge:
Questa Ragione è sol ipocrisia,
e non sa appena dir l'ave Maria.
E m'incresce di te c'hai questo sprone,
bisognerà che tu te lo cavassi.
Deh! fa a mio modo, piglia un buon mattone,
dàgli nel capo che tu lo fracassi.
La sta 'l dì e la notte inginocchione
col collo torto e dice pissi passi...
:
- Piglia qualche piacer, deh fa' a mio modo,
che a dargli un po' di spasso gli è dovuto.
La Ragione è vinta e l'anima cede.
Ella desidera una ghirlanda con un nodo,
come di quelle ch'io ho già veduto.
E il demonio aggiunge:
Fàtt'un bel tocco di velluto rosso
e una zimarra per tenere in dosso.
Così la Ragione è impotente senza la Grazia.
Comparisce Dio stesso:
Vòltati a me, non mi far resistenza,
ch'io t'ho aspettato e aspetto a penitenza.
L'anima pentita del mal pensiero risponde:
Non merito da te essere udita
pe' miei gravi pensieri, iniqui e stolti.
Io ho la tua bontà tanto schernita,
ch'io non son degna che tu mi ti volti,
e senza te io son come smarrita,
nessun non trovo che il mio cor conforti.
Se tu, Signor, che hai per me il sangue sparso,
non mi soccorri, ogni rimedio è scarso.
Allora Dio le manda in soccorso le virtù cardinali, Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Misericordia, Povertà, Pazienza, Umiltà.
Ciascuna parla di sè, citando talora questo o quel passo della Bibbia.
Ecco alcuni brani:
PRUDENZA - Io ti conforto che tu sia prudente
in tutte l'opre tue come il serpente.
TEMPERANZA - Terrai la via del mezzo in ogni cosa,
e sarà la tua mente graziosa.
FORTEZZA - Tullio dice di me questa parola:
che ognun venga a imparare alla mia scuola.
Che la Fortezza ancor rapisce il cielo,
lo dice san Matteo nell'Evangelo.
GIUSTIZIA - Dice David con la sua voce amena:
«Di Giustizia è la destra d'Iddio piena.»
MISERICORDIA - Mercè, mercè, o Giustizia divina,
abbi pietà dell'alma pellegrina...
;
perdona volentieri a chiunche erra,
chè son rinchiusi in un vaso di terra.
E questo vaso è sì pericoloso,
nel quale sta rinchiusa questa gioia.
Mentre che l'alma resta in questa vita,
di lacci trova presi tutt'i passi:
però bisogna a lei il divin aiuto,
chè senza quello ogni cosa è perduto.
POVERTÀ - Io son la Povertà, o città mia,
che non so chi mi voglia in compagnia.
E son quella virtù che da' potenti
son rifiutata e mandata al profondo:
non è nessun che di me si contenti,
eziandio que' ch'han lasciato il mondo.
Ognun va dreto a' ricchi e bei presenti,
ma io di mendicar non mi vergogno,
perchè gli è di me scritto nel Vangelo:
«Quel che mi segue arà il regno del cielo.»
PAZIENZA - O popul mio, io son la Pazienzia;
che più non ho chi mi dia audienzia.
O degna Povertà, virtù perfetta,
che tanto fust'accetta al Verbo eterno...
,
felice è quella che ti sta suggetta,
nel ciel sarà felice in sempiterno;
che non si può godere in questa vita,
e il paradiso avere alla partita.
POVERTÀ -...
M'affliggo e doglio
che la perfezione quasi è mancata,
non è più il tempo de' padri passati,
ch'erano pover, vili e disprezzati.
PAZIENZA - Chi pensa andare al ciel per altra via,
che per patir, si troverà ingannato.
Giesù diletto figliuol di Maria
n'ha dato esempio e a tutti ha insegnato...
Per dimostrarci che s'avea a patire,
elesse su la croce di morire.
UMILTÀ - L'Umiltade son io, fratei diletti,
oggi non c'è nessun che mi raccetti...
Vestitevi di Cristo, o genti stolte,
non vi avvedete voi che il tempo vola?
Non entra in paradiso alcun difetto,
non v'entra quel ch'a Dio non è suggetto.
Andiam cercando, care mie sorelle,
per tutto il mondo un po' nostra ventura:
se nel gregge di Cristo una di quelle
ci ricevessi con la mente pura,
perchè noi siam vestite poverelle,
non vorrei gli facessimo paura;
ch'oggidì le virtù non son richieste,
ma fassi onore a chi ha le belle veste.
L'anima contrita e fortificata alza un canto a Dio:
A te mi do, Signor clemente e pio,
e voglio a te servir tutt'i miei anni,
altro che te non bramo e non desio.
Io ho fuggito il mondo pien d'affanni,
dove si trova sol doglia o mestizia,
ben è infelice chi veste suo' panni.
Ei mostra nel principio la letizia,
e di dover donar pace e riposo:
di poi non dà se non pianto e tristizia.
O mondo cieco, falso e tenebroso,
che hai tant'amator in questa vita,
e non mostri il velen che hai drento ascoso,
per dolenti poi farli alla partita.
Colpita da grave infermità, dice:
O m'è venuto tanto male addosso,
che più star ritta niente non posso.
Che vuol dir questo? È mi manca la vita.
Giesù Giesù, dolce Signore, aita.
Intorno alla morente fanno l'ultima battaglia l'angiolo e il demonio.
Gli argomenti dell'angiolo si possono ridurre in questi tre versi:
Umana cosa è cascare in errore,
e angelica cosa è il rilevarsi...
,
sol diabolica cosa è star nel vizio.
Dio accoglie l'anima e pronunzia il suo giudizio:
E questa è la mia ultima sentenzia,
che la venghi a fruir la mia presenzia.
E l'angiolo dice
Partite tutti: la sentenza è data:
sonate per dolcezza una calata.
E il coro accompagna l'anima al cielo con questo canto:
O felice alma, che dal corpo sciolta
e per amor congiunta col tuo Dio,
la vita t'è donata e non t' è tolta...
,
sei fatta ricca di un prezzo sì pio,
e con veste sì bella e nupziale
al convito starai celestiale.
Così finisce questa rappresentazione, detta «commedia» perchè si conchiude con la salvazione e non con la perdizione dell'anima.
È detta anche «misterio», per la sua natura allegorica.
È uno degli antichissimi misteri liturgici, ritoccato, ripulito, rammodernato e fatto laico a' tempi di Lorenzo de' Medici e forse più in là, a giudicare dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di formazione artistica, come nelle figure del demonio, dell'Odio, della Sensualità, della Povertà, e da un certo non so che beffardo e grottesco, che svela poca serietà e unzione nello scrittore e negli spettatori.
Ma se la trama è moderna, la stoffa è antica, e ricorda il duello del Senso e della Ragione, così comune negli scritti volgari che apparvero prima, e la battaglia de' vizi e delle virtù del Giamboni, e le tre allegorie cristiane.
Anzi questa Commedia dell'anima non è se non le tre allegorie messe in rappresentazione.
Là trovi tre gradi di santificazione, Umano, Spoglia e Rinnova.
E anche qui l'anima è prima combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci, perchè «umana cosa è cascare in errore», poi fa la sua penitenza, si spoglia e si monda della scoria del peccato, e così a Dio si rimarita, come dice Dante, o, come dice il nostro autore, sta «al convito celestiale con veste bella e nuziale».
Questi tre gradi aveano la loro formazione liturgica nell'inferno, purgatorio e paradiso, che erano appunto il senso, l'Umano puro, abbandonato a se stesso, lo Spoglia o la penitenza, che purga o monda l'anima, e il Rinnovamento o la luce mentale, la beatitudine.
Questo era il concetto delle rappresentazioni che aveano a materia l'altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni Villani, che ebbe luogo a Firenze.
