STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, di Francesco De Sanctis - pagina 34
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Più che negli individui la vita si manifesta nei gruppi: la vita qui è meno individuo che genere.
La comune anima ha la sua espressione nel canto.
Nell'inferno non ci son cori; perchè non vi è l'unità dell'amore.
L'odio è solitario; l'amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i loro effetti nella misurata varietà delle voci e degl'istrumenti.
Qui le anime sono esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno stesso spirito di carità:
Una parola era in tutto e un modo,
sì che parea tra esse ogni concordia.
Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni, espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera, di letizia, di lodi al Signore.
Quando giungono al purgatorio, le odi cantare: «In exitu Israel de Aegypto».
Giungono nella valle, ed ecco intonare il Salve Regina.
La sera odi l'inno: «Te lucis ante terminum Rerum creator poscimus».
Entrando nel purgatorio, risuona il Te Deum.
Sono i salmi e gl'inni della Chiesa, cantati secondo le varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime parole.
Ti par d'essere in chiesa e udir cantare i fedeli.
Quei canti latini erano allora nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava a ricordarli.
Il poeta ha creduto bastar questo ad accendere ne' petti l'entusiasmo religioso.
E forse bastava allora, quando quei versi suscitavano tante rimembranze e immagini della vita religiosa.
La poesia qui non è nella rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi.
Un nome, una parola basta in certi tempi a produrre tutto l'effetto: con quei tempi se ne va la loro poesia, e restano cosa morta.
Molte parti del poema dantesco, aride liste di nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche, allora così vive, oggi son morte.
E tutta questa lirica del purgatorio è cosa morta.
Perchè Dante non crea dal suo seno quei sentimenti, ma li trova belli e scritti ne' canti latini, e si contenta di dirne le prime parole.
Pure, la situazione delle anime purganti è altamente lirica; la loro personalità non è individuale, ma collettiva, e l'espressione di quella comune anima svegliatasi in loro è l'onda canora de' sentimenti.
Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e si rimise a Davide di quello ch'era suo compito.
Più che visioni e simboli e dipinti, la vita del purgatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di amore, di quell'incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi in uno stesso spirito di carità.
Ha saputo così ben dipingerle queste anime ardenti, che s'incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate su verso il cielo!
Li veggio d'ogni parte farsi presta
ciascun'ombra, e baciarsi una con una,
senza restar, contente a breve feste.
Così per entro loro schiera bruna
s'ammusa l'una con l'altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna.
E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i loro sentimenti, non solo il vago e l'indeterminato, ma anche il proprio e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio, lo mostra il suo «paternostro», rimaso canto solitario.
Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza.
In essi non e alcuna subbiettività: sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell'estasi, e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.
Tal che parea beato per iscritto...
Verdi come fogliette pur mo' nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate...
Ben discernea in lor la testa bionda,
ma nelle facce l'occhio si smarria,
come virtù ch'a troppo si confonda...
A noi venìa la creatura bella,
bianco vestita, e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Molto per la pittura, poco per la poesia.
Manca la parola, manca la personalità.
Ci è il corpo dell'angiolo; non ci è l'angiolo.
Nelle dolci note, tra quelle forme d'angioli, l'anima s'infutura, «gusta le primizie del piacere eterno».
Di che prende qualità la natura del purgatorio, una montagna, scala al paradiso, in principio faticosa a salire:
E quanto uom più va su, e men fa male.
Però quando ella ti parrà soave
tanto che il su andar ti sia leggiero,
com'a seconda in giuso l'andar con nave,
allor sarai al fin d'esto sentiero.
Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco.
La prima impressione della luce, uscendo dall'inferno, cava a Dante questa bella immagine:
Dolce color d'oriental zaffiro
che s'accoglieva nel sereno aspetto
dell'aer puro infino al primo giro,
agli occhi miei ricomincio diletto.
La natura è l'accordo musicale e la voce di quel di dentro: qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un solo universo lirico.
Scena stupenda è nel canto settimo, maravigliosa consonanza tra le ombre sedute, quete, che cantano «Salve Regina», e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.
«Salve Regina» in sul verde e in su' fiori
quindi seder, cantando, anime vidi.
Le anime piangono e cantano, e il luogo alpestre è lieto di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha termine, quando l'anima si leva con libera volontà a miglior soglia, tolte le «schiume della coscienza», con pura letizia.
Così come nell'inferno si scende sino al pozzo ghiacciato della morte, nel purgatorio si sale sino al paradiso terrestre, immagine terrena del paradiso, dove l'anima è monda del peccato o della carne, e rifatta bella e innocente.
Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusinghi l'immaginazione: riso di cielo, canti di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolar di fronde e mormorare di acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con tale austera misura, che non dà luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi, nè il diletto turba la calma.
Il purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell'anima; è qua che il nodo si scioglie.
Dante, più che spettatore è attore.
Uscito dall'inferno, appena all'ingresso del purgatorio l'angiolo incide sulla sua fronte sette «P», che sono i sette peccati mortali, che si purgano ne' sette gironi.
Da un girone all'altro una «P» scomparisce dalla fronte, finchè van via tutte, e puro e rinnovellato giunge al paradiso terrestre.
Passa da uno stato nell'altro in sonno, cioè a dire per virtù della grazia, senza sua coscienza.
È Lucia, «nemica di ciascun crudele», che lo piglia dormente e sognante, e lo conduce in purgatorio.
Così la storia intima dell'anima, i suoi errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti, sono storia esterna e simbolica: il dramma è strozzato nella sua culla.
La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si scioglie, e il pentimento, l'anima che si riconosce, e caccia via da sè il peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione.
A questo punto il dramma si fa umano, e ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha fatto qui; ma una storia intima, personale, drammatica dell'anima, com'è il Faust, non era possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.
Qui tutt'i personaggi del dramma si trovano a fronte.
Di qua Dante, Virgilio, Stazio; di là Beatrice con gli angeli; in mezzo e il rio che li divide, bipartito in due fiumi, Lete, l'obblio, ed Eunoè, la forza.
Nell'uno l'anima si spoglia della scoria del passato; nell'altra attinge virtù di salire alle stelle.
L'alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Lete si passasse, e tal vivanda
fosse gustata senza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda.
Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto del pentimento, e le passa all'altra riva, rifatte nell'antico stato d'innocenza.
E lo specchio dell'anima rinnovellata è Matilde, che danza e sceglie fiori, in sembianza ancora umana, celeste creatura, con l'ingenua giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una silfide, col pudico sguardo di vergine, il viso radiante di luce.
Tale era Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il nunzio del paradiso terrestre.
La scena dove questo mistero dell'anima si scioglie ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero liturgico, una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano durante le processioni.
Vedi una Chiesa animata e ambulante in processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi d'oro, e dietro gente vestita di bianco che canta «Osanna», e le fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo di luce sfila la processione.
Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell'antico Testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio:
Tutti cantavan: - Benedetta tue
nelle figlie di Adamo, e benedette
sieno in eterno le bellezze tue.
-
Segue la Chiesa in figura di carro trionfale, a due ruote (i due testamenti), tra quattro animali (i quattro vangeli), tirato da un grifone, simbolo di Cristo; a destra Fede, Speranza e Carità; a sinistra Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, vestite di porpora; dietro due vecchi, san Luca e san Paolo, e dietro a loro, quattro in umile paruta, forse gli scrittori dell'Epistole, e solo e dormente san Giovanni dall'Apocalisse:
E diretro da tutti un veglio solo
venir dormendo con la faccia arguta.
Si ode un tuono.
La processione si ferma.
Comincia la rappresentazione.
Virgilio guarda attonito, non meno che Dante.
Il senso di quella processione allegorica gli sfugge.
La missione del savio pagano è finita.
Hai innanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo co' suoi profeti e patriarchi, co' suoi evangelisti e apostoli, co' suoi libri santi.
Fermata la processione, uno canta e gli altri ripetono: «Veni sponsa, de Libano», e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano e gittano fiori.
Tutti dicean: - Benedictus qui venis
e fior gittando di sopra e dintorno
manibus o date lilia plenis.
-
Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido velo, cinta d'oliva, sotto verde manto, vestita di colore di fiamma; appare come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli.
Dante non la vede, ma la sente: è Beatrice.
Quest'apoteosi di Beatrice, questo primo apparire della sua donna ancora velata fra tanta gloria, scioglie l'immaginazione dalla rigidità de' simboli e de' riti, e le dà le libere ali dell'arte.
Il dramma si fa umano; spuntano le immagini e i sentimenti:
Io vidi già nel cominciar del giorno
le parte oriental tutta rosata,
e l'altro ciel di bel sereno adorno
e la faccia del sol nascere ombrata
sì chè per temperanza di vapori
l'occhio la sostenea lunga fiata.
Così dentro una nuvola di fiori,
che dalle mani angeliche saliva
e ricadeva giù dentro e di fuori,
sovra candido vel, cinta di oliva
donna m'apparve sotto il verde manto
vestita di color di fiamma viva.
L'apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio.
Qui l'astrattezza del simbolo è superata.
Ti senti innanzi ad un'anima d'uomo.
Quella donna è la sua Beatrice, l'amore della sua prima giovinezza; e Virgilio e il dolcissimo padre che sparisce, quando più ne aveva bisogno, quando era proprio come un fantolino in paura che si volge alla mamma; e si volge, e non lo vede più, e lo chiama tre volte per nome nella mente sbigottita.
Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno:
E lo spirito mio che già cotanto
tempo era stato ch'alla sua presenza
non era di stupor tremando affranto,
senza dagli occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d'antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che nella vista mi percosse
l'alta virtù che già m'avea trafitto
prima ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi alla sinistra, col respitto
col quale il fantolin corre alla mamma,
quando ha paura o quando egli è afflitto,
per dicer a Virgilio: - Men che dramma
di sangue m'è rimaso, che non tremi;
conosco i segni dell'antica fiamma -.
Ma Virgilio ne avea lasciati scemi
di sè; Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio, a cui per mia salute dièmi.
Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per introdurre in iscena Beatrice:
Dante, perchè Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada.
Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chiama per nome:
Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
Non sapei tu che qui l'uomo è felice?
E gli occhi cadono nella fontana, e non sostenendo la propria vista, cadono sull'erba:
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, io trassi all'erba:
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Qui è la prima volta e sola che un'azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo svolgimento, come in un mistero, e Dante vi rivela un ingegno drammatico superiore.
I più intimi e rapidi movimenti dell'animo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono perfettamente disegnati; gli angioli fanno coro e intervengono.
La scena è rapida, calda, piena di movimenti e di gradazioni fini e profonde.
La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri giunge a poco a poco sino al pianto dirotto.
Dapprima sta li più attonito che compunto, ma quando gli angioli nel loro canto hanno aria di compatirgli, come se dicessero: «Donna, perchè sì lo stempre?» scoppia il pianto.
Quello che non potè il rimprovero, ottiene il compatimento.
Gradazione vera e profonda e rappresentata con rara evidenza d'immagine.
Instando Beatrice: - Di' di', se questo è vero -, tra confusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un tale «sì» dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:
al quale intender fur mestier le viste.
I sentimenti dell'animo scoppiano con tanta ingenuità e naturalezza, che rasentano il grottesco; quando Beatrice dice: «Alza la barba», il nostro dottore con linguaggio della scuola riflette:
e quando per la «barba» il «viso» chiese,
ben conobbi 'l velen dell'argomento.
Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo di Dante fra le lacrime e i sospiri, e dà a questa magnifica storia del cuore un colorito locale.
Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice.
Qui non ci è dialogo: è lei che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni.
Pure non ci è monotonia, ne declamazione: tutto esce da una situazione vera e finamente analizzata.
«Regalmente proterva», la sua severità è raddolcita poi dal canto degli angioli.
Beatrice non parla più a Dante: parla agli angioli, e narra loro la storia di Dante.
La situazione diviene meno appassionata, ma più elevata: mai la poesia non s'era alzata a un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la sua musa:
Quando di carne a spirto era salita
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu' io a lui men cara e men gradita:
e torse i passi suoi per via non vera,
immagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.
Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale, stringente, implacabile nella sua logica.
E una sola idea sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta.
- Sei uomo, hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della terra,
o pargoletta,
o altra vanità per sì breve uso?
- E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:
...
...
Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che 'l vostro viso si nascose.
Come si vede, è l'antica lotta tra il senso e la ragione che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell'anima fra gli errori e le battaglie del senso, che qui si scioglie in commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello spirito.
L'idea è più che trasparente, è manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico.
Ma l'idea e calata nella realtà della vita e produce una vera scena drammatica, con tale fusione di terreno e di celeste, di passione e di ragione, di concreto e di astratto, che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi il dramma spagnuolo.
Dante, pentito, tuffato nel fiume Lete, e menato a Beatrice dalle virtù, sue ancelle:
Noi sem qui ninfe; e nel ciel semo stelle.
Pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Menrenti agli occhi suoi...
E Beatrice gli svela la sua faccia.
Non è poesia che possa rendere quello che Dante vede, quello che sente:
O isplendor di viva luce eterna,
chi pallido si fece sotto l'ombra
sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te, qual tu paresti,
là, dove armonizzando il ciel ti adombra,
quando nell'aere aperto ti solvesti?
Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione sino all'albero della vita, dove, antitesi a questa Chiesa gloriosa di Cristo, apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena, trafitta dall'impero, travagliata dall'eresia, corrotta dal dono di Costantino, smembrata da Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del re di Francia.
Concetto stupendo, questo apparire della vita terrena nell'ultimo del purgatorio, germogliata dall'albero infausto del peccato di Adamo.
Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in realtà, ma in ricordanza.
Siamo già alla soglia del paradiso.
Così finisce questa processione dantesca, una delle concezioni più grandiose del poema, anzi in sè sola tutto un poema, dove ci vediamo sfilare davanti tutt'i grandi personaggi della Chiesa celeste, immagine anticipata del regno di Dio, un'apoteosi del cristianesimo, entro di cui si rappresenta il più alto mistero liturgico, la Commedia dell'anima.
Questa processione dove far molta impressione in quei tempi delle processioni, de' misteri e delle allegorie, quando gli angeli, le virtù e i vizi, e Cristo e Dio stesso entravano in iscena.
Ma è appunto questo carattere liturgico e simbolico, che qui scema in gran parte la bellezza della poesia.
Questo difetto nuoce soprattutto nella rappresentazione della Chiesa terrena, dove l'aquila, la volpe, e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto così magnifico, una storia così interessante.
Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il mantovano Sordello, sentendo Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:
O mantovano, io son Sordello.
della tua terra.
- E l'un l'altro abbracciava.
E Dante pensa alla sua Firenze, dove
...
...
l'un l'altro si rode
di quei che un muro e una fossa serra.
Qui non è impigliato nelle allegorie.
Scoppia il contrasto impetuoso, eloquente, e n'esce una poesia tutta cose, dove si riflettono i più diversi movimenti dell'animo, il dolore, lo sdegno, la pietà, l'ironia, una calma tristezza.
Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza.
Quando la vita si disabbella a' nostri sguardi, quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degli affetti domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere dell'arte e del pensiero, il Purgatorio ci s'illumina di viva luce e diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran parte di noi.
Fu il libro di Lamennais, di Balbo, di Schlosser.
Viene il Paradiso.
Altro concetto, altra vita, altre forme.
Il paradiso e il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla carne o dal senso, perciò il soprasensibile, o come dice Dante, il trasumanare, il di la dall'umano.
È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare in terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e atto sono una cosa.
Amore conduce lo spirito al supremo intelletto, e il supremo intelletto è insieme supremo atto.
La triade è insieme unità.
Quando l'uomo è alzato dall'amore fino a Dio, hai la congiunzione dell'umano e del divino, il sommo bene, il paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta, è una forma della vita umana.
Ci è nel nostro spirito un di là, ciò che dicesi il sentimento dell'infinito, la cui esistenza si rivela più chiaramente alle nature elevate.
L'arte antica avea materializzato questo di là, umanando il cielo, e la filosofia partendo dalle più diverse direzioni era giunta a questa conclusione pratica, che l'ideale della saggezza, e perciò della felicità, è posto nella eguaglianza dell'animo, ciò che dicevasi «apatia», affrancamento dalle passioni e dalla carne: pagana tranquillità, che vedi nelle figure quiete e serene e semplici dell'arte greca.
Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del limbo:
Sembianza avevan ne' trista ne' lieta...
Parlavan rado, con passi soavi
Virgilio n'è il tipo più puro, le cui impressioni vanno di rado al di là di un sospiro, o di un movimento tosto represso.
Questa calma è la fisonomia del purgatorio, il carattere più spiccato di quelle anime, dove l'aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicure di salirvi quandochessia.
Ma già in quelle anime penetra un elemento nuovo, l'estasi, il rapimento, la contemplazione; ci sta Catone, ma irradiato di luce.
Col cristianesimo s'era restaurato nello spirito questo inquieto di là, e divenne in breve molta parte della vita, anzi la principale occupazione della vita.
E si sviluppò un'arte e una letteratura conforme.
Chi vede gli ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di San Giovanni Laterano, o le facce estatiche de' santi consumate dal fervore divino ha innanzi stampato il tipo di questo uomo nuovo.
Quel di là, il celeste, il divino, appare su quelle facce, come appare nella Città di Dio di santo Agostino e nella Dieta salutis di san Bonaventura.
A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.
Questo di là, intravveduto nelle estasi, ne' sogni, nelle visioni nelle allegorie del purgatorio, eccolo qui nella sua sostanza, è il paradiso.
Il quale intravveduto nella vita ha una forma, e può essere arte; ma non si concepisce come, veduto ora nella sua purezza, come regno dello spirito, possa avere una rappresentazione.
Il paradiso può essere un canto lirico, che contenga.
non la descrizione di cosa che è al di sopra della forma, ma la vaga aspirazione dell'anima a «non so che divino», ed anche allora l'obietto del desiderio, pur rimanendo «un incognito indistinto», riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nell'Aspirazione e nel Pellegrino di Schiller, e in questi bei versi del Purgatorio, imitati dal Tasso:
Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze eterne.
Per rendere artistico il paradiso, Dante ha immaginato un paradiso umano, accessibile al senso e all'immaginazione.
In paradiso non c'è canto, e non luce e non riso; ma essendo Dante spettatore terreno del paradiso, lo vede sotto forme terrene:
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultade, e mani e piedi
attribuisce a Dio ed altro intende.
Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l'arte.
Il paradiso teologico è spirito, fuori del senso e dell'immaginazione, e dell'intelletto; Dante gli dà parvenza umana e lo rende sensibile ed intelligibile.
Le anime ridono, cantano, ragionano come uomini.
Questo rende il paradiso accessibile all'arte.
Siamo all'ultima dissoluzione della forma.
Corpulenta e materiale nell'Inferno, pittorica e fantastica nel Purgatorio, qui è lirica e musicale, immediata parvenza dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e cerchio dello spirito, non esso spirito.
Il purgatorio, come la terra, riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l'hanno immediatamente da Dio, sicchè le anime purganti, come gli uomini, veggono il sole, e nel sole intravvedono Dio, offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di luce; ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui senza mezzo:
lume che a lui veder ne condiziona.
Adunque il paradiso e la più spirituale manifestazione di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt'i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione.
Amore, beatitudine, contemplazione prendono anche forma di luce; gli spiriti si scaldano ai raggi d'amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto eterno:
Luce intellettual piena d'amore,
amor di vero ben pien di letizia,
letizia che trascende ogni dolzore.
Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce; l'ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.
Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso, come l'inferno e il purgatorio.
È una progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire, manifestazione ascendente di Dio che risponde a' diversi ordini o gradi di virtù.
Sali di stella in stella, come di virtù in virtù, sino al cielo empireo, soggiorno di Dio.
Ad esprimere queste gradazioni, unica forma è la luce.
Perciò non hai qui, come nell'inferno o nel purgatorio, differenze qualitative, ma unicamente quantitative, un più e un meno.
Prima la luce non è così viva che celi la faccia umana; più si sale e più la luce occulta le forme come in un santuario.
Come è la luce, così è il riso di Beatrice, un «crescendo» superiore ad ogni determinazione; la fantasia, formando, non può seguire l'intelletto, che distingue.
Bene il poeta vi adopera l'estremo del suo ingegno, conscio della grandezza e difficoltà dell'impresa:
L'acqua ch'io prendo giammai non si corse.
Minerva spira e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran l'Orse.
Dapprima caldo di questo mondo, sua fattura, allettato dalla novità o dal maraviglioso de' fenomeni che gli si affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine; poi quasi stanco diviene arido e dà in sottigliezze; ma lo vedi rilevarsi e poggiare più e più a inarrivabile altezza, sereno, estatico: diresti che la difficoltà lo alletti, la novità lo rinfranchi, l'infinito lo esalti.
Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che tutto move, centro dell'universo.
Ivi sono gli spiriti, ma secondo i gradi de' loro meriti e della loro beatitudine appariscono ne' nove cieli che girano intorno alla terra, la luna, Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove, Saturno, le stelle fisse e il primo mobile.
Ne' primi sette cieli, che sono i sette pianeti, ti sta avanti tutta la vita terrena.
La luna è una specie di avanti-paradiso.
I negligenti aprono l'inferno e il purgatorio, e aprono anche il paradiso.
E i negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontà propria, ma per violenza altrui.
Il loro merito non è pieno, perchè mancò loro quella forza di volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe' Muzio severo alla sua mano.
Perciò in loro rimane ancora un vestigio della terra: la faccia umana.
In Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove hai le glorie della vita attiva, i legislatori, gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti.
In Saturno hai la corona e la perfezione della vita, i contemplanti.
Percorsi i diversi gradi di virtù, comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della beatitudine.
Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo, nel primo mobile il trionfo degli angioli, e nell'empireo la visione di Dio, la congiunzione dell'umano e del divino, dove s'acqueta il desiderio.
Questa storia del paradiso secondo i diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne' diversi gradi di luce.
La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite di tutte le forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione dell'occhio mortale.
Essa è la stessa beatitudine, la letizia delle anime, che prende quell'aspetto agli occhi di Dante:
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia d'intorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Queste parvenze dell'interna letizia si atteggiano, si determinano, si configurano ne' più diversi modi, e non sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che paion fuori in quelle forme.
E n'esce la natura del paradiso, luce diversamente atteggiata e configurata, che ha aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio, or di costellazione, ora di scala, con viste nuove e maravigliose.
Queste combinazioni di luce non sono altro che gruppi d'anime, che esprimono i loro pensieri co' loro moti e atteggiamenti.
A rendere intelligibili le parvenze di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più delicati, e ne fa lo specchio della natura celeste.
Così rientra la terra in paradiso, non come sostanziale, ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti.
È la terra che rende amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e simboliche.
La terra ha pure la sua parte di paradiso, ed è in quei fenomeni che inebbriano, innalzano l'animo e lo dispongono alla tenerezza e all'amore: trovi qui tutto che in terra è di più etereo, di più sfumato, di più soave.
E come l'impressione estetica nasce appunto da questo profondo sentimento della natura terrestre, avviene che il lettore ricorda il paragone, senza quasi più sapere a che cosa si riferisca.
Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del Paradiso:
Come a raggio di sol che puro mèi
per fratta nube, già prato di fiori
vider coverti d'ombra gli occhi miei;
vid'io così più turbe di splendori
fulgorati di su da' raggi ardenti,
senza veder principio di fulgori.
Sì come 'l Sol che si cela egli stessi
per troppa luce, quando il caldo ha rose
le temperanze de' vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa,
e così chiusa chiusa mi rispose...
Come l'augello, intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati,
la notte che le cose ci nasconde,
che per veder gli aspetti desiati
e per trovar lo cibo onde gli pasca,
in che i gravi labori gli sono grati,
previene 'l tempo in su l'aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur se l'alba nasca...
...
come orologio che ne chiami
nell'ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perchè l'ami;
che l'una parte e l'altra tira ed urge,
«tin tin» sonando con si dolce nota,
che il ben disposto spirto d'amor turge...
...
e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
Qual lodoletta che in aere si spazia,
prima cantando e poi tace contenta
dell'ultima dolcezza che la sazia...
Pareva a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sè l'eterna margherita
ne ricevette, com'acqua recepe
raggio di luce, rimanendo unita.
Siccome schiera d'api che s'infiora
una fiata, ed una si ritorna
là dove suo lavoro s'insapora...
E vidi lume in forma di riviera,
fulvido di fulgore, intra duo rive,
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d'ogni parte si mettean ne' fiori
quasi rubin che oro circoscrive.
Poi come inebriate dagli odori
riprofondavan sè nel miro gurge;
e s'una entrava, un'altra usciane fuori.
Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e di evidenza.
Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante.
Siamo nell'empireo.
La virtù visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice, sì che gli appare la riviera di luce, e fortificata la vista in quella riviera, in quei fiori inebbrianti, in quell'oro, in quei rubini, in quelle vive faville, Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio.
Ma in verità gli scanni de' beati sono meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.
Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un press'a poco, un quasi, un come, «fioca e corta» al concetto.
Questa impotenza della forma produce un sublime negativo, che Dante esprime con l'energia intellettuale di chi ha vivo il sentimento dell'infinito:
...
appressando sè al suo desire
nostro intelletto si profonda tanto
che la memoria retro non può ire.
...
ogni minor natura
è corto recettacolo a quel bene,
che non ha fine e sè con sè misura.
...
nella giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com'occhio per lo mare, entro s'interna;
chè, benchè dalla proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
egli è, ma 'l cela lui l'esser profondo.
La letizia che move le anime e «trascende ogni dolzore», non è se non beatitudine.
E rende beate le anime l'entusiasmo dell'amore e la chiarezza intellettiva, o come dice Dante, «luce intellettual piena d'amore».
Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente.
Nel cuore è perenne desiderio e perenne appagamento.
Nella mente la verità sta come «dipinta».
La luce è forma inadeguata della beatitudine.
Ti dà la parvenza, ma non il sentimento e non il pensiero.
Spuntano perciò due altre forme, il canto e la visione intellettuale.
Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è amore, ardore di desiderio placato sempre non saziato mai, infinito come lo spirito.
Stato lirico e musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel canto.
La medesimezza del sentimento spinto sino all'entusiasmo genera la comunione delle anime; la persona non è l'individuo, ma il gruppo, come è delle moltitudini nei grandi giorni della vita pubblica.
I gruppi qui non sono cori, che accompagnino e compiano l'azione individuale, ma sono la stessa individualità diffusa in tutte le anime, o se vogliamo chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili e muti, di Cristo, di Maria e d'Iddio.
Ecco il coro di Maria:
Per entro 'l cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
quaggiù e più a sè l'anima tira,
parrebbe nube che squarciata tuona,
comparata al suonar di quella lira,
onde si coronava il bel zaffiro,
del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
- Io sono amore angelico che giro
l'alta letizia che spira dal ventre
che fu albergo del nostro desiro;
e girerommi, Donna del ciel, mentre
che seguirai tuo Figlio e farai dia
più la spera superna, perchè lì entre -.
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti gli altri lumi
facèn sonar lo nome di Maria...
E come fantolin che inver' la mamma
tende le braccia, poi che 'l latte prese,
per l'animo che infin di fuor s'infiamma;
ciascun di quei candori in su si stese
con la sua cima sì che l'alto affetto
ch'egli aveano a Maria, mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
«Regina coeli» cantando sì dolce
che mai da me non si partì il diletto.
Quella facella è l'angiolo Gabriele, e il coro è angelico.
Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito, hanno vita comune, se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è irriflessa: plenitudine volante tra' beati e Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della prima età, tripudianti e folleggianti con una espansione che il poeta chiama «arte» e «gioco»:
Qual è quell'angel che con tanto gioco
guarda negli occhi la nostra Regina,
innamorato sì che par di fuoco?
L'amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta «sodalizio».
I loro moti sono danze, le loro voci sono canti; ma, in quell'accordo di voci, in quel turbine di movimenti la personalità scompare: è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melode.
Non ci è differenza di aspetto, ma per dir così una faccia sola.
Questa comunanza di vita è il fondo lirico del Paradiso, ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta, contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici, non ha avuta tanta libertà e attività di spirito da creare la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio.
E dove potea giungere, lo mostra la preghiera di san Bernardo, che è un vero inno alla Vergine, e l'inno a san Francesco d'Assisi e l'inno a san Domenico, nella loro semplicità anche un po' rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni.
I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia: è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco:
- Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo -
cominciò - gloria - tutto il paradiso,
tal che m'inebbriava il dolce canto.
Ciò ch'io vedeva, mi sembrava un riso
dell'universo, perochè mia ebbrezza
entrava per l'udire e per lo viso.
Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!
Oh vita intera d'amore e di pace!
Oh senza brama sicura ricchezza!
È l'armonia universale, l'inno della creazione.
La luce, vincendo la corporale impenetrabilità e frammischiando i suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime, l'individualità sparita nel mare dell'essere.
Il poeta, signore anzi tiranno della lingua, forma ardite parole a significare questa medesimezza amorosa degli esseri nell'essere: «inciela», «imparadisa», «india», «intuassi», «immei», «inlei», «s'infutura», «s'illuia», delle quali voci alcune dopo lungo obblio rivivono.
La redenzione dell'anima è la sua progressiva emancipazione dall'egoismo della coscienza; la sua individualità non le basta; si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla idealità nella vita universale.
Questo è il carattere della vita in paradiso.
Non solo sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la personalità.
Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.
Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra e con la terra altre forme ed altre passioni.
La terra penetra come contrapposto a questa vita d'amore e di pace.
È vita d'odio e di vana scienza, e provoca le collere e i sarcasmi de' celesti.
Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici.
Accolto nel sole gloriosamente allato a Beatrice, si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure terrestri:
O insensata cura de' mortali
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l'ali!
Chi dietro a iura, e chi ad aforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi in rubare, e chi in civil negozio;
chi nel diletto della carne involto
s'affaticava e chi si dava all'ozio.
Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall'alto delle stelle fisse guarda alla terra:
...
e vidi questo globo
tal ch'io sorrisi del suo vil sembiante.
La terra «che ci fa tanto feroci», veduta dal cielo, gli pare un'aiuola.
Il concetto, abbellito e allargato dal Tasso, ha qui una severità di esecuzione quasi ieratica.
Il poeta si sente già cittadino del cielo, e guarda così di passata e con appena un sorriso a tanta viltà di sembiante volgendone immediatamente l'occhio e mirando in Beatrice:
L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendomi io con gli eterni gemelli,
tutta m'apparve da' colli alle foci:
poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.
Pure è quest'aiuola che desta nel seno de' beati varietà di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde.
Accanto all'inno spunta la satira in tutte le sue gradazioni, il frizzo, la caricatura, l'ironia, il sarcasmo.
Qual frizzo, che l'allusione di Carlo Martello, così pungente nella sua generalità:
e fanno re di tal, che è da sermone!
Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta nel maneggio della caricatura e dell'ironia, frustando i predicatori plebei di quel tempo:
Or si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia 'l cappuccio e più non si richiede.
Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi e della gloria dell'antica Roma con fiere minacce ai guelfi, nemici dell'aquila imperiale.
Papa e monaci sono i più assaliti.
San Tommaso, dette le lodi di san Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto i benedettini, e san Pietro il papa.
Tutt'i re di quel tempo mandano sangue sotto il flagello di Dante.
Non si può attendere da' santi alcuna indulgenza alle umane fralezze.
La satira è acerba; la sua musa è l'indignazione, e la sua forma ordinaria è l'invettiva.
Le forme comiche sono uccise in sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo.
Il sarcasmo non è qui nè un pensiero, nè un tratto di spirito, ma pittura viva del vizio, con parole anche grossolane, come «cloaca», che mettano in vista il laido e il disgustoso.
Il vizio è colto non in una forma generale e declamatoria, ma là, in quegli uomini, in quel tempo, sotto quelli aspetti, con pienezza di particolari ed esattezza di colorito.
Capilavori di questo genere sono la pittura de' benedettini e l'invettiva di san Pietro.
Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è altro se non l'antitesi che è in terra tra i buoni e i cattivi, e per scendere al particolare, tra l'età dell'oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è il presente condannato dal passato, è il passato messo in risalto dal suo contrasto con la corruzione presente.
Ci erano i benedettini, ma ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano.
Gli uomini di quell'aurea età più illustri per santità e per scienza sono qui raccolti, come in un pantheon; è il mondo eroico cristiano, succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo, e di cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso.
Questa età dell'oro collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti, ed è la pittura dell'antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida, uno de' suoi antenati.
Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l'ideale dell'età dell'oro e della domestica felicità con tanta semplicità di costumi, con tanta modestia di vita, e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine.
La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli medesimo il suo piedistallo.
Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta.
L'esilio non è rappresentato ne' patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai magnanimi, lasciare ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane all'insolente pietà degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne' versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande.
Ma è un dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall'alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a' suoi piedi tutt'i potenti della terra.
La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale.
La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce e detta «intellettuale».
Beatrice spiega così il suo riso a Dante:
S'io ti fiameggio nel caldo d'amore
di là dal modo che in terra si vede,
sì che degli occhi tuoi vinco il valore,
non ti maravigliar; chè ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
La beatitudine e la contemplazione, e la contemplazione è appunto questa perfetta visione intellettuale.
Perciò le anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono la verità, non come idea, ma come natura vivente.
In terra ci è l'apparenza del vero, e perciò diversità di sistemi filosofici, come spiega Beatrice:
Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l'amor dell'apparenza e 'l suo pensiero.
In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto eterno; in Dio è legato con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna; vedere Dio è vedere la verità.
E non è visione solo di cose, ma di pensieri e di desidèri.
I beati vedono il pensiero di Dante senza ch'egli lo esprima.
La scienza com'era concepita a' tempi di Dante, sposata alla teologia, avea una forma concreta e individuale, materia contemplabile e altamente poetica.
Un Dio personale, che, immobile motore, produce amando l'idea esemplare dell'universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una parte più e meno in un'altra sino alle ultime contingenze; gli astri, dove si affacciano i beati, influenti sulle umane sorti e governati da intelligenze da cui spira il moto e le virtù de' loro giri; il cielo empireo, centro di tutt'i cerchi cosmici e soggiorno della pura luce; l'universo, splendore della divinità, dove appare squadernato ciò che in Dio è un volume; l'ordine e l'accordo di tutto il creato dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la caduta dell'uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l'incarnazione e la passione del Verbo; la verità rivelata, oscura all'intelletto, visibile al cuore, avvalorata dalla fede, confortata dalla speranza, infiammata dalla carità: in questa scienza della creazione il pensiero è talmente concretato e incorporato, che il poeta può contemplarlo come cosa vivente, come natura.
Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che una descrizione, come di cosa che si vede e non si dimostra.
Il perfetto vedere de' beati è privilegio di Dante; nessuno gli sta del pari nella forza e chiarezza della visione.
Spirito dommatico, credente e poetico, predica dal paradiso la verità assoluta, e non la pensa, la scolpisce.
Diresti che pensi con l'immaginazione, aguzzata dalla grandezza e verità dello spettacolo.
Nascono ardite metafore e maravigliose comparazioni.
L'accordo della prescienza col libero arbitrio è una delle concezioni più difficili e astruse; ma qui non è una concezione, è una visione, uno spettacolo: così potente è questa immaginazione dantesca:
La contingenza che fuor del quaderno
della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
se non come dal viso in che si specchia
nave che per corrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti si apparecchia.
Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dall'alto del paradiso, da cui dechina via via fino alle ultime conseguenze: forma contemplativa e dommatica, anzi che discorsiva e dimostrativa, e propria della poesia, presentando all'immaginazione vasti orizzonti in una sola comprensione:
Guardando nel suo Figlio con l'Amore
che l'uno e l'altro eternalmente spira
lo primo e ineffabile valore
quanto per mente e per occhio si gira
con tant'ordine fe' ch'esser non puote
senza gustar di lui chi ciò rimira.
Questa forma poetica della scienza, questa visione intellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a molta perfezione.
È un certo modo di situare l'oggetto e metterlo in vista, sì che l'occhio dell'immaginazione lo comprenda tutto.
Se ci è cosa che ripugna a questa forma, è lo scolasticismo con la barbarie delle sue formole e le sue astrazioni; ma l'immaginazione vi fa penetrare l'aria e la luce: miracolo prodotto dalle due grandi potenze della mente dantesca, la virtù sintetica e la virtù formativa.
Veggasi la stupenda descrizione che fa Beatrice del moto degli astri, di poco inferiore alla storia del processo creativo, il capolavoro di questo genere.
Qui la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar d'occhio, con sì stretta e rapida concatenazione che tutto il creato ti sta innanzi come una sola idea semplice.
Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi, come l'unità della luce nella sua diversità, e l'imperfezione della natura, che non ti dà mai realizzato l'ideale.
I concetti qui non sono astrazioni, ma forze vive, gli attori della creazione, la luce, il cielo, la natura, e non hai un ragionamento, hai una storia animata, con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone poetiche:
Ciò che non muore e ciò che può morire
non è se non splendor di quell'idea,
che partorisce amando il nostro Sire.
Chè quella viva luce che si mea
dal suo Lucente, che non si disuna
da lui, nè dall'amor che in lor s'intrea;
per sua bontate il suo raggiare aduna
quasi specchiato in nuove sussistenze,
eternalmente rimanendosi una.
Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di energia in dir cosa difficilissima.
Nè minor potenza d'intuizione trovi nella fine, quando, paragonando l'ideale alla cera del suggello, aggiunge:
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando all'artista,
che ha l'abito dell'arte e man che trema.
Ed anche la mano di Dante trema, che fra tante bellezze ci è non poca scoria.
Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che esce dall'università di Parigi, pieno il capo di tesi e di sillogismi.
Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di barbarie scolastica: definizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni.
E questo è non per difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio.
A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca.
- Tornate indietro - egli dice - che il mio libro e per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; - e sono i filosofi e i dottori suoi pari.
Perciò il Paradiso e poco letto e poco gustato.
Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.
La visione intellettuale è la beatitudine.
L'esposizione della scienza riesce in cantici e inni, le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del cielo:
Finito questo, l'alta corte santa
risuona per le spere un Dio lodiamo,
nella melode che lassù si canta.
Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
risono per lo cielo, e la mia donna
dicea con gli altri: «Santo, santo, santo !»