L'altro mondo era la storia, o come si diceva la «Commedia dell'anima», la quale non potea giungere a redimersi dall'umanità, dal corpo, dalla carne, dall'inferno, se non con la penitenza, purificandosi e purgandosi, e così contrita e confessa diveniva leggiera, saliva al cielo.
Questa Commedia spirituale dell'anima, di cui ho voluto dare un sunto possibilmente esatto, è il codice di quel secolo, il contenuto astratto e generale, particolarizzato nelle vite, nelle leggende, ne' trattati e nella lirica Spiritus intus alit.
Lo spirito che alita per entro a quelle prose e a quelle poesie è la «Commedia dell'anima».
Ma in tante prose e in tante poesie non ci è ancora un vero lavoro d'individuazione e di formazione.
Il contenuto rimane nella sua astratta semplicità, innominato e impersonale, l'anima.
Essendo il suo fondamento la contemplazione e non l'azione, o un'azione negativa, la resistenza agl'istinti e agli affetti naturali, non penetra nella vita, non ne assume tutte le forme, non diventa la società.
Certo, quell'azione negativa è molto poetica, è il sublime religioso, e tocca il cuore, quando è rappresentata con semplicità e unzione.
Ma in questo contrasto tra il sentimento religioso e la natura, ciò che move più è il grido della natura, come ne' lamenti della madre di santo Alessio o di santa Eugenia, o nel dolore d'Isacco nel Sacrifizio di Abraam, che all'annunzio della sua morte chiama la madre:
O santa Sara, madre di pietade,
se fussi in questo loco, io non morrei...
Tutta è l'anima mia trista e dolente
per tal precetto, e sono in agonia.
Tu mi dicesti già che tanta gente
nascer doveva della carne mia.
Il gaudio volge in dolor sì cocente,
che di star ritto non ho più balìa.
S'egli è possibil far contento Dio
fa ch'io non mora, o dolce padre mio.
Quantunque questo non sia che uno de' lati più angusti e solitari della vita umana, così ricca e varia ne' suoi aspetti, pure offre contrasti e gradazioni, che lo rendono capacissimo di un grande sviluppo artistico.
Ma in quel suo albore la letteratura ha lo stesso carattere che mostra nella decadenza, la naturalità o materialità del contenuto.
Tante vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la curiosità con la varietà e novità degli accidenti, e si attendeva più allo spettacoloso, a colpire l'immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose, che a lavorarle e svilupparle.
Mancava la virtù di mettersi gli oggetti a distanza e trasformarli: la realtà anche nuda era per se stessa maravigliosa e bastava ad ottenere l'effetto, operando in modo semplice e immediato sullo scrittore e su' lettori.
Oltrechè, siccome il contenuto riposava su di una dottrina liturgica, stabilita e inalterabile, poco era accomodato ad una rappresentazione libera e artistica, anche quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da' laici, come fu anche de' misteri.
Impadronirsi di quel contenuto, cacciarlo dalla sua generalità, dargli corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione.
Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di esempli, di sentenze e di allegorie, come si vedea nella Bibbia.
Il reale, il concreto non avea valore se non come figura della dottrina.
Ecco ad esempio in che modo è nella Commedia dell'anima figurato il paradiso:
In su quel monte dove sta il Signore,
v'è una fontana traboccante e bella,
che sempre getta un mirabil liquore.
D'oro e d'argento n'è la sua cannella,
le sponde di smeraldi e d 'oro fine,
e tutta la città circonda quella.
Salite al monte, o alme peregrine,
salite al monte, e lassù troverete
soprabbondanti le grazie divine.
Le ultime parole spiegano la figura.
Quella è la fontana della divina Grazia.
Con questa tendenza lo scrittore sta contento alla semplice personificazione e gli pare di aver fatto assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto.
Oltre a ciò, l'uomo colto, schivo delle forme semplici e volgari dell'umile credente, mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa fede ragionata e sillogizzata fa la filosofia, figliuola di Dio.
Lo studio del secolo è di allegorizzare e dimostrare, anzichè di rappresentare; è di chiarire quel contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anzichè coglierlo in azione e nell'atto della vita.
Perciò l'opera letteraria tiene dell'allegoria e del trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane nell'infanzia.
Mai non ti senti ben fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con tali caratteri, passioni e costumi, anzi lo scrittore ti par quasi estraneo alla società e alle sue lotte, e dimora nell'astratta e monotona generalità della sua contemplazione.
E quando pur scende a rappresentare la vita, ti senti d'un tratto balzato nel regno de' misteri, delle leggende e delle visioni, nell'altro mondo.
La visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto, quando si vuol rappresentarlo.
La vita e la realtà è il senso, la carne, il peccato, e lo scrittore o guarda e passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla, rappresentandola non quale appare in terra, ma quale è nell'altro mondo.
La rappresentazione è dunque la visione della realtà, come sarà dopo la morte, e là si spazia e si diletta l'immaginazione.
E se il mistero è commedia, ed ha per conclusione la santificazione e la beatitudine, la visione è spesso pittura delle pene infernali, lasciate alla libera immaginazione de' predicatori, de' vescovi, de' frati, de' santi Padri, che col terrore operavano sulle rozze immaginazioni.
Laghi di zolfo, valli di fuoco o di ghiaccio, botti d'acqua bollente, rettili, vermi, dragoni da' denti di fuoco, demòni armati di lance, di fruste, di martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al suolo con tanti chiodi che «non pare la carne», o sospesi per le unghie in mezzo al zolfo, o menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a «cerchi rosseggianti», o infissi a spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano di metalli fusi: ecco la realtà delle visioni, rappresentata co' più vivi colori.
I tre monaci che si mettono in viaggio per iscoprire il paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di cammino attraversano l'inferno:
«E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero.
E pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle quali eran confitte nell'un monte e l'altre due nell'altro; e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sì fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi.
E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo, e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra.»
Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone:
«Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori, e la barba e i capelli pareano d'oro, e ' denti suoi parevano di ferro, e gli occhi acuti e lucenti come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la lingua, e parea che per le nari e per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo.»
Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di frate Alberico, e quella d'Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò secondo, narra di un conte ricco, e insieme onesto, «ciò che è proprio un miracolo in questa gente», egli dice.
Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d'una scala lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù nell'inferno.
Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest'ordine, che quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso, dove tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti.
E chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama di sè, si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati, di cui il conte è l'erede in decimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione.
- Questa pena, che colpisce un'intera generazione, è molto poetica, mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano indeterminato, messo costantemente innanzi all'immaginazione de' condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno.
Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato; che la virtù è negazione della vita terrena, e contemplazione dell'altra; che la vita non è la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà non è quello che è, ma quello che dee essere, ed è perciò la scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto, è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia.
Appunto perchè l'individuo è pulvis et umbra, e la realtà è pura scienza ed un di là della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di formazione.
Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell'amore divino.
La donna, come donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l'uomo a Dio.
Il maggior grado di realtà, a cui questo mondo sia pervenuto, è nella lirica di Dante.
La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma, è Beatrice, la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l'anima nella commedia spirituale, breve apparizione, tornata così presto in cielo tra' canti degli angioli.
La sua vita terrena è quasi non altro che nascere e morire.
La sua vera vita comincia dopo la morte, nell'altro mondo.
Ivi è luce mentale o intellettuale, verità e scienza, filosofia.
Ma non è filosofia incarnata, mondo vivente, dove l'idea di Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura scienza, incapace di rappresentazione nella sua forma scolastica di trattato e di esposizione.
È scienza non ancora realizzata, non ancora corpo; è idea, non è visione; è didattica, non è commedia o rappresentazione.
Hai «misteri» e visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè un mondo vivente nel suo insieme e ne' suoi aspetti, dove sia realizzato quel concetto teologico e filosofico dell'umanità, comune al secolo e rimasto ancora nella sua astrazione dottrinale.
Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando una lingua già formata, molta varietà di forme metriche, una poetica, una rettorica, una filosofia, ed un concetto della vita ancora didattico e allegorico, con rozzi tentativi di formazione e individuazione.