Così è sciolto questo mistero dell'anima.
Adombrato ne' simboli e allegorie del Purgatorio, qui il mistero è svelato, è la Divina Commedia dell'anima, il suo indiarsi nell'eterna letizia.
La forza che tira Dante a Dio, si che sale come rivo,
se di alto monte scende giuso ad imo,
è l'amore, è Beatrice, che all'alto volo gli veste le piume Beatrice è in sè il compendio del paradiso, lo specchio dove quello si riflette ne' suoi mutamenti.
Puoi dipingerla quando prega Virgilio o quando «regalmente proterva» rimprovera l'amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello.
La stessa parola non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile, se non ne' suoi effetti su Dante e su' celesti.
Ecco uno de' più bei luoghi:
Quivi la donna mia vid'io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fe' il pianeta;
e se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec'io, che pur di mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come in peschiera che è tranquilla e pura
traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
per modo che lo stimin lor pastura;
sì vid'io ben più di mille splendori
trarsi ver' noi, ed in ciascun s'udia:
Ecco chi crescerà li nostri amori.
-
Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l'anima.
L'amore è purificato: nulla resta più di sensuale.
Dante che nel purgatorio sentì il tremore dell'antica fiamma, qui ode Beatrice con un sentimento assai vicino alla riverenza.
Quando ella si allontana, ei non manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata.
Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome, nel piccolo cenno che gli fa Beatrice, l'amore dell'uomo come ombra si dilegua nell'amore di Dio, ella lo ama in Dio:
Così orai, e quella si lontana,
come parea, sorrise e riguardommi:
poi si tornò alla eterna fontana.
Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo «scotto» del pentimento, così non può ne' «gemelli» o stelle fisse contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua fede.
Allora san Pietro lo incorona poeta, e poeta vuol dire banditore della verità.
San Pietro gli dice:
e non asconder quel ch'io non ascondo.
Così la Commedia ha la sua consacrazione e la sua missione.
È la verità bandita dal cielo, della quale Dante si fa l'apostolo e il profeta: è il «poema sacro».
Con quella stessa coscienza della sua grandezza che si fe' «sesto fra cotanto senno», qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l'interprete, congiungendo in sè le due corone, il savio e il santo, l'antica e la nuova civiltà, il filosofo e il teologo.
Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato, Dante si sente oramai vicino a Dio.
Avea già contemplata la divinità nella sua umanità, il Dio-uomo.
Il trionfo di Cristo, la festa dell'Incarnazione, sembra reminiscenza di funzioni ecclesiastiche, co' suoi principali attori, Cristo, la Vergine, Gabriello.
Cristo e la Vergine sono come nel santuario, invisibili; la festa è tutta fuori di loro e intorno a loro.
Succede il trionfo degli angioli, e poi nell'empireo il trionfo di Dio.
L'empireo è la città di Dio, il convento de' beati, il proprio e vero paradiso.
Beatrice raggia sì, che il poeta si concede vinto più che tragedo o comico superato dal suo tema, e desiste dal seguir
più dietro a sua bellezza poetando,
come all'ultimo suo ciascun artista.
Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile
lo Creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa, le cui bianche foglie si distendono per l'infinito spazio, e sono gli scanni de' beati.
San Bernardo spiega e descrive il maraviglioso giardino.
Il punto che più splende è là dove sono
gli occhi da Dio diletti e venerati,
dove è la Vergine e gli angioli.
Quel punto è la pacifica orifiamma del paradiso, la bandiera della pace.
Il giardino, la rosa, l'orifiamma sono immagini graziose, ma inadeguate.
Queste metafore non valgono la stupenda terzina, dove san Bernardo è rappresentato in forma umana e intelligibile:
Diffuso era per gli occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio,
quale a tenero padre si conviene.
Il paradiso, appunto perchè paradiso, non puoi determinarlo troppo e descriverlo, senza impiccolirlo.
La sua forma adeguata è il sentimento, l'eterno tripudio: ciò che è ben colto in quella plenitudine volante di angeli, che diffondono un po' di vita tra quella calma.
Il vero significato lirico del paradiso è nell'inno di Dante a Beatrice e nell'inno di san Bernardo alla Vergine, ne' quali è il paradiso guardato dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo.
I beati stessi diventano interessanti, quando tra quella luce vedi spuntare
visi a carità suadi,
ed atti ornati di tutte onestadi
o quando «chiudon le mani» implorando la Vergine.
Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui l'universo, e poi la Trinità, e poi l'Incarnazione, congiunzione dell'umano e del divino, in cui si acqueta il desiderio, il «disiro» e il «velle»,
sì come ruota ch'egualmente e mossa.
Dante vede, ma è visione, di cui hai le parole e non la forma; ci è l'intelletto, non ci è più l'immaginazione, divenuta un semplice lume, un barlume.
La forma sparisce; la visione cessa quasi tutta; sopravvive il sentimento:
...
quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di sibilla.
L'immaginazione morendo manda in questi bei versi l'ultimo raggio.
All'«alta fantasia» manca la possa; e insieme con la fantasia muore la poesia.
Così finisce la storia dell'anima.
Di forma in forma, di apparenza in apparenza, ritrova e riconosce se stessa in Dio, pura intelligenza, puro amore e puro atto.
Ed è in questa concordia che l'anima acqueta il suo desiderio, trova la pace.
Nell'Inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme ricevono d'ogni sorte differenze, spiccate, distinte, corpulente e personali.
Nel Purgatorio la materia non è più la sostanza, ma un momento: lo spirito acquista coscienza di sua forza, e contrastando e soffrendo conquista la sua libertà: la realtà vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui si sprigiona, aspirazione all'avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell'immaginativa anzi che obbietti reali: pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e canti.
Nel Paradiso lo spirito già libero di grado in grado s'india; le differenze qualitative si risolvono, e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce, nella incolorata melodia musicale, nel puro pensiero.
Quel regno della pace che tutti cercavano, quel regno di Dio, quel regno della filosofia, quel «di là», tormento e amore di tanti spiriti, è qui realizzato.
Il concetto della nuova civiltà, di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui compreso in una immensa unità, che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e tutta la storia.
E chi costruisce così vasta mole, ci mette la serietà dell'artista, del poeta del filosofo e del cristiano.
Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti stimoli all'opera, la patria, la posterità, l'adempimento di quella sacra missione che Dio affida all'ingegno, acuti stimoli, ne' quali sono purificati altri motivi meno nobili, l'amor della parte, la vendetta, le passioni dell'esule: ci è là dentro nella sua sincerità tutto l'uomo, ci è quel d'Adamo e ci è quel di Dio.
A poco a poco quel mondo della fantasia diviene parte del suo essere, il suo compagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro della memoria, l'eco de' suoi dolori, delle sue speranze e delle sue maledizioni.
Nato a immagine del mondo che gli era intorno, simbolico, mistico e scolastico, quel mondo si trasforma e si colora e s'impolpa della sua sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto.
La sua mente sdegna la superficie, guarda nell'intimo midollo, e la sua fantasia ripugna all'astratto, a tutto dà forma.
Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il carattere del suo genio.
E non solo l'oggetto gli si presenta con la sua forma, ma con le sue impressioni e i suoi sentimenti.
E n'esce una forma, che è insieme immagine e sentimento, immagine calda e viva, sotto alla quale vedi il colore del sangue, il movere della passione.
E con l'immagine tutto è detto, e non vi s'indugia e non la sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e sdegna gli accessorii.
A conseguire l'effetto spesso gli basta una sola parola comprensiva, che ti offre un gruppo d'immagini e di sentimenti, e spesso, mentre la parola dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, l'armonia del verso ne esprime il sentimento.
Tutto è succo, tutto è cose, cose intere nella loro vivente unità, non decomposte dalla riflessione e dall'analisi.
Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non squadernato.
È un mondo pensoso, ritirato in sè, poco comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero in travaglio.
In quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri.
Là vive involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo, che sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna.
VIII
IL CANZONIERE
Dante morì nel 1321.
La sua Commedia riempie di sè tutto il secolo.
I contemporanei la chiamarono «divina», quasi la parola sacra, il libro dell'altra vita, o come diceano, il «libro dell'anima».
Un tal Trombetta, quattrocentista, la mette fra le opere sacre e i libri dell'anima «da studiarsi in quaresima», come le Vite de' santi Padri la Vita di san Girolamo.
Il popolo cantava i suoi versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua fantasia.
I dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle favole, quantunque alcuni austeri, come Cecco d'Ascoli, quel velo non ce l'avrebbero voluto.
E Fazio degli Uberti crede di far cosa più degna, rimovendo ogni velo ed esponendoci arida scienza nel suo Dittamondo, «dicta mundi».
L'impressione non fu puramente letteraria.
Ammiravano la forma squisita, ma tenevano il libro più che poesia.
Vedevano là entro il libro della vita o della verità, e ben presto fu spiegato e comentato come la Bibbia e come Aristotile, accolto con la stessa serietà con la quale era stato concepito.
Oscurissimo in molti particolari, e per le allusioni politiche e storiche e pel senso allegorico, il libro nel suo insieme è così chiaro e semplice, che si abbraccia tutto di un solo sguardo.
La scienza della vita o della creazione è colta ne' suoi tratti essenziali e rappresentata con perfetta chiarezza e coesione.
L'armonia intellettuale diviene cosa viva nell'architettura, così coerente e significativa nelle grandi linee, così accurata ne' minini particolari.
L'immaginazione anche più pigra concepisce di un tratto inferno, purgatorio e paradiso.
Il pensiero nuovo, mistico e spiritualista, lunga elaborazione dei secoli, compariva qui perfettamente armonizzato e pieno di vita.
In questo mondo intellettuale e dommatico, così ben rispondente alla coscienza universale, si sviluppava la storia o il mistero dell'anima nella più grande varietà delle forme, sì che vi si rifletteva tutta la vita morale nel suo senso più serio e più elevato.
Il sentimento della famiglia, la viva impressione della natura, l'amor della patria, un certo senso d'ordine, di unità, di pace interiore che fa contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici e privati, la virtù dell'indignazione, il disprezzo di ogni viltà e volgarità, la virilità e la fierezza della tempra, l'aspirazione ad un ordine di cose ideale e superiore, il vivere in ispirito e in contemplazione, come staccato dalla terra, il sentimento della giustizia e del dovere, la professione della verità, piaccia o non piaccia, con l'occhio volto a' posteri, e quella fede congiunta con tanto amore, quell'accento di convinzione, quella coscienza che ha il poeta della sua personalità, della sua grandezza e della sua missione; tutto questo appartiene a ciò che di più nobile ed elevato e nella natura umana.
Anche quel non so che scabro e rozzo e quasi selvaggio, ch'è nella superficie, rendeva l'immagine di quella eroica e ancor barbara giovinezza del mondo moderno.
Ma l'impressione prodotta dalla Commedia rimaneva circoscritta nell'Italia centrale.
La scuola del nuovo stile non avea fatto ancora sentire la sua azione nelle rimanenti parti d'Italia, dove la lingua dominante era sempre il latino scolastico ed ecclesiastico.
Malgrado l'esempio di Dante, non era ancora stabilito che in rima si potesse scrivere d'altro che di cose d'amore.
E in questa sentenza era anche Cino da Pistoia, solo superstite di quella scuola immortale, dalla quale era uscita la Commedia.
Compariva sulla scena la nuova generazione.
Lo studio de' classici, la scoperta di nuovi capilavori, una maggior pulitezza nella superficie della vita, la fine delle lotte politiche col trionfo de' guelfi, la maggior diffusione della coltura sono i tratti caratteristici di questa nuova situazione.
La superficie si fa più levigata, il gusto più corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il culto della forma per se stessa.
Gli scrittori non pensarono più a render le loro idee in quella forma più viva e rapida che si offrisse loro innanzi; ma cercarono la bellezza e l'eleganza della forma.
Dimesticatisi con Livio, Cicerone, Virgilio parve loro barbaro il latino di Dante; ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano state l'ammirazione della forte generazione scomparsa, e non poterono tollerare il latino degli scolastici e della Bibbia.
Intenti più alla forma che al contenuto, poco loro importava la materia, pur che lo stile ritraesse della classica eleganza.
Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Nel Petrarca si manifesta energicamente questo carattere della nuova generazione.
Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di Varrone, le storie di Plinio, la seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e due sue orazioni.
Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua liberalità la prima versione di Omero e di parecchi scritti di Platone.
Scopritore instancabile di codici emendava, postillava, copiava: copiò tutto Terenzio.
In questa intima familiarità co' più grandi scrittori dell'antichità greco-latina, tutto quel tempo di poi, che fu detto «il medio evo», gli apparve una lunga barbarie; di Dante stesso ebbe assai poca stima; gli stranieri chiamava «barbari»; gl'italiani chiamava «latin sangue gentile»; voleva una ristaurazione dell'antichità, e che non fosse ancora fattibile, ne accagiona la corruttela de' costumi.
Era Petracco e si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e li chiamò Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono lui e lo chiamarono Cicerone.
Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano, a Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co' quali viveva in ispirito, e poco innanzi di morire, scrisse una lettera alla posterità, alla quale raccomanda la sua memoria.
Così appariva l'aurora del Rinnovamento.
L'Italia volgeva le spalle al medio evo, e dopo tante vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava popolo romano e latino.
Questo proclamava Cola da Rienzo dall'alto del Campidoglio.
Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti; gli scolastici cessero il campo agli eruditi e a' letterati; la teologia fu segregata dagli studi di coltura generale e divenne scienza de' chierici; la filosofia conquistò il primato in tutto lo scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le leggende, i miti, i misteri, separati dal tronco in cui vivevano, divennero forme puramente letterarie e d'imitazione; tutto quel mondo teologico, mistico nel concetto, scolastico e allegorico nelle forme, fu tenuto barbarie da uomini che erano già in grado di gustare Virgilio e Omero.
Questa nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si sente romana e latina e si pone nella sua personalità di rincontro agli altri popoli, tutti stranieri e barbari, ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone.
Qui non ci è più il guelfo o il ghibellino, non il romano o il fiorentino: c'è l'Italia che si sente ancora regina delle nazioni; ci è l'italiano che parla con l'orgoglio di una razza superiore, e ricorda Mario come se fosse vivuto l'altro ieri e quella storia fosse la sua storia; ci è la viva impressione di quel mondo classico sul giovine poeta, che ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell'Italia potente e gloriosa, l'Italia di Mario.
L'orgoglio nazionale e l'odio de' barbari è il motivo della canzone, lo spirito che vi alita per entro.
Vi compariscono già tutte le qualità di un grande artista.
La chiarezza e lo splendore dello stile, la fusione delle tinte, l'arte de' chiaroscuri, la perfetta levigatezza e armonia della dizione, la sobrietà nel ragionamento, la misura ne' sentimenti, un dolce calore che penetra dappertutto senza turbare l'equilibrio e la serenità e l'eleganza della forma, fanno di questa canzone uno de' lavori più finiti dell'arte.
L'Italia ha avuto il suo poeta; ora ha il suo artista.
In questa risurrezione dell'antica Italia è naturale che la lingua latina fosse stimata non solo lingua de' dotti, ma lingua nazionale, e che la storia di Roma dovesse sembrare agl'italiani la loro propria storia.
Da queste opinioni uscì l'Africa, che al Petrarca dove parere la vera Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in quella lotta ultima, nella quale Roma, vincendo Cartagine, si apriva la via alla dominazione universale.
Questo poema rispondeva così bene alla coscienza pubblica, che Petrarca fu incoronato principe de' poeti, ed ebbe tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto mai.
Nuovo Virgilio, volle emulare anche a Cicerone, accettando volentieri legazioni che gli dessero occasione di recitare pubbliche orazioni.
Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino: lavori molto apprezzati da' contemporanei, ma tosto dimenticati, quando cresciuta la coltura e raffinato il gusto, parve il suo latino così barbaro, come barbaro era parso a lui il latino di Dante e de' Mussati, de' Lovati e de' Bonati tenuti a' tempi loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.
Ma la lingua latina potea così poco rivivere come l'Italia latina.
Il latino scolastico avea pure alcuna vita, perchè lo scrittore sforzava la lingua e l'ammodernava e ci mettea se stesso.
Ma il latino classico non potea produrre che un puro lavoro d'imitazione.
Lo scrittore pieno di riverenza verso l'alto modello non pensa ad appropriarselo e trasformarlo, ma ad avvicinarvisi possibilmente.
Tutta la sua attività è volta alla frase classica, che gli sta innanzi nella sua generalità, spoglia di tutte le idee accessorie che suscitava ne' contemporanei, e dove è il più fino e il più intimo dello stile.
Perciò schiva il particolare e il proprio, corre volentieri appresso le perifrasi e le circonlocuzioni, e arido nelle immagini, povero di colori, scarso di movimenti interni, e dice non quanto o come gli sgorga dal di dentro, ma ciò che può rendersi in quella forma e secondo quel modello: difetti visibili nell'Africa.
Così si formo una coscienza puramente letteraria, lo studio della forma in se stessa con tutti gli artifici e i lenocini della rettorica: ciò che fu detto «eleganza», «forma scelta e nobile»; maniera di scrivere artificiosa, che pare anche nelle sue canzoni politiche, come quella a Cola di Rienzo, opera più di letterato che di poeta, e perciò pregiata molto, finchè in Italia durò questa coscienza artificiale.
In verità il Petrarca era tutt'altro che romano o latino, come pur voleva parere: potè latinizzare il suo nome, ma non la sua anima.
Lo scrittore latino è tutto al di fuori, ne' fatti e nelle cose, è tutto vita attiva e virile, diresti non abbia il tempo di piegarsi in sè e interrogarsi.
Al Petrarca sta male l'abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani e ridevano.
Non sentivano l'uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano.
L'uomo c'era, ma più simile all'anacoreta e al santo che a Livio e a Cicerone, più inclinato alle fantasie e alle estasi che all'azione.
Natura contemplativa e solitaria, la vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua vera vita fu tutta al di dentro di sè: il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso.
Dante alzo Beatrice nell'universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto l'universo in Laura, e fece di lei e di sè il suo mondo.
Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.
Pare un regresso: pure è un progresso.
Questo mondo è più piccolo, è appena un frammento della vasta sintesi dantesca, ma è un frammento divenuto una compiuta e ricca totalità, un mondo pieno, concreto, sviluppato, analizzato, ricerco ne' più intimi recessi.
Beatrice sviluppata dal simbolo e dalla scolastica, qui è Laura nella sua chiarezza e personalità di donna; l'amore, scioltosi dalle universe cose entro le quali giaceva inviluppato, qui non è concetto nè simbolo, ma sentimento; e l'amante, che occupa sempre la scena, ti dà la storia della sua anima, instancabile esploratore di se stesso.
In questo lavoro analitico-psicologico la realtà pare sull'orizzonte chiara e schietta, sgombra di tutte le nebbie, tra le quali era stata ravvolta.
Usciamo infine da' miti, da' simboli, dalle astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in piena luce, nel tempio dell'umana coscienza.
Nessuna cosa oramai si pone di mezzo tra l'uomo e noi.
La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato.
Gli è vero che la teoria rimane la stessa.
La donna è «scala al Fattore», l'amore è il «principio delle universe cose».
Ma tutto questo è accessorio, è il convenuto; la sostanza del libro è la vicenda assidua de' fenomeni più delicati del cuore umano.
Cresciuto in Avignone fra le tradizioni provenzali e le corti d'amore, quando Francesco da Barberino avea già pubblicato i Documenti d'amore e i Reggimenti delle donne, raccolta di tutte le leggi e costumanze galanti, egli attinge nello stesso arsenale e spaccia la stessa rettorica, allegorie, concetti, sottigliezze, spiritose galanterie.
Soprattutto tiene molto a questo, che tutto il mondo sappia non essere, il suo, amore sensuale, ma amicizia spirituale, fonte di virtù.
Dante chiama infamia l'accusa di avere espresso il suo amore troppo sensualmente, e a cessare da sè l'infamia trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche.
Ma le continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perchè e il corpo di Laura, non come la bella faccia della sapienza, ma come corpo, che gli scalda l'immaginazione.
Laura è modesta, casta, gentile, ornata di ogni virtù; ma sono qualità astratte, non è qui la sua poesia.
Ciò che move l'amante e ispira il poeta, è Laura da' capei biondi, dal collo di latte, dalle guance infocate, da' sereni occhi, dal dolce viso, la quale egli situa e atteggia in mille maniere e ne cava sempre un nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un bel paesaggio, il verde del campo, la pioggia de' fiori, l'acqua che mormora, fatta la natura eco di Laura.
Questo sentimento delle belle forme, della bella donna e della bella natura, puro di ogni turbamento, è la musa di Petrarca.
Diresti Laura un modello, del quale il pittore sia innamorato, non come uomo, ma come pittore, intento meno a possederlo che a rappresentarlo.
E Laura è poco più che un modello, una bella forma serena, posta lì per essere contemplata e dipinta, creatura pittorica, non interamente poetica: non è la tale donna nel tale e tale stato dell'animo, ma è la Donna, non velo o simbolo di qualcos'altro, ma la donna come bella.
Non ci è ancora l'individuo: ci è il genere.
In quella quietudine dell'aspetto, in quella serenità della forma ci è l'ideale femminile ancora divino, sopra le passioni, fuori degli avvenimenti, non tocco da miseria terrena, che il poeta crederebbe profanare calandolo in terra e facendolo creatura umana.
La chiama una dea, ed è una dea; non è ancor donna.
Sta ancora sul piedistallo di statua; non è scesa in mezzo agli uomini, non si è umanata.
Coloro i quali vogliono leggere nell'anima di questo essere muto e senza espansione, e cercarvi il suo segreto, fanno il contrario di quello che volle il poeta, cercano la donna dov'egli vedeva la dea.
Certo a' nostri occhi Laura dee parere una forma monotona, e anche talora insipida; ma chi si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverà in Laura la creatura più reale che il medio evo poteva produrre.
La vita di Laura diviene umana appunto allora che è morta ed è fatta creatura celeste.
Qui l'amore non può aver niente più di sensuale: è l'amore di una morta, viva in cielo, e può liberamente spandersi.
Non vedi più i «capei d'oro» e le «rosee dita» e il «bel piede», dal quale l'«erbetta verde» e i «fiori di color mille» desiderano d'esser tocchi.
Pure questa Laura non dipinta e più bella, e soprattutto più viva, perchè «meno altera», meno dea e più donna, quando apparisce all'amante, e siede sulla sponda del suo letto, e gli asciuga gli occhi con quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli angioli si volge indietro, come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine desidera il bel corpo e l'amante ed entra con lui in dolci colloqui.
Così il mistero di Laura si scioglie nell'altro mondo, com'è nella Commedia: tutte le contraddizioni finiscono.
Sciolta dalle condizioni del reale, tolta di mezzo la carne, divenuta creatura libera dell'immaginazione, Laura par fuori con chiarezza, acquista un carattere, dove ci è la santa, e ci è soprattutto la donna.
Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono, Beatrice e Laura cominciano a vivere, appunto quando muoiono.
E il mistero si scioglie anche nel Petrarca.
In vita di Laura, sorge l'opposizione tra il senso e la ragione, tra la carne e lo spirito.
Questo concetto fondamentale del medio evo, se nel Petrarca è purificato della sua forma simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo «credo» cristiano e filosofico.
L'opposizione era sciolta teoricamente con l'amicizia platonica o spirituale, legame d'anime, puro di ogni concupiscenza; dalla quale astrazione non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita, senza sangue, dove non trovi nè l'amante, nè l'amata, nè l'amore.
Vi sono momenti nella vita del Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici, perchè egli si possa dare a questo spasso.
Allora riproduce la scuola de' trovatori con tutt'i suoi difetti, in una forma eletta e vezzosa, che li pallia.
E vi trovi il convenzionale, il manierato, le regole e le sottigliezze del codice d'amore, soprattutto il concettoso, dotato com'era di uno spirito acuto.
Non coglie se stesso nel momento dell'impressione; l'impressione è passata, e se la mette dinanzi e la spiega, come critico o filosofo: hai un di là dell'impressione, l'impressione generalizzata e spiegata, come è nella più parte de' suoi sonetti in vita di Laura; antitesi, freddure, sottigliezze, ragionamenti in forma pretensiosa e civettuola.
Allora tutto è chiaro; tutto e spiegato con Platone e col codice d'amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla donna, sull'amore, pomposamente abbigliato.
Trovi un maraviglioso artefice di verso, un ingegno colto, ornato, acuto, elegante: non trovi ancora il poeta e non l'artista.
Ma nel momento delle impressioni, tra le sue irrequietezze e agitazioni, circuito di fantasmi, par fuori la sua personalità: trovi il poeta e l'artista.
Quello che sente è in opposizione con quello che crede.
Crede che la carne è peccato; che il suo amore è spirituale; che Laura gli mostra la via «che al ciel conduce»; che il corpo è un velo dello spirito.
E se in questo «credo» trovasse ogni suo appagamento, avremmo Dante e Beatrice.
Ma non vi si appaga: l'educazione classica e l'istinto dell'artista si ribella contro queste astrazioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo, il senso del reale e del concreto, così sviluppato ne' pagani.
Non vi si appaga l'artista, e non vi si appaga l'uomo; perchè si sente inquieto, non ben sicuro di quello che crede e vuol far credere, e sente il morso del senso e tutte le ansietà di un amore di donna.
Scoppia fuori la contraddizione, o il mistero.
Il suo amore non e così possente che lo metta in istato di ribellione verso le sue credenze, nè la sua fede è così possente che uccida la sensualità del suo amore.
Nasce un fluttuar continuo di riflessioni contraddittorie, un sì ed un no, un voglio e non voglio:
Io medesmo non so quel che mi voglio.
Nasce il mistero dell'amore, che ti offre le più diverse apparenze, senza che il poeta giunga ad averne chiara coscienza:
Se amor non è, che dunque è quel che i' sento?
a s'egli è amor, per Dio che cosa e quale?
Manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa contraddizione, e più vi si dimena, più vi s'impiglia.
Il canzoniere in vita di Laura è la storia delle sue contraddizioni.
Ora gli pare che contraddizione non ci sia, e unisce in pace provvisoria cielo e terra, ragione e senso, gli occhi che mostrano la via del cielo e gli occhi alfin dolci tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.
Sono i suoi momenti di sanità e di forza, di entusiasmo più artistico che amoroso, dal quale escono le vivaci descrizioni del bel corpo e le tre «canzoni sorelle».
Ora si sente inquieto, e si lascia ir dietro alla corrente delle impressioni e delle immagini, e vede il meglio e al peggior s'appiglia, come conchiude nella canzone
I' vo pensando e nel pensier m'assale,
dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione e il senso, la ragione che parla e il senso che morde.
E ci sono pure momenti che la ragione piglia il di sopra, e si volge a Dio, e si confessa, e fa proposito di svellere dal suo cuore il «falso dolce fuggitivo»,
che il mondo traditor può dare altrui.
Non c'è dunque nel Canzoniere una storia, un andar graduato da un punto all'altro; ma è un vagar continuo tra le più contrarie impressioni, secondo le occasioni e lo stato dell'animo in questo o quel momento della vita.
Non ci è storia, perchè nell'anima non ci è una forte volontà, ne uno scopo ben chiaro; perciò è tutta in balìa d'impressioni momentanee, tirata in opposte direzioni.
Di che nasce un difetto d'equilibrio, la discordia o la scissura interiore.
Il reale comparisce la prima volta nell'arte, condannato, maledetto, chiamato il «falso dolce fuggitivo»: pur desiderato, di un desiderio vago che si appaga solo in immaginazione, debolmente contraddetto e debolmente secondato.
Minore è la speranza, più vivo è il desiderio, il quale, mancatagli la realtà, si appaga in immaginazione.
Nasce una vita di sogni, di estasi, di fantasie, di quello che l'animo desidera, non con la speranza di conseguirlo, anzi con la coscienza di non conseguirlo mai.
Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli piace sognare,
e più certezza averne fora il peggio.
Perchè se per averne più certezza, rompe il corso dell'immaginazione, sopraggiunge il disinganno.
Così vive in fantasia, fabbricandosi godimenti interrotti spesso dalla riflessione con un «ahi lasso!», in un flutto perenne d'illusioni e disillusioni.
Il disaccordo interno è appunto in questo, nella immaginazione che costruisce e nella riflessione che distrugge: malattia dello spirito, nata appunto dall'esagerazione dello spiritualismo.
Lo spirito non è sano, perchè a forza di segregarsi dalla natura e dal senso si trova al fine di rincontro e ribelle l'immaginazione, e l'immaginazione non è sana, perchè ha di rincontro a sè e ribelle la riflessione, che in un attimo le dissipa i suoi castelli incantati.
Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta, e non ha forza di sottoporsi la volontà, per il contrasto che trova nell'immaginazione.
L'immaginazione rimane pura immaginazione, e non ha forza sulla volontà, non lavora a realizzare i suoi dolci fantasmi per il contrasto che trova nella riflessione.
Se una delle due forze potesse soggiogar l'altra, nascerebbe l'equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza alcun risultato, non si giunge mai a un virile «io voglio», ci è al di dentro il sì e il no in eterna tenzone: perciò la vita non esce mai al di fuori in un risultato, in un'azione, rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di dentro:
...
...
In questi pensier,
lasso, tienmi dì e notte il signor nostro, Amore.
Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile e in una inutile riflessione.
È punito là dove ha peccato.
Ha voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba di se stesso ed è egli medesimo il suo avoltoio.
Stanco, svogliato, disgustato di una realtà a cui si sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle al mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e rimane solo con se stesso a fantasticare, «solo e pensoso», incalzato dal suo interno avoltoio:
Solo e pensoso i più deserti campi
vo misurando a passi tardi e lenti.
Da questa situazione sono uscite le due più profonde canzoni del medio evo, l'una poco nota, l'altra assai popolare, amendue poco studiate, l'una che incomincia:
Di pensiero in pensier, di monte in monte;
l'altra che incomincia:
Chiare, fresche e dolci acque.
Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della sua malattia, di questa attività interna inutile e oziosa, una specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da sè e attingere il reale, avremmo la tragedia dell'anima, come Dante ne concepì la commedia (una tragedia, nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna) tra' dolori della contraddizione vedremmo il misticismo morire, spuntare l'alba della realtà, il senso o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli tocca nella vita.
Ma nel Petrarca la lotta è senza virilità.
Gli manca la forza che abbondò a Dante d'idealizzarsi nell'universo; e rimanendo chiuso nella sua individualità, gli manca pure ogni forza di resistenza: sì che la tragedia si risolve in una flebile elegia.
Il poeta si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in lamenti.
Acuto più che profondo, non guarda negli abissi del suo male e si contenta descriverne i fenomeni condensati in immagini e in sentenze rimaste proverbiali.
Tenero e impressionabile, capace più di emozioni che di passioni, non dimora lungamente nel suo dolore, che vien presto l'alleviamento, lo scoppio delle lagrime e de' lamenti.
Artista più che poeta, e disposto a consolarsi facilmente, quando l'immaginazione abbia virtù di offrirgli un simulacro di quella realtà di cui sente la privazione:
in tante parti e sì bella la veggio,
che se l'error durasse, altro non chieggio.
La famiglia, la patria, la natura, l'amore sono per il poeta, com'era Dante, cose reali, che riempiono la vita e le danno uno scopo.
Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione: l'immagine per lui vale la cosa.
Ma come ci è insieme in lui la coscienza che è l'immagine e non la cosa, la sua soddisfazione non è intera, ci è in fondo un sentimento della propria impotenza, ci e questo: - Non potendo avere la realtà, mi appago del suo simulacro.
- Onde nasce un sentimento elegiaco «dolce-amaro», la malinconia, sentimento di tutte le anime tenere, che non reggono lungamente allo strazio e non osano guardare in viso il loro male, e si creano amabili fantasmi e dolci illusioni.
Manca al suo strazio l'elevata coscienza della sua natura e la profondità del sentimento.
Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo, cercando scampo nella benefica immaginazione.
La fisonomia di questo stato del suo spirito è scolpita nella canzone:
Chiare, fresche e dolci acque,
cielo fosco e funebre che a poco a poco si rasserena ne' più cari diletti dell'immaginazione, insino a che da ultimo divien luce di paradiso:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Il poeta è così attirato in questo mondo fabbricatogli dall'immaginazione, che quando si riscuote, domanda:
Qui come venn'io, o quando?
Il suo obblio, il suo sogno era stato così tenace, così simile alla realtà, che gli parea essere in cielo, non là dov'era.
Questa dolce malinconia è la verità della sua ispirazione, è il suo genio.
Quando si sforza di uscirne, spunta spesso il retore: le sue collere, le sue ammirazioni non sono senza una esagerazione e ricercatezza, che rivelano lo sforzo.
Ma quando vi s'immerge e vi si annega, la sua forma acquista il carattere della verità congiunta con la grandezza, è un modello di semplicità e naturalezza.
Gli è che natura, negandogli le grandi convinzioni e le grandi passioni e lo sguardo profondo di Dante, ne aveva fatto un artista finito.
L'immagine appaga in lui non solo l'artista, ma tutto l'uomo.
Senza patria, senza famiglia, senza un centro sociale in mezzo a cui viva altro che letterario, ritirato nella solitudine dello studio e nell'intimo commercio degli antichi, la verità e la serietà della sua vita e tutta in queste espansioni estetiche, come la vita del santo e nelle sue estasi e contemplazioni.
Dante è sbandito da Firenze, ma la sua anima è sempre colà.
Il Petrarca è costretto a dimostrare la sua italianità:
Non è questo 'l terren ch'io toccai pria?
A Dante non fa bisogno di rettorica.
Si sente italiano e ne ha tutte le passioni, e ne senti il fremito e il tumulto nella sua poesia.
Ciò che al contrario ti colpisce nel mondo personale e solitario del Petrarca è la privazione della realtà, e un desiderio di essa scemo di forza, che si appaga ne' docili sogni dell'immaginazione.
Tutto converge nell'immaginazione; tutto gli si offre come un sensibile: il pensiero e il sentimento sono in lui contemplazione estetica, bella forma.
Ciò che l'interessa non è entusiasmo intellettuale, nè sentimento morale o patriottico, ma la contemplazione per se stessa, in quanto è bella, un sentimento puramente estetico.
Laura piange; egli dice: - Quanto son belle quelle lacrime! - Laura muore; egli dice:
Morte bella parrea nel suo bel viso.
Fantastica sulla sua morte.
Ed ecco Laura che prega sulla sua fossa,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
La bellezza per Dante è apparenza simbolica, la bella faccia della sapienza: dietro a quella ci sta la vita nella sua serietà, vita intellettuale e morale.
Qui la bellezza, emancipata dal simbolo si pone per se stessa, sostanziale, libera, indipendente, quale si sia il suo contenuto, sia pure indifferente, o frivolo o repugnante.
Il contenuto, già così astratto e scientifico, anzi scolastico, qui pare per la prima volta essenzialmente come bellezza schietta, realtà artistica.
Al Petrarca non basta che l'immagine sia viva, come bastava a Dante; vuole che sia bella.
Ciò che move il suo cervello a sviluppare e formare l'immagine, non è l'idea, come storia o filosofia o etica, ma è il piacere estetico, che in lui s'ingenera della sua contemplazione.
Questo sentimento della bella forma è così in lui connaturato, che penetra ne' minimi particolari dell'elocuzione, della lingua e del verso.
Dante anche nei più minuti particolari di esecuzione guarda il di dentro, e non lo perde mai di vista, perchè è il di dentro che l'appassiona; il Petrarca rimane volentieri al di fuori, e non resta che non l'abbia condotto all'ultima perfezion tecnica.
Nelle immagini, ne' paragoni, nelle idee non cerca novità e originalità, anzi attinge volentieri ne' classici e ne' trovatori, intento non a cercare o trovare, ma a dir meglio ciò che è stato detto da altri.
L'obbiettivo della sua poesia non è la cosa, ma l'immagine, il modo di rappresentarla.
E reca a tanta finezza l'espressione che la lingua, l'elocuzione, il verso finora in uno stato di continua e progressiva formazione, acquistano una forma fissa e definitiva, divenuta il modello de' secoli posteriori.
La lingua poetica è anche oggi quale il Petrarca ce la lasciò, nè alcuno gli è entrato innanzi negli artifici del verso e dell'elocuzione.
Quel tipo di una lingua illustre che Dante vagheggiava nella prosa, il Petrarca lo ha realizzato nella poesia, dalla quale è sbandito il rozzo, il disarmonico, il volgare, il grottesco e il gotico, elementi che pur compariscono nella Commedia.
È una forma bella non solo per rispetto all'idea, ma per se stessa, aulica, aristocratica, elegante, melodiosa.
La parola vale non solo come segno, ma come parola.
Il verso non è solo armonia, o rispondenza con quel di dentro, ma melodia, elemento musicale in se stesso.
Ma questa bella forma non è un puro artificio tecnico o meccanico, una vuota sonorità, anzi vien fuori da una immaginazione appassionata e innamorata, che ha il suo riposo, il suo ultimo fine in se stessa.
È una immaginazione chiusa in sè, non trascendente, che di rado si alza a fantasia o a sentimento, anzi rifugge dal fantasma, e tende spesso a produrre immagini finite, ben contornate, chiare e fisse.
E se vi si appagasse, sarebbe poesia assolutamente pagana e plastica.
Ma il grande artista ne' momenti anche più geniali della produzione sente come un vuoto, qualche cosa che gli manchi, e non è soddisfatto, ed è malinconico.
Che gli manca?
Gli manca, com'è detto, il possesso e il godimento e la serietà e la forza della vita reale.
Come artista si sente incompiuto; come immaginazione si sente isolato: vivere in immaginazione gli piace; pur sente che là non è la vita, e vi trova sollievo, non appagamento.
Questo sentimento del vuoto che penetra ne' più cari diletti dell'immaginazione, e li tronca bruscamente, questa immaginazione che, appunto perchè si sente immaginazione e non realtà, produce le sue creature con la lacrima del desiderio negli occhi, questo desiderio inestinguibile che pullula dal seno stesso dell'arte e la chiarisce ombra e simulacro, e non cosa viva, sono il fondo originale e moderno della poesia petrarchesca.