Il suo primo individuo poetico è Beatrice, il presentimento e l'accento lirico di un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora fuori della vita.
VI
IL TRECENTO
Quello che il secolo precedente concepì e preparò, fu realizzato in questo secolo detto aureo.
I posteri compresero sotto questo nome tutto un periodo letterario, dove si trovano mescolati dugentisti e quattrocentisti.
E in verità le notizie cronologiche sono sì scarse e incerte, che non è facile assegnare di ciascuno scrittore l'età, seguire strettamente l'ordine del tempo.
Al nostro scopo è più utile seguire il cammino del pensiero e della forma nel suo sviluppo, senza violare le grandi divisioni cronologiche, ma senza cercare una precisione di date, che ci farebbe sciupare il tempo in conietture e supposizioni di poco interesse.
Questo secolo s'apre con un grande atto, il Giubileo, pontefice Bonifazio ottavo.
Tutta la cristianità concorse a Roma, d'ogni età, d'ogni sesso, di ogni ordine e condizione, per ottenere il perdono de' peccati e guadagnarsi la salute eterna.
Tutti animava lo stesso concetto espresso così variamente in tante prose e poesie: la maledizione del mondo e della carne, la vanità de' beni e delle cure terrestri e la vita cercata al di là della vita.
Il nuovo secolo cominciava, consacrando in modo tanto solenne il pensiero comune nella varietà della cultura.
I preti e i frati soprastavano nella riverenza pubblica, non solo pel carattere religioso, ma per la dottrina, tenuta loro privilegio, tanto che il Villani loda di scienza Dante, aggiungendo: «benchè laico», e i dotti uomini, benchè laici, erano detti chierici.
Tutta la società italiana, raccolta colà dallo stesso fine, rendeva una viva immagine di quel pensiero comune e di quella varia cultura.
Vedevi i contemplanti, i remiti, i solitari del deserto e della cella col corpo macero da' digiuni, da' cilizii e dalle vigilie, ritratti viventi de' misteri e delle leggende.
C'erano gli umili di spirito, animati da schietto sentimento religioso e che tenevano la scienza come cosa profana, e ci erano i dotti, i predicatori e i confessori, il cui testo era la Bibbia e i santi Padri.
Vedevi gli scolastici e gli eruditi, teologi e filosofi, che univano in una comune ammirazione i classici e i santi Padri, disputatori sottili di tutte le cose e anche delle cose di fede, parlanti un latino d'uso e di scuola, vibrato, rapido, vivace, dove sentivi il volgare destinato a succedergli, amici della filosofia con quello stesso ardore di fede che gli altri si professavano servi del Signore, ma di una filosofia non ripugnante alla fede, anzi sostegno, illustrazione e ragione di quella, confortata da sillogismi e da sentenze e da citazioni, dove trovi spesso Tullio accanto a san Paolo.
Alteri della loro scienza e del loro latino, spregiatori del volgare, da costoro uscivano que' trattati, que' comenti, quelle «somme», quelle storie, che empivano di maraviglia il mondo.
Accanto a questi veggenti della fede e della filosofia, a questa vita dello spirito, trovi la vita attiva e temporale, affratellati dallo stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali e i priori e gli anziani delle repubbliche, il cavaliere de' romanzi e il mercatante delle cronache.
Là, appiè del Coliseo, un ardito negoziante, Giovanni Villani, pensò che la sua Fiorenza, figliuola di Roma, era non meno degna di avere una storia, e la scrisse.
Fra tanto splendore e potenza del chiericato, lo spregiato laico cominciava a levare la testa e pensava all'antica Roma e a Firenze, figliuola di Roma.
Là molte amicizie si strinsero, molte paci si fecero, come avviene in certi grandi momenti della storia umana; sparirono guelfi e ghibellini, ottimati e popolari, baroni e vassalli, stretti tutti ad una sola bandiera: uno Dio, uno papa, uno imperatore.
Là il papato ebbe l'ultimo suo gran giorno, l'ultimo sogno di monarchia universale, rotto per sempre dallo schiaffo di Anagni.
Il giubileo ci dà una immagine di quello che dovea essere la letteratura nel secolo decimoquarto.
Ebbe dal secolo antecedente la sua materia, i suoi istrumenti e il suo concetto, del quale il giubileo fu una così splendida manifestazione.
Ma quel concetto, rimaso nella sua astrazione intellettuale e allegorica, con così scarsi inizi di rappresentazione ne' misteri e nelle visioni, ancora senza nome altro che di Beatrice, breve apparizione, svaporata subito nelle astrattezze della scienza, ebbe nel Trecento la sua vita, e venne a perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di quel secolo.
L'uomo, che dovea dare il suo nome al secolo, avea già trentatrè anni, avea creato Beatrice e volgea nella mente non so che più ardito, che dovesse abbracciare tutta l'umanità.
Tenzonava nel suo capo il filosofo e il poeta: ci era il Convito e ci era la Commedia.
Ma, per apprezzare più degnamente quella vasta sintesi che ne uscì, è bene preceda l'analisi, studiando la fisonomia del secolo negl'ingegni più modesti che non conobbero, di tutto quel mondo, se non questa o quella parte.
E c'incontriamo dapprima nella letteratura claustrale, ascetica, mistica, religiosa, continuazione in prosa di fra Iacopone, ma in una prosa piena di poesia.
Domenico Cavalca, l'autore de' Fioretti, Guido da Pisa, Bartolomeo da San Concordio, Iacopo Passavanti, Giovanni dalle Celle non sono scrittori astratti e impersonali, come quelli del secolo innanzi, ma, anche volgarizzando, senti che quegli uomini prendono viva partecipazione a quello che scrivono, e vivono là dentro, e ci lasciano l'impronta del loro carattere e della loro fisonomia intellettuale e morale.
Usciamo dalle astrattezze de' trattati e delle raccolte sotto nome di «fiori», «giardini» e «tesori», ed entriamo nella realtà della vita, nel vero giardino dell'arte.
Perchè questi uomini non ragionano, non disputano, e di rado citano: la loro dottrina va poco al di là della Bibbia e de' santi Padri: ma narrano quel medesimo che si rappresentava ne' misteri, vite, leggende e visioni, e sono narrazioni più vive e schiette, che non i misteri del Quattrocento, raffazzonamenti degli antichi, con più liscio, ma dove desideri la purità e semplicità delle prime ispirazioni.
Gli scrittori son tutti frati, ed hanno le qualità degli uomini solitari, il candore, l'evidenza, e l'affetto.
Hanno l'ingenuità di un fanciullo che sta con gli occhi aperti a sentire, e più i fatti sono straordinari e maravigliosi, più tende l'orecchio e tutto si beve: qualità spiccatissima ne' Fioretti di san Francesco, il più amabile e caro di questi libri fanciulleschi.
L'immaginazione concitata dalla solitudine presenta gli oggetti così vivi e propri, che vengon fuori di un getto, non solo figurati, ma animati e coloriti caldi ancora dell'impressione fatta sullo scrittore.
Nel quale l'affetto è tanto più vivace e impetuoso e lirico, quanto la sua vita è più astinente e compressa: quasi vendetta della natura, che grida più alto, dove ha più contrasto.
Non ci è in queste prose alcuna intenzione artistica, nessun vestigio di studio, o di sforzo, o di esitazione, o di scelta; manca soprattutto il nesso, la distribuzione, la gradazione.
Ma si conseguono tutti gli effetti dell'arte che nascono da movimenti sinceri e gagliardi dell'immaginazione e dell'affetto, e n'escon pagine animate, e potenti assai più sul tuo spirito che non tanti romanzi moderni.
Cito fra l'altro la storia di Abraam romito, che prende veste e costume di cavaliere mondano, e mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne per convertire la sua nipote Maria.