L'immagine nasce trista, perchè nasce con la coscienza di essere immagine e non cosa, e lo strazio di questa coscienza è raddolcito, perchè, non ci essendo la cosa, ci è l'immagine, e così bella, così attraente.
Situazione piena di misteri, di contraddizioni e di chiaroscuri, che genera quel non so che «dolce amaro», detto malinconia, un sentirsi consumare e struggere dolcemente:
che dolcemente mi consuma e strugge.
La malinconia è la musa cristiana, e il male di Dante e de' più eletti spiriti di quel tempo.
Ma la malinconia del Petrarca e della nuova generazione che gli stava attorno e già di un'altra natura e accenna a tempi nuovi.
La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso del medio evo, che poneva il fine della vita in un di là della vita, nella congiunzione dell'umano e del divino, che è la base della Divina Commedia.
Le anime del purgatorio sono malinconiche, perchè sospirano appresso ad un bene, di cui hanno innanzi la sola immagine nelle pitture, ne' simboli, nelle visioni estatiche.
Quei godimenti dell'immaginativa aguzzano più il desiderio.
Non basta loro l'immagine: vogliono la realtà; e questo volere, raddolcito alla presenza del simulacro, genera la loro malinconia.
Sono prive del paradiso, ma lo veggono in immaginazione, e sperano di salirvi quando che sia: perciò sono contente nel fuoco.
La condizione delle anime purganti è molto simile a quella degli uomini nella vita terrena: è lo stesso tarlo che li rode.
La vita corporale è un velo, un simulacro di quel di là che la fede e la scienza offriva chiarissimo all'intelletto e all'immaginazione; perciò la vita corporale era in se stessa il peccato o la carne, l'inferno, il vasello o la prigione, dove l'anima vive malinconica: il giorno della morte è per l'anima il giorno della vita e della libertà.
Non che profondarsi nel reale, e cercare di assimilarselo, l'anima tende a separarsene, e vivere in ispirito o in immaginazione, fabbricandosi un simulacro di quel di là a cui spera di giungere: indi la tendenza all'ascetismo, alla solitudine, all'estasi e al misticismo.
Questa era la malinconia di Caterina, quando dicea: «Muoio e non posso morire».
La stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Petrarca.
Anch'egli cerca fabbricarsi ombre e simulacri di Laura, anch'egli cerca l'obblio e il riposo ne' sogni dell'immaginazione.
Quando la santa e il poeta s'incontrarono in Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto parenti di spirito.
Il poeta aveva la stessa inclinazione alla solitudine, alla contemplazione, al raccoglimento, all'estasi, alla malinconia.
E se guardiamo all'apparenza, c'era in tutti e due le stesse credenze e le stesse aspirazioni.
Quel «muoio e non posso morire» corrisponde bene a questo grido del poeta:
aprasi la prigione ov'io son chiuso,
e che 'l cammino a tal vista mi serra.
Ma qui fiutate la rettorica, e là avete l'espressione nuda ed energica di un sentimento che investe tutta l'anima e consuma la santa a trentatrè anni.
Questa concentrazione ed unità delle forze intorno ad un punto solo, in che è la serietà della vita, mancò al Petrarca.
Il suo mondo è pur quello di Caterina e di Dante, mondato della sua scorza scolastica e simbolica, ridotto in forma più chiara e artistica, ma pur quello.
Se non che questo mondo mistico non lo possiede tutto e, sovrano e indiscusso nella mente non tira a sè tutte le forze della vita.
È in lui visibile una dispersione e distrazione di forze, come di uomo tirato in qua e in là da contrarie correnti, che vorrebbe pigliar la sua via e non se ne sente la forza, e vaga in balìa dei flutti scontento e riluttante.
La bella unità di Dante, che vedeva la vita nell'armonia dell'intelletto e dell'atto mediante l'amore, è rotta.
Qui ci è scompiglio interiore ribellione, contraddizione:
e veggio il meglio ed al peggior m'appiglio.
La malinconia di Caterina è l'impazienza del morire, di unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la dissonanza fra il mondo divino e la selva oscura, la vita terrena, malinconia piena di forza e di speranza, che si scioglie nell'azione.
La malinconia del Petrarca è la coscienza della sua interna dissonanza e della sua impotenza a conciliarla, malinconia insanabile, perchè il male non è nell'intelletto, è nella volontà non certo ribelle, ma debole e contraddittoria.
Per palliare la dissonanza, esce in mezzo la sofistica e la rettorica, con le più smaglianti frasi, con le più sottili distinzioni: intervalli di tregua, che fanno risorgere più acuta la coscienza del male.
Gli è che il medio evo è già nel suo petto in fermentazione, penetrato di altri elementi, senza che egli abbia una distinta coscienza di questo nuovo stato: accanto al cristiano ascetico ci è l'erudito, il letterato, l'artista, il pagano, l'uomo di mondo con tutti gl'istinti e le tendenze naturali, che vogliono farsi valere.
Si forma in lui un essere contraddittorio, come ne' tempi di transizione, che non è ancora l'uomo nuovo, e non è più l'uomo antico.
La malinconia del Petrarca non è dunque più la malinconia del medio evo, di un mondo formato e trascendente, che rende quaggiù malinconico lo spirito per il suo legame a quel corpo, ma è la malinconia di un mondo nuovo che, oscuro ancora alla coscienza, si sviluppa in seno al medio evo e ci sta a disagio, e tende a sprigionarsene, e non ne ha la forza per la resistenza che trova nell'intelletto.
L'intelletto appartiene al medio evo, alle cui dottrine ha tolta la ruvida scorza, non la sostanza.
Quel mondo nuovo, plastico, pagano, reazione della natura contro il misticismo, è ancora così debole, così poco lineato, che l'intelletto può condannarlo e maledirlo, o assimilarselo con una sofistica apparenza di conciliazione, e se cacciato dalla vita reale riapparisce nell'immaginazione, può penetrare anche colà e dirgli: - Tu non sei che un fantasma.
Se in vita di Laura questo sentimento nuovo che sorge, più vicino all'uomo e alla natura, e dissimulato co' più ingegnosi sofismi, quasi peccato che si cerchi di palliare, dopo la morte di Laura purificato e trasformato si manifesta con più energia.
Beatrice morta diviene per Dante la scienza, la voce di quel mondo di là, ov'era lo scopo della vita.
La storia di Beatrice è sviluppo di idee e di dottrine nella lirica e nella Commedia.
Il suo riso è luce intellettuale, raggio dell'intelletto.
La storia di Laura è profondamente umana e reale, eco de' più delicati sentimenti, delle più tenere emozioni, delle più vivaci impressioni che colpiscono l'uomo in terra.
La poesia in vita di Laura è dominata dall'intelletto, da una riflessione sofistica e rettorica, che altera la purità de' sentimenti, e sottilizza le immagini, e raffredda le impressioni, e con vani sforzi di conciliazione mette più in vista quel sì e quel no che battagliavano nella debole volontà del poeta.
In morte di Laura ogni battaglia cessa, e non ci è più vestigio di sofismi e di rettorica, perchè la conciliazione cercata finora così ingegnosamente e non conseguita e già avvenuta per la natura delle cose.
Laura morta diviene libera creatura dell'immaginazione, non più persona autonoma e resistente, ma docile fantasma.
Il poeta ne fa la sua creatura, può darle affetti e pensieri, quali gli piaccia: può piangerla, vederla, parLare seco, vivere seco in ispirito.
La situazione è semplice e umana.
È la donna amata, sparita dalla terra, che ti apparisce in sogno e ti asciuga gli occhi e ti prende per mano e ti parla: consolazioni malinconiche, interrotte da una lacrima, quando ti svegli.
Dante si asciuga presto la lacrima, e si gitta fra le onde agitate dell'esistenza, e si rifà un ideale e lo chiama Beatrice.
A lui manca il tempo di piangere, perchè tiene nel suo petto due secoli, ed ha la forza di comprenderli e realizzarli.
Il Petrarca giunge qui, che è già stanco e disgustato dell'esistenza, vi giunge con l'anima di solitario e di romito, e non ha altra forza che di piangere:
Ed io son un di quei che il pianger giova.
Piange la fine delle illusioni, il vacuo dell'esistenza, il perire di tutte le cose:
Veramente siam noi polvere ed ombra.
Così, dopo vane speranze e vani timori, quest'anima tenera e impressionabile rinunzia alla lotta, e si abbandona, e si separa da un mondo, dove invano erasi sforzata di penetrare, e si ritira nella solitudine della sua immaginazione con Laura, chiamando partecipi de' suoi lamenti l'usignolo, e il vago augelletto, e la valle e il bosco e l'aura e l'onda.
La scissura interna dà luogo ad una calma elegiaca; il cuore stanco si riconcilia con l'intelletto.
Il passato, cagione di gioie e di affanni, gli pare un sogno; la vita gli pare insipida; vivere è un breve sonno; morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti; quando gli occhi si chiudono, allora si aprono nell'eterno lume; il mondo cristiano, non contraddetto mai dal suo intelletto, ora penetra nel suo cuore, gli appare come un mondo nuovo, che dipinge con accenti di maraviglia:
Come va il mondo! Or mi diletta e piace
quel che più mi dispiacque; or veggio e sento
che per aver salute ebbi tormento
e breve guerra per eterna pace.
Ecco in che modo rappresenta questo nuovo stato nel suo inno alla Vergine:
Da poi ch'i' nacqui in su la riva d'Arno,
cercando or questa, ora quell'altra parte,
non è stata mia vita altro che affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m'hanno
tutta ingombrata l'alma.
Vergine sacra ed alma,
non tardar: ch'i' son forse all'ultim'anno.
I dì miei più correnti che saetta
fra miserie e peccati
sonsen andati; e sol Morte ne aspetta.
Quest'uomo, che gitta sul passato lo sguardo del disinganno, che chiama la sua vita miseria e peccato, che vede gli anni fuggiti con tanta rapidità senza alcun frutto, ben si promette di fare un altro canzoniere alla Vergine, ma e troppo tardi.
- Omai son stanco! - Grida.
E se ne' Trionfi cerca ingrandire il suo orizzonte e uscire da sè e contemplare l'umanità, ciò che ne' suoi versi ha ancora qualche interesse è il suo passato, che i vecchi hanno il privilegio di evocare, rifarne qualche frammento; e soprattutto il sogno di Laura, tanto imitato da poi.
Chi legge il Canzoniere, non può non ricevere questa impressione, di un mondo astratto, rettorico, sofistico, quale fu foggiato da' trovatori, dove appariscono sentimenti più umani e reali e forme più chiare e rilevate, o se vogliamo guardare più alto, di un mondo mistico-scolastico, oltreumano, ammesso ancora dall'intelletto, ma repulso dal cuore e condannato dall'immaginazione.
Se guardiamo alla forma, quel mondo ha perduto il suo aspetto simbolico-dottrinale, che lo teneva al di là della vita e dell'arte, e si è umanizzato, è divenuto immagine e sentimento; il tempio gotico si è trasformato in un bel tempietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luce uguale, con perfetta simMetria, ispirato da Venere, dea della bellezza e della grazia.
Il grottesco, il gotico, gli angoli, le punte, le ombre, l'indefinito, il dissonante, il prolisso, il superfluo, il volgare, il difforme, tutto è cacciato via da questo tempio dell'armonia, maraviglia d'arte, che chiude un secolo e ne annunzia un altro.
L'artista gode; l'uomo è scontento.
Perchè sotto a questa bella forma così levigata e pulita vive un povero core d'uomo, nutrito di desidèri e d'immagini, a cui lo tira la natura, da cui lo allontana la ragione, senza la forza di uscire dalla contraddizione e senza la ferma volontà di realizzarle.
L'uomo è minore dell'artista.
L'artista non posa, che non abbia data l'ultima finitezza al suo idolo; l'uomo non osa di guardarsi, e abbozza i moti del proprio cuore, e salta nelle più opposte direzioni, quasi tema di fermarsi troppo, di esser costretto a volere e a risolversi.
Perciò quella bella superficie riman fredda; non ha al di sotto profondità di esplorazione, o energia di volontà e di convinzione.
La situazione poteva esser tragica, rimane elegiaca; poesia di un'anima debole e tenera, che si effonde malinconicamente in dolci lamenti, assai contenta, quando possa vivere in immaginazione e fantasticare: l'uomo svanisce nell'artista.
Gli è che a quest'uomo mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa e di Dante un poeta.
Quel mondo giace nel suo cervello già decomposto e in fermentazione, mescolato con altre divinità.
Ciò che di più serio si move nel suo spirito è il sentimento dell'arte congiunto con l'amore dell'antichità e dell'erudizione.
È in abbozzo l'immagine anticipata de' secoli seguenti, di cui fu l'idolo.
L'arte si afferma come arte e prende possesso della vita.
Così il medio evo, quando appena cominciava a svilupparsi negli altri popoli, presso di noi per una precoce cultura si dissolveva prima che avesse potuto esplicarsi in tutti gli aspetti dell'arte e produrre la forma drammatica.
Dante, che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine.
Quel mondo così perfetto al di fuori è al di dentro scisso e fiacco: è contemplazione d'artista, non più fede e sentimento.
Questa dissonanza tra una forma così finita e armonica e un contenuto così debole e contraddittorio ha la sua espressione ne' sentimenti che prevalgono a' tempi di transizione, la malinconia, la tenerezza, la delicatezza, il molle e voluttuoso fantasticare.
E l'illustre malato, abbandonato a' flutti di questo doppio mondo, di un mondo che se ne va e di un mondo che se ne viene, e che con tanta dolcezza e grazia rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza e la forza, è Francesco Petrarca.
IX
IL DECAMERONE
Se ora apri il Decamerone, letta appena la prima novella, gli è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca: «Qui come venn'io o quando?».
Non è una evoluzione, ma è una catastrofe, o una rivoluzione, che da un dì all'altro ti presenta il mondo mutato.
Qui trovi il medio evo non solo negato, ma canzonato.
Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi secoli, con questa differenza, che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l'intenzione di concitare gli uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si spassa con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita che di farti ridere a spese del suo buon confessore e de' creduli frati e della credula plebe.
Perciò l'arma del Molière è l'ironia sarcastica; l'arma del Boccaccio è l'allegra caricatura.
Per giungere a queste forme e a queste intenzioni bisogna andare fino al Voltaire.
Giovanni Boccaccio sotto un certo aspetto fu il Voltaire del secolo decimoquarto.
Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli guastò e corruppe lo spirito italiano.
Egli medesimo in vecchiezza fu preso dal rimorso e finì chierico, condannando il suo libro.
Ma quel libro non era possibile, se nello spirito italiano non fosse già entrato il guasto, se «guasto» s'ha a dire.
Ove le cose, di cui ride il Boccaccio, fossero state venerabili, poniamo pure ch'egli avesse potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione.
Ma fu il contrario.
Il libro parve rispondere a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel loro segreto, e fu applauditissimo, con tanto successo che il buon Passavanti se ne spaventò e vi oppose come antidoto lo Specchio di penitenza.
Il Boccaccio fu dunque la voce letteraria di un mondo, quale era già confusamente avvertito nella coscienza.
C'era un segreto: egli lo indovinò, e tutti batterono le mani.
Questo fatto, in luogo d'essere maledetto, merita di essere studiato.
Il carattere del medio evo è la trascendenza, un dì là oltreumano ed oltrenaturale, fuori della natura e dell'uomo, il genere e la specie fuori dell'individuo, la materia e la forma fuori della loro unità, l'intelletto fuori dell'anima, la perfezione e la virtù fuori della vita, la legge fuori della coscienza, lo spirito fuori del corpo, e lo scopo della vita fuori del mondo.
La base di questa teologia filosofica è l'esistenza degli universali.
Il mondo fu popolato di esseri o intelligenze, sulla cui natura molto si disputò: sono esse idee divine? Sono generi e specie reali? Sono specie intelligibili? Questo edificio gemeva già sotto i colpi dei nominalisti, cioè di quelli che negavano l'esistenza de' generi e delle specie, e li chiamavano puri nomi, e dicevano esistere solo il singolo, l'individuo.
Sulla loro bandiera era scritto un motto divenuto così popolare: «Non bisogna moltiplicare enti senza necessità».
L'ascetismo era il frutto naturale di un mondo teocratico spinto all'esagerazione.
La vita quaggiù perdeva la sua serietà e il suo valore.
L'uomo dimorava con lo spirito nell'altra vita.
E la cima della perfezione fu posta nell'estasi, nella preghiera e nella contemplazione.
Così nacque la letteratura teocratica, così nacquero le leggende, i misteri, le visioni, le allegorie: così nacque la Commedia, il poema dell'altra vita.
Il pensiero non aveva intimità, non calava nell'uomo e nella natura, ma se ne teneva fuori, tutto intorno alla natura e alle qualità degli enti, che erano le stesse forze umane e naturali sciolte dall'individuo ed esistenti per sè stesse.
Le astrazioni dello spirito divennero esseri viventi.
E perchè le astrazioni, frutto dell'intelletto inesauribile nelle sue distinzioni e suddistinzioni, sono infinite, questi esseri moltiplicarono nell'acuto intelletto degli scolastici.
Come il mondo scolastico fu popolato di esseri astratti, così il mondo poetico fu popolato di esseri allegorici, l'uomo, l'anima, la donna, l'amore, le virtù, i vizi.
Non erano persone, come le pagane divinità: erano semplici personificazioni.
Il sentimento, come frutto di inclinazioni umane e naturali, era peccato.
Le passioni erano scomunicate.
La poesia era madre di menzogne.
Il teatro cibo del diavolo.
La novella e il romanzo generi di letteratura profani.
Tutto questo si chiamava il senso, e il luogo comune di questo mondo ascetico era la lotta del senso con la ragione, da fra Guittone a Francesco Petrarca.
Il sentimento, reietto come senso e costretto ad esser ragione, strappato dal cuore umano, divenne anch'esso un universale, un fatto esteriore, ora simbolico, ora scolastico, o, come si diceva, «platonico».
Il padre de' sentimenti, l'amore, divenne un fatto filosofico, forza unitiva, unità dell'intelletto e dell'atto.
Così nacque la lirica platonica, dal Guinicelli al Petrarca.
Il senso e l'immaginazione si ribellavano contro questo platonismo.
Ed è in questa ribellione, ancorachè poco scrutata e poco accentuata, che è la grandezza della lirica petrarchesca.
Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione nella loro naturalezza e intimità era vietato.
E colui che più gustò di questo frutto proibito, fu il Petrarca.
L'immaginazione era un istrumento dell'intelletto, destinata a creare forme e simboli di concetti astratti.
Lo sa il povero Dante.
Nessuno ebbe mai l'immaginazione così torturata.
E nacquero forme simboliche e intellettuali, nella cui generalità scomparve l'individuo con la sua personalità.
Erano forme tipiche, generi e specie, anzichè l'individuo.
La regina delle forme, la donna, non potè sottrarsi a questa invasione degli universali, e rimase un ideale più divino che umano, bella faccia, ma faccia della sapienza, più amata che amante, e amata meno come donna che come scala alle cose celesti.
Così nacquero Beatrice e Laura.
Certo, a nessuno è lecito parlare con poca riverenza di questo mondo dell'autorità che segna un momento interessantissimo nella storia dello spirito umano, e che ha pure il suo fondamento nella vita.
L'illuminismo o il misticismo, la visione estatica, è un portato naturale dello spirito nella sua alienazione dal corpo, ciò che dicevasi a «vivere in astrazione»: momento di concitazione e di entusiasmo, che l'uomo pare più che uomo e sembra in lui parli un dio o un demonio.
Perciò quell'entusiasmo fu detto «furore divino» o «estro», qualità de' profeti e de' poeti, che sono tutt'uno per Dante.
Questa elevazione dell'anima in se stessa, e al di sopra de' limiti ordinari della vita reale, è il lato eroico dell'umanità, il privilegio della giovinezza, la condizione di tutte le società primitive, quando, cessati i bisogni materiali, vi si sveglia lo spirito.
Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i piaceri, è degno di stima.
Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non può aver durata.
L'arte, la coltura, la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano e lo trasformano.
L'arte, impossessandosi di questo mondo, lo umanizza, lo accosta all'uomo e alla natura, lo mescola di altri elementi, vi fa penetrare le passioni e i furori del senso.
Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai qualche cosa che sia la vita nella sua intimità, insieme paradiso e inferno; ma già di rincontro al paradiso hai l'inferno, di rincontro a Beatrice hai Francesca da Rimini, e di rincontro a Dante, simbolo dell'umanità, hai Dante Alighieri, l'individuo in tutta la sua personalità.
Nel Canzoniere quel mondo si spoglia pure le sue forme natie, teologiche, scolastiche, allegoriche, e prende aspetto più umano e naturale.
E se fosse durato ancora un pezzo nella coscienza, non è dubbio che l'arte vi si sarebbe compiutamente sviluppata, e come la visione e la leggenda divenne la Commedia, come Selvaggia divenne Beatrice, e Beatrice Laura, dal seno de' misteri sarebbe uscito il dramma, e molti generi di letteratura ancora iniziali e abbozzati già nella Commedia sarebbero venuti a maturità, come l'inno e la satira.
Ma già quel mondo nel Canzoniere non ha più il calore dell'entusiasmo e della fede, e in quelle forme così eleganti lascia una parte della sua sostanza.
Il sentimento religioso, morale, politico vive fiaccamente nella coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall'arte.
Questo infiacchirsi della coscienza, questo culto della bella forma fra tanta invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici della nuova generazione, che succede all'età virile e credente e appassionata di Dante.
Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine, e non cercano il vero sotto i «versi strani»; la «bella veste» li appaga.
I loro studi non hanno più a guida l'investigazione della verità, ma l'erudizione: c'è il sapere per il sapere, come l'arte per l'arte.
I Fiori, I Giardini, I Conviti, I Tesori, dove la sapienza sacra e profana era usata a scopo morale, danno luogo a raccolte semplicemente storiche ed erudite.
Ci sono ancora gli scolastici, che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro querele si sperdono nel plauso universale, che pone il Petrarca accanto a Virgilio.
E codesto Virgilio non è più il mago, precursore del cristianesimo, e neppure il savio «che tutto seppe», ma è il dolce ed elegante poeta.
Dante s'incorona da sè in paradiso poeta, profeta e apostolo: i contemporanei incoronano nel Petrarca l'autore dell'Africa, della nuova Eneide.
La coltura e l'arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.
Ma la coltura e l'arte non è il naturale fiorire di un mondo interiore, anzi è accompagnata con l'infiacchirsi della coscienza, e si pone già per se stessa, come un fatto estrinseco che abbia il suo valore in sè e sia a un tempo mezzo e scopo.
È una coltura e un'arte «formale», non riscaldata abbastanza dal contenuto.
Ci è lì dentro lo stesso mondo di Dante, ma c'è come ragione in lotta col sentimento e con l'immaginazione; lotta fiacca e inconcludente: scemato è il vigore della fede e della volontà.
Gli è che quel mondo mistico, fuori della natura e dell'uomo, appunto per la sua esagerazione, non poteva avere alcun riscontro con la realtà.
Ebbe la sua età dell'oro, evocata da Dante con tanta malinconia; ma a lungo andare dovea rimanere pura teoria, ammessa per tradizione e per abitudine e contraddetta nella vita pratica.
Più alto era il modello, più visibile era la contraddizione e più scandalosa.
Nel secolo di Dante e di Caterina grandi sono i lamenti e le invettive per la corruttela de' costumi, specialmente ne' papi e ne' chierici, che con l'esempio contraddicevano alle loro dottrine.
Queste invettive divennero il luogo comune della letteratura, e ne odi l'eco un po' rettorica ne' versi eleganti del Petrarca contro l'avara Babilonia.
Ma lo spettacolo, divenuto abituale e generale, non moveva più indignazione; e mentre Caterina ammoniva e il Petrarca satireggiava, il mondo continuava sua via.
Allato al misticismo vedevi il cinismo.
Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna di Napoli.
La corruttela de' costumi non era negazione ardita delle dottrine cristiane, anzi tutti si tenevano buoni cristiani, ed erano zelantissimi contro gli eretici, e molti facevano all'ultimo penitenza.
Ma era qualche cosa di peggio: era indifferenza, un oscurarsi del senso morale.
Quel mondo viveva ancora nell'intelletto, non creduto e non combattuto, ozioso, senza alcuna efficacia su' sentimenti e sulle azioni.
In questa condizione degli spiriti, la coltura dovea avere un effetto deleterio.
La parte leggendaria, fantastica, miracolosa di quel mondo dovea parere a quegl'ingegni così svegliati cosa così poco seria, come le prediche de' frati contraddette dalla vita.
Sparisce quel candore infantile di fede anche nelle cose più assurde, che tanto ci alletta negli scrittori antecedenti.
Le classi colte cominciano a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso della sua credulità.
Esser credente era prima un titolo di gloria de' più forti ingegni.
Essere incredulo diviene ora indizio di animo colto.
D'altra parte la maggiore coltura, generando un più vivo sentimento della natura e dell'uomo, dovea affrettare la rovina di un mondo così astratto e così estrinseco alla vita.
Il reale disconosciuto dovea prender la sua rivincita; la natura troppo compressa dovea reagire a sua volta.
Così di rincontro a quello spiritualismo esagerato sorgeva una reazione inevitabile, il naturalismo e il realismo nella vita pratica.
Indi è che la coltura, in luogo di calare in quel mondo e modificarlo e trasformarlo e riabilitarlo nella coscienza, come fu più tardi in Germania, si collocò addirittura fuori di esso, e lasciata la coscienza vuota, impiegò la sua attività ne' piaceri dell'erudizione e dell'arte.
Così quel mondo si trovò fuori della coscienza, senza lotta intellettuale, anzi rimanendo ozioso padrone dell'intelletto.
Ci erano anche allora i liberi pensatori, soprattutto ne' conventi, ma erano sforzi isolati, scuciti.
Una lotta più seria era stata iniziata da' ghibellini; ma la rotta di Benevento e il trionfo durevole de' guelfi avea posto fine alla discussione e all'esame.
Gli uomini amavano meglio scoprire e postillare manoscritti, e nelle cose di fede lasciar dire il papa, e vivere a modo loro.
Questo fu il naturale effetto della vittoria guelfa.
Finirono le lotte e le discussioni; successe l'indifferenza religiosa e politica, fra tanto fiorire di coltura, di erudizione, di arte, di commerci e d'industrie.
Ci erano tutti i segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza dell'antichità, un gusto più fine e un sentimento artistico più sviluppato, una disposizione meno alla fede che alla critica e all'investigazione, minor violenza di passioni, maggiore eleganza di forme: l'idolo di questa società dovea essere il Petrarca, nel quale riconosceva e incoronava se stessa.
Ma sotto a quel progresso v'era il germe di una incurabile decadenza, l'infiacchimento della coscienza.
Il Canzoniere, posto tra quei due mondi, senza esser nè l'uno, nè l'altro, così elegante al di fuori, così fiacco e discorde al di dentro, è l'ultima voce letteraria, rettorica ed elegiaca, di un mondo che si oscurava nella coscienza.
I contemporanei applaudivano alla bella forma, e non cercavano e non si appassionavano pel contenuto, come avveniva con la Commedia.
Quel mondo, divenuto letterario e artistico, anche un po' rettorico e convenzionale, non rispondeva più alle condizioni reali della vita italiana.
Quel misticismo, quell'estasi dello spirito, che si rivela un'ultima volta con tanta malinconia e tenerezza nel Petrarca, era in aperta rottura con le tendenze e le abitudini di una società colta, erudita, artistica, dedita a' godimenti e alle cure materiali, ancora nell'intelletto cristiana, non scettica e non materialista ma nella vita già indifferente e incuriosa degli alti problemi dell'umanità.
Il linguaggio era lo stesso, ma dietro alla parola non ci era più la cosa.
Questo era il segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito e non definito, ma che pur si manifestava con tanta chiarezza nella vita pratica.
E colui che dovea svelare il segreto e dargli una voce letteraria, non usciva già dalle scuole: usciva dal seno stesso di una società che dovea così bene rappresentare.
Tutti i grandi scrittori erano usciti dall'università di Bologna, Guinicelli, Cino, Cavalcanti, Dante, Petrarca.
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il Petrarca e otto prima della morte di Dante, «non pienamente avendo imparato grammatica», come scrive Filippo Villani, «volendo e costringendolo il padre per cagione di guadagno, fu costretto ad attendere all'abbaco, e per la medesima cagione a peregrinare».
Il padre era un mercante fiorentino, e alla mercatura indirizzò il figlio.
Quando i giovani appena cominciavano i loro studi nella università, il nostro Giovanni faceva, come si direbbe oggi, il commesso viaggiatore in servigio del padre, e il suo libro era la pratica e la conoscenza del mondo.
Girando di città in città, si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che all'esercizio della mercatura, e più uomo di spirito e d'immaginazione che uomo d'affari.
Era chiamato «il poeta».
Venuto in Napoli a ventitrè anni, menava vita signorile, bazzicava in corte, usava co' gentiluomini, spendeva largamente, amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava.
Dicesi che alla vista della tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua vocazione poetica.
Fatto è che il buon padre, visto che non se ne potea cavare un mercante, pensò farne un giureconsulto, e lo mise a studiare i canoni, con gran rincrescimento del giovane, che chiama sciupato il tempo messo a fare il mercante e ad imparare i canoni.
Finalmente, libero di sè, si gittò agli studi letterari, e come portava il tempo, si die' al latino e al greco, e si empì il capo di mitologia e di storia greca e romana.
Ei menava la vita, mezzo tra gli studi e i piaceri, spesso viaggiando, non più a mercatare, ma a cercar manoscritti.
Narrasi che al 7 aprile del 1341 siAsi nella chiesa di San Lorenzo invaghito di Maria, figlia naturale di re Roberto: certo, nella corte spensierata e licenziosa della regina Giovanna non potè prender lezione di buon costume, nè di amori platonici.
E volse lo studio e l'ingegno a rallegrare col suo spirito la corte e la sua non ingrata Maria, che con nome poetico chiamò Fiammetta.
Il Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto era pieno di Dante, e tra' suoi più appassionati era il nostro poeta.
Frutto della sua ammirazione fu la Vita di Dante, uno de' suoi lavori giovanili.
Ma egli poteva ammirarlo, non comprenderlo, perchè lo spirito di Dante non era in lui.
Formatosi fuori della scuola, alieno da ogni seria coltura scolastica e ascetica, profano anzichè mistico ne' sentimenti e nella vita, si foggiò un Dante a sua immagine.
Chi vuol conoscere le opinioni e i sentimenti del nostro giovane, legga quel libro e vi troverà già la stoffa, da cui uscì il Decamerone.
Nessuna originalità e profondità di pensiero, nessuna sottigliezza di argomentazione; tutto vi è dimostrato, anche le più comuni verità, ma il fondamento della dimostrazione non è nell'intelletto, è nella memoria; non hai innanzi un pensatore, nè un disputatore, ma un erudito.
Vuol mostrare l'ingratitudine di Firenze verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, «il cui petto uno umano tempio di divina sapienza fu reputato», e la Siria, la Macedonia, la greca e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e Smirne, e Pilos, e Chios, e Colofon, e Mantova, e Sulmona, e Venosa, e Aquino.
«Tu sola, » conchiude il poeta «quasi i Cammilli, i Publicoli, i Torquati, Fabrizi, Catoni, Fabi, Scipioni ...
in te fossero, ...
avendoti lasciato il tuo antico cittadino Claudiano cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta cura, ma l'hai da te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo soprannome».
Volendo parlar di Dante, comincia ab ovo, dalla prima fondazione di Firenze.
Spesso lascia lì Dante ed esce in lunghe digressioni, tra le quali è notabile quella sulla natura della poesia.
Secondo lui, il linguaggio poetico fu trovato per porgere «sacrate lusinghe» alla divinità, con parole lontane «da ogni altro plebeo e pubblico stile di parlare» e «sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi il rincrescimento e la noia».
I poeti imitarono «dello Spirito santo le vestigie», perchè come nella divina Scrittura, «la quale teologia appelliamo, quando con figura di alcuna storia, quando col senso di alcuna visione», si mostra l'«alto mistero della Incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa ...
così i poeti, ...
quando con finzioni di vari iddii, quando con trasmutazioni di uomini in varie forme, quando con leggiadre persuasioni ne dimostrano le cagioni delle cose e gli effetti delle virtù e de' vizi».
Poi spiega ciò che lo Spirito santo volle mostrare nel rogo di Mosè, nella visione di Nabuccodonosor, nelle lamentazioni di Geremia; e ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno, Giove, Giunone, Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio e di Licaone in lupo, e nella bellezza degli Elisi e nell'oscurità di Dite.
E ribattendo quelli che chiamano i poeti antichi «uomini insensati», inventori di favole «a niuna verità convenienti», conclude che «la teologia e la poesia quasi una cosa si posson dire», anzi che la «teologia niun'altra cosa è che una poesia d'Iddio» e «poetica finzione».
L'erudito poeta non si arresta qui, e ci regala la favola di Dafne, amata da Febo e in lauro convertita, per darci spiegazione perchè i poeti avevano la corona d'alloro.
Di quello che fu il mondo interiore di Dante, qui non è alcun vestigio; invece il mondo esterno vi è sviluppato fino all'aneddoto, fino al pettegolezzo.
Ci si vede uno spirito curioso e profano che cerca il maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani, disposto a spiegarli con la superficialità di un erudito e di un uomo di mondo, o «del secolo», come si diceva allora.
Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un sogno attribuito alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta la sua erudizione.
Sotto il suo sguardo profano Beatrice perde tutta la sua idealità, e l'amore di Dante, scacciato dalle sue regioni ascetiche e platoniche e scolastiche, acquista una tinta romanzesca.
Il nostro Giovanni non si fa capace come Dante a nove anni abbia potuto amare Beatrice.
Il caso gli pare strano, e ne cerca diverse spiegazioni.
Forse fu «conformità di complessioni o di costumi»; forse anche «influenza da cielo».
Ma queste spiegazioni non lo appagano, e si ferma in quest'altra, che cava dall'esperienza.
Dante, secondo lui, vide Beatrice in una festa il primo di maggio, quando la «dolcezza del cielo riveste dei suoi ornamenti la terra, e tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi fronde la fa ridente, e per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la generale allegrezza, per la delicatezza de' cibi e de' vini, gli animi eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti ampliarsi e divenire atti a poter leggermente esser presi da qualunque cosa che piace».
Dante dunque amò fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo maturo; i cibi e i vini delicati e l'allegrezza generale, ecco ciò che dispose il suo animo all'amore.
Beatrice era per Dante «angeletta bella e nova», senza contorni e senza determinazioni scesa di cielo a mostrare le bellezze e le virtù che le piovono dalle stelle.
Tutto questo non entra al Boccaccio, il quale vuol pure spiegarsi come la potè parere un'angioletta, e si foggia nella profana immaginazione una bella immagine di fanciulla, e la descrive così:
«Assai leggiadretta secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che 'l suo picciolo tempo non richiedeva; ed oltre a questo, aveva le fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi un'angioletta era reputata da molti.»
Ecco un'angioletta di carne; eccoci dalle mistiche altezze di Dante caduti in piena fisiologia e notomia.
Dante amò, perchè tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad amare; e Beatrice parea quasi un'angioletta, perchè era fatta così e così.
Beatrice muore a ventiquattro anni.
Il nostro biografo non se ne maraviglia, perchè «un poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo, ...
ci conduce» alla morte.
I parenti e gli amici per consolare Dante gli diedero moglie:
«Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti!», esclama il nostro scapolo e nemico dell'amore regolato.
«Qual medico» egli aggiunge
«s'ingegnerà di cacciare l'acuta febbre col fuoco, o 'l freddo delle midolla delle ossa col ghiaccio o colla neve? Certo niun altro se non colui, il quale con nuova moglie crederà le amorose tribolazioni mitigare».
E qui da uomo esperto della materia parla della natura e de' fenomeni dell'amore e dell'indole delle donne, e delle noie e degli affanni de' mariti, e compiange il povero Dante.
Dipinge con tocchi sicuri, e in certi punti è eloquente, perchè qui è in casa sua.
Udite questo periodo: «Possiamo pensare quanti dolori nascondono le camere, li quali da fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia trapassa le mura, sono riputati diletti».
Ma Dante, secondo ch'egli narra, dimenticò presto moglie e Beatrice, e si die' all'amore delle donne: ciò che l'indusse al gran viaggio nell'altro mondo, ove se ne fece così aspramente rimproverare da Beatrice.
Il quale amore non pare poi un così gran peccato al nostro scapolo: «Chi sarà tra' mortali giusto giudice a condannarlo? Non io».
Ed ecco venire innanzi l'erudito, e citare parecchi casi di uomini illustri vinti dalle donne, Giove, Ercole, Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode.
Ti par di assistere a una parodia.
Eppure niente è più serio.
Il giovane è pieno di ammirazione verso Dante che chiama un «iddio fra gli uomini», e crede con questa Vita riparare alla ingratitudine di Firenze e alzargli un monumento.
La Vita di Dante è una rivelazione.
Qui dentro si manifesta l'autore in tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che si andava formando in Italia.
Mette in un fascio mondo sacro e profano, Bibbia e mitologia, teologia e poesia: la teologia è una «poesia di Dio», una «finzione poetica».
Questa strana mescolanza era già comune al secolo; Dante stesso ne dava esempio.
Ma dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo universo e lo battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio sbattezza tutto l'universo e lo materializza.
In teoria ammette la religione, e parla con riverenza della teologia, che ci fa conoscere «la divina essenza e le altre separate intelligenze».
Ma in pratica questo mondo dello spirito rimane perfettamente estraneo alla sua intelligenza e al suo cuore.
Misticismo, platonicismo, scolasticismo, tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per lui.
Non solo questo mondo gli rimane estraneo come coltura, ma ancora più come sentimento.
E gli manca non solo il sentimento religioso, ma fino quella certa elevatezza morale che talora ne fa le veci.
Spento è in lui il cristiano, e anche il cittadino.
Non gli è mai venuto in mente che servire la patria e dare a lei l'ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto, come è il provvedere al proprio sostentamento.
Dietro al cittadino comincia a comparire il buon borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia molto fastidio, e lo lasci attendere alla sua industria, e non lo tiri per forza di casa o di bottega.