Il suo incontro con Maria nella taverna, gli allettamenti lascivi di costei, la sua sorpresa e vergogna quando nel bel cavaliere scopre il suo zio, e i rimproveri affettuosi di lui e le grida strazianti e disperate della bella pentita sono una vera scena drammatica, alla quale non trovi niente comparabile nel teatro italiano.
In queste Vite del Cavalca, che sono traduzioni, ma per la freschezza e spontaneità del dettato e per la commossa partecipazione del frate sono cosa originale, il concetto del secolo, uscito dalle astrattezze teologiche e scolastiche, prende carne, acquista una esistenza morale e materiale.
Il santo è esso medesimo il concetto divenuto persona, e la sua rappresentazione ti offre il nuovo mondo morale aperto al cristiano, fatto attivo e divenuto storia, la storia del santo.
Cardine di questo mondo morale è la realtà della vita nell'altro mondo e la guerra a tutti gl'istinti e affetti terreni, l'astinenza e la pazienza, il «sustine et abstine»; e però le sue virtù non esprimono altro che la vittoria dell'uomo sopra se stesso, sulla sua natura: indi l'umiltà, il perdono delle offese, la povertà, la castità, l'ubbidienza.
Se la vittoria fosse preceduta dalla lotta, lo spettacolo sarebbe sublime; ma il più sovente il santo entra in iscena ch'è già santo e nell'esercizio quieto delle sue cristiane virtù, interrotto a volte dalle tentazioni del demonio cacciato via da scongiuri e segni di croce: ciò che è grottesco più che sublime.
Il santo è troppo santo perchè la sua vita possa offrirti una vera contraddizione e battaglia tra il cielo e la natura, ciò che rende così drammatica la vita di Agostino e di Paolo.
Qui hai racconti uniformi, infinite ripetizioni, rarissimi contrasti, e spesso provi noia e stanchezza.
La musa di queste cristiane virtù non è la forza, e non è l'azione, ma è un certo languir d'amore, una effusione di teneri e dolci sentimenti, liriche aspirazioni ed estasi e orazioni, un impetuoso prorompere degli affetti naturali tosto sedato e riconciliato, il sacrificio ignorato e oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena dopo la morte.
Una delle vite più interessanti e popolari è quella di santo Alessio, che abbandona la nobile casa paterna e la sposa il dì delle nozze, e va peregrinando e limosinando, e dopo molti anni tornato in patria, serve non conosciuto in casa del padre, e non si scopre alla madre e alla sposa, e i servi gli danno le guanciate, e lui umile e paziente.
Questa vittoria sulla natura non fa effetto, perchè in Alessio non ci è l'«homo sum», non ci è lotta, non la coscienza del sacrifizio, parendo a lui naturale e facile esercizio di virtù quello che a noi uomini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile.
L'innaturale è in lui natura: perfezione ascetica, ma non artistica.
L'interesse comincia, quando la natura fa sentire il suo grido, e col suo contrasto sublima il santo; quando, saputo il fatto, il pontefice con infinita moltitudine traendo a venerare il servo spregiato, si odono tra la folla queste grida: «Prestatemi la via, datemi loco, fate che io vegga il figliuol mio, quello che ha succiato le mammelle mie».
E ragionando col cuore di madre, la donna accusa il figlio e lo chiama «senza cuore», e poi nel suo dolore lo glorifica e ricorda che i servi gli davano le guanciate.
Scene simili non sono scarse in queste Vite: ricorderò la madre di Eugenia e Maria Maddalena, eloquentissima nelle sue lacrime.
Una vera intenzione artistica si scorge nello Specchio di penitenza di Iacopo Passavanti, una raccolta di prediche ridotte in forma di trattati morali, accompagnati con leggende e visioni dell'altro mondo.
Il frate mira a fare effetto, inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione de' vizi e delle pene.
La musa del Cavalca è l'amore, e la sua materia è il paradiso, che tu pregusti in quello spirito di carità e di mansuetudine, che comunica alla prosa tanta soavità e morbidezza di colorito.
La musa del Passavanti è il terrore, e la sua materia è il vizio e l'inferno, rappresentato meno nel suo grottesco e nella sua mitologia, che nel suo carattere umano, come il rimorso è il grido della coscienza.
Intralciato e monotono nel discorso, il suo stile è rapido, liquido pittoresco nel racconto.
Diresti che provi voluttà a spaventare e tormentare l'anima: cerca immagini, accessorii, colori, come istrumenti della tortura, e ti lascia sgomento e assediato da fantasmi.
Il periodo spesso ben congegnato, svelto e libero, la cura de' nessi e de' passaggi, la distribuzione degli accessorii e de' colori, l'intelligenza delle gradazioni, un sentimento di armonia cupo che accompagna lo spettacolo, fanno del Passavanti l'artista di questo mondo ascetico.
Ma ecco fra tante vite di santi il santo in persona, scrittore e pittore di sè medesimo, Caterina da Siena.
Abbandonata la madre e i fratelli, resasi monaca, macerato il corpo co' cilizii e digiuni, vive una vita di estasi e di visioni, e scrive in astrazione anzi dètta con una lucidità di spirito maravigliosa.
Scrive a papi a principi, a re e regine, come alla madre, a' fratelli, a frati e suore, dall'altezza della sua santità, con lo stesso tono di amorevole superiorità.
Nelle più intricate faccende prende il suo partito risolutamente, consigliando e quasi comandando quella condotta che le pare conforme alla dottrina di Cristo.
Ho detto «pare», e dovrei dire «è»: perchè nessun dubbio o esitazione è nel suo spirito, e le dottrine più astruse e mentali le sono così chiare e sicure come le cose che vede e tocca.
Ha la visione dell'astratto, e lo rende come corpo, anzi fa del corpo la luce e la faccia di quello.
Indi un linguaggio figurato e metaforico, spesso sazievole, talora continuato sino all'assurdo.
È un po' il fare biblico; un po' vezzo de' tempi; ma è pure forma naturale della sua mente.
Vivendo in ispirito, le cose dello spirito le si affacciano palpabili e visibili come materia, e così come vede Cristo e angioli, vede le idee e i pensieri.
È una regione spirituale, divenutale per lungo uso così familiare, che ne ha fatto il suo mondo e il suo corpo.
Questa chiarezza d'intuizione, accompagnata con la squisita sensibilità e la perfetta sincerità della fede le fanno trovare forme delicate e peregrine, degne di un artista.
Ma le spesse ripetizioni, l'esposizione didattica, quell'incalzare di consigli, di esortazioni e di precetti senza tregua o riposo rendono il libro sazievole e monotono.
In queste lettere di Caterina quel mondo morale, rappresentato nelle vite, nelle estasi, nelle visioni de' santi, è sviluppato come dottrina in tutta la sua rigidità ascetica.
È il codice d'amore della cristianità.
La perfezione è «morire a se stesso» secondo la sua frase energica, morire alla volontà, alle inclinazioni, agli affetti umani, sino all'amore de' figli, e tutto riferire a Dio, di tutto fare olocausto a Dio.
Il suo amore verso Cristo ha tutte le tenerezze di un amore di donna, che si sfoga a quel modo, lei inconscia.
L'ultima frase di ogni sua lettera è: «Annegatevi, bagnatevi nel sangue di Cristo».
Ardente è la sua carità pel prossimo: «Amatevi, amatevi», grida la santa, e predica pace, concordia, umiltà, perdono, voce inascoltata.
La regina Giovanna rispondea alla santa con riverenza, e continuava la vita immonda.
Lo scisma giungeva al sangue nelle vie di Roma.
Più alto e puro era l'ideale della santa, meno era efficace sugli uomini.
La sua vita si può compendiare in due parole: amore e morte.
Celebre è la sua lettera sul condannato a morte, da lei assistito negli ultimi momenti: «Teneva il capo suo sul petto mio.
Io allora sentivo un giubilo e un odore del sangue suo; e non era senza l'odore del mio, il quale io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù».
Il sangue di Cristo la esalta, la inebbria di voluttà.
Ad una serva di Dio scrive: «Inebriatevi del sangue, saziatevi del sangue, vestitevi del sangue».
«Sudare sangue», «trasformarsi nel sangue», «bere l'affetto e l'amore nel sangue», sono immagini di questo lirismo.
Della cella «si fa un cielo», e vi gusta «il bene degl'immortali, obumbrandola Dio di un gran fuoco d'amore».
Nella estasi o visione o esaltazione di mente, è gittata giù, e le pare come se l'anima sia partita dal corpo.
Il corpo pareva quasi venuto meno.
Le membra del corpo, dice Caterina, si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco.
E altrove: «Nel corpo a me non pareva essere, ma vedevo il corpo mio come se fosse stato un altro».
Questi ardori d'anima, queste illuminazioni di mente, questi martìri d'amore sono espressi con una semplicità ed evidenza, che testimoniano la sua sincerità.
L'anima «innamorata e ansietata d'amore, affocata» dal desiderio «crociato» o della croce, «annegata la propria volontà» nell'amore del «dolce e innamorato Verbo», vive nel corpo come fosse fuori di quello.
Posto il suo amore al di là della vita, vive morendo, dimorando con la mente al di là della vita.
Ma questa morte spirituale non l'appaga: «muoio e non posso morire», dice la santa.
Gli ultimi giorni furono battaglie con le dimonia e colloquii con Cristo, e a trentatrè anni finì la vita, consumata dal desiderio.
La «Commedia dell'anima» è ora pienamente realizzata nel suo aspetto religioso, come espressione letteraria.
Quell'anima ora ha un nome, è una persona, Alessio, Eugenia, Caterina.
Il demonio e la carne sono un mondo pieno di vita ne' racconti del Passavanti.
Quelle virtù allegoriche che escono in processione sulla scena sono le opere, le volontà, le passioni e i pensieri de' santi.
E la Divina Commedia, la trasfigurazione e la glorificazione dell'anima, la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra i canti degli angioli, qui sono estasi, rapimenti dell'anima, colloquii con Dio, mistica unione con Cristo, e dopo la morte la santificazione e la contemplazione nell'eterna luce.
Quel concetto è uscito dall'astrattezza della scienza e dell'allegoria, dalla sua vuota generalità, e si è incarnato, è divenuto uomo.
La prosa italiana in questa letteratura acquista evidenza, colorito, caldezza di affetto, in un andar semplice e naturale, specialmente quando vi si esprimono sentimenti dolci e ingenui.
È perfetto esemplare di stile cristiano, guasto di poi.
Alla sua perfezione manca un più sicuro nesso logico, maggiore sobrietà e scelta di accessorii, ed una formazione grammaticale e meccanica più corretta.
Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a ciò che di più perfetto è nella prosa moderna.
L'Imitazione di Cristo è certo prosa superiore, scritta in tempo di maggior coltura.
Ci è una maggiore virilità intellettuale, una logica più stretta, e pura di quella pedanteria scolastica che inseguiva i frati fino nel convento.
Ma non è superiore, quanto a quelle qualità organiche, dove è il segreto della vita, la schiettezza dell'ispirazione e il calore dell'affetto; e spesso in quella prosa, mirabile di precisione e di proprietà, desideri l'energia e l'intuizione di Caterina.
Nè questa prosa era già fattura di un solo, o di pochi, perchè la trovi anche ne' minori che scrivevano delle cose dello spirito.
Citerò una lettera di un discepolo di Caterina, che annunzia la sua morte:
«Credo che tu sappi come la nostra reverendissima e carissima mamma se ne andò in paradiso domenica, addì 29 di aprile (1380); lodato ne sia il Salvatore nostro, Gesù Cristo crocifisso benedetto.
A me ne pare essere rimaso orfano, però che di lei avevo ogni consolazione, e non mi posso tenere di piangere.
E non piango lei, piango me, che ho perduto tanto bene.
Non potevo fare maggiore perdita, e tu 'l sai...
.Della mamma si vuol fare allegrezza e festa, quanto che è per lei; ma di quelli suoi e di quelle che sono rimasi in questa misera vita, ène da piangere e da avere compassione grandissima.
Con veruna persona mi so dare dolore, quanto che con teco, che mi fusti cagione di acquistare tanto bene.
Prendo alcuno conforto, perchè nel mio cuore ène rimasa e incarnata la mamma nostra assai più che non era in prima; e ora me la pare bene conoscere.
Chè noi miseri ne avevamo tanta copia, che non la conoscevamo e non savamo degni della sua presenzia...
.
Carissimo fratello, io sono fatto tanto smemoriato del bene che ho perduto, ch'io ti scrivo anfanando.
E però di ciò non ti scrivo più.»
Lo stesso stile è in Giovanni dalle Celle, Stefano Maconi e altri frati.
Ecco in che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni particolari della fine di Caterina:
«Nella domenica di sessaggesima svenne, e perdè il vigore di sanità, mantenutole dalla forza dello spirito, e che non pareva scemarsi per inedia.
Il dì poi, un altro svenimento la lasciò lungamente come morta: se non che, risentitasi, stette in piede come se nulla fosse.
Cominciò la quaresima colle solite pratiche, esercizio a lei di consolazioni angosciose.
Ogni mattina, dopo la comunione le è forza rimettersi, sfinita, a letto.
Di lì a due ore usciva a San Pietro un buon miglio di strada, e lì stava orando infino a vespro.
Così fino alla terza domenica di quaresima, quando il male la spossò.
E per otto settimane giacque senza potere alzare il capo, tutta dolori.
A ogni nuovo spasimo alzando il capo, ne ringraziava Iddio lieta.
Alla domenica innanzi l'Ascensione, Il corpo non era omai più che uno scheletro, nel mezzo in giù senza moto, ma nel volto raggiante la vita.
Debole; un alito di respiro; pareva in fine; e le fu data l'estrema unzione.»
Questa eccellenza di dettato trovi pure ne' volgarizzamenti de' classici o di romanzi e storie allora in voga, come sono i volgarizzamenti di Livio e di Sallustio, i Fatti di Enea, gli Ammaestramenti degli antichi, voltati da Bartolomeo da San Concordio con un nerbo ed una vigoria degna del traduttore di Sallustio.
È una prosa adulta, spedita, calda, immaginosa, spesso colorita, con tutto l'andare di lingua viva e parlata, già nel suo fiore.
I romanzi operavano sul popolo non meno vivamente che la letteratura spirituale.
Nella sua immaginazione si confondea il cavaliere di Cristo e il cavaliere di Carlomagno, e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio e i fatti di Enea, e gli amori di Lancillotto e Ginevra.
Caterina trae dalla cavalleria molte sue immagini.
Chiama Cristo un «dolce cavaliere», «cavaliere dolcemente armato»; chiama la Redenzione un «torneo della morte colla vita».
Ma la letteratura cavalleresca rimase stazionaria e non produsse alcun lavoro originale.
Le traduzioni sono fatte senza intenzione seria, in prosa scarna e trascurata, posto il diletto nel maraviglioso de' fatti.
Agli stessi traduttori è materia frivola, buona per passare il tempo, e non vi partecipano, non sentono colà dentro il loro mondo e la loro vita.
Accanto a questo mondo dello spirito e dell'immaginazione c'era il mondo reale, il mondo della carne o della vita terrena, come si dicea, che si potea maledire, ma non uccidere.
Era la cronaca, memoria dì per dì de' fatti che succedevano, inanime come il dizionario, o come la lista delle spese.
Quelli che ne scrivevano con qualche intenzione artistica, la dettavano in latino e la chiamavano storia.
Latini erano anche i trattati scientifici e i lavori propriamente d'arte.
Quella letteratura spirituale e cavalleresca rimanea circoscritta al popolo ed era tenuta in poco conto da' dotti.
Costoro spregiavano il volgare, come buono solo a dir d'amore e di cose frivole, e le gravi faccende della vita le trattavano in latino.