De' guelfi e ghibellini è perduta la memoria, tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato.
E non si persuade come Dante siesi potuto mescolare nelle pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla sua vanità, ed ha quasi l'aria di dirgli: - Ben ti sta.
- Non voglio dire con questo che il Boccaccio fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù o della patria.
Sciolto era di costumi, pure tutti i doveri comuni della vita li adempiva con la stessa puntualità e diligenza degli altri, e molte legazioni gli furono commesse da' suoi concittadini.
Ma l'età eroica era passata; la nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de' padri; il carattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora volgarità, e non è più grandezza; della religione, della libertà, dell'uomo antico c'erano ancora le forme, ma lo spirito era ito.
Di vita pubblica qualche apparenza era ancora in Toscana, sede della coltura; nelle altre parti era vita di corte.
L'erudizione, l'arte, gli affari, i piaceri costituivano il fondo di questa nuova società borghese e mezzana, della quale ritratto era il Boccaccio, gioviale, cortigiano, erudito, artista.
Se la malinconia dell'estatico Petrarca ti presentava un simulacro dell'uomo antico, la spensierata giovialità del Boccaccio è l'ingresso nel mondo, a voce alta e beffarda, della materia o della carne, la maledetta, il peccato; è il primo riso di una società più colta e più intelligente, disposta a burlarsi dell'antica; è la natura e l'uomo, che, pure ammettendo l'esistenza di separate intelligenze, non ne tien conto, e fa di sè il suo mezzo e il suo scopo.
Questo tempo fu detto di transizione.
Vivevano insieme nel seno degli uomini due mondi, il passato nelle sue forme se non nel suo spirito, ed un mondo nuovo che si affermava come reazione a quello, fondato sulla realtà presa in se stessa e vuota di elementi ideali.
Erano in presenza il misticismo, con le sue forme ricordevoli del mondo soprannaturale, e il puro naturalismo.
Ma il misticismo, indebolito già nella coscienza, era divenuto abituale e tradizionale, applaudito nel Petrarca non come il mondo sacro, ma come un mondo artistico e letterario.
Il naturalismo al contrario sorgeva allora in piena concordia con la vita pratica e co' sentimenti, con tutti gli allettamenti della novità.
Questo mutamento nello spirito dovea capovolgere la base della letteratura.
Il romanzo e la novella, rimasti generi di scrivere volgari e scomunicati, presero il sopravvento.
Al mondo lirico, con le sue estasi, le sue visioni e le sue leggende, il suo entusiasmo, succede il mondo epico o narrativo, con le sue avventure, le sue feste, le sue descrizioni, i suoi piaceri e le sue malizie.
La vita contemplativa si fa attiva; l'altro mondo sparisce dalla letteratura; l'uomo non vive più in ispirito fuori del mondo, ma vi si tuffa e sente la vita e gode la vita.
Il celeste e il divino sono proscritti dalla coscienza, vi entra l'umano e il naturale.
La base della vita non è più quello che dee essere, ma quello che è: Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.
Mettiamo ora il piè in questo mondo del Boccaccio.
Che vi troviamo? Opere latine di gran mole: una specie di dizionario storico, ove hai tutte le antiche forme mitologiche usate da' poeti, e con le loro spiegazioni allegoriche, e i fatti degli uomini illustri e delle celebri donne, libri tradotti in francese, in tedesco, in inglese, in ispagnuolo, in italiano, di cui si fecero moltissime edizioni, accolti con infinito favore da' contemporanei, come una nuova rivelazione dell'antichità.
Prima ci erano le enciclopedie e i «fiori» e i «giardini», ove si raccoglieva ciò che gli antichi pensarono in filosofia, in etica, in rettorica; il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi immaginarono, quello che operarono.
Al mondo del puro pensiero succede il mondo dell'immaginazione e dell'azione.
Vediamolo ora all'opera.
Quest'uomo, che ha pieno il capo di tanta erudizione greca e latina, che ammira Dante perchè ha saputo molto bene imitare Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano, e a cui di fiorentino è rimasto l'amore del bello idioma e il sentimento dell'arte, è insieme il trovatore e il giullare della corte, rallegrata dalle sue facezie e dai suoi racconti, è l'erede della gaia scienza, sa a menadito romanzi francesi, italiani e provenzali, e scrive per sollazzarsi e per sollazzare.
Ci erano in lui parecchi uomini non ben fusi, l'erudito, l'artista, il trovatore, il letterato e l'uomo di mondo.
Ecco uscirgli dall'immaginazione il Filocolo.
Il titolo è greco, come più tardi è il Filostrato e come sarà il Decamerone.
La materia è tratta da un romanzo spagnuolo, ed è gli amori di Florio e Biancofiore.
Ma si tratta della Spagna pagana, al tempo di Roma pagana, quando già vi penetrava il cristianesimo.
La materia è tale, che il giovane autore vi può sviluppare tutte le sue tendenze.
Ai giovani innamorati e alle amorose donzelle consacra i «nuovi versi, i quali - egli dice loro - non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell'antica Troia, nè le sanguinose battaglie di Farsaglia, ma udirete i pietosi avvenimenti dell'innamorato Florio e della sua Biancofiore, i quali vi fiano graziosi molto».
Probabilmente i giovani vaghi e le donne innamorate avrebbero desiderato una storia di amore più breve e meno dotta.
Ma come resistere alla tentazione? Il giovane ci ficca dentro tutta la mitologia, e ad ogni menoma occasione esce fuori con la storia greca e romana.
Giulia, uccisole il marito, nell'ultima disperazione, parlando all'uccisore, cita Ecuba e Cornelia.
Nè la mitologia ci sta a pigione, come semplice colorito, ma è la vera macchina del racconto, come in Omero e Virgilio.
E se Giove, Pluto, Venere, Pallade e Cupido fossero personaggi vivi, avremmo un grottesco non dispiacevole; ma sono personificazioni ampollose e rettoriche, formate dalla memoria, non dall'immaginazione.
Ancora, visto che teologia e poesia sono una stessa cosa, la teologia è paganizzata, e Dio diviene Giove, e Lucifero diviene Pluto; sì che pagani e cristiani, inimicandosi a morte, usano le stesse forme e adorano gli stessi iddii.
Macchinismo vuoto che s'intramette dappertutto, e guasta il linguaggio naturale del sentimento, introducendo ne' fatti e nelle passioni un'espressione artificiale e metaforica.
Volendo dire giovani innamorati si dice: «i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzato a' venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea».
L'avvicinarsi della sera è espresso così: «I disiosi cavalli del sole caldi per lo diurno affanno si bagnavano nelle marine acque d'occidente».
Altrove è detto: «L'Aurora aveva rimossi i notturni fuochi, e Febo avea già rasciutte le brinose erbe».
Nasce uno stile pomposo e freddo, che invano l'autore cerca incalorire con le figure rettoriche, in cui è maestro.
Spesseggiano le interrogazioni, le esclamazioni, le personificazioni, le apostrofi; il sentimento si sviluppa dalle cose e si pone per se stesso in una forma ampollosa e pretensiosa.
Il prode Lelio è ucciso sul campo di battaglia, e il poeta vi recita su questa magnifica tirata rettorica:
«Oh misera Fortuna, quanto sono i tuoi movimenti vani e fallaci nelle mondane cose! Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove i molti amici? Ove la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste cose, e il suo corpo senza sepoltura morto giace negli strani campi.
Almeno gli avessi tu concedute le romane lacrime, e le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e l'ultimo onore della sepoltura gli avesse potuto fare!»
Giulia sviene: «gli spiriti ...
vagabondi pare che vadano per lo vicino aere»; e il poeta fa una lunga apostrofe a Lelio, che al suo pericol correndo lei semiviva abbandona, e dice di Amore:
«Deh! Quanto Amore si portò villanamente tra voi, avendovi tenuti insieme con la sua virtù tanto tempo caramente congiunti; e ora, nell'ultimo partimento, non consentì che voi vi avessi insieme baciati o almeno salutati.»
I personaggi fanno spesso lunghe orazioni con tutti gli artifici della rettorica, com'è la parlata di Pluto a' ministri infernali, imitata dal Tasso.
Spesso la sensualità si scopre tra le lacrime.
Giulia si straccia i capelli e si squarcia le vesti; il giovane deplora quello «sconcio tirare» che traeva «i biondi capelli» «dell'usato modo e ordine», e aggiunge: «I vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima soleano nascondere».
Non mancano qua e colà tratti affettuosi, e anche modi e forme di dire semplici ed efficaci; ma rimane il più spesso fuori dell'uomo e della natura, inviluppato in perifrasi, circonlocuzioni, aggettivi, orazioni, descrizioni e citazioni: ci si sente una viva tendenza al reale guastata dalla rettorica e dall'erudizione.
Accampandosi nel mondo antico, e portandovi pretensioni erudite e rettoriche, la letteratura, se da una parte si emancipava da quel mondo teologico-scolastico che sorgeva come barriera tra l'arte e la natura, s'intoppava dall'altra in una nuova barriera, un mondo mitologico-rettorico.
Il successo del Filocolo alzò l'animo del giovane a più alto volo.
Pensò qualche cosa come l'Eneide, e scrisse la Teseide.
Ma niente era più alieno dalla sua natura che il genere eroico, niente più lontano dal secolo che il suono della tromba.
Qui hai assedii, battaglie, congiure di dei e di uomini, pompose descrizioni, artificiosi discorsi, tutto lo scheletro e l'apparenza di un poema eroico; ma nel suo spirito borghese non entra alcun sentimento di vera grandezza, e Teseo e Arcita e Palemone e Ippolito ed Emilia non hanno di epico che il manto.
Il suo spirito è disposto a veder le cose nella loro minutezza, ma più scende ne' particolari, più l'oggetto gli si sminuzza e scioglie, sì che ne perde il sentimento e l'armonia.
Le armi, i modi del combattere, i sacrifizii, le feste, tutta l'esteriorità è rappresentata con la diligenza e la dottrina di un erudito; ma dov'è l'uomo? E dov'è la natura? De' suoi personaggi carichi di emblemi e di medaglie antiche si è perduta la memoria.
Ecco un campo di battaglia.
Egli vede con molta chiarezza i fenomeni che ti presenta, ma è la chiarezza di un naturalista, scompagnata da ogni movimento d'immaginazione; ci è l'immagine, manca il fantasma, que' sottintesi e que' chiaroscuri, che ti danno il sentimento e la musica delle cose:
Dopo il crudele e dispietato assalto
orribile per suoni e per fedite,
li fatto prima sopra il rosso smalto,
si dileguaron le polveri trite;
non tutte, ma tal parte, che da alto
ed ancora da basso eran sentite
parimente e vedute di costoro
le opere e 'l marziale aspro lavoro.
È un'ottava prosaica, dove un fenomeno comunissimo è sminuzzato con la precisione e distinzione di un anatomico, non di un poeta.
Il Tasso tutto condensa in un verso solo, che ti presenta in unica immagine il campo di battaglia:
la polve ingombra ciò ch'al sangue avanza.
La stessa prosaica maniera trovi nell'ottava seguente:
Il sangue quivi de' corpi versato,
e de' cavalli ancor similemente,
aveva tutto quel campo innaffiato,
onde attutata s'era veramente
e la polvere e 'l fumo: imbragacciato
di sangue era ciascun destrier corrente,
o qualunque uomo vi fosse caduto,
benchè a caval poi fosse rivenuto.
Qui il sangue è talmente analizzato negli oggetti e congiunto con particolari così vuoti e insignificanti, che se ne perde l'impressione.
Alla grande maniera, sobria, rapida, densa, di Dante, del Petrarca, succede il prolisso, il diluito e il volgare.
Chi ricorda descrizioni simili nell'Ariosto e nel Tasso, vi troverà le stesse cose, ma vive e mobili, piene di sentimento e di significato.
Nel canto duodecimo descrive la bellezza di Emilia da' capelli fino alle anche, anzi fino a' piedi, e non si contenta di passare a rassegna tutte le parti del corpo, chè di ciascuna fa minuta descrizione, e non solo nel quale, ma nel quanto, sì che pare un geometra misuratore.
Delle ciglia dice:
...
più che altra cosa
nerissime e sottil, nelle qua' lata
bianchezza si vedea lor dividendo,
nè il debito passavan se' estendendo..
Ecco un'ottava similmente prosaica su' capelli:
Dico che li suoi crini parean d'oro,
non per treccia ristretti, ma soluti
e pettinati sì che infra loro
non n'era un torto, e cadean sostenuti
sopra li candidi omeri, nè fòro
prima nè poi sì be' giammai veduti:
nè altro sopra quelli ella portava
ch'una corona che assai si stimava.
Ottave e versi soffrono malattia di languore: così procede il suono fiacco e sordo.
La Teseide è indirizzata a Fiammetta, e copertamente e sotto nomi greci espone una vera storia d'amore.
Ma la gravità del soggetto, e le intenzioni letterarie soperchiarono l'autore e lo tirarono in un mondo epico, pel quale non era nato.
Meglio riuscì nel Filostrato, dove lo scheletro greco e troiano esattamente riprodotto nella sua superficie è penetrato di una vita tutta moderna.
L'allusione non è in questo o quel fatto, come nella Teseide, ma è nello spirito stesso del racconto.
I languori di Troilo, gli artifici di Pandaro, che è il mezzano, le resistenze sempre più deboli di Griseida, le gradazioni voluttuose di un amore fortunato, le arti e le lusinghe di Diomede presso Griseida, la sua vittoria e le disperazioni di Troilo, questo non è epico e non è cavalleresco, se non solo ne' nomi de' personaggi: è una pagina tolta alla storia secreta della corte napoletana, è il ritratto della vita borghese, collocata di mezzo fra la rozza ingenuità popolana e l'ideale vita feudale o cavalleresca.
Qui per la prima volta l'amore, squarciato il velo platonico, si manifesta nella sua realtà ed autonomia, separato da' suoi antichi compagni, l'onore e il sentimento religioso; e non è già amore popolano, ma borghese, cioè a dire raffinato, pieno di tenerezze e di languori, educato dalla coltura e dall'arte.
Mancati tutti gli alti sentimenti della vita pubblica e religiosa, non rimane altra poesia che della vita privata.
La quale è vil prosa, quando il fine del vivere non è che il guadagno, ed è nobilitata dall'amore.
Vivere tra' godimenti di amore, con l'animo lontano da ogni cupidigia di onori e di ricchezze, questo è l'ideale della vita privata, nella quale la parte seria e prosaica è rappresentata dal mercante.
È un ideale che il Boccaccio trova nella sua propria vita, quando volse le spalle alla mercatura e si diè a' piacevoli studi e all'amore.
Descritti in morbidissime ottave i voluttuosi ardori di Troilo e Griseida, il poeta, calda ancora l'immaginazione, così prorompe:
Deh! Pensin qui gli dolorosi avari,
che biasiman chi è innamorato,
e chi, come fan essi, a far denari
in alcun modo non si è tutto dato,
e guardin se, tenendoli ben cari
tanto piacer fu mai a lor prestato,
quanto ne presta amore in un sol punto
a cui egli è con ventura congiunto.
Ei diranno di sì, ma mentiranno;
e questo amor «dolorosa pazzia»
con risa e con ischerni chiameranno;
senza veder che sola un'ora fia
quella che sè e' danari perderanno,
senza aver gioia saputo che sia
nella lor vita: Iddio gli faccia tristi,
ed agli amanti doni i loro acquisti.
Ottave sconnesse e saltellanti, assai inferiori alle bellissime che precedono; il poeta sa meglio descrivere che ragionare: pure ci senti per entro un po' di calore, e la conclusione è felicissima: è un moto subito e vivace di immaginazione, come di rado gl'incontra.
Sotto aspetto epico questo racconto è una vera novella con tutte le situazioni divenute il luogo comune delle storie d'amore, i primi ardenti desiri, l'intramessa di un amico pietoso e le ritrosie della donna, le raffinate voluttà del godimento, la separazione degli amanti, le promesse e i giuramenti e gli svenimenti della donna, la sua fragilità e i lamenti e i furori del tradito amante.
Sotto vernice antica spunta il mondo interiore del Boccaccio, una mollezza sensuale dell'immaginazione congiunta con una disposizione al comico e al satirico.
L'infedeltà di Griseida lo fa uscire in questo ritratto della donna:
Giovine donna è mobile, e vogliosa
è negli amanti molti, e sua bellezza
estima più ch'allo specchio, e pomposa
ha vanagloria di sua giovinezza;
la qual quanto piacevole e vezzosa
è più, cotanto più seco l'apprezza:
virtù non sente, nè conoscimento,
volubil sempre come foglia al vento.
A Beatrice e Laura succede Griseida; all'amore platonico l'amore sensuale; al volo dell'anima verso la sua patria, il cielo, succede il tripudio del corpo.
La reazione è compiuta.
A Dante succede il Boccaccio.
La contraddizione prende quasi aria di parodia inconscia nell'Amorosa visione.
La Commedia è imitata nel suo disegno e nel suo meccanismo.
Anche il Boccaccio ha la sua visione.
Anch'egli incontra la bella donna, che dee guidarlo all'altura, che è «principio e cagion di tutta gioia», via a salute e pace.
Ma dove nella Commedia si va di carne a spirito, sino al sommo Bene, in cui l'umano è compiutamente divinizzato o spiritualizzato, dove nella Commedia il sommo Bene è scienza e contemplazione: qui il fine della vita è l'umano e la scienza è il principio, e l'ultimo termine è l'amore, e la fine del sogno è in questi versi:
Tutto stordito mi riscossi allora,
e strinsi a me le braccia, e mi credea
infra esse madonna averci ancora.
Il paradiso del Boccaccio è un tempio dell'umanità, un nobile castello, che ricorda il Limbo dantesco, ricco di sale splendide e storiate, come sono le pareti del purgatorio.
Ed è tutta la storia umana, che ti viene innanzi in quelle pitture.
Dante invoca le muse, l'alto ingegno; il Boccaccio invoca Venere:
O somma e graziosa intelligenza
che movi il terzo cielo, o santa dea,
metti nel petto mio la tua potenza.
Una scala assai stretta mena al castello, e sulla piccola porta è questa scritta:
...
...
questa piccola porta mena a via di vita,
posta che paia nel salir molesta:
riposo eterno dà cotal salita.
Dunque salite su senza esser lenti:
l'animo vinca la carne impigrita.
Eccoci nella prima sala.
E vi son pinte le sette scienze, e via via schiere di filosofi e poi di poeti, a quel modo che fa Dante nel limbo.
Tutto il canto quinto è consacrato a Virgilio e a Dante, del quale dice:
Costui è Dante Alighieri fiorentino,
il qual con eccellente stil vi scrisse
il sommo ben, le pene e la gran morte:
gloria fu delle muse mentre visse,
ne qui rifiutan d'esser sue consorte.
Dalla sala delle Muse si passa nella sala della Gloria.
E ti sfilano innanzi moltitudine di uomini venuti in fama, quasi un quadro della storia del mondo.
Da Saturno e Giove scendi all'età de' giganti e degli eroi; poi giungi agli uomini e alle donne illustri di Grecia e di Roma, in ultimo viene la cavalleria ne' suoi due circoli di Arturo e Carlomagno, sino all'ultimo cavaliere, Federico secondo, e l'occhio si stende a Carlo di Puglia, Corradino, Ruggieri di Loria e Manfredi.
Il poeta dà libero corso alla sua vasta erudizione, intento più a raccogliere esempli che a lumeggiarli: sicchè nessuno de' suoi personaggi è giunto a noi così vivo, come è l'Omero e l'Aristotile del limbo dantesco, o l'Omero del Petrarca.
Siamo infine nella sala di Amore e Venere.
E come innanzi la storia, qui vien fuori la mitologia, e senti le prodezze amorose di Giove, Marte, Bacco e Pluto ed Ercole.
Poi vengono gli amori di Giasone, Teseo, Orfeo, Achille, Paride, Enea, Lancillotto.
Scienza, gloria, amore, ecco la vita quando non vi s'intrometta la Fortuna e colpisca Cesare o Pompeo nel sommo della felicità.
Percorsi i circoli della vita, comincia il tripudio, o la beatitudine; e non sono già le danze delle luci sante nel trionfo di Cristo o degli angeli, ma le voluttuose danze di un paradiso maomettano, o le danze delle ninfe napolitane a Baia.
Il poeta s'innamora, e mentre in sogno si tuffa negli amorosi diletti e tiene fra le braccia la donna, si sveglia, e la sua guida gli dice:
Ciò che porse
il tuo dormire alla tua fantasia
tutto averai.
E mentre la visione si dilegua, ella lo raccomanda al «sir di tutta pace», all'Amore.
Con le stesse forme e con lo stesso disegno di Dante il Boccaccio riesce a un concetto della vita affatto opposto, alla glorificazione della carne, nella quale è il riposo e la pace.
La «Divina Commedia» qui è cavata fuori del soprannaturale, in cui Dante aveva inviluppata l'umanità e se stesso e il suo tempo, ed è umanizzata, trasformata in un real castello, sede della coltura e dell'amore.
Se non che il Boccaccio non vide che quelle forme contemplative e allegoriche, naturale involucro di un mondo mistico e soprannaturale, mal si attagliavano a quella vita tutta attiva e terrena, ed erano disformi al suo genio, superficiale ed esterno, privo di ogni profondità ed idealità: perciò riesce monotono, prolisso e volgare.
Oggi, a tanta distanza, c'è difficile a concepire come non abbia trovato subito il suo genere, che è la rappresentazione della vita nel suo immediato, sciolta da ogni involucro non solo teologico e scolastico, ma anche mitologico e cavalleresco.
Ma lento è il processo dell'umanità anche nell'individuo, che passa per molte prove e tentennamenti prima di trovare se stesso.
Il Boccaccio, amico delle muse, stima co' suoi contemporanei che «le cose volgari non possono fare un uomo letterato» e che si richiedono «più alti studi».
E gli alti studi sono il latino e il greco, la conoscenza dell'antichità.
Il suo maggior titolo di gloria era l'ampia erudizione, che lo rendeva superiore a Dante ed anche al suo «Silvano», il Petrarca.
Trova innanzi a sè forme consacrate e ammirate, le forme epiche di Virgilio e Stazio, le forme liriche di Dante e di Silvano, e in quelle forme vuol realizzare un mondo prosaico che gli si moveva dentro.
Nei suoi primi lavori salta fuori tutto il suo mondo greco-romano, mitologico e storico, con grande ammirazione de' contemporanei.
Gli amori di Troilo e Griseida, d'Arcita e Palemone passarono le Alpi e fecondarono l'immaginazione di Chaucer; i quadri storici e mitologici della sua Visione ispirarono molti Saggi e molti Tempi dell'umanità.
Chi legge i Reali di Francia e tante scarne traduzioni di romanzi francesi allora in voga, può concepire che gran miracolo dovè parere la Teseide, il Filostrato e il Filocolo.
Anche nelle sue Rime si vede l'uomo nuovo alle prese con forme vecchie.
Vi trovi il solito repertorio, l'innamoramento, i sospiri, i desiri, i pentimenti, il volgersi a Dio e alla Madonna, ma la bella unità lirica del mondo di Dante e del Petrarca è rotta, ed ogni idealità è scomparsa.
Dietro alle stesse forme è un diverso contenuto che mal vi si adagia.
La donna in nome è ancora un'angioletta, ma che angiolo! Ella sta non raccolta e modesta nella sua ingenuità infantile, come Bice; o nella sua casta dignità, come Laura; ma
all'ombra di mille arbori fronzuti,
in abito leggiadro e gentilesco
tende lacci
con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco.
Hai la donna vezzosa e civettuola della vita comune, ed un amante distratto, che ora esala sospiri profani in forme platoniche e tradizionali, ora pianta lì la sua angioletta, e si sfoga contro i suoi avversari, e ragiona della morte e della fortuna, o inveisce contro le donne:
Elle donne non son, ma doglia altrui,
senza pietà, senza fè, senz'amore,
liete del mal di chi più lor credette.
Perchè meglio si comprenda questa disarmonia tra forme convenzionali e un contenuto nuovo, guardiamo questo sonetto:
Sulla poppa sedea d'una barchetta,
che 'l mar segando presta era tirata,
la donna mia con altre accompagnata,
cantando or una, or altra canzonetta.
Or questo lito ed or quell'isoletta,
ed ora questa ed or quella brigata
di donne visitando, era mirata
qual discesa dal ciel nuova angioletta.
Io che seguendo lei vedeva farsi
da tutte parti incontro a rimirarla
gente, vedea come miracol novo:
ogni spirito mio in me destarsi
sentiva, e con Amor di commendarla
vago non vedea mai il ben ch'io provo.
Il sonetto comincia bene, in forma disinvolta e fresca, ancorachè per la parte tecnica un po' trascurata.
In quelle giovanette, che cantano a mare e vanno a visitare le amiche e sono ammirate dalla gente, vedi una scena tutta napolitana, e ti corre innanzi Baia, sede di secrete delizie che destano le furie gelose del poeta.
Ma questa bella scena alla fine si guasta, col solito «spirito» e col solito «Amore vago di commendare», e riesce in una freddura.
Chi vuol vedere un sonetto affatto moderno, dove l'autore si è sciolto da ogni involucro artificiale, e ti coglie in atto la vita di Baia con le sue soavità e le sue licenze, senta questo:
Intorno ad una fonte, in un pratello
di verdi erbette pieno e di bei fiori,
sedeano tre angiolette, i loro amori
forse narrando; ed a ciascuna il bello
viso adombrava un verde ramoscello
che i capei d'or cingea, al qual di fuori
e dentro insieme due vaghi colori
avvolgeva un soave venticello.
E dopo alquanto l'una alle due disse
com'io udii: - Deh! Se per avventura
di ciascuna l'amante or qui venisse,
fuggiremo noi quinci per paura? -
- A cui le due risposer: - Chi fuggisse,
poco savia saria con tal ventura.
-
Qui senti il Boccaccio in quella sua mescolanza di sensuale e malizioso.
Gli scherzi del venticello sono abbozzati con l'anima di un satiro che divora con gli occhi la preda, e la chiusa cinica così inaspettata ti toglie a ogni idealità e ti gitta nel comico.
Qui il Boccaccio trova se stesso.
Fu chiamato «Giovanni della tranquillità» per quella sua spensierata giovialità, che lo tenea lontano da ogni esagerazione delle passioni, e tiravalo nel godimento e nel gusto della vita reale.
E quantunque si doglia dell'epiteto come d'una ingiuria e lo rifiuti sdegnosamente, pure è là il suo genio e la sua gloria, e non dove sfoggia in forme rettoriche sentimento ed erudizione.
Fu chiamato anche «uomo di vetro», per una cotal sua mobilità d'impressioni e di risoluzioni, di cui sono esempio le Rime, dove invano cerchi l'unità organica del Canzoniere, e un disegno qualunque, avvolto il poeta dalle onde delle impressioni e della vita reale e de' suoi studi e reminiscenze classiche.
Pure tra molte volgarità trovi un elevato sentimento dell'arte, o, come egli dice, «l'amor delle muse, che lo trae d'inferno», come chiama la terra deserta dalle muse.
«Vidi», egli canta,
...
una ninfa uscire
d 'un lieto bosco, e verso me venire
co' crin ristretti da verde corona.
A me venuta disse: - Io son colei,
che fo di chi mi segue il nome eterno,
e qui venuta sono ad amar presta;
lieva su, vieni.
- Ed io già di costei
acceso, mi levai; ond'io d'inferno
uscendo, entrai nell'amorosa festa.
Da questo elevato sentimento dell'arte è uscito il sonetto sopra Dante, scritto con una gravità e vigore di stile così insueto, che farebbe quasi dubitare sia cosa sua:
Dante Alighieri son, Minerva oscura
d'intelligenza e d'arte, nel cui ingegno
l'eleganza materna aggiunse al segno,
che si tien gran miracol di natura.
L'alta mia fantasia pronta e sicura
passò il tartareo e poi il celeste regno,
e il nobil mio volume feci degno
di temporale e spirital lettura.
Fiorenza gloriosa ebbi per madre,
anzi matrigna a me pietoso figlio,
colpa di lingue scellerate e ladre.
Ravenna fummi albergo del mio esiglio;
ed ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre,
presso cui invidia non vince consiglio.
La stessa disparità tra le forme e il contenuto troviamo nella Fiammetta e nel Corbaccio o Laberinto d'amore.
Sono due generi nuovi e pel contenuto affatto moderni.
La Fiammetta e un romanzo intimo e psicologico, dove una giovane amata e abbandonata narra ella medesima la sua storia, rivelando con la più fina analisi le sue impressioni.
Il Corbaccio è la satira del sesso femminile fatta dal vendicativo scrittore, canzonato da una donna.
La scelta di questi argomenti è felicissima.
L'autore volge le spalle al medio evo e inizia la letteratura moderna.
Di un mondo mistico-teologico-scolastico non è più alcun vestigio.
Oramai tocchiamo terra: siamo in cospetto dell'uomo e della natura.
Abbiamo una pagina di storia intima dell'anima umana, colta in una forma seria e diretta nella Fiammetta, in una forma negativa e satirica nel Corbaccio.
La letteratura non è più trascendente, ma immanente, cioè a dire vede l'uomo e la natura in se stessa, e non in forme estrinseche e separate, mitologiche e allegoriche.
Ma il Boccaccio non sa trovare le forme convenienti a questo contenuto.
Per rappresentarlo nella sua verità non aveva che a mettersi in immediata comunione con quello ed esprimere le sue impressioni così naturali e fresche come gli venivano.
Ma s'accosta a questo mondo con l'animo preoccupato dall'erudizione, dalla storia, dalla mitologia e dalla rettorica, e lo vede, lo dipinge a traverso di queste forme.
L'impressione giungendo nel suo spirito vi è immediatamente falsificata, nè si riconosce più dietro a quel denso involucro, che se non è teologico-scolastico, è pur qualche cosa di più strano, è mitologico-rettorico.
Nasce una nuova trascendenza, la cui radice non è nel naturale sviluppo del pensiero religioso e filosofico, come l'antica, ma nell'avviamento classico preso dalla coltura.
Fiammetta abbandonata da Panfilo, prima di fare i suoi lamenti, vuol vedere come in Virgilio si lamenta Didone abbandonata, pensando che a lei non è lecito di lamentarsi in altra guisa.
E se vuol consolarsi, cercando compagni al suo dolore, ti fa un trattato di storia antica, narrando tutti i casi infelici di amore degli antichi iddii ed eroi.
E se sogna, cerca in Ovidio la spiegazione de' sogni.
Vuol dire che sente vergogna di palesare i suoi godimenti amorosi? E ti definisce la vergogna e ragiona lungamente de' suoi effetti sulle donne.
Vuol esprimere gioia, speranza, timore, dolore, ira, gelosia? E analizza ciascuno di questi sentimenti, facendo tesoro di tutti i luoghi topici registrati da Aristotile.
Bisogna vedere con che diligenza il Sansovino nota tutti i luoghi etici e patetici, e le imitazioni e le erudizioni della Fiammetta, a guida de' maestri e degli scolari.
Dante, Minerva oscura, potè spesso tra le nebbie delle sue allegorie attingere il mondo reale, perchè era artista, e se è scolastico, non è mai rettorico: il Boccaccio non può distrigarsi da quel mondo artificiale e coglier la natura, perchè gli manca ogni serietà di vita interiore nel pensiero e nel sentimento, e vi supplisce con le esagerazioni e le amplificazioni.
Che dirò delle sue descrizioni così minute, come le sue analisi, e tutte di seconda mano, non ispirate dall'impressione immediata della natura? Veggasi il suo inverno e la primavera e l'autunno, e tutte le sue descrizioni della bellezza virile e femminile, fatte con la squadra e col compasso.
Così gli è venuto scritto un romanzo prolisso, noioso, in guisa che, a sentir quegli eterni lamenti della Fiammetta che aspetta Panfilo, siamo tentati di dire: - Panfilo, torna presto! Che non la sentiamo più.
-
Più conforme al suo genio è il Corbaccio, satira delle donne.
Ma come il burlato è lui, le risa sono a sue spese, specialmente quando si lamenta che una donna abbia potuto farla a lui, che pure è un letterato.
Vi mostra egli così poco spirito come nella lettera a Nicolò Acciaioli, che il Petrarca grecizzando chiamava Simonide, dove leva le alte strida perchè, invitato alla corte di Napoli, gli sia toccata quella cameraccia e quel lettaccio, ed esce in vitupèri, in minacce, in pettegolezzi, resi ancora più ridicoli da quella forma ciceroniana.
Come qui minaccia e vitupera e inveisce alla latina, così nel Corbaccio satireggia con la storia, co' luoghi comuni degli antichi poeti, narrando fatti o allegorie e ammassando noiosi ragionamenti.
L'ordito è semplicissimo.
Il Boccaccio, beffato da una donna, si vuole uccidere, ma il timore dell'inferno ne lo tiene, e pensa più saviamente a vivere e a vendicarsi, non col ferro, ma, come i letterati fanno, con «concordare di rime» o «distender di prose».
Fra questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel «laberinto d'amore», o valle incantata, una specie di selva dantesca, dove gli appare un'ombra, ed è il marito della donna, che nel purgatorio espia la troppa pazienza avuta con lei.
Costui gli espone tutte le cattive qualità delle donne, a cominciare dalla sua.
E quando si è bene sfogato, lo conduce sopra di un monte altissimo, onde vede il laberinto metter capo nell'inferno.
Questa vista guarisce il Boccaccio del mal concetto amore.
Come si vede, la satira non è rappresentazione artistica, ma esposizione, in forma di un trattato di morale, de' vizi femminili.
Nondimeno trovi qua e là di bei motti, e novellette graziose e descrizioni vivaci dei costumi delle donne, con l'uso felicissimo del dialetto fiorentino, com'è la donna in chiesa, che «incomincia una dolente filza di paternostri, dall'una mano nell'altra e dall'altra nell'una trasmutandogli senza mai dirne niuno», o la donna che con le sue gelosie non dà tregua al marito, e «di ciarlare mai non resta, mai non molla, mai non fina: dàlle, dàlle, dàlle, dalla mattina infino alla sera, e la notte ancora non sa restare».
Nelle sue gelose querele si rivela il vero genio del Boccaccio, una forza comica accompagnata con rara felicità di espressione, attinta in un dialetto così vivace e già maturo, pieno di scorciatoie, di frizzi, di motti, di grazie.
Citiamo alcuni brani:
«Credi tu ch'i' sia abbagliata, e ch'i' non sappia a cui tu vai dietro? A cui tu vogli bene? E con cui tutto il dì favelli? Misera me, che è cotanto tempo ch'io ci venni, e pur una volta ancora non mi dicesti - Amor mio, ben sia venuta.
- Ma alla croce di Dio, io farò di quelle a te che tu fai a me.
Or son io così sparuta? Non son io così bella, come la cotale? Ma sai che ti dico? Chi due bocche bacia, l'una convien che gli puta.
Fàtti costà, se Iddio m'aiuti, tu non mi toccherai: va' dietro a quelle di cui tu se' degno, chè certo tu non eri degno d'aver me, e fai bene ritratto di quello che tu sei, ma a fare a far sia.
Questa è lingua già degna di Plauto, e il Corbaccio è sparso di cotali scene, degne di colui che aveva già scritto il Decamerone.
Fra' tanti peccati che il marito tradito e l'amante burlato attribuiscono alla donna c'è pur questo, che «le sue orazioni e i suoi paternostri sono i romanzi franceschi», e «tutta si stritola quando legge Lancillotto o Tristano nelle camere segretamente».
E anche «legge la canzone dello indovinello, e quella di Florio e di Biancefiore, e simili altre cose assai».
Sono preziose rivelazioni sulla letteratura profana e proibita, allora in voga.
Ma se peccato c'è, il maggior peccatore era il Boccaccio per l'appunto, che per piacere alle donne scrivea romanzi.
Pure è lecito credere ch'elle leggevano con più gusto la nuda storia francesca di Florio e Biancefiore, che l'imitazione letteraria fatta dal Boccaccio, detta Filocolo, dove Biancefiore (Blanchefleur) è chiamata all'italiana «Biancofiore».
Alle donne caleva poco di mitologia e storia antica, e se tanta erudizione e artificio rettorico potea parere cosa mirabile al suo maestro di greco, Pilato, e a' latinisti e grecisti che erano allora i letterati, le donne, che cercavano ne' libri il piacer loro, facevano de' suoi scritti poca stima, e, «ciò che peggio era, per lui, Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri illustri uomini creduti suoi amici e domestici, come fango scalpitavano e schernivano».
In verità, le donne col loro senso naturale erano migliori giudici in letteratura che Leonzio Pilato e tutti i dotti.
Quelli che chiamarono «tranquillo» il nostro Giovanni espressero un concetto più profondo che non pensavano.
La tranquillità è appunto il carattere del nuovo contenuto che egli cercava sotto forme pagane.
La letteratura del medio evo è tutt'altro che tranquilla; anzi il suo genio è l'inquietudine, un cercare continuo, il di là senza speranza di attingerlo.
Il suo uomo è sospeso da terra, con gli occhi in alto, accesi di desiderio.
L'uomo del Boccaccio è, al contrario, assiso, in ozio idillico, con gli occhi volti alla madre terra, alla quale domanda e dalla quale ottiene l'appagamento.
Ma al Boccaccio non piace esser chiamato «tranquillo», inconsapevole che la sua forza è lì dov'è la sua natura.
E si prova nel genere eroico e cavalleresco, e nelle confessioni della Fiammetta tenta un genere lirico-tragico.
Tentativi infelici di uomo che non trova ancora la sua via.
L'indefinito è negato a lui, che descrive la natura con tanta minutezza di analisi.
Il sospiro è negato a lui, che numera ad uno ad uno i fenomeni del sentimento.
L'eroico e il tragico non può allignare in un'anima idillica e sensuale.
E quando vi si prova, riesce falso e rettorico.
Perciò non gli riesce ancora di produrre un mondo, cioè una totalità organica, armonica e concorde.
Nel suo mondo epico-tragico-cavalleresco penetra uno spirito eterogeneo e dissolvente, che rende impossibile ogni formazione artistica, il naturalismo pagano: spirito invitto, perchè è il solo che vive al di dentro di lui, il solo che si possa dire il suo mondo interiore.