Di questi illustre per ingegno, per coltura e per patriottismo fu Albertino Mussato, coronato poeta in Padova, sua patria.
Abbiamo di lui molte opere, alcune ancora inedite.
Scrisse in quattordici libri De gestis Henrici septimi Caesaris, e anche De gestis italicorum post mortem Henrici septimi, in dodici libri, de' quali alcuni sono in versi esametri.
Fece epistole, egloghe, elegie e due tragedie, l'Achilleis e l'Eccerinis.
Quest'ultima rappresenta la tirannide di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del demonio, e la vittoria de' comuni collegati contro di lui.
È narrazione più che azione, come ne' misteri, un narrare serrato e nervoso, le cui impressioni patetiche e morali sono espresse dal coro.
Sotto a quel latino ossuto e asciutto palpita l'anima del medio evo.
Senti una società ancor rozza, selvaggia negli odii e nelle vendette, senza misura nelle passioni, poco riflessiva, di proporzioni epiche anche in forma drammatica.
Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in modo che n'esca fuori un personaggio drammatico.
Egli rimane ravvolto nel suo manto epico, come Farinata.
È figlio de demonio, e lo sa e se ne gloria, e opera come genio del male, con piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni colossali.
Invoca il padre e dice:
Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;
annue, Satan, et filium talem proba.
E quest'uomo rimane così intero e tutto di un pezzo: manca l'analisi, senza di cui non è dramma.
Il concetto della tragedia è più morale che politico, quantunque il fatto sia altamente politico, rappresentando la lotta tra i comuni liberi e i tirannetti feudali.
Certo, in Mussato c'è il guelfo e ci è il padovano, che l'ispira e l'appassiona.
Ma il motivo tragico è affatto morale.
Ezzelino è punito non perchè offende la libertà, ma perchè opera scelleratamente, e «qui gladio ferit, gladio perit»: ciò che è in bocca al coro la conclusione del fatto:
Consors operum
meritum sequitur quisque suorum.
È il concetto ascetico dell'inferno applicato anche alla vita terrestre.
Questa nella sua prima apparizione letteraria è ancora nella sua generalità morale, non è sviluppata nei suoi interessi, ne' suoi fini, nelle sue passioni e nelle sue idee politiche: di che solo può nascere il dramma.
Il senso del reale era ancora troppo scarso, perchè il dramma fosse possibile.
Non ci è il sentimento collettivo non il partito e non la società: ci è l'individuo appena analizzato, rappresentato buono o cattivo e retribuito secondo le opere, forma elementare della vita reale.
Il feroce e il grottesco delle pene infernali hanno qui un riscontro nelle immani crudeltà di Ezzelino e nella immane punizione.
Questo concetto morale, ancorchè non ancora penetrato e sviluppato in tutti gli aspetti della vita, pure non è più un motto, un proverbio, un ammaestramento, un «fabula docet», una esposizione didattica in prosa o in verso, come nel secolo scorso, ma la vita in atto, con tutt'i caratteri della personalità, così nella vita contemplativa come nella vita attiva, così nel carbonaio del Passavanti come nell'Ezzelino del Mussato.
Onori straordinari furono conferiti al Mussato, tenuto pari a' classici, quando i classici erano ancora così poco noti.
Anche Venezia ebbe i suoi latinisti, che scrissero la sua storia, Andrea Dandolo e Martin Sanuto.
Nell'Italia settentrionale abbondano le cronache latine.
Il volgare vi si era poco sviluppato.
E dappertutto teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina era insegnata e trattata in latino.
Scrissero le loro opere in questa lingua Marsilio da Padova, Cino da Pistoia, Bartolo e Baldo.
Ma in Toscana il Malespini avea già dato l'esempio di scrivere la cronaca in volgare.
E Dino Compagni seguì l'esempio, scrivendo in volgare i fatti di Firenze dal 1270 al 1312.
Attore e spettatore, prende una viva partecipazione a quello che narra, e schizza con mano sicura immortali ritratti.
Non è questa una cronaca, una semplice memoria di fatti: tutto si move, tutto è rappresentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e a tutto lo scrittore è presente, si mescola in tutto, esprime altamente le sue impressioni e i suoi giudizi.
Così è uscita di sotto alla sua penna una storia indimenticabile.
Questa storia è una immane catastrofe.
Da lui preveduta e non potuta impedire.
E non si accorge che di quella catastrofe cagione non ultima fu lui.
O piuttosto ne ha un'oscura coscienza, quando con quel tale «senno di poi» dice: - Oh se avessi saputo! Ma chi poteva pensare? - Ma Dino peccò per soverchia bontà d'animo; gli altri peccarono per malizia, e Dino li flagella a sangue.
Era Bianco; ma più che Bianco, era onesto uomo e patriota.
Gli pareva che que' Neri e que' Bianchi, quei Donati e quei Cerchi, non fossero divisi da altro che da gara d'uffici, e gli parea che, partendo ugualmente gli uffici, quelle discordie avessero a cessare.
Gli parea pure che tutti amassero la città, come facea lui, e fossero pronti per la sua libertà e il suo decoro a fare il sacrificio de' loro odii e delle loro cupidigie.
E gli parea che uomo di sangue regio non potesse mentire nè spergiurare, e che nessuno potesse mancare alle promesse, quando fossero messe in carta.
E anche questo gli parea, che gli amici stessero saldi intorno a lui e che ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire.
Che cosa non parea al buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo della repubblica.
È la prima volta che si trova in presenza la morale com'era in Albertano giudice e come fu poi in Caterina, la morale de' libri e la morale del mondo.
E la contraddizione balza fuori con tutta l'energia di una prima impressione.
Il brav'uomo al contatto del mondo reale cade di disinganno in disinganno, e ciascuna volta rivela la sua ingenuità con un accento di maraviglia e d'indignazione.
Immaginatevelo alle prese con Bonifazio ottavo, Carlo di Valois e Corso Donati, ciò che di più astuto e violento era a quel tempo.
L'energia del sentimento morale offeso è il secreto della sua eloquenza.
Qui non ci è nessuna intenzione letteraria: la narrazione procede rapida, naturale, sino alla rozzezza.
Vi è un materiale crudo e accumulato e mescolato, senza ordine o scelta o distribuzione; ignota è l'arte del subordinare e del graduare; mancano i passaggi e le giunture; il fatto è spesso strozzato; spesso il colorito è un po' risentito e teso difetti di composizione gravi.
Pure le qualità essenziali che rendono un libro immortale stanno qui dentro, la sincerità dell'ispirazione, l'energia e la purità del sentimento morale, la compiuta personalità dello scrittore e del tempo, la maraviglia, l'indignazione, il dolore, la passione del cronista, che comunica a tutto moto e vita.
In tempi meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca di Firenze sino al 1348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo.
Mira a dar memoria de' fatti, pigliandoli dove li trova, e spesso copiando o compendiando i cronisti che lo precessero.
Sono nudi fatti, raccolti con scrupolosa diligenza, anche i più minuti e familiari, della vita fiorentina, come le derrate, i drappi, le monete, i prestiti: materiale prezioso per la storia.
Ma questa cruda realtà, scompagnata dalla vita interiore che la produce, è priva di colorito e di fisonomia e riesce monotona e sazievole.
La Cronaca di Dino e le tre Cronache de' Villani comprendono il secolo.
La prima narra la caduta de' Bianchi, le altre raccontano il regno de' Neri.
Tra, vinti erano Dino e Dante.
Tra, vincitori erano i Villani.
Questi raccontano con quieta indifferenza, come facessero un inventario.
Quelli scrivono la storia col pugnale.
Chi si appaga della superficie, legga i Villani.
Ma chi vuol conoscere le passioni, i costumi, i caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino.
Finora non abbiamo creduto necessario di entrare nel vivo della storia, perchè gli scrittori, o ascetici o cavallereschi o didattici, scrivono come segregati dal mondo.
Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che racconta sono i fatti suoi, parte della sua vita, e la sua Cronaca è lo specchio del tempo, non nelle regioni astratte della scienza o nel fantastico della cavalleria e dell'ascetica, ma nella realtà della vita pubblica.
I partiti che straziavano Firenze con nomi venuti da Pistoia erano detti i Neri e i Bianchi, gli uni capitanati da' Donati e gli altri da' Cerchi, famiglie potentissime di ricchezza e di aderenze.
Dante sperò di poter pacificare la città, mandando in esilio i due più potenti e irrequieti capi delle due fazioni, Corso Donati e Guido Cavalcanti.
Venuto malato, il Cavalcanti fu richiamato, ma non Corso Donati: di che si menò molto scalpore, massime che Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.
I Neri erano guelfi puri, e si appoggiavano sui popolani e sul papa, vicino, influente, e centro di tutti gl'intrighi e le cospirazioni guelfe.
Bonifazio ottavo, venuto dopo il giubileo in maggior superbia, avea chiamato a sè con molte promesse Carlo di Valois, detto per dispregio «senza terra», e mandatolo a Firenze sotto colore di pacificare la città, ma col proposito di ristorarvi la parte nera.
Qui comincia il dramma, esposto con sì vivi colori dal nostro Dino nel libro secondo.
Dante si lasciò persuadere di andare legato a Roma.
Si dice abbia detto: - Se io vado, chi resta? - Restò il povero Dino.
Certo, l'opera di Dante sarebbe stata più utile a Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversari.
A Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e non concluse nulla.
Dino comincia il racconto con stile concitato.
Sembra un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:
«Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e distendete le vostre malizie.
Non penate più: andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città.
Spandete il sangue de' vostri fratelli, spogliatevi della fede e dell'amore; nieghi l'uno all'altro aiuto e servigio.
Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende una per una...
Non v'indugiate, o miseri: chè più si consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace, e piccola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.»
Qui non ci è l'uomo politico.
Ci è la realtà vista da un aspetto puramente morale e religioso, come gli ascetici; il concetto è lo stesso; la materia è diversa.
Considerata così, la realtà riesce al buon Dino altra che non pensava, e in luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la realtà e la maledice.
I suoi errori nascono dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose, sì che divenne il trastullo degli uni e degli altri, perdette lo stato e fu calunniato, come avviene a' vinti.
Allora prende la penna, e li maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale ingenuità che se le male passioni degli altri son manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontà.
Mentre gli ambasciatori armeggiano con Bonifazio, largo promettitore purchè «sia ubbidita la sua volontà», furono in Firenze eletti i nuovi signori, e Dino fu di quelli.
Piacque la scelta, perchè «uomini non sospetti e buoni, e senza baldanza, e avevano volontà d'accomunare gli uffici, dicendo: - Questo è l'ultimo rimedio».
Questo è il giudizio che porta Dino di sè e de' suoi colleghi.
Ma i loro avversari «n'ebbono speranza», perchè li conosceano «uomini deboli e pacifici, i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente di poterli ingannare».
Che buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.
I Neri «a quattro e a sei insieme, preso accordo fra loro», li andavano a visitare e diceano: «Voi siete buoni uomini e di tali avea bisogno la nostra città.
Voi vedete la discordia de' cittadini vostri: a voi la conviene pacificare, o la città perirà.
Voi siete quelli che avete la balìa, e noi a ciò fare vi profferiamo l'avere e le persone di buono e leale animo».
E benchè «di così false profferte dubitassero, credendo che la loro malizia coprissero con falso parlare», pure Dino per commessione de' suoi compagni rispose: «Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri, e cominciar vogliamo a usarle: e richieggiamvi che voi ci consigliate, e pogniate l'animo a guisa che la nostra città debba posare».
Che scellerati! E che buoni uomini! Non si può meglio rappresentare la malizia degli uni e l'innocenza degli altri.
Scrivendo dopo i fatti, Dino si picchia il petto e dice il mea culpa: «E così perdemmo il primo tempo, perchè non ardimmo a chiudere le porte, nè a cessare l'udienza ai cittadini.
Demmo loro intendimento di trattar pace, quando si convenia arrotare i ferri».
Poichè si trattava la pace, i Bianchi smessero dalle offese e i Neri presero baldanza.
E Dino confessa questo primo effetto della sua bontà: «La gente, che tenea co' Cerchi, ne prese viltà, dicendo: - Non è da darsi fatica, chè pace sarà.
- E i loro avversari pensavano pur di compiere le loro malizie».
La voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito contrario a' Cerchi e che Carlo di Valois veniva in Firenze, dovea aver tanto imbaldanzito i Neri, che a costoro pareva un atto di debolezza e di paura quello che in Dino era ispirato da sincero amore di concordia.
E quelle pratiche di pace spacciavano covare sotto un tradimento.
La forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza morale passava agli avversari, più audaci, e confidenti in vicina vittoria.
Già ci era un'altra aria in città.
Non pur gl'indifferenti, ma anche noti seguaci de' Cerchi mutavano lingua.
Sicchè l'oratore di Carlo riferì che «la parte de' Donati era assai innalzata e la parte de' Cerchi era assai abbassata», veggendo come dopo le sue parole «molti dicitori si levarono in piè affocati per dire e magnificare messer Carlo».
Dino, volendo negare l'ingresso a Carlo e non osando prendere su di sè la cosa, «essendo la novità grande», si rimise al suffragio de' suoi concittadini.
Fu un plebiscito fatto dal debole e che riuscì in favore de' forti: solito costume de' popoli, e il buon Dino nol sapea.
I soli fornai si mostrarono uomini, dicendo che «nè ricevuto, nè onorato fusse, perchè venìa per distruggere la città».
Dino credette trovare il rimedio, chiedendo a Carlo «lettere bollate, che non acquisterebbe ...
niuna giurisdizione, nè occuperebbe niuno onore della città nè per titolo d'imperio, nè per altra cagione, nè le leggi della città muterebbe, nè l'uso».
Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera, e provvide che il passo gli fosse negato e «vietata la vivanda».
Ma la lettera venne, e «io la vidi e fecila copiare, e quando fu venuto, io lo domandai se di sua volontà era scritta.
Rispose: - Sì, certamente -».
Ora che Dino ha la lettera in tasca, può viver sicuro.
E gli viene «un santo e onesto pensiero, immaginando: Questo signore verrà, e tutt'i cittadini troverà divisi, di che grande scandalo ne seguirà».
Onde li rauna nella chiesa di San Giovanni, e loro fa un fervorino, perchè «sopra quel sacrato fonte onde trassero il santo battesimo», giurino buona e perfetta pace.
Le parole di Dino sono di quella eloquenza semplice e commovente che viene dal cuore.
In quei tempi di lotte così accese il sentimento della concordia era tanto più vivo negli animi buoni e onesti, da Albertano a Caterina.
E non so che in Caterina si trovino parole nella loro semplicità così affettuose come queste di Dino: «Signori, perchè volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? Contro a' vostri fratelli? Che vittoria avrete? Non altro che pianto».
Tutti giurarono; e Dino aggiunge con amarezza: «I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano lacrime, e baciavano il libro, ...
furono i principali alla distruzione della città».
Povero Dino! E si affligge il brav'uomo e si pente, e «di quel sacramento molte lacrime sparsi, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia».
Carlo quintoenne, e diètrogli, dicendo che venìano a onorare il signore, lucchesi, perugini, e Cante d'Agobbio e molti altri, a sei e dieci per volta, tutti avversari de' Cerchi: e «ciascuno si mostrava amico».
Dino fece il ponte d'oro al nemico che entra, contro il proverbio.
E Carlo ebbe in Firenze milledugento cavalli.
Che fa Dino? Sceglie quaranta cittadini di amendue le parti, perchè provveggano alla salvezza della terra.
Ciò che ci era negli animi è qui scolpito in pochi tratti: «Quelli che avevano reo proponimento, non parlavano; gli altri aveano perduto il vigore.