E quando gli riesce di coglierlo nella sua semplicità e verità, come gli si move al di dentro, allora trova se stesso e diviene artista.
Questo mondo, gittato come frammento discorde e caotico ne' suoi romanzi epici e tragici, par fuori in tutta la sua purezza nel Ninfale fiesolano e nel Ninfale d'Ameto.
Qui l'autore, volgendo le spalle alla cavalleria e a' tempi eroici, rifà con l'immaginazione i tempi idillici delle antiche favole e dell'età dell'oro, quando le deità scendevano amicamente nella terra popolata di ninfe, di pastori, di fauni e di satiri.
La mitologia non è qui elemento errante fuori di posto in mondo non suo, è lei tutto il mondo.
Questo mondo mitologico primitivo è un inno alla natura.
Nel Ninfale fiesolano la ninfa sacra a Diana, vinta dalla natura, manca al suo voto ed è trasmutata in fonte.
L'anima del racconto è il dolce peccato, nel quale cadono Africo e Mensola non per corruzione o depravazione di cuore, ma per l'irresistibile forza della natura nella piena semplicità ed innocenza della vita; sì che, saputo il fatto, ne viene compassione alla stessa Diana.
Indi a poco sopraggiunge Atalante, e con la guida del figlio della colpa, nato da Mensola, distrugge gli asili sacri a Diana, e marita le ninfe per forza, ed edifica Fiesole, ed introduce la civiltà e la coltura.
Così il mondo mitologico perisce con le sue selvatiche istituzioni, e comincia il viver civile conforme alle leggi della natura e dell'amore.
Il racconto è diviso in sette parti o canti ed è in ottava rima.
L'autore, non costretto a gonfiare le gote nè a raffinare i sentimenti, si fa cullare dolcemente dalla sua immaginazione in questo mondo idillico, e descrive paesaggi e scene di famiglia e costumi pastorali con una facilità che spesso è negligenza, non è mai affettazione o esagerazione.
La tromba è mutata nella zampogna, suono più umile, ma uguale e armonioso: l'ottava procede piana e naturale, talora troppo rimessa; e non mancano di bei versi imitativi.
Africo e Mensola debbono dividersi, chè l'ora è tarda; e il poeta dice:
Partir non si sanno,
ma or si partono, or tornano, or vanno.
Altrove dice:
sempre mirandosi avanti ed intorno,
se Mensola vedea, poneva mente.
Frequente è in lui l'uso dello sdrucciolo in mezzo al verso, e quell'entrare de' versi l'uno nell'altro, che slega e intoppa le sue ottave eroiche, ma dà a queste ottave idilliche un aspetto di naturalezza e di grazia.
Il suo periodo poetico, saltellante e imbrogliato nella Teseide, qui è corrente e spedito, assai prossimo al linguaggio naturale e familiare:
Ella lo vide prima che lui lei,
perchè' a fuggir del campo ella prendea:
Africo la sentì gridare - Omei! -
e poi guardando fuggir la vedea:
e infra se disse: - Per certo costei
è Mensola -, e poi dietro le correa;
e sì la prega e per nome la chiama,
dicendo: - Aspetta quel che tanto t'ama.
-
Africo dorme; e il padre dice alla moglie, Alimena:
O cara sposa,
nostro figliuol mi pare addormentato,
e molto ad agio in sul letto si posa,
sì che a destarlo mi parria peccato,
e forse gli saria cosa gravosa
se io l'avessi del sonno svegliato.
- E tu di' vero, - diceva Alimena -
lascial posare e non gli dar più pena.
-
Manca il rilievo: per soverchia naturalezza si casca nel triviale e nel volgare.
Più tardi verrà il grande artista, che calerà in questo mondo della natura e dell'amore appena sbozzato e pur ora uscito alla luce, e gli darà l'ultima e perfetta forma.
Simile di disegno, ma in più larghe proporzioni, è il Ninfale d'Ameto.
È il trionfo della natura e dell'amore sulla barbarie de' tempi primitivi.
E il barbaro qui non è la ninfa, sacrata a Diana, che per violenza di natura rompe il voto, ma è il pastore, abitatore della foresta co' fauni e le driadi, che scendendo al piano lascia l'alpina ferita e prende abito civile.
Il luogo della scena comincia in Fiesole, negli antichissimi tempi detta Corito, quando vi abitavano le ninfe e non era venuto ancora Atalante a cacciarle via e introdurvi costumi umani.
Così l'Ameto si collega col Ninfale fiesolano.
Il pastore Ameto erra e caccia su pel monte e per la selva, quando un dì affaticato giunge co' suoi cani al piano, presso il Mugnone; e riposando e trastullandosi co' cani, gli giunge all'orecchio un dolce canto, e guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla bellissima Lia.
Sono ninfe, non sacrate a Diana, ma a Venere.
Lia racconta nella sua canzone la storia di Narciso, «bellissimo e crudo cacciatore», che, rifiutando il caro amore delle donne e innamorato della sua immagine, fu convertito in fiore.
Ameto parte pensoso, recando seco l'immagine di Lia.
Venuta la primavera, torna al piano, e cerca e chiama Lia, descrivendo la sua bellezza e offrendole doni:
Tu se' lucente e chiara più che il vetro
ed assai dolce più ch'uva matura;
nel cuor ti sento, ov'io sempre t'impetro
E siccome la palma in ver l'altura
si stende, così tu, viepiù vezzosa
che 'l giovanetto agnel ne la pastura;
e sei più cara assai e grazïosa
che le fredde acque a' corpi faticati,
o che le fiamme a' freddi, e ch'altra cosa.
E i tuoi capei più volte ho simigliati
di Cerere a le paglie secche e bionde,
dintorno crespi al tuo capo legati...
Vieni, ch'io serbo a te giocondo dono,
che io ho còlti fiori in abbondanza
agli occhi bei, d'odor soave e buono.
E siccome suol esser mia usanza,
le ciriege ti serbo, e già per poco
non si riscaldan per la tua distanza.
Con queste, bianche e rosse come fuoco
ti serbo gelse, mandorle e susine,
fravole e bozzacchioni in questo loco.
Belle peruzze e fichi senza fine,
e di tortole ho presa una nidiata,
le più belle del mondo, e piccoline...
Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio traggono pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto trova la sua Lia fra bellissime ninfe, delle quali contempla le bellezze parte a parte, fatto giudice esperto e amoroso.
E tutti fan cerchio a un pastore che canta le lodi di Venere e di Amore.
Sopravvengono altre ninfe, le quali «non umane pensava, ma dèe», e contempla rapito celesti bellezze, e di pastore si sente divenuto amante, dicendo: «Io, usato di seguire bestie, amore poco avanti da me non saputo seguendo, non so come mi convertirò in amante seguendo donne».
Le belle ninfe gli siedono intorno, ed egli scioglie un inno a Giove e canta la sua conversione.
Questi sono gli antecedenti del romanzo, sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze femminili in quella forma minuta e stancante che è il vezzo dell'autore.
Lia propone che ciascuna ninfa canti la sua storia e canti la deità reverita da lei, acciocchè «oziose, come le misere fanno, non passino il chiaro giorno».
Sedute in cerchio e posto in mezzo Ameto, come loro presidente o antistite, cominciano i loro racconti.
Sono sette ninfe: Mopsa, Emilia, Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta e Lia, ciascuna consacrata a una divinità, Pallade, Diana, Pomena, Bellona, Venere, delle quali si cantano le lodi.
Ne' racconti delle ninfe vedi la vittoria dell'amore e della natura sulla ferina salvatichezza degli uomini, e all'ozio bestiale tener dietro le arti di Pallade, di Diana, di Astrea, di Pomena e di Bellona, la cultura e l'umanità.
Ti vedi innanzi svilupparsi tutto il mondo della cultura, e cominciare da Atene ed in ultimo posare in Etruria, dove l'autore con giusto orgoglio pone il principio della nuova cultura.
Da ultimo apparisce una luce una e trina, entro la quale guardando Ameto, Mopsa gli occhi asciugandoli, da quelli levò l'oscura caligine, sì che nella luce triforme ravvisa la celeste e santa Venere, madre di amore puro e intellettuale.
Tuffato nella fonte da Lia, gittati i panni selvaggi e lavato di ogni lordura, si sente «di bruto fatto uomo», e «vede chi sieno le ninfe, le quali più all'occhio che all'intelletto erano piaciute, e ora all'intelletto piacciono più che all'occhio; discerne quali sieno i templi, quali le dee di cui cantano e chenti sieno i loro amori, e non poco in sè si vergogna de' concupiscevoli pensieri avuti».
Le ninfe, le quali non sono altro che le scienze e le arti della vita civile, tornano alla celeste patria, e Ameto canta la sua redenzione dallo stato selvaggio.
Questo disegno evidentemente è uscito da una testa giovanile, ancora sotto l'azione di tutti i diversi elementi di quella cultura.
Palpabili sono le reminiscenze della Divina Commedia.
Lia e Fiammetta ricordano Matilde e Beatrice.
Il concetto nella sua sostanza è dantesco: è l'emancipazione dell'uomo, il quale, percorse le vie del senso e dell'amore sensuale, è dalla scienza innalzato all'amore di Dio.
Anche la forma allegorica è dantesca, non essendo quelle apparizioni che simboli di concetti e figure di quelle separate intelligenze che presiedono alle stelle e regolano i moti dell'animo.
Tutto questo si trova inviluppato in un mondo mitologico, che è la sua negazione, animato da un naturalismo spinto sino alla licenza: Apuleio e Longo contendono con Dante nel cervello dello scrittore.
Il romanzo, che nell'intenzione dovrebbe essere spirituale, è nel fatto soverchiato da un vivo sentimento della bella natura e de' piaceri amorosi.
Si vede il giovane, che sta con Dante in astratto, ma ha pieno il capo di mitologia, di romanzi greci e franceschi, di avventure licenziose, e fa di tutto una mescolanza.
Se qualche cosa in questa noiosa lettura ti alletta, è dove lo scrittore si abbandona alla sua natura, com'è la comica descrizione che Acrimonia fa del suo vecchio marito, nel quale intravvedi già il povero dottore a cui Paganino rubò la moglie, e com'è qua e là qualche pittura e sentimento idillico.
Pure, in un mondo così dissonante e scordato si sviluppa chiaramente un entusiasmo giovanile per la coltura e l'umanità.
Ci si sente il secolo, che scuote da sè la rozza barbarie, e s'incammina fidente verso un mondo più colto e polito.
Ameto si spoglia il ruvido abito del medio evo, e guidato dalle muse prende aspetto gentile e umano.
Le ombre del misticismo si diradano nel tempio di Venere.
Dante canta la redenzione dell'anima nell'altro mondo.
Il Boccaccio canta la fine della barbarie e il regno della coltura.
È lo spirito nuovo, da cui più tardi uscirà Lorenzo de' Medici e Poliziano.
Gittando ora un solo sguardo su questi lavori, si possono raccogliere con chiarezza i caratteri della nuova cultura.
Le teorie in astratto rimangono le stesse, e il Boccaccio pensa come Dante.
Ma nel fatto lo spirito abbandona il cielo e si raccoglie in terra: perde la sua idealità e la sua inquietudine, e diviene tranquillo, calato tutto e soddisfatto nella materia della sua contemplazione.
A un mondo lirico di aspirazioni indefinite, espresso nella visione e nell'estasi, succede un mondo epico, che ha ne' fatti umani e naturali il suo principio e il suo termine.
Il poeta in luogo d'idealizzare realizza, cioè a dire fugge le forme sintetiche e comprensive che gittano lo spirito in un di là da esse, e cerca una forma nella quale l'immaginazione si trovi tutta e si riposi.
Non ci è più il «forse» e il «parere», non una forma appena abbozzata, quasi velo di qualcos'altro, ma una forma terminata e chiusa in sè e corpulenta, nella quale l'oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti: alla terzina succede l'analitica ottava.
Rimangono ancora le terzine, e le visioni e le allegorie, i sonetti e le canzoni, ma come forme prettamente convenzionali e d'imitazione, sciolte dallo spirito che le ha generate: il passato per lungo tempo si continua come morta forma in un mondo mutato.
Succedono forme giovani e nuove, più conformi a un contenuto epico.
Sul mondo inquieto delle allegorie e delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo pagano, con le sue deità umanizzate, con la sua natura animata, col suo vivo sentimento della bellezza, con la sua disinteressata contemplazione artistica.
Queste tendenze non trovano soddisfazione in un contenuto eroico e cavalleresco, perchè la serietà di una vita eroica e cavalleresca è ita via insieme col medio evo, e non è più nella coscienza, e non può essere altro che imitazione letteraria e artificio rettorico.
Più conveniente a quelle forme è la vita idillica, ne' cui tranquilli ozi, nella cui semplicità e chiarezza l'anima, agitata dalle lotte politiche e turbata dalle ombre di un mondo trascendente, si raccoglie come in un porto e si riposa.
L'idillio è la prima forma nella quale si manifesta questa nuova generazione, fiacca e stanca, pur colta ed erudita, che chiama barbara la generazione passata, e celebra i nuovi tempi della coltura e dell'umanità, invocando Venere e Amore.
Specchio di questa società nelle sue fluttuazioni, nelle sue imitazioni, nelle sue tendenze, è il Boccaccio.
I suoi tentennamenti e le sue dissonanze provengono dalla coesistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi, vivi e morti, mescolati.
Un doppio involucro, mistico e mitologico, circonda come una nebbia questo mondo della natura.
Fra questi tentennamenti si andò formando il Decamerone.
Il Boccaccio lascia qui cavalleria, mitologia, allegoria, e tutto il suo mondo classico, tutte le sue reminiscenze dantesche, e si chiude nella sua società, e ci vive e ci gode, perchè ivi trova se stesso, perchè vive anche lui di quella vita comune.
Par così facile attingere la società in questa forma diretta e immediata: pur si vede quanto laboriosa gestazione è necessaria, perchè esca alla luce il mondo del tuo spirito.
Quel mondo esisteva prima del Decamerone.
In Italia abbondavano romanzi e novelle e «canzoni latine», canti licenziosi.
Le donne, come abbiam visto, leggevano secretamente tra loro questi libri profani, e i novellatori intrattenevano le liete brigate con racconti piacevoli e licenziosi.
Il fondo comune de' romanzi erano le avventure de' cavalieri della Tavola rotonda e di Carlomagno Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero di questi eroi ed eroine, Artù, Lancillotto, Galeotto, Isotta la bionda, Chedino, Palamides, Lionello, Tristano, Orlando, Uliviero, Rinaldo, Guttifré, Roberto Guiscardo, Federico Barbarossa, Federico secondo.
Egli medesimo scrisse romanzi per far piacere alle donne, e rifatto il romanzo di Florio e Biancofiore, cercò un teatro più conforme a' suoi studi classici ne' tempi eroici e primitivi delle greche tradizioni.
Pure, le novelle doveano riuscire più popolari e più gradite, perchè più conformi a' tempi e a' costumi.
E se ne raffazzonavano o inventavano di ogni sorta, serie e comiche, morali e oscene, variate e abbellite da' novellatori secondo i gusti dell'uditorio.
La novella era dunque un genere vivente di letteratura, lasciato in balia dell'immaginazione, e come materia profana e frivola, trascurata dagli uomini colti.
Rivale della novella era la leggenda co' suoi miracoli e le sue visioni.
Gli uomini colti si tenevano alto in una regione loro propria, e lasciavano a' frati i Fioretti di san Francesco e la Vita del beato Colombino, e a' buontemponi la semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.
In questo mondo profano e frivolo entrò il Boccaccio, con non altro fine che di scrivere cose piacevoli e far cosa grata alla donna che gliene avea data commissione.
E raccolse tutta quella materia informe e rozza, trattata da illetterati, e ne fece il mondo armonico dell'arte.
Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle quali il Boccaccio ha attinte le sue novelle.
E molti credono si tolga qualche cosa alla sua gloria, quando sia dimostrato che la più parte de' suoi racconti non sono sua invenzione, quasi che il merito dell'artista fosse nell'inventare, e non piuttosto nel formare la materia.
Fatto è che la materia, così nella Commedia e nel Canzoniere come nel Decamerone, non uscì dal cervello di un uomo, anzi fu il prodotto di una elaborazione collettiva, passata per diverse forme, insino a che il genio non l'ebbe fissata e fatta eterna.
Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto diversi nomi, ma non c'era la novella, e tanto meno il novelliere, in cui i singoli racconti fossero composti ad unità e divenissero un mondo organico.
Questo organismo vi spirò dentro il Boccaccio, e di racconti diversi di tempi, di costumi e di tendenze fece il mondo vivente del suo tempo, la società contemporanea, della quale egli aveva tutte le tendenze nel bene e nel male.
Non è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la società da un punto elevato e ne scopre le buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza.
È un artista che si sente uno con la società in mezzo a cui vive, e la dipinge con quella mezza coscienza che hanno gli uomini fluttuanti fra le mobili impressioni della vita, senza darsi la cura di raccogliersi e analizzarle.
Qualità che lo distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca, spiriti raccolti ed estatici.
Il Boccaccio è tutto nel mondo di fuori tra' diletti e gli ozi e le vicissitudini della vita, e vi è occupato e soddisfatto, e non gli avviene mai di piegarsi in sè, di chinare il capo pensoso.
Le rughe del pensiero non hanno mai traversata quella fronte, e nessun'ombra è calata sulla sua coscienza.
Non a caso fu detto «Giovanni della tranquillità».
Sparisce con lui dalla nostra letteratura l'intimità, il raccoglimento, l'estasi, la inquieta profondità del pensiero, quel vivere dello spirito in sè, nutrito di fantasmi e di misteri.
La vita sale sulle superficie e vi si liscia e vi si abbellisce.
Il mondo dello spirito se ne va: viene il mondo della natura.
Questo mondo superficiale, appunto perchè vuoto di forze interne e spirituali, non ha serietà di mezzi e di scopo.
Ciò che lo move non è Dio, nè la scienza, non l'amore unitivo dell'intelletto e dell'atto, la grande base del medio evo; ma è l'istinto o l'inclinazione naturale: vera e violenta reazione contro il misticismo.
Ti vedi innanzi una lieta brigata, che cerca dimenticare i mali e le noie della vita, passando le calde ore della giornata in piacevoli racconti.
Era il tempo della peste, e gli uomini con la morte innanzi si sentivano sciolti da ogni freno e si abbandonavano al carnevale della loro immaginazione.
Di questo carnevale il Boccaccio aveva l'immagine nella corte ove avea passati i suoi più bei giorni, attingendo le sue ispirazioni in quel letame, sul quale le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori.
Un congegno simile trovi già nell'Ameto, un decamerone pastorale: se non che ivi i racconti sono allegorici e preordinati ad un fine astratto: non c'è lo spirito della Divina Commedia, ma ce n'è l'ossatura.
Qui al contrario i racconti non hanno altro fine che di far passare il tempo piacevolmente, e sono veri mezzani di piacere e d'amore, il vero Principe Galeotto, titolo italiano del novelliere, velato pudicamente da un titolo greco.
I personaggi evocati nell'immaginazione da diversi popoli e tempi appartengono allo stesso mondo, vuoto al di dentro, corpulento al di fuori.
Personaggi, attori, spettatori e scrittore sono un mondo solo, il cui carattere è la vita tutta al di fuori, in una tranquilla spensieratezza.
Questo mondo è il teatro de' fatti umani abbandonati al libero arbitrio e guidati ne' loro effetti dal caso.
Dio o la provvidenza ci sta di nome, quasi per un tacito accordo, nelle parole di gente caduta nella più profonda indifferenza religiosa, politica e morale.
E non c'è neppure quella intima forza delle cose, che crea la logica degli avvenimenti e la necessità del loro cammino; anzi l'attrattivo del racconto è proprio nell'opposto, mostrando le azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un fine affatto contrario a quello che ragionevolmente si potea presupporre.
Nasce una nuova specie di maraviglioso, generato non dall'intrusione nella vita di forze oltrenaturali sotto forma di visioni o miracoli, ma da uno straordinario concorso di accidenti non possibili ad essere preveduti e regolati.
L'ultima impressione è che signore del mondo è il caso.
Ed è appunto nel vario giuoco delle inclinazioni e delle passioni degli uomini sottoposte a' mutabili accidenti della vita che è qui il deus ex machina, il dio di questo mondo.
E poichè la macchina è il maraviglioso, l'imprevisto, il fortuito, lo straordinario, l'interesse del racconto non è nella moralità degli atti, ma nella loro straordinarietà di cause e di effetti.
Non già che il Boccaccio sconosca il mondo morale e religioso, ed alteri le nozioni comuni intorno al bene od al male, ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona.
Poco a lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò che importa è che possa stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri.
La virtù, posta qui a fare effetto sull'immaginazione, manca di semplicità e di misura, e diviene anch'essa un istrumento del maraviglioso, condotta ad una esagerazione, che scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il difetto di senso morale.
Esempio notabile è la Griselda, il personaggio più virtuoso di quel mondo.
La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti i sentimenti della natura e la sua personalità e il suo libero arbitrio.
L'autore, volendo foggiare una virtù straordinaria, che colpisca di ammirazione gli uditori, cade in quel misticismo contro di cui si ribella e che mette in gioco, collocando l'ideale della virtù femminile nell'abdicazione della personalità, a quel modo che secondo l'ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito e lo spirito è assorbito da Dio.
Si rinnova il sacrificio di Abramo, e il Dio che mette la natura a così crudel prova è qui il marito.
Similmente la virtù in Tito e Gisippo è collocata così fuori del corso naturale delle cose, che non ti alletta come un esempio, ma ti stupisce come un miracolo.
Ma virtù eccezionali e spettacolose sono rare apparizioni, e ciò che spesso ti occorre è la virtù tradizionale di tempi cavallereschi e feudali, una certa generosità e gentilezza di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie cavalleresche ed eroiche in tempi borghesi.
La qual virtù è in questo, che il principe usa la sua potenza a protezione de' minori, e soprattutto degli uomini valenti d'ingegno e di studi e poco favoriti dalla fortuna, come furono Primasso e Bergamino, verso i quali si mostrarono magnifici l'abate di Cligny e Can Grande della Scala.
Così è molto commendato il primo Carlo d'Angiò, il quale, potendo rapire e sforzare due bellissime fanciulle, figliuole di un ghibellino, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle.
La virtù in questi potenti signori è di non fare malvagio uso della loro forza, anzi di mostrarsi liberali e cortesi.
Già cominciava in quel mondo a parer fuori una classe di letterati, che viveva alle spese di questa virtù, celebrando con giusto cambio una magnificenza, della quale assaporavano gli avanzi.
L'anima altera di Dante mal vi si piegava, nè gli fu ultima cagione d'amarezza quel mendicare la vita a frusto a frusto e scendere e salire per le altrui scale.
Ma i tempi non erano più all'eroica, e il Petrarca si lasciava dotare e mantenere da' suoi mecenati, e il Boccaccio vivea de' rilievi della corte di Napoli, comicamente imbestiato, quando il mantenimento non era dicevole a un par suo, disposto da' buoni o da' cattivi cibi al panegirico o alla satira.
Tale è il tipo di ciò che in questo mondo boccaccevole è chiamato la virtù, una liberalità e gentilezza d'animo, che dalle castella penetra nelle città e fino ne' boschi, asilo de' masnadieri, della quale sono esempio Natan, e il Saladino, e Alfonso, e Ghino di Tacco, e il negromante di Ansaldo.
Questo, se non è propriamente senso morale, è pur senso di gentilezza, che raddolcisce i costumi e spoglia la virtù del suo carattere teologico e mistico, posto nell'astinenza e nella sofferenza, le dà aspetto piacevole, più conforme ad una società colta e allegra.
Vero è che siccome il caso, regolatore di questo mondo, ne fa di ogni maniera, talora l'allegria che vi domina è funestata da tristi accidenti, che turbano il bel sereno.
Ma è una nuvola improvvisa, la quale presto si scioglie e rende più cara la vista del sole, o come dice la Fiammetta, è una «fiera materia, data a temperare alquanto la letizia».
Volendo guardare più profondamente in questo fenomeno, osserviamo che la gioia ha poche corde, e sarebbe cosa monotona, noiosa, e perciò poco gioiosa, come avviene spesso ne' poemi idillici, se il dolore non vi si gittasse entro con le sue corde più varie e più ricche d'armonia, traendosi appresso un corteggio di vivaci passioni, l'amore, la gelosia, l'odio, lo sdegno, l'indignazione.
Il dolore ci sta qui non per sè, ma come istrumento della gioia, stuzzicando l'anima, tenendola in sospensione e in agitazione, insino a che per benignità della fortuna o del caso comparisce d'improvviso il sereno.
E quando pure il fatto sorta trista fine, com'è in tutt'i racconti della giornata quarta, l'emozione è superficiale ed esterna, esaltata e raddolcita in descrizioni, discorsi e riflessioni, e non condotta mai sino allo strazio, com'è nel fiero dolore di Dante.
Sono fugaci apparizioni tragiche in questo mondo della natura e dell'amore, provocate appunto dalla collisione della natura e dell'amore non con un principio elevato di moralità, ma con la virtù cavalleresca, «il punto d'onore».
Di che bellissimo esempio, oltre il Gerbino, è il Tancredi, che testimone della sua onta uccide l'amante della figliuola, e mandale il cuore in una coppa d'oro: la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore.
Il motivo della tragedia è il punto d'onore, perchè ciò che move Tancredi è l'onta ricevuta, non solo per l'amore della figliuola, ma ancora più per l'amore collocato in uomo di umile nazione.
Ma la figliuola dimostra vittoriosamente al padre la legittimità del suo amore e della sua scelta, invocando le leggi della natura e il concetto della vera nobiltà, posta non nel sangue, ma nella virtù; e l'ultima impressione è la condanna del padre indarno pentito e piangente sul morto corpo della figliuola, il quale apparisce non come giusto vendicatore del suo onore offeso, ma come ribelle verso la natura e l'amore.
L'effetto estetico è la compassione verso il padre e la figliuola, l'una di alto animo, l'altro umano e di benigno ingegno, vittime tutti e due non per difetto proprio, ma per le condizioni del mondo in mezzo a cui vivono.
La conclusione ultima è la rivendicazione delle leggi della natura e dell'amore verso gli ostacoli in cui s'intoppano.
Sicchè la tragedia è qui il suggello e la riprova del mondo boccaccevole, e il dolore fugace che vi fa la sua comparsa, presentato nella sua forma più mite e tenera, vicina alla compassione, è come il condimento della gioia, a lungo andare insipida, quando sia abbandonata a se stessa.
La base della tragedia è mutata.
Non è più il terrore che invade gli spettatori incontro a un fato incomprensibile che si manifesta nella catastrofe, come ne' greci, e neppure l'espiazione per le leggi di una giustizia superiore, come nell'inferno dantesco; ma è il mondo abbandonato alle sue forze naturali e cieche, nel cui conflitto rimane l'amore come una specie di diritto superiore, incontro a cui tutti hanno torto.
La natura, che nel mondo dantesco è il peccato, qui è la legge, ed ha contro di sè non un mondo religioso e morale, di cui non è vestigio, ancorchè ammesso in astratto e in parola, ma la società come si trova ordinata in quel complesso di leggi, di consuetudini che si chiamano l'«onore».
Il conflitto è tutto però al di fuori nell'ordine de' fatti prodotti dal diverso urto di queste forze e terminati dalla benignità o malvagità del caso o della fortuna; e non sale a vera opposizione interna che sviluppi le passioni e i caratteri.
Il poeta non è un ribelle alle leggi sociali e tantomeno un riformatore; prende il mondo com'è, e se le sue simpatie sono per le vittime dell'amore, non biasima per ciò coloro che dall'onore sono mossi ad atti crudeli, anch'essi degni di stima, vittime anch'essi.
Così esalta Gerbino, che volle romper la fede data dal re, suo zio, anzi che mancare alle leggi dell'amore ed esser tenuto vile; ma non biasima il re che lo fece uccidere, «volendo anzi senza nipote rimanere, ch'essere tenuto re senza fede».
Ne nasce in mezzo all'agitazione de' fatti esteriori una calma interna, una specie di equilibrio, dove l'emozione non penetra se non quanto è necessario a ravvivare e variare l'esistenza.
Perciò in questo mondo borghese e indifferente e naturale la tragedia rimane esteriore e superficiale, naufragata qui come un frammento galleggiante nella vastità delle onde.
Il movimento non ha radice nella coscienza, nelle forti convinzioni e passioni stimolate dal contrasto, ma si scioglie in un giuoco di immaginazione, in una contemplazione artistica de' vari casi della vita, che sorprendano e attirino la tua attenzione.
Per dirla con un solo vocabolo comprensivo, virtù e vizi qui non hanno altro significato che di «avventure», ovvero casi straordinari tirati in iscena dal capriccio del caso.
Gli uditori non vi prendono altro interesse che di trovarvi materia a passare il tempo con piacere; e del loro piacere è mezzana la stessa virtù e lo stesso dolore.
Un mondo, il cui dio è il caso e il cui principio direttivo è la natura, non è solo spensierato e allegro, ma è anche comico.
Già quel non prendere in nessuna serietà gli avvenimenti e farne un giuoco di pura immaginazione, quell'intreccio capriccioso de' casi, quell'equilibrio interno che si mantiene sereno tra le più crudeli vicissitudini, sono il terreno naturale su cui germina il comico.
Un'allegrezza vuota d'intenzione e di significato è cosa insipida, è appunto quel riso che abbonda nella bocca degli stolti.
Perchè il riso abbia malizia o intelligenza, dee avere una intenzione e un significato, dee esser comico.
E il comico dà a questo mondo la sua fisonomia e la sua serietà.
Questa società è essa medesima una materia comica, perchè niente è più comico che una società spensierata e sensuale, da cui escono i tipi di don Giovanni e di Sancio Panza.
Ma è una società che rappresentava a quel tempo quanto di più intelligente e colto era nel mondo, e ne aveva coscienza.
Una società siffatta aveva il privilegio di esser presa sul serio da tutto il mondo e di poter ridere essa di tutto il mondo.
In effetti due cose serie sono in queste novelle, l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e rispettare da' più potenti signori, e una certa alterezza borghese che prende il suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de' baroni e de' conti.
Questi sono i caratteri di quella classe a cui apparteneva il Boccaccio, istruita, intelligente, che teneva sè civile e tutto l'altro barbarie.
E il comico qui nasce appunto da questo: è la caricatura che l'uomo intelligente fa delle cose e degli uomini posti in uno strato inferiore della vita intellettuale.
La società colta aveva innanzi a sè i frati ed i preti, o come dice il Boccaccio, le cose cattoliche, orazioni, confessioni prediche, digiuni, mortificazioni della carne, visioni e miracoli; e dietro stava la plebe con la sua sciocchezza e la sua credulità.
Sopra questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio fa sonare la sferza.
Materia del comico è dunque l'efficacia delle orazioni, come il «paternostro» di san Giuliano, il modo di servire Dio nel deserto, la vita pratica de' frati, de' preti e delle monache in contraddizione con le loro prediche, l'arte della santificazione insegnata a fra Puccio, i miracoli e le apparizioni de' santi, come l'apparizione dell'angelo Gabriello, e la semplicità della plebe, trastullo dei furbi.
Visibile soprattutto è la reazione della carne contro gli eccessivi rigori di un clero che proscriveva il teatro e la lettura de' romanzi, e predicava i digiuni e i cilizi come la via al paradiso.
È una reazione che si annunzia naturalmente con la licenza e il cinismo.
La carne scomunicata si vendica, e chiama «meccanici» i suoi maldicenti, cioè gente che giudica grossamente secondo l'opinione volgare.
Così il mondo dello spirito in quelle sue forme eccessive è divenuto per questa gente il mondo volgare.
È immaginabile con che voluttà la carne dopo la lunga compressione si sfoghi, con che delizia ti ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti, scegliendo i modi e le frasi più scomunicate, e talora volgendo a senso osceno frasi e immagini sacre.
È il mondo profano in aperta ribellione, che ha rotto il freno e fa la caricatura al padrone, cadutogli di sella.
Su questo fondo comico s'intreccia una grande varietà di accidenti, di cui sono gli eroi i due protagonisti immortali di tutte le commedie, chi burla e chi si fa burlare, i furbi e i gonzi, e di questi i più martoriati e i più innocenti, i mariti.
E fra tanti accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri comici, de' quali alcuni sono rimasti veri tipi, come il cattivello di Calandrino e lo scolare vendicativo che sa dove il diavolo tien la coda.
I caratteri seri sono piuttosto singolarità che tipi, individui perduti nella minutezza ed eccezionalità della loro natura, come Griselda, Tito, il conte di Anguersa, madama Beritola, Ginevra e la Salvestra e l'Isabetta e la figlia di Tancredi.
Ma i caratteri comici sono la parte viva e intima e sentita di questo mondo, e riflettono in sè fisonomie universali che incontrate nell'uso comune della vita, come compar Pietro e maestro Simone e fra Puccio e il frate montone e il giudice squasimodeo e monna Belcolore e Tofano e Gianni Lotteringhi, e tutte le varietà, perchè «infinita è la turba degli stolti».
Così questo mondo spensierato e gioviale si disegna, prende contorni, acquista una fisonomia, diviene la «commedia umana».
Ecco, a così breve distanza, la commedia e l'anticommedia, la «Divina Commedia» e la sua parodia, la «commedia umana»! E sullo stesso suolo e nello stesso tempo Passavanti, Cavalca, Caterina da Siena, voci dell'altro mondo, soverchiate dall'alto e profano riso di Giovanni Boccaccio.
La gaia scienza esce dal suo sepolcro col suo riso incontaminato; i trovatori e i novellatori, spenti da' ferri sacerdotali, tornano a vita e ripigliano le danze e le gioiose canzoni nella guelfa Firenze; la novella e il romanzo, proscritti, proscrivono alla lor volta e rimangono padroni assoluti della letteratura.
Certo, questo mutamento non viene improvviso, come appare un moto di terra: lo spirito laicale è visibile in tutta la letteratura e si continua con tradizione non interrotta, come s'è visto, insino a che nella Divina Commedia prende arditamente il suo posto e si proclama anch'esso sacro e di diritto divino, e Dante, laico, assume tono di sacerdote e di apostolo.
Ma Dante il fa con tanta industria che tutto l'edificio stia in piedi e la base rimanga salda.
La sua «commedia» è una riforma; la «commedia» del Boccaccio è una rivoluzione, dove tutto l'edificio crolla e sulle sue rovine escono le fondamenta di un altro.
La Divina Commedia uscì dal numero de' libri viventi, e fu interpretata come un libro classico, poco letta, poco capita, pochissimo gustata, ammirata sempre.
Fu divina, ma non fu più viva.
E trasse seco nella tomba tutti quei generi di letteratura, i cui germi appaiono così vivaci e vigorosi ne' suoi schizzi immortali, la tragedia, il dramma, l'inno, la laude, la leggenda, il mistero.
Insieme perirono il sentimento della famiglia e della natura e della patria, la fede in un mondo superiore, il raccoglimento e l'estasi e l'intimità, le caste gioie dell'amicizia e dell'amore, l'ideale e la serietà della vita.
In questo immenso mondo, crollato prima di venire a maturità e produrre tutti i suoi frutti, ciò che rimase fecondo fu Malebolge, il regno della malizia, la sede della umana commedia.
Quel Malebolge, che Dante gitta nel loto, e dove il riso è soverchiato dal disgusto e dalla indignazione, eccolo qui che mena sulla terra la sua ridda infernale, abbigliato dalle Grazie, e si proclama esso il vero paradiso, come capì don Felice e non capì il povero frate Puccio.
In effetti qui il mondo è preso a rovescio.
«Commedia» per Dante è la beatitudine celeste.
«Commedia» pel Boccaccio è la beatitudine terrena, la quale tra gli altri piaceri dà anche questo, di passare la malinconia spassandosi alle spalle del cielo.
La carne si trastulla, e chi ne fa le spese è lo spirito.
Se la reazione contro uno spiritualismo esagerato e lontanissimo dalla vita pratica fosse venuta da lotte vivaci nelle alte regioni dello spirito, il movimento sarebbe stato più lento o più contrastato, come negli altri popoli, ma insieme più fecondo.
Il contrasto avrebbe fortificata la fede negli uni e le convinzioni negli altri, e generata una letteratura piena di vigore e di sostanza, alla quale non sarebbe mancata nè la passione di Lutero, nè l'eloquenza di Bossuet, nè il dubbio di Pascal, nè le forme letterarie possibili solo dove la vita interiore è forte e sana.
Così il movimento sarebbe stato insieme negativo e positivo, il distruggere sarebbe stato insieme l'edificare.
Ma le audacie del pensiero punite inesorabilmente, troncata col sangue l'opposizione ghibellina, rimaso il papato arbitro e vicino e sospettoso e vigile, quel mondo religioso così corrotto ne' costumi, come assoluto nelle dottrine e grottesco nelle forme, al contatto con una coltura così rapida e con lo spirito fatto adulto e maturo dallo studio degli antichi scrittori, non potè esser preso sul serio dalla gente colta, che pure è quella che ha in mano l'indirizzo della vita nazionale.
Nacque a questo modo la scissura tra la gente colta e tutto il rimanente della società, che pure era la gran maggioranza, rimasa passiva e inerte in mano al prete di Varlungo, a donno Gianni, a frate Rinaldo e a frate Cipolla.
Sicchè per la gente istruita quel mondo divenne il mondo del volgo, o de' meccanici, e saperne ridere era segno di coltura: ne ridevano anche i chierici che volevano esser tenuti uomini colti.
Così coesistevano l'una accanto all'altra due società distinte, senza troppo molestarsi.
La libertà del pensiero era negata; vietato mettere in dubbio la dottrina astratta; ma quanto alla pratica, era un altro affare, si viveva e si lasciava vivere, trastullandosi tutti e sollazzandosi nel nome di Dio e di Maria.
Gli stessi predicatori ne davano esempio, cercando di divertire il pubblico con motti e ciance ed iscede; cosa che al buon Dante muoveva lo stomaco, e che faceva ridere il Boccaccio, scrivendo nella conclusione del suo Novelliere: «se le prediche de' frati per rimorder delle lor colpe gli uomini il più oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggono, estimai che quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle femmine.»
L'indignazione di Dante era caduta: sopravvenne il riso, come di cose oramai comuni.
Non si move la bile se non in quelli che credono e veggono profanata la loro credenza ne' fatti: è la bile de' santi e di tutti gli uomini di coscienza.
Ma quella colta società, vuota di senso religioso e morale, non era disposta a guastarsi la bile per i difetti degli uomini.
Le «sfacciate donne fiorentine» qui allettano e lasciviano e fanno «quadri viventi», come si dice e si fa oggidì.
Il traffico delle cose sacre, occasione allo scisma della credente Germania, e che Dante nella nobile ira sua chiama «adulterio», qui è materia di amabili frizzi, senza fiele e senza malizia.
La confessione suggerisce l'idea di equivoci molto ridicoli, ne' quali sono i laici e le laiche, che la fanno a' preti, uomini «tondi» e «grossi», come si mostra nel confessore di ser Ciappelletto, e nel frate Bestia, carattere comico de' meglio disegnati.
Il foggiar miracoli, come quel di Masetto l'ortolan Alberto o di frate Cipolla, il fabbricar santi e renderli miracolosi, come è di ser Ciappelletto, è rappresentato con l'allegria comica di gente colta e incredula.
Profanazioni simili fanno ridere, perchè le cose profanate non ispirano più riverenza.
Questa società tal quale, sorpresa calda calda nell'atto della vita, è trasportata nel Decamerone: quadro immenso della vita in tutte le sue varietà di caratteri e di accidenti i più atti a destare la maraviglia, sul quale spicca Malebolge tirato dall'inferno e messo sul proscenio, il mondo sensuale e licenzioso della furberia e della ignoranza, entro cui si move senza mescolarvisi un mondo colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di tempi cavallereschi, vestito un po' alla borghese, spiritoso, elegante, ingegnoso, gentile, di cui il più bel tipo è Federigo degli Alberighi.
Gli abitanti naturali di questo mondo sono preti e frati e contadini e artigiani e umili borghesi e mercatanti, con un corteggio femminile corrispondente, e le alte risa plebee di questo perpetuo carnevale coprono le donne e i cavalieri, le armi e gli amori, le cortesie e le imprese di quel mondo dello spirito, della coltura, dell'ingegno e della eleganza, allegro anch'esso, ma di un'allegrezza costumata e misurata, magnifico negli atti, avvenente nelle forme, e nel parlare e ne' modi decoroso.
Questi due mondi, le cui varietà si perdono nello sfondo del quadro, vivono insieme, producendo un'impressione unica e armonica di un mondo spensierato e superficiale, tutto al di fuori nel godimento della vita, menato in qua e in là da' capricci della fortuna.
Questo doppio mondo così armonizzato nelle sue varietà riceve la sua intonazione dall'autore e dalla lieta brigata che lo introduce in iscena.
L'autore e i suoi novellatori appartengono alla classe colta e intelligente.
Essi invocano spesso Dio, parlano della Chiesa con rispetto, osservano tutte le forme religiose, fanno vacanza il venerdì, perchè in quel giorno il nostro Signore per la «nostra vita morì», cantano canzoni platoniche e allegoriche, e menano vita allegra, ma costumata e quale a gentili persone si richiede.
Lo spirito, l'eleganza, la coltura, le muse rendono questa società amabile, come oggi si riscontra ne' circoli più eleganti.
Specchio suo è quel mondo della cortesia, reminiscenza feudale abbellita dalla coltura e dallo spirito, alla cui immagine si dipinge la colta e ricca borghesia.
E come quel mondo feudale avea i suoi buffoni e giullari, questa società ha anch'essa chi la rallegri.
E i suoi buffoni e giullari sono quell'infinito mondo che le si schiera innanzi preti, frati, contadini, artigiani, di cui prende spasso, traendo piacere così dai babbei come dai furbi.
In questo comico non ci è punto una intenzione seria e alta, come correggere i pregiudizi, assalire le istituzioni, combattere l'ignoranza, moralizzare, riformare: nel che sta la superiorità del comico di Rabelais e di Montaigne, che è la reazione del buon senso contro un mondo artificiale e convenzionale.
Lì il riso è serio, perchè lascia qualche cosa nella coscienza; qui il riso è per il riso, per passare malinconia, per cacciare la noia.
Quel mondo plebeo è guardato come fa un pittore il modello, senz'altra intenzione che di pigliarne i contorni e i lineamenti e mettere in vista ciò che può meglio trastullare la nobile brigata.
Nell'immenso naufragio sopravviveva la coscienza letteraria e il sentimento artistico fortificato dallo spirito e dalla coltura; ed è da quella coscienza che sono usciti questi capolavori, modelli idealizzati a uso e piacere di una società intelligente e sensuale dal geniale artista, idolo delle giovani donne a cui sono intitolati.
L'ideale comico rimasto come il suggello dell'immortalità su questi modelli è nella rappresentazione diretta di questa società così com'è, nella sua ignoranza e nella sua malizia messa al cospetto di una società intelligente, che sta lì a bella posta per applaudire e batter le mani.
Il motivo comico non esce dal mondo morale, ma dal mondo intellettuale.
Sono uomini colti che ridono alle spalle degli uomini incolti, che sono i più.
Perciò il carattere dominante che rallegra la scena è una certa semplicità di spirito di nature inculte, messa in risalto quando si trova a contatto con la furberia: ciò che costituisce il fondo del carattere sciocco.
Con la sciocchezza è congiunta spesso la credulità, la vanità, la millanteria, la volgarità de' desidèri.
La furberia dà il rilievo a questo carattere, sì che lo metta in vista nel suo aspetto ridicolo.
Ma la furberia è anch'essa comica, non certo allo sciocco, ma agl'intelligenti uditori che la comprendono.
Così i due attori concorrono ciascuno per la parte sua a produrre il riso.
Qui è il fondamento della commedia boccaccevole.
Si vede la coltura in quel suo primo fiorire mostrar coscienza di sè, volgendo in gioco l'ignoranza e la malizia delle classi inferiori.
Il comico ha più sapore quando i beffati sono quelli che ordinariamente beffano, quando cioè i furbi, che burlano i semplici, sono alla lor volta burlati dagl'intelligenti, com'è il confessore burlato dalla sua penitente.
Il comico talora vien fuori per un improvviso motto o facezia, che illumina tutta una situazione e provoca il riso di un tratto e irresistibilmente: ciò che oggi si direbbe un «tratto di spirito».
Sono brevi novelle, il cui sapore, come nel sonetto, è tutto nella chiusa.
Di questo genere è la novella del giudeo, che guardando a Roma la corruzione cristiana, si converte al cristianesimo.
La chiusa sopraggiunge così improvvisa e così disforme alle premesse, che l'effetto è grande.
E ce n'è parecchie altre di questo stampo, e non molto felici, perchè l'autore lavora sopra un motto già trovato e noto.
Tali sono le novelle della marchesana di Monferrato, di Guglielmo Borsiere e di maestro Alberto.
Questi fuochi incrociati di motti e di frizzi, che brillano con tanto splendore ne' circoli eleganti e bastano ad acquistarti riputazione di uomo di spirito, sono la parte più appariscente, ma più elementare dello spirito.
La fucina dove si fabbricavano motti, facezie, proverbi, epigrammi, frizzi, era la scuola de' trovatori e della «gaia scienza».
Moltissimi di questi motti si erano già accasati nel dialetto fiorentino, e con molti altri usciti dall'immaginazione di un popolo così svegliato e arguto.
Il Decamerone ne è seminato.
Ma questi motti, appunto perchè entrati già nel corpo della lingua, non sono altro che parole e frasi, un dizionario morto, e raccoglierli e infilarli, come fa il Burchiello, non è da uomo di spirito.
Sono i colori del comico, non sono il comico esso medesimo.
Sono il patrimonio già acquistato dello spirito nazionale, e perciò mancanti di quella freschezza e di quell'imprevisto che è la qualità essenziale dello spirito; nè possono conseguire un effetto estetico se non associandosi a qualche cosa di nuovo e d'inaspettato, trovato allora allora che ti vengono sotto la penna.
Ciò fa che il Burchiello è insipido, e il Boccaccio è spiritoso; perchè per il Boccaccio i motti e i frizzi non sono scopo a sè stessi, ma un semplice mezzo di stile, il colorito.
Lo spirito nel suo senso elevato è nel comico quello che il sentimento è nel serio, una facoltà artistica.
E come il sentimento, così lo spirito è un grande condensatore, dando una velocità di percezione che ti faccia cogliere di un tratto sotto contrarie apparenze il simile o il dissimile.
Dove la sagacia giunge per via di riflessione, lo spirito giunge di un salto e intuitivamente.
I figli di Ugolino nell'esaltazione del sentimento dicono: «Tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia».
Qui il sentimento opera nel serio quello che nel comico lo spirito; congiunge improvvisamente e in una sola frase idee e immagini diverse.
Ma per giungere a questa produzione geniale è necessario che lo spirito sia anch'esso un sentimento, il sentimento del ridicolo, cioè a dire che stando in mezzo al suo mondo ne provi tutte le emozioni, e ci viva entro e ci si spassi, pigliandovi lo stesso interesse che altri piglia nelle cose più serie della vita.
Pure l'emozione dee esser quella di uno spettatore intelligente, anzi che di un attore mescolato in mezzo a' fatti, sì che tu guardi quella calma e prontezza e presenza di animo, che ti tenga superiore allo spettacolo: ond'è che il vero uomo di spirito fa ridere e non ride, lui.
È questa calma superiore che rende lo spirito padrone del suo mondo e glielo fa foggiare a sua guisa, annodando le fila, sviluppando i caratteri, disegnando le figure, distribuendo i colori.
Lo spirito del Boccaccio è meno nell'intelletto che nell'immaginazione, meno nel cercar rapporti lontani che nel produrre forme comiche.
Lo studio che i suoi antecessori pongono a spiritualizzare, lui lo pone a incorporare.
E cerca l'effetto non in questo o quel tratto, ma nell'insieme, nella massa degli accessorii tutti stretti come una falange.
Gli antecessori fanno schizzi: egli fa descrizioni.
Quelli cercano l'impressione più che l'oggetto: egli si chiude e si trincera nell'oggetto e lo percorre e rivolta tutto.
Perciò spesso hai più il corpo e meno l'impressione; più sensazione che sentimento; più immaginazione che fantasia; più sensualità che voluttà.
Mancano i profumi a' suoi fiori, mancano i raggi alla sua luce.
È una luce opaca, per troppa densità e ripetizione di se stessa.
Questa maniera nelle cose serie è insopportabile, come nel Filocolo e nell'Ameto, con quelle interminabili descrizioni e orazioni, dove ti senti come arenato e che non vai innanzi, E ti offende anche talora nel Decamerone, quando per esempio si fa parlare Tito o la figliuola di Tancredi con tutte le regole della rettorica e della logica.
Ma nel comico questa maniera è una delle sue forme più naturali, e la prima a comparire nell'arte dopo quella esplosione rudimentale di motti e di proverbi.
Perchè il comico è il regno del finito e del senso, e le prime sue impressioni sono singolarizzate nelle minute pieghe degli oggetti; dove nel serio le prime impressioni ti danno allegorie e personificazioni, forme generalizzate nell'intelletto.
Questa prima forma del comico è la caricatura.
La quale è la rappresentazione diretta dell'oggetto, fatta in modo che sia messo in vista il suo lato difettoso e ridicolo.
Certo, basterebbe metterti sott'occhio il difetto e lasciarti indovinare tutto il resto.
Un solo tratto di spirito illumina tutto il corpo e te lo presenta all'immaginazione.
Ma il Boccaccio non se ne contenta, e come fa il pittore, ti disegna tutto il corpo, scegliendo e distribuendo in modo gli accessorii e i colori, che ne venga maggior luce sul lato difettoso.
Di che nasce che il ridicolo non rimane isolato su quel punto, ma si spande su tutta l'immagine, di cui ciascuna parte concorre all'effetto, apparecchiando, graduando e producendo una specie di «crescendo» nella scala del comico.
Il riso, perchè vi sei ben preparato e disposto, di rado ti viene improvviso e irresistibile, come in quei brevi tratti che ti presentano rapporti inaspettati, anzi spesso più che riso è una gioia uguale che ti tiene in uno stato di pacata soddisfazione.
Non ridi, ma hai la faccia spianata e contenta, e ti si vede il riso sotto le guance, non tale però che debba per forza scattar fuori in quella forma contratta e convulsa.
Il quale effetto nasce da questo, che l'autore non ti presenta una serie di rapporti usciti dall'intelletto, ma una serie di forme uscite dall'immaginazione.
E sono forme piene, carnose, togate, minutamente disegnate.
L'autore, come obbliato in questo mondo dell'immaginazione, ha aria di non aggiungervi niente del suo, egli che ne è il mago.
E tu ci stai dentro come incantato.
L'autore non si distrae mai, non mette il capo fuori per fare una smorfia che provochi il riso, non tratta il suo argomento come cosa frivola, e piglia e lascia e torna.
Quella è la sua idea fissa, e lo incalza e lo tiene e tiraselo appresso, e non gli dà fiato, se non sia uscita tutta fuori.
E tu non ti distrai, ti senti come dondolato deliziosamente nella tua contemplazione, nè il riso, che talora ti coglie, t'interrompe, chè subito ti ci rituffi entro, e corri e corri, e il corso è finito, e tu corri ancora dolcemente naufragato.
Ma non è il mondo orientale, dove l'immaginazione, quasi fatta ebbra dall'oppio, salta fremente dalle braccia dell'amore pe' vasti campi dell'infinito e ti fa provare quel sentimento che dicesi voluttà, e che è l'infinito nel senso, quel vago e indefinito e musicale che tra gli abbracciamenti ti rivela Dio.
Questo è un mondo prettamente sensuale, chiuso e appagato in forme precise e rotonde, da cui niente è che ti stacchi e ti rapisca in alte regioni.
Appunto perchè questi fiori non mandano profumi e queste luci non gittano raggi, tu hai sensazioni e non sentimenti, immaginazione e non fantasia, sensualità e non voluttà.
Il rêve scompare.
L'estasi non tiene più assorti i tuoi sguardi.
Hai trovato già il tuo paradiso in quella realtà piena e attraente.
Diresti che la carne in questo suo primo riapparire nel mondo ti si sveli nel suo tripudio tutta nuda, ed empia di lusinghe e di vezzi il tuo paradiso.
Perciò la forma di questo paradiso è cinica, anche più dove un senso ironico di modestia è una civetteria che riaccende il senso.
Poichè la forma di questo mondo è la caricatura, uscita da una immaginazione abbondante, minuta disegnatrice, hai innanzi non punte e rialzi, ma l'oggetto intero nelle sue più fine gradazioni.
Breve ne' preliminari e nella dipintura astratta di personaggi, l'autore alza subito il sipario, e ti trovi in piena azione che si movono e parlano.
E già fin da' primi lineamenti ti balza innanzi il motivo comico, che ti si sviluppa a poco a poco per via di gradazioni, l'una entrata nelle altre con effetto crescente.
Il Boccaccio vi spiega quella qualità che i francesi, mirando alla forza nel suo calore e nella sua facilità, chiamano «verve», e noi chiamiamo «brio», mirando alla forza nella sua allegra genialità.
Di che maraviglioso esempio è la novella di Alibech, e l'altra di ser Ciappelletto.
A render più piccante la caricatura serve l'ironia, che qui è forma non sostanziale, ma accessoria.
Ed è un'apparente bonomia, un'aria d'ingenuità, con la quale il narratore fa il pudico e lo scrupoloso, e non vuol dire e pur dice, e non vuol credere e pur crede, e si fa la croce con un sogghigno.
Questa ironia è come una specie di sale comico, che rende più saporito il riso a spese del «paternostro» di san Giuliano e de' miracoli di ser Ciappelletto.
Essendo base di questo mondo la descrizione, cioè l'oggetto non ne' suoi raggi e ne' suoi profumi, cioè a dire nelle sue impressioni, ma nel suo corpo singolarizzato ed individuato, ha bisogno di forme piene e ricche, e così nascono le due forme della nuova letteratura, l'ottava rima nella poesia e il periodo nella prosa.
Abbiamo già vista la nona rima svilupparsi con magnificenza orientale nel poema l'Intelligenzia.
L'ottava rima non è inventata dal Boccaccio, come non è sua invenzione il periodo.
Ma è lui che le dà un corpo e l'intonazione.
Prima di lui l'ottava rima è un accozzamento slegato e fortuito, dove diversi oggetti sono ficcati insieme a caso, che potrebbero assai bene star da sè.
Stanno lì dentro oggetti nudi, non ci e un solo oggetto sviluppato e addobbato.
L'ottava rima è un meccanismo, non è ancora un organismo.
Il Boccaccio ha fatto dell'ottava una totalità organica, ed è l'oggetto che si sviluppa a poco a poco nelle sue gradazioni.
Ben trovi ne' suoi poemi ottave felici; ma in generale elle sono impigliate, mal costruite, e in sul più bello ti cascano.
Nel genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idillico ti riesce volgare e abbandonato.
Gli è che l'ottava, nell'ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni, è la maggiore idealità della forma poetica e richiede un'attività geniale che manca al Boccaccio, errante in un mondo artificiale e convenzionale.
Il difetto è tutto al di dentro, nell'anima; ciò che freddamente è concepito, nasce debole e mal congegnato, e non ci vale artificio.
Qui al contrario l'autore è a casa sua: pinge un mondo, in cui vive, a cui partecipa con la più grande simpatia, e tutto in esso, gitta via ogni involucro artificiale.
Ci è in lui qualche cosa più che il letterato, ci è l'uomo che vi guazza entro e vi si dimena e vi si strofina e vi lascivia.
E n'esce una forma, che è quel mondo esso medesimo, di cui sente gli stimoli nella carne e nell'immaginazione.
Così è venuta fuori quella forma di prosa, che si chiama il «periodo boccaccevole».
A quel tempo il grande movimento letterario che aveva il suo centro a Firenze si era di poco allargato fuori di Toscana.
La restaurazione dell'antichità che presentava all'immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco che allora spuntava appena, involto in quel vago chiaroscuro che accresce le illusioni, tirava a sè l'attenzione La lingua di Dante non era ancora lingua italiana: la chiamavano «idioma fiorentino».
La lingua era sempre il latino, nè era mutata l'opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in «latino volgare», come si chiamavano i dialetti.
Il Boccaccio dice di sè che scrive in «idioma fiorentino», e quelli che usavano il volgare dice che scrivevano in «latino volgare».
Il tipo di perfezione era sempre il latino, e l'ideale vagheggiato dalla classe erudita era un volgare nobile o illustre, secondo quel modello configurato, un volgare alzato a quella stessa perfezione di forma.
Questo tentò Dante nel Convito, con piena fede che il volgare fosse acconcio ad esprimere le più gravi speculazioni della scienza non altrimenti che il latino, e quello scolastico latino volgare o «volgare latino», nudo e tutto ossa e nervi, parve per la prima volta magnificamente addobbato nelle larghe pieghe della toga romana.
Ma la pece scolastica s'era appiccata anche a Dante, e quella barbarie delle scuole sta così in quelle ampie forme a disagio, come un contadino vestito a festa in abito cittadinesco.
Non ci è fusione, ci è punte e contrasti.
Il Boccaccio non era uscito dalle scuole, e quando più tardi studiò filosofia e un po' anche teologia, il suo spirito era già formato nell'esperienza della vita comune, nell'uso del suo volgare e nello studio de' classici.
Come il Petrarca, ha in abbominio gli scolastici, ne' quali vede proprio il contrario di quella elegante coltura greca e romana, vede la barbarie e la rozzezza.
Regnano nel suo spirito, divinità, Virgilio e Ovidio e Livio e Cicerone, e non ci è Bibbia che tenga, e non ci è san Tommaso.
Quando vuol dipingere alcun lato serio, morale o scientifico, del suo mondo, la sua imitazione è un artificio esterno e meccanico, perchè ha più immaginazione che sentimento e più intelletto che ragione.
La sua forma è decorosa, nobile, spesso disimpacciata, ma troppo uguale e placida, e talora ti fa sonnecchiare.
Il periodo è un rumor d'onde uniforme, mosse faticosamente da mare stanco e sonnolento.
Manca l'ispirazione, supplisce la rettorica e la logica.
Il che avviene, perchè il Boccaccio separato dalle immagini e gittato nel vago del sentimento o nell'astratto del discorso, perde il piede e va giù.
Tratta le idee come fossero corpi, e analizza e minuteggia che è uno sfinimento.
Le idee sono luoghi comuni annacquati in un viavai di piccoli e oziosi accessorii, distinzioni, riserve, condizioni, «se», «ma», «avvegnachè» e «conciossiacosachè».
Uno studio soverchio di esattezza, una notomia minuta di ogni pensieruzzo mette più in vista la volgarità e insipidezza dell'idea.
La forma si stacca visibilmente dalla cosa, e appare un meccanismo ingegnoso, lavorato accuratamente e sempre quello.
Cosa c'è sotto? Il luogo comune.
Questo fu chiamato più tardi forma letteraria.
E non c'è cosa più contraria alla scienza, che è parola e non frase, e mal si riconosce nelle circonlocuzioni, nelle perifrasi e ne' pleonasmi.
In questo artificio ci è un progresso: ci è quell'arte de' nessi e delle gradazioni, che mancava alla prosa, e rivela uno spirito adulto, educato dai classici.
Ma ci è il difetto opposto, un volere di ogni idea fare una catena cominciata e terminata in sè, ciò che è un pantano, e non acqua corrente.
Il Boccaccio odia gli scolastici; ma il suo periodo non è che sillogismo mascherato, una frase generica, come «umana cosa è aver compassione degli affiitti», che per molti andirivieni riesce in qualche volgare moralità.
Il formulario è divenuto un meccanismo ben congegnato; ma il fondo è lo stesso.
Vedi lo scolastico vestito a nuovo e più alla moda.
Se l'ampio giro del periodo boccaccevole è una catena artificiale dove la scienza perde la sua semplicità ed elasticità e la sua libertà di movimento, non è meno assurdo nell'espressione del sentimento, la forza più libera e indisciplinabile dello spirito, che spezza tutti i legami della logica e sbalza fuori con rapidità.
I bruschi e tragici movimenti dell'animo qui sono come cristallizzati tra congiunzioni, parentesi e ragionamenti.
Manca ogni subbiettività: ti è difficile guardare al di dentro nella coscienza; i casi sono straordinari, i fatti interessanti, le situazioni drammatiche, e non ti viene la lacrima, e non ti senti commosso, perchè l'anima non si manifesta che in frasi comuni e rigirate.
Veggasi la novella di madama Beritola, e l'altra del conte d'Anguersa, ove tra' più pietosi accidenti e mutazioni della fortuna non si muta la forma, sempre attillata e guantata.
Pure, qua e là si sente una certa non dirò commozione, ma emozione di una immaginazione calda, e n'escono movimenti sentimentali, come nelle ultime parole della figliuola di Tancredi e in alcuni tratti della Griselda.
Questa forma di periodo, che si affà così poco alla scienza e al sentimento, dove appare un mero meccanismo foggiato alla latina, acquista senso e moto, quando il teatro della vita è nell'immaginazione, cioè a dire quando l'autore si trova nel vivo dell'azione, non con idee e sentimenti, ma con oggetti innanzi ben determinati.
Tale è la descrizione della peste, o del combattimento di Gerbino.
Perchè il fatto non è come l'idea, uno e semplice, ma come il corpo, è un multiplo, un insieme di circostanze e di accessorii.
Questo insieme è il periodo, il quale nella sua evoluzione è ciò che in pittura si chiama «un quadro».
Aggruppare le circostanze, subordinarle, coordinarle intorno ad un centro, ombreggiare, lumeggiare, è arte somma nel Boccaccio.
La descrizione, quando sta per sè, in astratto e separata dall'azione, non riscalda abbastanza l'immaginazione e riesce fronzuta, com'è spesso nelle introduzioni.
Ma quando ci è qualche cosa che si move e cammina, e rassomiglia ad un'azione, l'immaginazione si mette in moto anche lei, e assiste pacata allo spettacolo, disegnando e facendo quadri in quelle larghe forme che si chiamano periodi.
Questa maniera di narrare a quadri non è certo l'andamento naturale dell'azione, che perde l'impeto e l'attrito, arrestata ne' suoi movimenti più rapidi dall'occhio tranquillo di una immaginazione disegnatrice.
E perciò non è maniera conveniente alla storia, e non è prosa, ma è arte in forma prosaica, e narrazione poetica.
Que' quadri e periodi ti danno non pur l'ordine e il legame e il significato de' fatti, ma le movenze, le attitudini, le gradazioni: onde nasce quell'effetto d'insieme che dicesi «fisonomia» o «espressione».
Ma dove il periodo boccaccevole diviene una creazione sui generis, un organismo vivente, è nel lato comico e sensuale del suo mondo.
E non è già che vi adoperi maggiore artificio o finezza; ma è che qui ci è la musa, vale a dire tutto un mondo interiore, la malizia, la sensualità, la mordacità, un vero sentimento comico e sensuale.
Ed è questa sentimentalità, la sola che la natura abbia concessa al Boccaccio, che penetra in quei flessuosi giri della forma e ne fa le sue corde.
Il suo periodo è una linea curva che serpeggia e guizza ne' più libidinosi avvolgimenti, con rientrature e spezzamenti e spostamenti e riempiture, e sono vezzi e grazie, o civetterie di stile, che ti pongono innanzi non pur lo spettacolo nella sua chiarezza prosaica, ma il suo motivo sentimentale e musicale.
Quelle onde sonore, quelle pieghe ampie della forma latina, piena di gravità e di decoro, dove si sente la maestà e la pompa della vita pubblica, trasportata dal foro nelle pareti di una vita privata oziosa e sensuale, diventano i lubrici volteggiamenti del piacere stuzzicato dalla malizia.
In bocca a Tito, a Gisippo senti la rettorica imitazione di un mondo fuori della coscienza: l'aria è pur quella, ma cantata da un borghese che non ne ha il sentimento e sbaglia spesso il motivo.
Qui al contrario, in questo mondo erotico e malizioso, hai la stess'aria, penetrata da un altro motivo che la soggioga e se l'assimila; e quelle forme magniloquenti che arrotondivano la bocca degli oratori, arrotondiscono il vizio e gli danno gli ultimi finimenti e allettamenti.
I latini nell'espressione del comico gittavano via le armi pesanti e vestivano alla leggiera: il Boccaccio concepisce come Plauto, e scrive come Cicerone.
Pure il suo concepire è così vivo e vero, che Cicerone si trasforma nella sua immaginazione in una sirena vezzosa che tutta in sè si spezza e si dimena.
Ma spesso, tutto dentro nel soggetto, gitta via i viluppi e i contorcimenti, e salta fuori snello, rapido, diritto, incisivo.
Maestro di scorciatoie e di volteggiamenti, la sua immaginazione covata da un sentimento vero spazia come padrona tra forme antiche e moderne, e le fonde e ne fa il suo mondo, e vi lascia sopra il suo stampo.
Sarebbe insopportabile questo mondo e profondamente disgustoso, se l'arte non vi avesse profuse tutte le sue veneri, inviluppando la sua nudità in quelle ampie forme latine, come in un velo agitato da venti lascivi.
L'arte è la sola serietà del Boccaccio, sola che lo renda meditativo fra le orgie dell'immaginazione e gli corrughi la fronte nella più sfrenata licenza, come avveniva a Dante e al Petrarca nelle loro più alte e pure ispirazioni.
Di che è uscito uno stile dove si trovano fusi i vari uomini che vivevano in lui, il letterato, l'erudito, l'artista, il cortigiano, l'uomo di studio e di mondo, uno stile così personale, così intimo alla sua natura e al suo secolo, che l'imitazione non è possibile, e rimane monumento solitario e colossale fra tante contraffazioni.
Che cosa manca a questo mondo?
Mondo della natura e del senso, gli manca quel sentimento della natura e quel profumo voluttuoso che gli darà il Poliziano.
Mondo della commedia, gli manca quell'alto sentimento comico nelle sue forme umoristiche e capricciose che gli darà l'Ariosto.
E che cosa è questo mondo?
È il mondo cinico e malizioso della carne, rimasto nelle basse sfere della sensualità e della caricatura spesso buffonesca, inviluppato leggiadramente nelle grazie e ne' vezzi di una forma piena di civetteria, un mondo plebeo che fa le fiche allo spirito, grossolano ne' sentimenti, raggentilito e imbellettato dall'immaginazione, entro del quale si move elegantemente il mondo borghese dello spirito e della coltura con reminiscenze cavalleresche.
È la nuova «Commedia», non la «divina», ma la «terrestre Commedia».
Dante si avvolge nel suo lucco e sparisce dalla vista.
Il medio evo con le sue visioni, le sue leggende, i suoi misteri, i suoi terrori e le sue ombre e le sue estasi, è cacciato dal tempio dell'arte.
E vi entra rumorosamente il Boccaccio e si tira appresso per lungo tempo tutta l'Italia.
X
L'ULTIMO TRECENTISTA
L' ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti, l'uomo «discolo e grosso».
Di mezzana coltura, d'ingegno poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di poca iniziativa e originalità, ma di molta se.nplicità e naturalezza, era nella sua mediocrità la vera eco del tempo.
Gli facea cerchio la turba de' rimatori, ripetizione stanca del passato, il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato, e Antonio da Ferrara, e Filippo Albizi, e Giovanni d'Amerigo, e Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da Faenza, e Astorre pur da Faenza, e Antonio Cocco, e Angelo da San Geminiano, e Andrea Malavolti, e Antonio Piovano, e Giovanni da Prato, e Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de' Benedetti, che lo chiama «eroe gentile», e parecchi altri.
E il nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con lodi.
Ultime voci de' trovatori italiani.
Luoghi comuni e forma barbara annunziano un mondo tradizionale ed esaurito.
Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi, ma insipidi e freddi come un'avemaria ripetuta meccanicamente tutt'i giorni.
Per questo lato il Sacchetti continua il passato, fa perchè gli altri fanno, pensa così, perchè gli altri così pensano, piglia il mondo come lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo.
Questa è la sua parte morta.
Ma ci è una parte viva, quella a cui partecipa, e che suona nel suo spirito, quella in cui apparisce la sua personalità.
Ed è appunto quel mondo di cui il Boccaccio è così vivace espressione.
Franco è il «vero uomo della tranquillità».
Il Boccaccio sdegnava l'epiteto, e talora voleva sonare la tromba e rappresentare azioni e passioni eroiche.
Franco non ha pretensioni, e si mostra com'è, ed è contento di esser così.
È uomo stampato all'antica, in tempi corrotti, buon cristiano e insieme nemico degl'ipocriti e mal disposto verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, alieno dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace, ma senza fiele, modesto estimatore di sè e lontanissimo di mettersi allato a' grandi poeti di quel tempo, che erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada, il Petrarca e il Boccaccio.
Quali erano i desidèri del nostro brav'uomo? Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più contento uomo del mondo, quando in villa o in città potea darsi buon tempo fra le allegre brigate, motteggiando, novellando, sonetteggiando.
Ci è in lui dell'idillico e del comico.
Ama la villa, perchè in città
mal vi si dice, e di ben far vi è caro;
e nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la freschezza dell'aura campestre, come è quella così briosa delle «donne che givano cogliendo fiori per un boschetto», e l'altra delle «montanine», di una grazia così ingenua.
In città è un burlone, pieno il capo di motti, di facezie, di fatterelli, e te li snocciola come gli escono, con tutto il sapore del dialetto e con un'aria di bonomia che ne accresce l'effetto.
I suoi sonetti e le canzoni sono molto al di sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare svelto e allegro, dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l'uomo che ci piglia gusto e vi si sollazza, e sta già con l'immaginazione nella lieta brigata dove i versi saranno cantati, tra musica e ballo.
Veggasi la ballata del «pruno» e il madrigale del «falcone».
Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti, pettegolezzi vengon fuori, bassa vita popolana in forma popolana.
Alcuni le pregiano più che il Decamerone, per lo stile semplice e naturale e rapido, non privo di malizia e di arguzia fiorentina.
Ma la naturalezza del Sacchetti è quella dell'uomo a cui le muse sono avare de' loro doni.
Non è artista, e neppure d'intenzione.
Gli manca ogni sorta d'ispirazione Quel mondo con tanta magnificenza organizzato nel Decamerone è qui un materiale grezzo, appena digrossato.
Perciò delle sue trecento novelle si ricorda appena qualche aneddoto: nessun personaggio è rimasto vivo.
Il Sacchetti sopravvisse al secolo.
Nel suo buon umore ci è una nota malinconica, che all'ultimo manda più lugubre suono.
Non piace al brav'uomo un mondo, in cui chi ha più danari vale più, e grida che «vertù con pecunia non si acquista», e che «gentilezza e virtù son nella mota».
Dipinge al vivo gli avvocati de' suoi tempi:
Legge civile e ragion canonica
apparan ben, ma nel mal spesso l'usano:
difendono i ladroni, e gli altri accusano.
Chi ha danari e chi più puote scusano:
tristo a colui che con costor s'incronica,
se non empie lor man sotto la tonica!
Ora se la piglia con le vecchie.
Ora è tutto stizzoso per le nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi.
Grida contro la turba de' rimatori e de' cantori:
Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
tal compitar non sa che fa ballate,
tosto volendo che sieno intonate.
Così del canto avvien: senz'alcun'arte
mille Marchetti veggio in ogni parte.
E quando muore il Boccaccio, «copioso fonte di eleganza», esclama:
Ora è mancata ogni poesia,
e vòte son le case di Parnaso...
S'io piango o grido, che miracol fia,
pensando che un sol c'era rimaso
Giovan Boccacci, ora è di vita fore? ...
...
Quel duol che mi pugne
è che niun riman, nè alcun viene,
che dia segno di spene
a confortar che io salute aspetti,
perchè in virtù non è chi si diletti...
Sarà virtù già mai più in altrui
O starà quanto medicina ascosta,
quando anni cinquecento perdè il corso? ...
Chi fia in quella etate,
forse vedrà rinascer tal semenza;
ma io ho pur temenza,
che prima non risuoni l'alta tromba, ...
che si farà sentir per ogni tomba.
Ne' numeri ciascuno ha mente pronta,
dove moltiplicando s'apparecchia
sempre tirare a sè con la man destra...
E le meccaniche arti
abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
Ben veggio giovinetti assai salire
non con virtù, perchè la curan poco,
ma tutto adopran in corporea vesta: ...
...
già mai non cercan loco
dove si faccia delle muse festa.
Come deggio sperar che surga Dante,
che già chi il sappia legger non si trova?
E Giovanni che è morto ne fe' scola.
Tutte le profezie che disson sempre
tra il Sessanta e l'Ottanta esser il mondo
pieno di svari e fortunosi giorni,
vidon che si dovean perder le tempre
di ciascun valoroso e gire al fondo.
E questo è quel che par che non soggiorni...
E s'egli è alcun che guardi,
gli studi in forni vede già conversi...
Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è l'elogio funebre del Trecento, pronunziato dal più candido e simpatico de' suoi scrittori, l'ultimo trecentista.
Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico indietro, e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l'Africa col suo «alto poeta», e Giovan Boccacci non col suo festevole Decamerone, ma co' dotti e magni volumi latini, De' viri illustri, Delle donne chiare, e «il terzo»:
Buccolica; il quarto: Monti e fiumi;
il quinto: Degl'iddii e lor costumi.
Oimè! Dante è morto.
Morto è Boccacci.
Petrarca muore.
Chi rimane? E l'ultimo trecentista guarda intorno e risponde: - Nessuno.
- Ricorda le infauste profezie, nunzie di sciagure fra il sessanta e l'ottanta, e gli pare venuto il finimondo.
La forte semenza da cui uscirono i tre grandi e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è perita per sempre? O risurgerà dopo cinquecento anni, come fu della medicina? O non verrà prima il giudizio finale? Il mondo è dato all'abaco e alle arti meccaniche: «nuda è l'adorna scuola» da tutte sue parti:
non si trova fenestra
che valor dentro chiuda.
La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a' sollazzi e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le muse, e non ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono mutati in forni.
Il poeta accomiata la canzone in questo modo:
Orfana, trista, sconsolata e cieca,
senza conforto e fuor d'ogni speranza,
se alcun giorno t'avanza,
come tu puoi, ne va' peregrinando,
e di' al cielo: - Io mi ti raccomando.
-
Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo.
Il Dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante già adulti e chiari, finisce come un'aurora entro cui si vede già brillare la vita nuova, una nuova èra.
Il Trecento finisce come un tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon Franco pensa: - Chi sa se tornerà il sole? -
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Petrarca, intuona anche lui un poetico Lamento.
Piangono intorno al grand'uomo Gramatica, Rettorica, Storia, Filosofia, e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso,
Virgilio, Ovidio, Giovenale e Stazio,
Lucrezio, Persio, Lucano e Orazio
e Gallo.
E Pallas Minerva, venuta dall'angelico regno, conserva la sua corona.
In ultimo della mesta processione spunta l'autore col suo nome, cognome e soprannome:
È Anton de' Beccar, quel da Ferrara,
che poco sa, ma volentieri impara.
È anche un brav'uomo costui, vede anche lui tutto nero:
Del mondo bandita è concordia e pace,
per l'universo la discordia trona,
sommerso è ogni bene,
l'amor di Dio ha bando,
e parmi che la fe' vada mancando.
Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri, dove non trovi alcuna profondità di vista e non forza di mente o di sentimento.
Pur vi trovi, ancorchè in forma pedantesca, la fisonomia del secolo negli ultimi giorni della sua esistenza.
Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli ardori del Petrarca, e rattristò le ultime ore di Franco Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina da Siena.
Perchè quella forza, contraddetta e negata nella vita, occupava ancora l'intelletto, e tra le orgie di una borghesia arricchita e gaudente comparirà talora come un rimorso, e chiamerà gli uomini alla penitenza.
«La fede va mancando», grida il ferrarese.
e gli studi «si convertono in forni», nota il fiorentino.
Non si potea meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il secolo e che comunicava alla nuova generazione.
Possiamo disegnarla in brevi tratti.