Baldino Falconieri, uom vile, dicea: - Signori, io sto bene, perchè io non dormia sicuro».
Lapo Saltarelli, per riamicarsi il papa, ingiuria la Signoria, e tiene in casa nascosto un confinato.
Albertano del Giudice monta in ringhiera, e biasima i signori.
Pare coraggio civile, ed è viltà e diserzione.
I nemici tacciono.
Gli amici ingiuriano, per farsi grazia.
Cominciano i tradimenti.
«I priori scrissero al papa segretamente; ma tutto seppe la parte nera, perocchè quelli che giurarono credenza non la tennono».
Alfine Dino si risolve ad accomunare gli uffici, parlando «umilmente e con gran tenerezza» dello scampo della città.
Ma era troppo tardi.
I Neri non volevano parte, ma tutto.
«E Noffo Guidi parlò e disse: - Io dirò cosa che tu mi terrai crudele cittadino.
- E io li dissi che tacesse: e pur parlò, e fu di tanta arroganza, che mi domandò che mi piacesse far la loro parte nell'ufficio, maggiore che l'altra; che tanto fu a dire, quanto: - Disfa' l'altra parte - e me porre nel luogo di Giuda.
E io li risposi che innanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei figliuoli a mangiare a' cani.»
Carlo quintoolea in mano i Signori, e li facea spesso invitare a mangiare.
E quelli si ricusavano, adducendo che la legge li costringea che fare non lo potevano; ma era «perchè stimavano che contro a loro volontà li avrebbe ritenuti».
Un giorno disse che in Santa Maria Novella fuori della terra volea parlamentare, e che piacesse alla Signoria esservi.
Dino vi mandò tre soli de' compagni: «a' quali niente disse, come colui che non volea parole, ma sì uccidere».
«Molti cittadini si dolsono con noi di quella andata, parendo loro che andassono al martirio.
E quando furono tornati, lodavano Dio, che da morte gli avea scampati.»
Volevano, se la Signoria vi fosse ita tutta, «ucciderli fuori della porta e correre la terra per loro».
E Dino che facea?
C'è un brano stupendo, che è una pittura.
Vedi come Dino passava i giorni; la sua incapacità e i suoi affanni:
«I Signori erano stimolati da ogni parte.
I buoni diceano che guardassero ben loro, e la loro città.
I rei li contendeano con quistioni.
E tra le domande e le risposte il dì se ne andava.
I baroni di messer Carlo gli occupavano con lunghe parole.
E così viveano con affanno.»
Un rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: - Fate fare processione, e del pericolo cesserà gran parte -.
E Dino fece la processione, e molti lo schernirono, dicendo che «meglio era arrotare i ferri».
E Dino conchiude, parlando di sè e de' colleghi: «Niente giovò, perchè usarono modi pacifici, e voleano essere repenti e forti.
Niente vale l'umiltà contro alla grande malizia».
Tutto ti è messo sott'occhio, come in una rappresentazione drammatica.
Vedi i Neri in istrada, corrompere, far gente, mostrare la loro potenza.
Diceano:
«- Noi abbiamo un signore in casa; il papa è nostro protettore; gli avversari nostri non sono guerniti nè da guerra, nè da pace; danari non hanno; i soldati non sono pagati.
-»
E misero in ordine «tutto ciò che a guerra bisognava, ...
invitati molti villani d'attorno e tutti gli sbanditi».
I Neri si armavano; i Bianchi no, perchè era contro la legge, e Dino minacciava di punirli.
E ora che scrive, a scolparsi nota che fu per avarizia, perchè fece dire a' Cerchi: «- Fornitevi, e ditelo agli amici vostri -».
I Neri, «conoscendo i nemici loro vili e che aveano perduto il vigore», vengono a' ferri.
I Medici lasciano per morto Orlandi, un valoroso popolano.
Si grida a' priori: - Voi siete traditi, armatevi -.
Ecco finalmente sventolare sulle finestre il gonfalone di giustizia.
Molti vanno nascosamente ...
dal lato di parte nera.
Ma traggono alla Signoria i soldati che non erano corrotti, e altre genti, e amici a piè e a cavallo.
Era il momento di operare con vigore.
Ma «i Signori non usi a guerra erano occupati da molti che voleano essere uditi; e in poco stante si fe' notte».
Il podestà non si fe' vivo.
Il capitano non si mosse, come «uomo più atto a riposo e a pace che a guerra.» «La raunata gente non consigliò».
Il giorno finì: e non si concluse nulla, e la gente stanca se ne andò, e ciascuno pensò a se stesso.
E Dino cosa facea? Dava udienza.
I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone parole.
Li Spini diceano alli Scali:
«- Deh! Perchè facciamo noi così? Noi siamo pure amici e parenti e tutti guelfi; noi non abbiamo altra intenzione che di levarci la catena di collo, che tiene il popolo a voi e a noi.
E saremo maggiori che noi non siamo.
Mercè per Dio, siamo una cosa, come noi dovemo essere.
- ...
Quelli che riceveano tali parole, s'ammollavano nel cuore, e i loro seguaci invilirono».
I ghibellini, credendosi abbandonati, si smarrirono, e gli sbanditi si avvicinavano alla città.
Come farli entrare? Carlo primonstava presso la Signoria, perchè si desse a lui la guardia della città e delle porte: che farebbe de' malfattori aspra giustizia.
E sotto questo nascondea la sua malizia, nota l'arguto Dino.
Ma l'arguto Dino gli dà la guardia delle porte d'Oltrarno! Bisogna proprio sentir lui:
«Le chiavi gli furono negate, e le porte di Oltrarno gli furono raccomandate, e levati ne furono i fiorentini, e furonvi messi i franciosi.
E il cancelliere e il manescalco di messer Carlo giurarono nelle mani a me Dino ricevente per lo comune....
E mai credetti che un tanto signore e della casa reale di Francia rompesse la sua fede: perchè passò piccola parte della seguente notte che per la porta che noi gli demmo in guardia, die' l'entrata a ...
molti ...
sbanditi.»
Fatta la breccia, entrano gli altri.
E i signori, venuta meno tutta la loro speranza, «deliberarono, quando i villani fossero venuti in loro soccorso, prendere la difesa.» Che erà quel prender tempo e non risolversi degli animi deboli.
Furono vinti senza combattere.
Tutti si gettarono là dov'era la forza:
«I malvagi villani gli abbandonarono...
e i ...
famigli li tradirono....
Molti soldati si volsono a servire i loro avversari.
Il podestà ...
andava procurando in aiuto di messer Carlo.»
Carlo manda i suoi a' priori, «per occupare il giorno e il loro proponimento con lunghe parole».
Giuravano che il loro signore si tenea tradito», e che farebbe la vendetta grande.
- Tenete per fermo che se il nostro signore non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro modo, fateci levare la testa.
- E ora che scrive, Dino aggiunge: «E non giurò messer Carlo primol vero, perchè [Corso Donati] di sua saputa venne».
Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il comune, ma ad un patto, che si dieno a lui in custodia i più potenti uomini delle due parti.
E Dino consente.
«I Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con temenza.
Messer Carlo li fece guardare; i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne presi quella notte senza paglia e senza materasse, come uomini micidiali.»
Qui Dino non ne può più e prorompe:
«O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ov'è la fede della real casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo vergogna? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta corona fatto non soldato, ma assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il nome della real casa di Francia!»
L'indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo.
Come pensare che il sangue di san Luigi, un Reale di Francia, fosse spergiuro e assassino?
Quando non ci era più il rimedio, si corse al rimedio.
Dino fa sonare la campana grossa, che era un chiamare alle armi.
Ma nessuno uscì: «La gente sbigottita non trasse di casa i Cerchi.
Non uscì uomo a cavallo, nè a pie armato».
Anche il cielo vi si mescola.
Apparisce una croce vermiglia sopra il palagio
...
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