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze, così nelle altre parti d'Italia la borghesia si costituisce, si ordina, diviene una classe importante per industrie, per commerci, per intelligenza e per coltura.
E lo stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta.
La coltura non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde, e fa del popolo italiano il più civile di Europa.
La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria fra l'universale indifferenza.
Continuano le stesse forme, ma sciolte dallo spirito che le rendea venerabili, quelle persone, quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.
La vita privata viene su.
Ed è vita socievole, spensierata, condita dallo spirito.
Gli uomini si uniscono in compagnie o brigate non per discutere, ma per sollazzarsi, in città e in villa.
E si sollazzano a spese delle classi inculte.
Trovatori, cantori e novellatori non sono più il privilegio delle castella e delle corti.
L'allegria feudale si spande anche nelle case de' ricchi borghesi, e i racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri, e in una forma spesso licenziosa e cinica.
La licenza del linguaggio era il solletico dell'allegria.
Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice, profana e pagana.
Le novelle e i romanzi tennero il campo.
L'allegra vita della città si specchiava in forme liriche svelte e graziose, rispetti, strambotti, frottole, ballate e madrigali.
L'allegra vita de' campi avea pur le sue forme, le «cacce» e gl'idilli.
L'anima di questa letteratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.
La forma dello spirito comico è la caricatura penetrata di un'ironia maliziosa, ma non maligna.
La forma idillica è la descrizione della bella natura, penetrata di una molle sensualità.
Traspare da tutta questa letteratura una certa quiete e tranquillità interiore, come di gente spensierata e soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre questo mondo allegro della natura.
Il misticismo perisce, ma ben vendicato, traendosi appresso religione, moralità, patria, famiglia, ogni semplicità e dignità di vita.
Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica e l'allegria comica.
Sono le due divinità della nuova letteratura.
Ma come l'antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un involucro allegorico-scolastico, così la nuova non può trovare se stessa se non attraverso l'involucro del mondo greco-latino.
La vita del Boccaccio è in compendio la vita letteraria italiana, come si andrà sviluppando.
Comincia scopritore instancabile di manoscritti, e tutto mitologia e storia greca e romana.
Non è ancora un artista, è un erudito.
La sua immaginazione erra in Atene e in Troia.
Tenta questo e quel genere, e non trova mai se stesso.
Quel mondo è come un denso velo che muta il colore degli oggetti e gliene toglie la vista immediata.
Imita Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e platoneggia come il buon Sacchetti.
Scrive magni volumi latini, ammirazione de' contemporanei.
E si scopre artista, quando, gittato via tutto questo bagaglio, scrive per sollazzo, abbandonato alla genialità dell'umore.
Dove cerca il piacere, trova la gloria.
Questa vita ne' suoi tentennamenti, nelle sue imitazioni, nelle sue pedanterie, ne' suoi ideali, è la storia della nuova letteratura.
XI
«LE STANZE»
Siamo al secolo decimoquinto.
Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare.
L'Italia ritrova i suoi antenati, e i Boccacci si moltiplicano, l'impulso dato da lui e dal Petrarca diviene una febbre, o per dir meglio, quella tale corrente elettrica che incerti momenti investe tutta una società e la riempie dello stesso spirito.
Quella stessa attività che gittava l'Europa crociata in Palestina, e più tardi spingendola verso le Indie le farà trovare l'America, tira ora gl'italiani a disseppellire il mondo civile rimasto per così lungo tempo sotto le ceneri della barbarie.
Quella lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere: agl'italiani pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso di sè stessi, essere rinati alla civiltà.
E la nuova èra fu chiamata il «Rinascimento».Nè questo era un sentimento che sorgeva improvviso.
Per lunga tradizione Roma era capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl'italiani erano sempre gli antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua era il latino, e la lingua parlata era chiamata il «latino volgare», un latino usato dal volgo.
Questo sentimento, legato in Dante con le sue opinioni ghibelline, ispirava più tardi l'Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio.
Ora diviene il sentimento di tutti e dà la sua impronta al secolo.
La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi, i Bracciolini, che furono i Colombi di questo mondo nuovo.
Gli scopritori sono insieme professori e scrittori.
Dopo le lunghe peregrinazioni in oriente e in occidente, vengono le letture, i comenti, le traduzioni.
Il latino è già così diffuso, che i classici greci si volgono in latino, perchè se ne abbia notizia, come i dugentisti volgevano in volgare i latini.
Pullulano latinisti e grecisti: la passione invade anche le donne.
Grande stimolo è non solo la fama, ma il guadagno.
Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando.
Sorgono centri letterari nelle grandi città: a Roma, a Napoli, a Firenze, più tardi a Ferrara intorno agli Estensi.
E quei centri si organizzano e diventano accademie Sorge la pontaniana a Napoli, l'Accademia platonica a Firenze, quella di Pomponio Leto e di Platina a Roma.
Illustri greci, caduta Costantinopoli, traggono a Firenze.
Gemistio spiega Platone a' mercatanti fiorentini.
Marsilio Ficino, il traduttore di Platone, lo predica dal pulpito, come la Bibbia.
Pico della Mirandola, morto a trentun anno, stupisce l'Italia con la sua dottrina, ed oltrepassando il mondo greco, cerca in Oriente la culla della civiltà.
I caratteri di questa coltura sono palpabili.
Innanzi tutto ti colpisce la sua universalità.
Il centro del movimento non è più solo Bologna e Firenze.
Padova gareggia con Bologna.
Il mezzodì dopo lungo sonno prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panormita fa già presentire il Pontano e il Sannazzaro.
Roma è il convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalità di Nicolò quinto.
La coltura acquista una fisonomia nazionale, diviene italiana.
Anche il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria italiana.
Ma è l'Italia de' letterati, col suo centro di gravità nelle corti.
Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo.
O, per dir meglio, popolo non ci è.
Cadute sono le repubbliche, mancata è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica.
Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de' letterati, esalata in versi latini.
A' letterati fama, onori e quattrini; a' principi incensi, tra il fumo de' quali sono giunti a noi papa Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre della patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e Leone decimo e i duchi di Este.
I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell'oggi diventa il protettore del dimani.
Erranti per le corti, si vendevano all'incanto.
Questa fiacchezza e servilità di carattere, accompagnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli albori fin da' tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo.
Una certa ipocrisia c'è, quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nudità.
È una letteratura senza veli, e più sfacciata in latino che in volgare.
Ne nasce l'indifferenza del contenuto.
Ciò che importa non è cosa s'ha a dire, ma come s'ha a dire.
I più sono secretari di principi, pronti a vestire del loro latino concetti altrui.
La bella unità della vita, come Dante l'aveva immaginata, la concordia amorosa dell'intelletto e dell'atto, è rotta.
Il letterato non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la vita.
Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso sia: a lui spetta dargli la veste.
Il suo cervello è un ricco emporio di frasi, di sentenze, di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie: forme vuote e staccate da ogni contenuto.
Così nacque il letterato e la forma letteraria.
Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si cercava negli antichi la scienza.
Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la forma.
Sorge la critica, circondata di grammatiche e di rettoriche; il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi in una eguale adorazione: si giudicano, si classificano, pigliano posto.
Questi lavori filologici ed eruditi sono la parte più seria e più durevole di questa coltura.
Spiccano fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla.
Il titolo ti dà già la fisonomia del secolo.
Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, co' suoi vari centri in tutta Italia, sono una certa stanchezza di produzione, l'inerzia del pensiero, l'imitazione delle forme antiche come modelli assoluti, l'uomo e la natura guardati a traverso di quelle forme.
È una nuova trascendenza, il nuovo involucro.
Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina o sente, perchè non è l'immagine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di Virgilio vede il mondo non nella sua vista immediata, ma come si trova rappresentato da' classici, a quel modo che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di san Tommaso.
Ma non ci è guscio che tenga incontro all'arte.
Dante potè spesso rompere quel guscio, perchè era artista.
E se in questa cultura fossero elementi seri di vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio che vedremmo venire il grande artista, destinato a farne sentire il suono pur tra queste forme latine.
Ciò che ferve nell'intimo seno di una società, tosto o tardi vien su e spezza ogni involucro.
Si dà colpa al latino, che questo non sia avvenuto.
E se il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le sue forme, se il mondo interiore della coscienza s'è infiacchito, la colpa è de' classici che paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che i classici di questo fatto sono innocentissimi.
Certo, il mondo di Omero e di Virgilio, di Tucidide e di Livio, non è un mondo fiacco e frivolo.
E se i latinisti non poterono riprodurne che l'esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è il vuoto, gli è che il vuoto era nell'anima loro, e nessuno dà ciò che non ha.
Un cuore pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme più artificiali e più ripugnanti.
Leggete questi latinisti.
Cosa c'è lì dentro che viva e si mova? Lo spirito del Boccaccio che aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il sale comico, in una forma elegante e vezzosa.
Questo studio dell'eleganza nelle forme, accompagnato co' tranquilli ozi della villa e i sollazzevoli convegni della città, era in iscorcio tutta la vita del letterato.
Così, quando il secolo era travagliato da mistiche astrazioni e da disputazioni sottili, il latino fu scolastico.
E ora che il naturalismo idillico e comico del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico, il latino è idillico, dico il latino artistico e vivo.
La grande orchestra di Dante è divenuta già nel Petrarca la flebile elegia.
In questo latino elegante il dolore è elegiaco, e il piacere è idillico.
La vita è tutta al di fuori, è un riso della natura e dell'anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de' sensi.
Sulle rive di Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni di Baia, ora tutto vezzeggiativi e languori, ora motteggevole e faceto.
Mergellina, Posilipo, Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose, e allegrano le nozze della sua Lepidina.
La crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione e i deliziosi profumi dell'eleganza.
La sua musa, come la sua colomba, «fugit insulsos et parum venustos» «odit sorditiem», nega i suoi doni a quelli che sono «illepidi atque inelegantes», e «gaudet nitore», e rassomiglia alla sua «puella», di cui nessuna «vivit mundior elegant'orve».
Spirito ed eleganza, questo è il mondo poetico di una borghesia colta e contenta, che cantava i suoi ozi e passava il tempo tra Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni e le cacce e gli amori.
Ne senti l'eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole.
Il Pontano scrivea la Lepidina tra' susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le aure della sua villetta fiesolana.
In tutte e due ispiratrice è la bella natura campestre, con più immaginazione nel Pontano, con più sentimento nel Poliziano.
Piace la «cerula» ninfa Posilipo e la «candida» Mergellina, e quel voler essere uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante, una sensualità dell'immaginazione.
Il Pontano è figurativo, tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano è più semplice, più vicino alla natura, e te ne dà l'impressione:
Hic resonat blando tibi pinus amata susurro;
hic vaga coniferis insibilat aura cupressis:
hic scatebris salit et bullantibus incita venis
pura coloratos interstrepit unda lapillos.
Questo latino, maneggiato con tanta sveltezza, modulato con tanta grazia, non cade nel vuoto, come lingua morta, e questi canti non sono stimati lavori di pura erudizione e imitazione.
Lorenzo Valla chiama il latino la «lingua nostra»; nessuna cosa di qualche importanza non si scrivea se non in latino, e metteasi a fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto.
Dante stesso era detto «poeta da calzolai e da fornai».
Non pareva impossibile continuare il latino, come i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la lingua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istrutti.
Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze, dove il volgare avea messo salde radici, illustrato da tanta gloria, nè potea parer vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca.
Ivi una classe colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto erano ancora il popolo, con una comune fisonomia.
Grandissima l'ammirazione de' classici; frequentissimi gli Studi del Landino, del Crisoloro, del Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile (discussioni erudite, senza conclusione e serietà pratica); si applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell'Albiera o gli occhi di Lorenzo, «purus apollinei sideris nitor», come fossero gli occhi di Laura.
Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo spiegava Dante, e il Landino sponeva il Petrarca, e Leonardo Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico com'era parlato a Roma, e Lorenzo de' Medici preferiva il Petrarca a' poeti latini, chiamava «unico» Dante, celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino e di Cavalcanti e di altri minori scrivea le lodi con acume e maturità di giudizio.
Ci erano gli oppositori, i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un ignorante, «rerum ommum ignarum» e che scrivea così male in latino.
Ma in Firenze non attecchivano.
Cristoforo Landino nel suo studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi sottoporre a regole di grammatica e di rettorica.
Certo, il vezzo del latino introduceva nel volgare caduto in mano a' pedanti vocaboli e frasi e giri, di cui si sentono gli effetti fino nella prosa del Machiavelli; ma quella barbara mescolanza per la sua esagerazione divenne ridicola, e non potè alterare le forme del volgare, così come erano state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel popolo.
Nè l'uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in volgare la vita di Dante e del Boccaccio, e in volgare Feo Belcari scrivea le vite de' santi e le rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti, le frottole, le cacce, le ballate, tutt'i generi di lirica popolare legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e privati, le mascherate, le giostre, le serenate, le rappresentazioni, i giuochi, le sfide.
Non era cosa facile guastare o sopraffare una lingua legata così intimamente con la vita.
La forza della lingua volgare era appunto in questo: che rifletteva la vita pubblica e privata, divenuta parte inseparabile della società nelle sue usanze e ne' suoi sentimenti.
Onde se gli uomini colti, trasportati dalla corrente comune, scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell'uso vario della vita adoperavano il volgare, condotto ormai al suo maggior grado di grazia e di finezza, parlato e scritto bene generalmente.
Un gran mutamento era però avvenuto nella letteratura volgare.
Il mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato non era potuto più risorgere di sotto a' colpi del Petrarca e più del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima.
Al contrario era in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la «gaia scienza», e dava i suoi colori anche alle cose sacre.
Le laude erano intonate come i rispetti, e i misteri acquistavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi allora in voga.
La Stella ricorda in molte parti le avventure della bella sventurata Zinevra, «sei anni andata tapinando per lo mondo».
Spesso c'entra il comico e il buffonesco, e ti par d'essere in piazza a sentir le ciane che si accapigliano.
La lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.
La leggenda è un racconto maraviglioso animato da uno spirito mistico e ascetico, con le sue estasi, le sue visioni, i suoi miracoli.
Ci è al di sotto la fede che fa muovere i monti e ti tiene al di sopra de' sensi, anzi sforza i sensi e dà loro le ali dell'immaginazione.
Questo mondo miracoloso dello spirito, fatto così palpabile come fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio che lo renda verisimile, anzi con la più grande ingenuità, essendo quelle verità incontrastate pel narratore e pe' lettori.
Questa impressione ti fanno le leggende del Passavanti e le Vite del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo.
Sono antiche rappresentazioni, messe a nuovo, intonacate, imbiancate, a uso di un pubblico più colto.
Santo Abraam, Alessio, Abramo, Eugenia e Maddalena, i santi e i padri e i romiti del Cavalca ti sfilano innanzi.
Con la natia rozzezza è ita via anche la semplicità e l'unzione e ogni sentimento liturgico e ascetico.
Il miracolo ci sta come miracolo, cioè a dire come una macchina del maraviglioso, a quel modo che è la fortuna nelle novelle del Boccaccio.
Il motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori certe grandi mutazioni e improvvise nello stato de' personaggi, morale o materiale: perciò non gradazioni, non ombre, non sfumature; i contorni sono chiari e decisi; l'azione è tutta esteriore e superficiale, e si ferma solo quando una mutazione improvvisa provoca esplosioni liriche di gioia, di dolore, di maraviglia.
Ci è quella lirica superficiale e quella chiarezza epica che è propria del Boccaccio.
La lirica è sacra di nome, e non ha quell'elevazione dell'anima verso un mondo superiore, che senti in Dante o in Caterina: ci è la preghiera, non ce n'è il sentimento.
L'azione è pedestre e borghese, di una prosaica chiarezza, non animata dal sentimento, non trasformata dall'immaginazione.
E il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti di dolore sono elegia, le cui mistiche gioie sono idilli mancato è il senso del terribile e del sublime, mancata è l'indignazione e l'invettiva: se alcuna serietà rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni, apparecchiate con tanta pompa di scene e di decorazioni, è reminiscenza ed eco di un mondo indebolito nella coscienza.
Ci erano ancora le confraternite, che a grandi spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano più i contemporanei di Dante, e non gli autori e non gli spettatori.
Si andava alle rappresentazioni, come alle feste carnascialesche, per sollazzarsi.
E si sollazzavano, come si conviene a gente colta e artistica, co' piaceri dello spirito e dell'immaginazione.
Il mistero era per essi un piacevole esercizio dell'immaginazione, una ricreazione dello spirito.
Con la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale, il dramma era così poco possibile come la tragedia o l'eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda.
Se quelle rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco rimasero stazionarie, e non poterono mai acquistare la serietà e profondità di un vero mondo drammatico, fu perchè mancò all'Italia un ingegno drammatico, come affermano alcuni, quasi l'ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza radici, e venuto espressamente dal cielo? O fu, come affermano altri, perchè il latino attirò a sè gli uomini colti, e il mistero fu trascurato come cosa del popolo, quasi che autori de' misteri non fossero gli uomini più colti di quel tempo, o il latino, che non potè uccidere il volgare, potesse uccidere l'anima di una nazione, quando un'anima ci fosse stata? La verità è che il povero latino non potè uccider nulla, perchè nulla ci era, niuna serietà di sentimento religioso, politico, morale, pubblico e privato, da cui potesse uscire il dramma.
Quel mondo spensierato e sensuale non ti potea dare che l'idillico e il comico; e in tanto fiorire della coltura, con tanta disposizione ed educazione artistica, non potea produrre che un mondo simile a sè, un mondo di pura immaginazione.
Il mistero è un aborto, è una materia sacra che non dice più nulla alla mente ed al cuore, senza alcuna serietà di motivi, e trasformata da uomini colti in un puro giuoco d'immaginazione dove angioli e demoni, paradiso e inferno hanno così poca serietà come Apollo e Diana e Plutone.
La serietà e solennità della materia era in flagrante contraddizione con quella forma tutta senso e tutta superficie, e con quel mondo spensierato e allegro della pura immaginazione, idillico-comico-elegiaco.
Il mistero ci fu, quale poteva realizzarlo l'Italia in questa disposizione dello spirito, e ci fu l'ingegno, quale poteva essere allora l'ingegno italiano.
Quel mistero fu l'Orfeo, e quell'ingegno fu Angiolo Poliziano.
Il Poliziano è la più spiccata espressione della letteratura in questo secolo.
Ci è già l'immagine schietta del letterato, fuori di ogni partecipazione alla vita pubblica, vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale, cortigiano, amante del quieto vivere, e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi.
Ebbe in Lorenzo un protettore, un amico, e divenne la sua ombra, il suo compagno ne' sollazzi pubblici e secreti.
Cominciò la vita, voltando l'Iliade in latino, grecista e latinista sommo.
Dettava epigrammi latini con la facilità di un improvvisatore.
Si traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e Virgilio.
E non si ammirava solo l'erudito, ma l'uomo di gusto e il poeta, che ispirato vi aggiungeva le sue emozioni e le sue impressioni e i suoi carmi.
Il suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il compendio di questa vita tranquilla e placida, spenta a quarant'anni.
Il Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma nella piena indifferenza di ogni contenuto.
Il tempio era vuoto: vi entrò Apollo e lo empì d'immagini e di armonie.
Il mondo antico s'impossessò subito di un'anima dove ogni vestigio del medio evo era scomparso.
Il Boccaccio senti che è ancora medio evo, e lo vedi alle prese co' canoni e le scienze sacre e le forme dantesche: il vecchio e il nuovo Adamo combattono in lui, come nel Petrarca: erano tempi di transizione.
Nel Poliziano tutto è concorde e deciso: non ci è più lotta.
Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme e nel suo contenuto, di cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne' misteri, è un mondo in tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire.
Quello è per lui la barbarie.
E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve lo trova.
Il sentimento della bella forma, già così grande nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è tutto; e quel mondo della bella forma, appresso al quale correvano faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da' primi anni, è il mondo suo, e ci vive come fosse nato là dentro, e ne ha non solo la conoscenza, ma il gusto.
Questo era la coltura, l'umanità, il risorgimento, orgoglio di una società erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il Boccaccio l'avea abbozzata, e che ora si specchia nel Poliziano come nel suo modello ideale.
Perchè questa generazione, caduta così basso, fiacca di tempra e vuota di coscienza, aveva pure la sua idealità, il suo divino, ed era l'orgoglio della coltura, il sentimento della forma.
Le sue mascherate, le cacce, le serenate, le giostre, le feste, tanta parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate dalle arti dello spirito e da' piaceri dell'immaginazione.
E se il cardinale Gonzaga, rientrando nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia il loro ornamento e decoro, il giovane Poliziano gli scrive in due giorni l'Orfeo. E che cosa è l'Orfeo? Come gli venne in mente Orfeo? Giovanni Boccaccio nel Ninfale e nell'Ameto canta la fine della barbarie e il regno della coltura o dell'umanità.
Il rozzo Ameto, educato dalle arti e dalle muse, apre l'animo alla bellezza e all'amore, e di bruto si sente fatto uomo.
Atalante trasforma il bosco di Diana in città, e vi marita le ninfe, e v'introduce costumi civili.
Orfeo è il grande protagonista di questo regno della coltura, venuto dall'antichità giovine e glorioso ne' carmi di Ovidio e di Virgilio.
Questo fondatore dell'umanità col suono della lira e con la dolcezza del canto mansuefà le fiere e gli uomini e impietosisce la morte e incanta l'inferno.
È il trionfo dell'arte e della coltura su' rozzi istinti della natura, consacrato dal martirio, quando, sforzando le leggi naturali, è dato in balìa all'ebbro furore delle baccanti.
Dopo lungo obblio nella notte della seconda barbarie, Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando il regno dell'umanità, o per dir meglio, dell'umanismo.
Questo è il mistero del secolo, è l'ideale del Risorgimento.
Le sacre rappresentazioni cacciate dalle città menano vita oscura nei contadi, e cadono in così profondo obblio che giacciono ancora polverose nelle biblioteche.
L'Orfeo è un mondo di pura immaginazione.
I misteri avevano la loro radice in un mondo ascetico, fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre reale per una gran parte degli spettatori.
Qui tutti sanno che Orfeo, le driadi, le baccanti, le furie, Plutone e il suo inferno sono creature dell'immaginazione.
A quel modo che nelle giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co' loro costumi e abiti le ombre del mondo antico.
Che entusiasmo fu quello, quando Baccio Ugolini, vestito da Orfeo e con la cetra in mano, scendeva il monte, cantando in magnifici versi latini le lodi del cardinale! «Redeunt saturnia regna.» Sembravano ritornati i tempi di Atene e Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo, nunzio alle genti della nuova èra, della nuova civiltà.
Nel medio evo si dicea «vivere in ispirito», ed era il ratto dell'anima alienata da' sensi in un mondo superiore.
Ciò che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento dell'arte, la sola religione sopravvissuta, e si vive in immaginazione.
I ricchi, a quel modo che decorano i palagi degli avi, decorano con l'arte i loro piaceri.
E che decorazione è quest'Orfeo! Dove sotto forme antiche vive e si move quella società, idealizzata nell'anima armoniosa del poeta.
È un mondo mobile e superficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo sguardo il fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si esala nel suono e nel canto; il pensiero è appena iniziale, incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un'elegia; l'inno è un idillio; e n'esce un mondo idillico-elegiaco, penetrato di un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti accarezza, insino a che questo bel mondo dell'arte ti si disfà come nebbia, e ti svegli violentemente tra il furore e l'ebbrezza dei sensi.
Il canto di Aristeo, il coro delle driadi, il ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di questo mondo incantato, la cui quiete idillica penetrata di flebile e molle elegia si scioglie nel disordine bacchico.
La lettura non basta a darne un'adeguata idea.
Bisogna aggiungervi gli attori e le decorazioni e il canto e la musica e l'entusiasmo e l'ebbrezza di una società che ci vedea una così viva immagine di se stessa.
Il suo ideale, il suo Orfeo è una lieve apparizione, ondeggiante tra' più delicati profumi, a cui se troppo ti accosti, ti fuggirà come Euridice.
È un mondo che non ha altra serietà, se non quella che gli dà l'immaginazione; le passioni sono emozioni, gli avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre; la vita danza e canta, e non si ferma e non puoi fissarla.
La stessa leggerezza penetra nelle forme, flessibili, variamente modulate, e come tutta un'orchestra di metri, entranti gli uni negli altri in una sola armonia.
Il settenario rammorbidisce l'endecasillabo; la ballata dà le ali all'ottava; le rime si annodano ne' più voluttuosi intrecci.
Ora è il dialetto nella sua grazia, ora è la lingua nella sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida corsa, là il tronco ti arresta e ti culla; con una facilità e un brio che pare il poeta giuochi con i suoi strumenti.
Così Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque; così divenne il nunzio del Risorgimento.
Le edizioni moltiplicarono; penetrò dalle corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e favola d'Orfeo; e anche oggi nelle valli toscane ti giunge la melodia di Orfeo dalla dolce lira, una storia in ottava rima.
Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora nel mondo moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste di Firenze nacquero le Stanze.
Quel mondo borghese della cortesia, così ben dipinto nel Decamerone, riproducea nelle sue giostre il mondo profano de' romanzi e delle novelle, la cavalleria.
I poeti celebrano a suon di tromba «le gloriose pompe e i fieri ludi» di questi mercanti improvvisati cavalieri e vestiti all'eroica: non ci era più la realtà; ce n'era l'immaginazione.
Le giostre erano in fondo una rappresentazione teatrale, e i giostranti erano attori che rappresentavano i personaggi de' romanzi, spettacolo continuato oggi nelle corse, con questo progresso, che gli attori sono i cavalli.
Ridicoli sono i poeti che narrano le alte geste de' giostranti come fossero Orlando e Carlomagno, con le frasi ampollose de' romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge, le divise, gli stemmi, gli scontri con una serietà frivola.
Anche Giuliano de' Medici fece la sua giostra, e divenne l'eroe di quel poemetto che i posteri hanno chiamato le Stanze.
Comincia a suon di tromba.
Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese:
sì che i gran nomi e ' fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.
Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati.
E che cosa è rimasto? Le Stanze: forme vaganti, di cui nessuno cerca il legame, ciascuna compiuta in sè.
Nella giovine mente del poeta non ci è il romanzo: ci è Stazio e Claudiano con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euripide, ci è Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio con la sua Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un mondo d'immagini fluttuanti, sciolte, disseminate come le stelle nel cielo all'occhio semplice del pastore.
Questo è il mondo che vien fuori in un legame artificiale e meccanico, delle cui fila interrotte nessuno si cura: perchè la giostra non è il motivo di questo mondo, è la semplice occasione.
La sua unità non è in un'azione frivola e incompiuta, debole trama.
La sua unità è in se stesso, nello spirito che lo move, ed è quel vivo sentimento della natura e della bellezza che dal Boccaccio in qua è il mondo della coltura.
La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa di Venere, il giardino d'Amore, gl'intagli, non sono già episodi, sono questo mondo esso medesimo nella sua sostanza, animato da un solo soffio.
Sono l'apoteosi di Venere e d'Amore, della bella natura, la nuova divinità.
E la natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso e ti tiene in una dolce malinconia; non sei nel regno de' misteri e delle ombre, nel regno musicale del sentimento: sei nel regno dell'immaginazione.
Venere è nuda, Iside ha alzato il velo.
Non hai più gli schizzi di Dante, hai i quadri del Boccaccio; non hai più la faccia di Giotto, hai la figura del Perugino; non hai più il terzetto nel suo raccoglimento, hai l'ottava rima nella sua espansione.
Ci è quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio, e di cui senti la fragranza nella Lepidila e nel Rusticus: l'anima sta come rilassata in dolce riposo, non fantasticando ma figurando parte a parte e disegnando, quasi voglia assaporare goccia a goccia i suoi piaceri.
E non è la descrizione minuta, anatomica, spesso ottusa, del Boccaccio; chè mentre la natura ti si offre distinta come un bel paesaggio, non sai onde o come ti giungono mormorii, concenti, note, come la voce di una divinità nascosta nel suo grembo.
La sensualità filtrata fra tanta dolcezza di note lascia in fondo la sua parte grossolana ed esce fuori purificata; e non è la musa civettuola del Boccaccio, è la casta musa del Parnaso, che copre la sua nudità e vi gitta sopra il suo manto verginale.
Nel Boccaccio è la carne che accende l'immaginazione: nel Poliziano l'immaginazione è come un crogiuolo, dove l'oro si affina.
La sensuale e volgare Griseida si spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea, e diviene la gentile Simonetta, bellezza nuda, sviluppata da ogni velo allegorico dantesco e petrarchesco, a contorni precisi e finiti, pur divina nella sua realtà:
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
Tra il poeta e il suo mondo non ci è comunione diretta: ci stanno di mezzo Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio, Ovidio, che gli prestano le loro immagini e i loro colori.
Ma egli ha un gusto così fine e un sentimento della forma così squisito, che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova creazione.
Ci è nel suo spirito una grazia che ingentilisce il volgare naturalismo del suo tempo, e una delicatezza che gli fa cogliere del suo mondo il più bel fiore.
L'insignificante, il rozzo, il plebeo non entra nella sua immaginazione: ciò che sta lì dentro è tutto elegante e profumato, e non cessa che non l'abbia reso con l'ultima finitezza e perfezione.
Le sue reminiscenze mitologiche e classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere, Diana, e la tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo spirito va al di là della frase, attinge le cose nella loro vita, e le rende con evidenza e naturalezza.
Perciò, raro connubio, l'eleganza in lui non è mai rettorica e si accompagna con la naturalezza, perchè ha delle cose una impressione propria e schietta.
La mammola, la rosa, l'ellera, la vite, il montone, la capra, gli uccelli, le aurette, l'erba e il fiore, tutto si anima e si configura e prende le più vaghe e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica.
Ciò che prova non è sensualità, è voluttà, sensazione alzata a sentimento, che fonde il plastico e te ne fa sentire la musica interiore.
Ottiene potentissimi effetti con la massima semplicità de' mezzi, spesso col solo allogare gli oggetti, ora aggruppando, ora distinguendo, e tutto animando, come persone vive.
Tale è la mammoletta verginella con gli occhi bassi e vergognosa, e l'ellera che va carpone co' piedi storti, o l'erba che si maraviglia della sua bellezza, bianca, cilestre, pallida e vermiglia.
Il sentimento che n'esce non ha virtù di tirarti dalle cose e lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella tua contemplazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto il mondo, e non pensi di uscirne, e la guardi parte a parte nella grazia della sua varietà.
Perchè il motivo dell'ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo, e non come un bel velo, una bella apparenza, ma terminato e tranquillo in se stesso, quale si mostra nel periodo e nell'ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio, divenute la base della nuova letteratura.
L'ottava del Boccaccio, diffusa, pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia.
Ciascuna stanza è un piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione, ma ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze.
Non è un periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista emerga tra minori figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo.
Diresti che in questa bella natura tutto è interessante, e non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un uomo che non ammette l'insignificante e l'indifferente, e tutto vuole sia oro e porpora.
Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa come ti si spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi.
La stanza non ti dà l'insieme, ma le parti; non ti dà la profondità, ma la superficie, quello che si vede.
Pure le parti sono così bene scelte e la serie è ordita con una gradazione così intelligente, che all'ultimo te ne viene l'insieme, prodotto non dalla descrizione, ma dal sentimento.
Vuol descrivere la primavera e ti dà una serie di fenomeni:
Zefiro già di be' fioretti adorno
avea ai monti tolta ogni pruina;
avea fatto al suo nido già ritorno
la stanca rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente all'òra mattutina;
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore.
Questi fenomeni sono così bene scelti, legati con tanto accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni così freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo, e te ne viene non all'occhio ma all'anima l'insieme, ed è quel senso d'intima soddisfazione, che ti dà la primavera, la voluttà della natura.
In Dante non ci è voluttà, ma ebbrezza: così è trascendente.
Nel Boccaccio non ci è voluttà, ma sensualità.
La voluttà è la musa della nuova letteratura, è l'ideale della carne o del senso, è il senso trasportato nell'immaginazione e raffinato, divenuto sentimento.
Qui è una voluttà tutta idillica, un godimento della natura senz'altro fine che il godimento, con perfetta obblivione di tutto l'altro; senti le prime e fresche aure di questo mondo della natura assaporato da un'anima, il cui universo era la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da Teocrito e da Virgilio.
Da questa doppia ispirazione, un intimo godimento della natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e della bellezza, sviluppato ed educato da' classici, è uscito il nuovo ideale della letteratura, l'ideale delle Stanze, una tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza ed eleganza della forma; ciò che possiamo chiamare in due parole: «voluttà idillica».
Il contenuto di questo ideale è l'età dell'oro e la vita campestre, con tutto il corteggio della mitologia, ninfe, pastori, fauni, satiri, driadi, divinità celesti e campestri, in una scala che dal più puro e più delicato va sino al lascivo e al licenzioso.
La forma è il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali, quale apparisce nell'Orfeo e nelle Stanze, i due modelli di questa letteratura, che iniziata nel Boccaccio, andrà fino al Metastasio.
La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto, ma è lo spirito stesso della società, come si andava atteggiando, còlto nelle costumanze e feste pubbliche.
Centro di questo movimento è Lorenzo de' Medici, col suo coro di dotti e di letterati, il Ficino, il Pico, i fratelli Pulci, il Poliziano, il Rucellai, il Benivieni, e tutti gli accademici.
La letteratura vien fuori tra danze e feste e conviti.
Lorenzo non avea la coltura e l'idealità del Poliziano.
Avea molto spirito e molta immaginazione, le due qualità della colta borghesia italiana.
Era il più fiorentino tra' fiorentini, non della vecchia stampa, s'intende.
Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante da' motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole, mezzo tra' piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando orgie notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore.
Era classico di coltura, toscano di genio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto.
Maneggiava il dialetto con quella facilità che governava il popolo, lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze.
Chi comprende l'uomo è padrone dell'uomo.
Portò a grande perfezione la nuova arte dello Stato, quale si richiedeva a quella società, divenute le feste e la stessa letteratura mezzi di governo.
Alla violenza succedeva la malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe, non il principato; la corruzione medicea uccise il popolo; o per dire più giusto, Lorenzo non era che lo stesso popolo studiato, compreso e realizzato, l'uno degno dell'altro.
Tal popolo, tal principe.
Quella corruzione era ancora più pericolosa, perchè si chiamava «civiltà», ed era vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico, con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla de' rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale de' sonetti e delle canzoni.
Ce n'erano a dozzina, e in tutte le parti d'Italia: l'uomo colto esordiva col sonetto, uso giunto fino a' tempi nostri.
Molti canzonieri uscirono in questo secolo; appena è se oggi si ricordi Giusto de' Conti e il Benivieni.
Continuare il Petrarca dovea significare realizzarlo, sviluppare quell'elemento sensuale, idillico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e che è l'elemento nuovo.
Ma il povero Petrarca era malato, e i sonettisti esalano sospiri poetici dall'anima vuota e indifferente.
Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria, senza base.
Non c'è più un mondo organico, ma un accozzamento fortuito e monotono di forme divenute convenzionali.
Manca l'immaginazione e la malinconia e l'estasi, i veri fattori del mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello spirito, congiunta l'insipidezza con le vuote sottigliezze, come nelle rime tanto celebrate del Ceo, del Notturno, del Serafino, del Sasso, del Cornazzano, del Tebaldeo.
Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita nuova, e narra il suo innamoramento, con le occasioni e le spiegazioni de' suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur disinvolta e franca.
Anche nel suo Canzoniere appariscono forme e idee convenzionali; anche vi domina lo spirito, di cui avea sì gran dovizia.
Ma c'è lì una sua impronta; ci è un sentimento idillico e una vivacità d'immaginazione che alcuna volta ti rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza.
Non ci è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione; ma c'è versi assai belli e qua e là paragoni, immagini, concetti che ti fermano.
Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili, dove nessuno osa mettere una mano profana.
Rimangono perciò immobili, senza sviluppo.
Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma, l'ottava rima o la stanza.
Vi apparisce l'amore idillico-elegiaco, proprio del tempo; la forma condensata del Petrarca si scioglie e si effonde ne' magnifici giri dell'ottava; non più concetti e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni.
Anche dove il concetto è dantesco, come nelle stanze del Benivieni, che, lasciato il primo casto amore e corso appresso alla sirena, si sente trasformato in lonza, la forma è lussureggiante e vezzosa, e più simile a sirena che a casta donna.
Modello di questo genere è la Selva d'Amore di Lorenzo, composizione a stanze, d'un fare largo e abbondante, alquanto sazievole, il cui difetto è appunto il soverchio naturalismo, una realtà minuta, osservata e riprodotta esattamente ne' suoi caratteri esterni, non fatta dall'arte mobile e leggiera, non idealizzata.
Tra le sue più ammirate descrizioni è quella dell'età dell'oro, dove è patente questo difetto.
Vedi l'uomo in villa, che tutto osserva, e anima con l'immaginazione la natura senza averne il sentimento.
Ci è l'osservatore, manca l'artista.
Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono sulla natura.
La soverchia esattezza nuoce all'illusione e addormenta l'immaginazione.
Veggasi questa ottava:
Siccome il cacciator ch'i cari figli
astutamente al fero tigre fura;
e benchè innanzi assai campo gli pigli,
la fera, più veloce di natura
quasi già il giunge e insanguina gli artigli;
ma veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova in su la rena,
crede sia 'l figlio e 'l corso suo raffrena.
Ci si vede un uomo che in un fatto così pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e osserva e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza, ma non ne riproduce il sentimento: c'è l'esattezza, manca il calore e l'armonia.
Veggasi ora l'artista, il Poliziano:
Qual tigre a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
poi resta di uno specchio all'ombra vana,
all'ombra ch'e suo' nati par somigli;
e mentre di tal vista s'innamora
la sciocca, el predator la via divora.
Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma si paragoni.
Ciò che in Lorenzo è naturalismo, è idealità nel Poliziano.
Nell'uno è il di fuori abbellito dall'immaginazione, l'altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro.
Lorenzo dice:
Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:
altra più giovinetta si dislega
appena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all'aer niega;
altra cadendo a piè il terreno infiora.
Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e con proprietà rara di vocaboli.
Vedete ora nel Poliziano queste rose animarsi come persone vive: ne senti la fragranza, la grazia, la freschezza:
questa di verdi gemme s'incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra che 'n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boccaccio nel Ninfale dava l'esempio, il poeta non è obbligato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita.
Finge amori altrui, e in luogo di chiudersi nella natura e ne' fenomeni dell'amore fino alle più raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualità degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che introduce sulla scena.
La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana.
Come son care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa e non vi trova il suo amore!
Qui l'aspettai, e quinci pria lo scòrsi,
quinci sentii l'andar de' leggier piedi,
e quivi la man timida li porsi;
qui con tremante voce dissi: - Or siedi, -
qui volle allato a me soletto porsi,
e quivi interamente me li diedi...
O sospirar che d'ambo i petti uscia!
O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lasciommi piena di disio,
quando già presso al giorno disse: - Addio.
L'Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia sono poemetti di questo genere.
Soprastà per calore ed evidenza di rappresentazione l'Ambra, graziosa invenzione ispirata da Ovidio e dal Boccaccio.
Ma il capolavoro è la Nencia, che pare una pagina del Decamerone.
Qui Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della società, rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini, con un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe.
Tutta Firenze fu piena della Nencia; era la città che metteva in caricatura il contado.
L'idillio vi si accompagna con quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo e monna Belcolore, e che è la vera genialità di Lorenzo: basta ricordare i Beoni.
Chi ama i paragoni ragguagli la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di contadine.
Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado: la caricatura è sfacciatamente volgare e licenziosa.
Nella Nencia hai l'idealità comica: una caricatura fatta con brio e con grazia, con un'aria perfetta di bonomia e di sincerità.
Nella Brunettina del Poliziano hai il ritratto ideale della contadina, rimossa ogni intenzione comica.
È la Venere del contado con morbidezza di tinte assai ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione ed eleganza del disegno.
Notabile è soprattutto la verità del colorito e la perfetta realtà.
Tra le feste si ravviva la poesia popolare.
Vedevi Lorenzo andar per le vie, come re Manfredi, sonando e cantando tra' suoi letterati.
Il poeta della Nencia qui è nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella società licenziosa e burlevole.
La trasformazione è compiuta: giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione.
I Beoni o il Simposio è una parodia della Divina Commedia e dei Trionfi non pur nel disegno, ma nelle frasi: le sacre immagini dell'Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini dell'ebbrezza.
Tra questi passatempi poetici è da porre la Caccia col falcone, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e con grazia in stanze sveltissime, con tutt'i sali e le vivezze del dialetto.
Così si passava allegramente il tempo:
E così passo, compar, lieto il tempo,
con mille rime in zucchero ed a tempo.
Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di costumi.
Lo stesso spirito è nelle ballate e ne' canti carnascialeschi: una sensualità illuminata dall'allegria e dall'umor comico.
Il mondo convenzionale de' trovatori è ito via, e insieme il suo vocabolario.
Ti senti in mezzo a un popolo festevole e motteggiatore, che ha rotto il freno e si dà balìa.
Un'allegria spensierata e licenziosa è il motivo di questi canti: l'amore non è un affetto, ma un divertimento, un modo di stare allegri.
Il motto comune è la brevità della vita, l'orrore della vecchiezza, il dovere di coglier la rosa mentre è fiorita, quel tale: «Edamus et bibamus: post mortem nulla voluptas».
Aggiungi la caricatura de' predicatori di morale e delle cose sacre, com'è la confessione di Lorenzo e la sua preghiera a Dio contro i mal parlanti.
In questo mondo, rappresentato dal vero e nell'atto della vita, così di fuga e tra le impressioni, non hai concetti raffinati, ma pittura vivace di costumi e di sentimenti, come l'ansia dell'aspettare nella canzone:
Io non so qual maggior dispetto sia
che aspettar quel che il cor brama e desia;
o il dispetto contro i gelosi:
Non mi dolgo di te, nè di me stessi,
chè so mi aiuteresti stu potessi;
o quel volere e disvolere della donna nella canzonetta sulla pazzia, e nell'altra, tirata giù tutta di un fiato, così rapida e piena di cose:
Ei convien ti dica il vero
una volta, dama mia.
Questo carnevale perpetuo si manifesta ne' Canti e Trionfi carnascialeschi in tutta la sua licenza.
Uscivano di carnovale, come si costuma anche oggi, carri magnificamente addobbati, ora rappresentazioni mitologiche, com'è il Trionfo di Bàcco e Arianna co' suoi satiri e Sileno e Mida, ora corporazioni di arti e mestieri, com'è il canto de' «cialdonai», o de' «calzolai», o delle «filatrici», o de' «bericuocolai», ora pitture sociali, come il canto delle «fanciulle», o delle «giovani donne», o de' «romiti», o de' «poveri».
Il motivo generale è l'amor licenzioso, stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in moto l'immaginazione.
È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo.
La rappresentazione della vita e de' costumi e delle condizioni sociali e l'allegra caricatura, che sono l'anima di questo genere di letteratura, com'è nel «carnevale» di Goethe, si perdono ne' bassi fondi della oscenità plebea.
Cosa ora possono essere le sue Laude, se non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
In questa pozzanghera finirono le serenate, le mattinate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli strambotti, le cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a mano de' letterati.
Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne' sonetti plebei del canonico Franco e suoi pari, che non avevano neppure l'arguzia e la festività di Lorenzo.
Il popolo era meno corrotto de' suoi letterati.
Ne' suoi canti non trovavi certo l'amore platonico e ascetico e i concetti raffinati, ma neppure gli equivoci osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.
La più schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo Poliziano.
Rado capita negli equivoci.
Scherza, motteggia, ma con urbanità e decenza, come ne' suoi consigli alle donne:
Io vi vo', donne, insegnare
come voi dobbiate fare;
e nel «ritratto della vecchia», e in quella ballata graziosissima:
Donne mie, voi non sapete
che io ho il mal che avea quel prete.
Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle «montanine» di Franco Sacchetti, massime quando il fondo è idillico, come nella ballata dell'«augelletto», e nell'altra:
Io mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio, in un verde giardino.
Nelle sue canzoni e canzonette, nelle sue Lettere e ne' suoi rispetti non trovi novità d'idee o d'immagini o di situazioni, e neppure un'impronta personale e subbiettiva, come nel Petrarca.
Ci trovi il segretario del popolo, che traduce in forme eleganti il repertorio comune de' canti popolari dall'un capo all'altro d'Italia.
Perciò non hai qui la freschezza e originalità delle stanze idilliche: spesso ci senti la fretta e la distrazione, come di chi scriva di fuga e per occasione.
Vedi ritornare le stesse idee con lievi mutamenti, com'è il fuggire del tempo e il coglier la rosa fiorita.
Il dizionario delle idee popolari è piccolo volume, e non s'ingrandisce in mano al Poliziano.
Quelle poche idee si aggirano intorno a situazioni generiche e semplici, come sono la bellezza del damo o della dama, la gelosia, la dipartita, l'attendere, lo sperare, l'incitare, la disperazione e i pensieri di morte, le dichiarazioni e le disdette.
Sono l'espressione di un essere collettivo, non del tale e tale individuo.
E così sono nel Poliziano.
I nomi mutano, secondo l'argomento, come la dipartita e la ritornata, e anche secondo il tempo, come la serenata o il notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse.
Sono per lo più stanze in rime variamente alternate, come nelle ballate e ne' rispetti, fatte svelte e leggiere nelle canzonette, ove domina il settenario o l'ottonario.
Spesso non hai che un solo motivo variamente modulato e con graziose ripigliate, come fosse un trillo o un gorgheggio:
E crederrei, s'io fossi entro la fossa,
risuscitare al suon di vostra gola;
crederrei, quando io fussi nell'inferno,
sentendo voi, volar nel regno eterno.
La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano.
Ci si vede il cervello in riposo, fra onde musicali, e come viene l'idea, non corre a un'altra, ma ci si ferma e la trattiene deliziosamente nell'orecchio, finchè non le abbia data tutta la sua armonia.
Questo palpare e accarezzare l'idea, compiuta già come idea, ma non ancora compiuta come suono, è proprio della poesia popolare, povera d'idee, ricca d'immagini e di suoni.
La parola è nel popolo più musica che idea.
Ciò che si diceva allora: «cantare a aria», qual si fosse il contenuto, o come dice un poeta, «siccome ti frulla».
Così cantavasi «Crocifisso a capo chino», una lauda, con la stess'aria di una canzone oscena.
Tra queste impressioni nacque la «canzone di maggio», il saluto della primavera:
Ben venga Maggio,
e il gonfalon selvaggio,
cantata dalle villanelle, che venivano a Firenze, anche due secoli dopo, come afferma il Guadagnoli.
Vi si nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca, congiunta con una perspicuità che la rende accessibile anche alle classi inculte.
Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e sensuale, con l'aria di chi partecipa a quella vita ed è pur disposto a pigliarne spasso; il Poliziano anche nelle sue più frivole apparenze le gitta addosso un manto di porpora, elegante spesso, gentile e grazioso sempre.
Alla idealità del Poliziano si accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e Arianna.
Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario de' canti popolari, sparsi in tutta Italia non solo in dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi versi, come: «O crudel donna, che lasciato m'hai»; «Giù per la villa lunga / la bella se ne va»; «Chi vuol l'anima salvare / faccia bene a' pellegrini», ecc.
Vi si mescolavano laude, racconti e poemetti spirituali con le stesse intonazioni.
Li portavano ne' più piccoli paesi i rapsodi o poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla in collo, che vivevano di quel mestiere.
E si chiamavano «cantastorie», quando i loro canti erano romanzette o romanze, racconti di strane avventure intercalati di buffonerie e motti licenziosi.
Questa letteratura profana e proibita a' tempi del Boccaccio, come s'è visto, era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti.
Erano alla moda «romanzi franceschi» con le loro traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare.
In questo secolo moltiplicarono co' rispetti e le ballate anche i romanzi.
Della cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle corti, e alcuna lontana reminiscenza ne davano le compagnie di ventura.
Cavaliere e cavallo era ancora il tipo della storia, l'ideale eroico celebrato nelle giostre e riflesso ne' romanzi.
Se ne scrivevano in dialetto e in volgare.
Tra gli altri che venner fuori, sono degni di nota l'Aspromonte, l'Innamoramento di Carlo, l'Innamoramento di Orlando, Rinaldo, la Trebisonda, i Fioretti de' paladini, il Persiano, la Tavola rotonda, il Troiano, la Vita di Enea, la Vita di Alessandro di Macedonia, il Teseo, il Pompeo romano, il Ciriffo Calvaneo.
Il maggiore attrattivo era la libertà delle invenzioni: si empivano le carte di fole e di sogni, come dice il Petrarca; e chi le dicea più grosse, era stimato più.
Questo elemento fantastico penetrò anche ne' misteri, come nelle laude era penetrato il canto popolare.
Le rappresentazioni presero una tinta romanzesca: l'effetto, non potendosi più trarre da un sentimento religioso che faceva difetto, si cercava nella varietà e nel maraviglioso degli accidenti, com'è il San Giovanni e Paolo di Lorenzo.
Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati della società, e dalle corti scendeva fino ne' più umili villaggi e di là risaliva alle corti.
La plebe aveva i suoi cantastorie, la corte aveva i suoi novellatori.
E non si contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi dalle cronache e dalle tradizioni, ma vi aggiungevano del loro non solo nel colorito e negli accessorii, ma nella invenzione.
Il Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte e tra liete brigate, come immagino fossero recitate le sue novelle.
Il suo Florio, il Teseo, il Troilo lasciarono poco durevole vestigio, perchè argomenti poco popolari e guasti dall'erudizione e dalla mitologia.
Ma l'impulso da lui dato fu grande; e la ballata, la novella, il romanzo, ciò che chiamasi letteratura profana, divennero l'impronta del secolo, da Franco Sacchetti a Lorenzo de' Medici.
La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli eroi della Tavola rotonda e i paladini di Carlomagno.
In antico la Tavola rotonda avea molta popolarità, e Tristano e Isotta tennero per qualche tempo il primato.
Il Boccaccio nell'Amorosa visione cita gli eroi principali di queste tradizioni normanne, come nomi già noti e volgari.
Ma la Francia era più nota, e i «romanzi franceschi più diffusi», e Carlomagno avea un certo legame con l'Italia, come un eroe religioso, protettore del papa e vincitore de' saracini e precursore delle crociate.
Era già comparso l'Innamoramento di Orlando.
E Matteo Boiardo ci die' l'Orlando innamorato, una vasta tela in sessantanove canti, interrotta dalla morte.
Il Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte estense, divenuta un centro letterario importante accanto a Napoli, Roma e Firenze.
Ivi la letteratura nasceva pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze.
Il Boiardo, uomo coltissimo, dotto di greco e di latino, studiosissimo di Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio alla letteratura toscana.
Ne' suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non so che astratto e rigido, come di uomo ben composto negli atti e nella persona, pure impacciato.
È in lui una serietà di motivi che in quel secolo della parodia si può chiamare un anacronismo.
Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate, e averne le lodi; ma i passatempi e gli scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco.
Racconta con la serietà d'Omero, e fu salutato allora l'«Omero italiano».
Certo, non crede alle sue favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune incredulità scappa fuori alcuna volta in qualche tratto ironico; ma questo riso della coltura a spese della cavalleria non è il motivo, e un accessorio fuggevole del racconto.
Cosa dunque aveva più di serio la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le feste delle corti.
Quelle forme erano così vuote, come le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni sentimento eroico e religioso, anzi negato e parodiato.
Invano si studia il Boiardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di un'epopea.
Il mondo omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati: il mondo cavalleresco, mancati tutt'i suoi motivi interiori, è qui sotto forme epiche il mondo plebeo dell'immaginazione, un maraviglioso sciolto dalle leggi dello spazio e del tempo, senza serietà di scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi di spada.
Come Elena nell'Iliade, qui è Angelica che move intorno a sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente, rimasto ozioso nel racconto, e Angelica è la vera motrice dell'immensa macchina, è il maraviglioso in permanenza, la maga.
Il miracolo continua: non lo fanno i santi; lo fanno i maghi e le maghe.
E il miracolo non è la macchina o l'istrumento, ma è fine a se stesso.
Voglio dire che il miracolo non è un mezzo per conseguire uno scopo serio e sviluppare un'azione interessante, come nelle leggende e ne' primitivi poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo del Boiardo altra serietà che il miracolo stesso, il fine di sorprendere gli uditori con la straordinarietà degli avvenimenti.
I motivi delle azioni non sono a cercare nella serietà di un mondo religioso, morale, eroico, divenuto convenzionale e tradizionale, come il mondo cristiano, ma nel libero gioco delle passioni e de' caratteri sotto l'influsso di potenze occulte.
Onde nasce un mondo pieno di vivacità e di mobilità, dove tutte le forze dell'individuo, non frenate da leggi e da autorità superiori, si sviluppano nel pieno rigoglio della natura e producono effetti così maravigliosi come le stregonerie e gl'incanti.
Orlando e Rinaldo ti fanno maravigliare non meno che Malagigi e Angelica.
Un mondo così essenzialmente fantastico e insieme così poco serio per il poeta e per gli uditori è in fondo quel mondo della cortesia calato dal Boccaccio in mezzo alla borghesia e fatto moderno, e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie.
Il ferrarese ha creduto renderlo cosa seria, dandogli forma nobile e decorosa, purgata dalle licenze e da' disordini de' romanzi plebei; ma è appunto quest'apparenza di serietà che toglie attrattivo al suo racconto.
Ne' romanzi plebei il maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti e ingenui uditori; ma i colti «signori e cavalieri», alla cui presenza recitava il Boiardo i suoi canti, non potevano vedere in quei fantastici racconti che un puro giuoco d'immaginazione, disposti a spassarsi della plebe, che faceva gli occhioni e apriva la bocca.
Quel mondo dunque non poteva divenire borghese se non trasportato nell'immaginazione e accompagnato da un sogghigno.
E tutte e due queste condizioni mancano nell'Orlando innamorato.
Il Boiardo ha molta vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna.
Certo, non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a sè un immenso materiale agglomerato da' secoli: ma quella materia la fa sua, scegliendo, combinando, padroneggiandola.
Il suo intento, direi quasi la sua vanità, è di sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietà de' suoi intrecci, menandoseli appresso tra le più strane avventure.
Ma al Boiardo mancano tutte le grandi qualità dell'artista, e soprattutto quelle due che sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo, l'immaginazione e lo spirito.
Ben tenta talora lo scherzo; ma rimane un tentativo abortito: non ha brio, non facilità, non grazia.
Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell'alta immaginazione artistica che si chiama fantasia.
Vede chiaro, disegna preciso, come fosse un mondo storico; e appunto perciò in un mondo così fantastico rimane pedestre e minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni, non ti tira per forza in una regione incantata.
A questo grande inventore di magie la natura negò la magia più desiderabile, la magia dello stile.
Le più originali concezioni, le più interessanti situazioni ti cascano sul più bello: sei nel fantastico e ti trovi nel volgare, e Angelica ti si trasforma in una donnicciuola e Orlando in un babbeo.
Il che avviene senza intenzione comica, unicamente per la soverchia crudezza de' colori, a cui mancano le gradazioni e le mezze tinte.
Così quel mondo, che nella sua intima natura dovea essere fantastico e comico, ti riesce spesso nella rappresentazione prosaico e volgare.
Non una sola situazione, non una figura è rimasta viva.
Dicesi che il nobil conte facesse suonare a festa le campane del villaggio, quando gli venne trovato il nome di Rodamonte, quasi l'importanza fosse ne' nomi o ne' fatti.
E non è Rodamonte che è rimasto vivo, è Rodomonte.
Se il Boiardo recitava i suoi canti a' signori ferraresi, Luigi Pulci rallegrava le feste e i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo Morgante.
Qui ritroviamo la fisonomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello «sgangherato e senza remi», come lo chiama Battista Alberti, sino a Lorenzo de' Medici.
Il Pulci discende in diritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti, e ne sviluppa le tendenze con più energia che non il Poliziano e non Lorenzo.
Piglia il romanzo come lo trova per le vie, un miscuglio di santo e di profano, di buffonesco e di serio.
E non pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente più gli ripugna che la tromba.
Ti dà un mondo rimpiccinito, fatto borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduta la loro aureola, e ti camminano innanzi semplici mortali.
Niente è più volgare che Carlo o Gano.
Carlo è un rimbambito, Gano è un birbante destituito di ogni grandezza: volgare lui, volgari i suoi intrighi.
Rinaldo è un ladrone di strada, Ulivieri è un cacciatore di donne e la sua Meridiana non è in fondo che una femminella.
Di caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo superficiale e mobilissimo, e vai di palo in frasca, e non ti raccapezzi.
Gano trama la rovina de' paladini, Forisena si gitta dalla finestra, Babilonia rovina, Carlo è scoronato da Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori appena abbozzati, come non fossero opera di uomini, ma di qualche bacchetta magica, rappresentati con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito, con la quale Morgante si mangia un elefante e sfracella il capo a una balena.
È la cavalleria com'era concepita e trasformata dalla plebe.
Il cantastorie è in fondo un giullare, o piuttosto un buffone plebeo, che abbassa quel mondo al suo livello e de' suoi uditori, e invocati gravemente Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a' suoi lazzi, e ti fa sbellicar dalle risa.
Il buffone, personaggio accessorio ne' racconti e nelle commedie, è qui il personaggio principale, è lo spirito stesso del racconto.
La parte più seria del romanzo è certo la morte di Orlando; e anche lì quanti lazzi! Ecco il principio della grande battaglia:
Chi vuol lesso Macon, chi l'altro arrosto;
ognun volea del nimico far torte:
dunque vegnamo alla battaglia tosto,
sì ch'io non tenga in disagio la morte,
che colla falce minaccia ed accenna
ch'io muova presto le lance e la penna.
Nell'inferno si fa gran festa, che attendono i pagani; Lucifero «trangugiava a ciocche le anime che piovean de' seracini»; e san Pietro attende le anime de' cristiani:
E perchè Pietro a la porta è pur vecchio,
credo che molto quel giorno s'affanna;
e converrà ch'egli abbi buon orecchio,
tanto gridavan quelle anime: - Osanna! -
ch'eran portate dagli angeli in cielo:
sicchè la barba gli sudava e 'l pelo.
I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da' macellai e da' cucinieri; i colpi di spada sono in modo così grossolano esagerati che la morte stessa diviene ridicola; i miracoli sono così strani e così caricati che perdono ogni serietà, come è Orlando morto, trasformato in colomba, che si posa sulla spalla di Turpino e gli entra in bocca con tutte le penne.
Se il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo e sciocco, avremmo il grottesco, com'è ne' romanzi primitivi.
Ma qui il buffone è un uomo colto, che parla a un colto uditorio, e non è il buffone, ma fa il buffone, contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede.
Sicchè ci troviamo in quella stessa disposizione di animo che ispirò la Belcolore e la Nencia: è il borghese che si spassa alle spalle della plebe.
E te ne accorgi alla finta serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama in testimonio Turpino, o dove nelle cose più gravi fa boccacce e t'esce fuori con una smorfia e si burla del suo argomento e de' suoi personaggi.
La parodia è ancora più comica, perchè dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e posta il più sovente nella natura stessa del fatto senza alcuno artificio di forma, come è Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o Margutte che scoppia dalle risa e muore.
E riderà in eterno, nota l'angiolo Gabriello, trasformato l'individuo in tipo.
La rappresentazione è anch'essa conforme a questa parodia plebea.
La plebe non analizza e non descrive; ma ha l'intuito sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che vede alla naturale e così in grosso, e non ci si ferma e passa oltre.
La forma qui è tutta esteriore e rapida; si movono insieme «le lance e la penna»; l'autore, mentre move la penna, vede le lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal fondo, e ti balzano innanzi vivide, e tu le cogli in una sola girata d'occhio.
L'ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco: è un incalzare di versi senza posa, frettolosi, poco curati, gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro è un verso solo.
Al che aiuta il dialetto, maneggiato maestrevolmente, soprattutto per la proprietà de' vocaboli.
Tutto è plebeo: azioni, passioni e linguaggio.
Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco di Sarragozza, col supplizio di Gano e di Marsilio.
- «E io voglio fare il boia» -, dice l'arcivescovo Turpino.
Uno di quei tratti che illuminano tutta una situazione.
La risposta di Rinaldo a Marsilio, che vuol farsi cristiano all'ultima ora, è quale potrebbe suonare in bocca di un becero.
Il romanzo è una commedia, che contro l'intenzione dell'autore si volge in tragedia.
Ma la tragedia è da burla, e non ce n'è il sentimento.
Lo spirito del racconto è il basso comico, un comico vuoto e spensierato, che imputridisce nelle acque morte di un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia.
Maggiore spirito è in Lorenzo e nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe, e non sono plebe e la guardano alcun poco dall'alto.
Ma il Pulci, ancorchè uomo colto, per i sentimenti e le inclinazioni è plebe, e a forza di rappresentare la parte del buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale.
Perciò gli mancano tutte le alte qualità di un artista comico: la grazia, la finezza, la profondità dell'ironia, e ti riesce spesso grossolano, superficiale, inculto e negletto anche nella forma.
Ha non solo la grossolanità, ma anche l'angustia di un'immaginazione plebea, non essendoci ne' suoi personaggi molta ricchezza di carattere, quella varietà di movenze, di sentimenti e d'istinti che fa dell'uomo un piccolo mondo.
Rinaldo, Orlando, Ulivieri, Astolfo, Sansonetto, Ricciardetto, i paladini sono tutti a uno stampo, e non ci è differenza in loro che della forza.
Malagigi è insignificante.
Gano, Falserone, Bianciardino, Marsilio, Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salincorno, tutt'i pagani sono esseri superficiali, e spesso puri nomi.
I più accarezzati dall'autore sono i due personaggi del suo cuore, Morgante e Margutte.
Morgante è lo scudiere di Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del racconto.
Non è il cavaliere, è lo scudiere l'eroe di questa storia plebea, il cui spirito penetra dappertutto e si continua anche dopo la sua morte.
Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto, millantatore, ignorante, di poca malizia, ma buono, fedele e coraggioso.
Il suo battaglio è l'emulo di Durindana.
Margutte è la plebe nella sua degenerazione e corruzione, ignobile, beffardo, ladro, fraudolento, assai vicino all'animale.
Questi due esseri accoppiati insieme si compiono e si spiegano.
Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari e i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la vera parodia, come è di Sancio Panza e don Chisciotte.
Ma lo spirito plebeo penetra ancora fra' cavalieri, e Margutte e Morgante sono non una parte, ma il tutto, l'alto modello a cui più o meno è informata la storia, intitolata a buona ragione Il Morgante.
Una concezione originale è Astarotte.
Il diavolo cornuto di Dante, che già riceve una prima trasformazione nel suo nero cherubino, il bravo loico che ha tutta l'aria di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed è un buon compagnone.
Come il nero cherubino arieggia agli scolastici, Astarotte è il nuovo spirito del secolo, motteggiatore, ironico e libero pensatore, che fa il teologo e l'astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini Dionisio e Gregorio; chè
ognuno erra
a voler giudicare il ciel di terra
Astarotte, che è stato un serafino e de' principali, sa molte cose, che non sanno «i poeti, i filosofi e i morali», e dice la verità, e non fa come gli spiriti folletti che si aggirano per l'aria e ingannano gli uomini, «facendo parere quel che non è»:
chi si diletta ir gli uomini gabbando,
chi si diletta di filosofia,
chi venire i tesori rivelando,
chi del futuro dir qualche bugia.
Vedesi la filosofia messa a fascio con l'astrologia e le altre arti di gabbare gli uomini.
Ma Astarotte promette di dire la verità, e tiene la promessa, come un diavolo d'onore:
Chè gentilezza è bene anche in inferno.
E sa la verità non per ragione, ma per esperienza, come di cose che vede e tocca, confermandole anche con l'autorità della Scrittura.
Dove ci vuol ragione, come nella quistione della prescienza, la quale «l'umana gente avvolge di tanti errori», dice: - «Nol so: però non ti rispondo» -.
Ma quanto a' fatti, afferma ardito e sicuro.
E afferma che, salvo i giudei e i saracini, piacciono a Dio quelli che osservano la loro religione, come fecero gli antichi romani, su' quali piovve tanta grazia celeste; che al di là delle colonne d'Ercole è l'altro emisperio, abitato come questo, e ben vi si può ire; che quella gente è parte della famiglia di Adamo, anch'essa redenta, altrimenti Dio sarebbe stato partigiano; che gli animali pinti nel padiglione di Luciana non sono tutti, e compie la lista descrivendo un gran numero di animali poco noti.
Rinaldo, avido d'imparare, si propone di lanciarsi pe' mari ignoti e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte: la poesia indovina Cristoforo Colombo, o piuttosto la scienza, perchè il dotto Astarotte era in fondo il celebre Toscanelli, amico e suggeritore del Pulci.
Questa concezione è una delle più serie della nostra letteratura e delle meglio disegnate e sviluppate del Morgante.
Ci è lì il secolo nelle sue intime tendenze non ancora ben chiare, che volge le spalle alle forme scolastiche e alle contemplazioni ascetiche, e diffida de' ragionamenti astratti, e si gitta avido nella esplorazione della natura e dell'uomo.
Il mondo gli si allarga innanzi, e mentre gli uni ricalcano le vie della storia e rifanno Atene e Roma, gli altri lasciando teologia, filosofia e astrologia e fatture e altre «opinioni sciocche», mostre ingannevoli degli spiriti folletti, percorrono la terra in tutt'i versi e già sono con l'immaginazione al di là dell'oceano.
Il secolo comincia a prender possesso della terra; la storia naturale, la fisica, la nautica, la geografia prendono il posto delle quistioni sugli enti e sull'esistenza degli universali - i fatti e l'esperienza occupano le menti più che i ragionamenti sottili.
Aggiungi l'ironia, quel prender le cose così alla leggiera e sdrucciolandovi appena, quell'aria già scettica e miscredente, ancorachè non ci sia ancora negazione e scetticismo, e avrai l'immagine del secolo, il ritratto di Astarotte.
Ma l'autore sembra quasi non accorgersi della stupenda concezione, e abborraccia dappertutto, anche qui.
Gli manca la coscienza seria e intelligente delle nuove vie, nelle quali entra il secolo; gli manca quell'elevatezza d'animo che rende eloquente l'uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi orizzonti.
L'Ulisse di Dante è sublime; il suo Rinaldo è insignificante.
E l'Astarotte riesce l'eco volgare e confusa di un secolo ancora inconsapevole di sè.
Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il Pontano e tutti gli eruditi e i rimatori di quell'età non sono che frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi.
Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna, cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo; caro a' papi, a Giovan Francesco signore di Mantova, a Lionello d'Este, a Federigo di Montefeltro; celebrato da' contemporanei come «uomo dottissimo e di miracoloso ingegno», «vir ingenii elegantis, acerrimi iudicii, exquisitissimaeque doctrinae», dice il Poliziano.
Destrissimo nelle arti cavalleresche, compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle leggi, datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica.
Deesi a lui la facciata di Santa Maria Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo Rucellai, la chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco primon Rimini.
Sono suoi trovati la camera ottica, il reticolo de' pittori e l'istrumento per misurare la profondità del mare, detto «bolide albertiana».
Nelle sue Piacevolezze matematiche trovi non pochi problemi di molto interesse, e nei suoi libri Dell'architettura, che gli procacciarono il nome di «Vitruvio moderno», hai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute.
I suoi Rudimenti e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste arti.
Fu così pratico del latino, che un suo scherzo comico scritto a venti anni e intitolato Philodoxeos, venne da tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittore latino, e da Alberto d'Eyb a Carlo Marsuppini, professore di rettorica a Firenze e segretario della repubblica.
E non minor pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso, addestratosi anche nel maneggio del dialetto, quando con Cosimo de' Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze.
Ne' suoi Intercenali o «intrattenimenti della cena», ne' suoi Apologhi, nel suo Momo scritto a Roma il 1451, dove rappresenta se stesso, piacevoleggia con urbanità.
Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non ne scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono le sue Egloghe e le sue Elegie, amorosi idilli, come era la voga dal Boccaccio in qua.
Era in voga anche Platone, e platonizzò.
Ma al suo ingegno così pratico, così lontano dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico, che facea andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo seguì come artista ne' suoi dialoghi della Tranquillità dell'animo e della Famiglia, il cui terzo libro fu lungo tempo attribuito al Pandolfini, e del Teogenio o della vita civile e rusticana.
Tali sono pure l'Ecatomfilea, la Deifira, la Cena di famiglia, la Sofrona, la Deiciarchia.
Il dialogo è la sua maniera prediletta, un certo discorrere alla familiare e alla buona, così alieno dalle pedanterie scolastiche, e che trovi anche dove parla uno solo come nelle sue Efebie, nella sua epistola sull'Amore, nella sua Amiria.
Chi misura l'ingegno dalla quantità delle opere e dalla varietà delle cognizioni, dee tenerlo ingegno così miracoloso come fu tenuto a quel tempo.
Certo, egli fu l'uomo più colto del suo tempo e l'immagine più compiuta del secolo nelle sue tendenze.
Battista ha già tutta la fisonomia dell'uomo nuovo, come si andava elaborando in Italia.
La scienza, svestite le sue forme convenzionali, è in lui amabile e familiare.
Lascia le discussioni teologiche e ontologiche.
Materia delle sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte le sue attinenze, cioè l'uomo e la natura così com'è, secondo l'esperienza, il nuovo regno della scienza.
È un artista, perchè non solo studia e comprende, ma contempla, vagheggia, ama l'uomo e la natura.
Anima idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ritirato nella pace e nell'affetto della famiglia, abitante in ispirito più in villa che in città, non curante di ricchezze e di onori, vuoto di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme, di cui è base l'«aurea mediocritas», una moderazione ed eguaglianza d'animo, che ti tenga fuori di ogni turbazione.
Il suo amore della natura campestre non ha nulla di sentimentale e d'indefinito, che t'induca a fantasticare; anzi tutto è disegnato partitamente con la sagacia di un osservatore intelligente e con l'impressione fresca di uomo che se ne senta ricreare l'occhio e riposare l'anima.
E non è la natura in se stessa che lo alletta, com'è ne' «quadretti di genere» del Poliziano, ma è l'uomo nella natura: il paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e tranquillità, dov'è posto l'ideale della felicità.
Il vero protagonista è perciò l'uomo, com'era concepito allora, sottratto alle tempeste della vita pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra' campi, tutto alle sue faccende e a' suoi onesti diletti.
Ma è insieme l'uomo colto e civile e umano, che disputa e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno, porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita.
La quale arte si può ridurre in questa sentenza: che l'uomo dee tener lontane da sè le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose.
Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace che Dante cercava nell'altro mondo, e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente la «voluttà».
Il concetto ascetico che l'uomo non può conseguire vera felicità in terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si occupa della terra.
Battista non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose, non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze traeva quello indirizzo.
Non è il filosofo: è l'artista e il pittore della vita, come gli si porgeva.
I suoi ragionamenti non movono da princìpi filosofici, ma dalle sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli della storia, e soprattutto dalla sua esperienza della vita.
Il suo uomo non è un'astrazione, un'idea formata da concezioni anticipate, ma è preso dal vero nella vita pratica, co' suoi costumi e le sue inclinazioni.
Pinge e descrive più che non ragiona; e non è un descrivere letterario o rettorico, ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli occhi il modello e n'è vivamente impressionato.
Onde riesce pittore di costumi e di scene di famiglia, o campestri o civili, impareggiabile.
E non hai già la vuota esteriorità, come spesso è in Lorenzo; ma dentro è il nuovo ideale dell'uomo savio e felice, che par fuori nella calma decorosa e composta de' lineamenti, a cui fa spesso da contrapposto la faccia disordinata dell'uomo sregolato e turbato.
È l'onesto borghese idealizzato, che succede al tipo ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghese purgato ed emendato, toltagli l'aria beffarda e licenziosa.
Di questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista, di cui suprema virtù era la pazienza delle ingiurie anche più gravi e de' mali più stringenti della vita: «protervorum impetum patientia frangebat», dice di sè: ottimo rimedio a non guastarsi il sangue.
Questa pazienza o uguaglianza dell'animo è la genialità della nuova letteratura, impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del Poliziano e del nostro Battista e che gl'innamora delle forme terse e riposate, il cui interno equilibrio si manifesta nella bellezza e nella grazia.
Questo amore della bella forma, non solo in sè tecnicamente, ma come espressione dell'interna tranquillità, è la musa di Battista.
Scrivendo di sè, dice:
«Praecipuam et singularem voluptatem capiebat spectandis rebus, in quibus aliquod esset specimen formae ac decus.
Senes praeditos dignitate aspectus et integros atque valentes iterum atque iterum demirabatur, delitiasque naturae sese venerari praedicabat...
Quicquid ingenio esset hominum cum quadam effectum elegantia, id «prope divinum» dicebat...
Gemmis floribus, ac locis praesertim amoenis visendis, nonnumquam ab aegritudine in bonam valetudinem rediit.»
Quest'uomo, che alla vista della bella natura si sente tornar sano, che sta lì a contemplare l'aspetto decoroso di una vecchiezza sana e intera, che chiama divina l'opera elegante dell'ingegno, e sente voluttà a contemplare le belle forme, aggiunge a questa squisita idealità un senso così profondo del reale, che gli rende familiari gli arcani della natura e anche della storia, come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove predice con molta sagacia parecchi avvenimenti, le future sorti di principi e di pontefici, e i moti delle città.
Indi è che nelle sue pitture trovi precisione tecnica, verità di colorito e grande espressione: è una realtà finita ed evidente, che mostra nelle sue forme impressioni e sentimenti.
Veggasi nel Governo della famiglia la pittura della vita villica, e la descrizione del convito, e quella maravigliosa scena di famiglia, dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata, dice: «Tristo a me! E ove t'imbrattasti così il viso? Forse t'abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti, chè quest'altri non ti dileggino.
- Ella m'intese e lagrimò.
Io le die' luogo ch'ella si lavasse le lagrime e il liscio».
Dello stesso genere è la pittura de' giocatori nella Cena di famiglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della vita quieta e felice di Genipatro, nel quale intravvedi Battista:
«Truovomi ancora per la età riverito, pregiato, riputato; consigliansi meco; odonmi come padre; ricordanmi; lodanmi in suoi ragionamenti; approvano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave.
Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e questo mi conosco oggidì più felice che mai, poi che in cosa niuna a me stesso dispiaccio...
Godo testè qui ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben trascorsa vita e investigando fra me cose sottili e rare, sono felice.
E parmi abitare fra gl'iddii, quando io investigo e ritruovo il sito e forze in noi de' cieli e suoi pianeti.
Somma certo felicità viversi senza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna, con l'animo libero da tanta contagione del corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine, parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie, seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti beni.»
Parti udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e dell'amicizia, e delle lettere e dell'uomo felice: senti in questo Teogenio quella superiorità dell'intelligenza sulla forza e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie e la rozzezza plebea; quella beatitudine dell'uomo ritirato nello studio, nella famiglia, ne' campi; quell'ardore delle scoperte, quel culto dell'arte, che è la fisonomia del secolo.
Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della Tranquillità dell'animo, ove Battista pinge maravigliosamente se stesso.
Nell'Ecatomfilea ti arrestano ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, com'è la pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell'amore degli uomini «che fioriscono in età ferma e matura»: pittura che ha ispirato le belle ottave dell'Ariosto.
De' vagheggini perditempo dice:
«Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali per disagio di faccende fanno l'amore suo quasi esercizio e arte, e con sue parrucchine, frastagli, ricamuzzi e livree, segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per tutto discorrono.
Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; però che questi non amano, ma così logorano passeggiando il dì, non seguendo voi, ma fuggendo tedio.»
La storia dell'amore e della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico perduto, e per finezza e verità di osservazione è molto innanzi alla Fiammetta del Boccaccio, la cui imitazione è visibile nella Ecatomfilea, e più nella Deifira e nella Epistola di un fervente amante: pianti e querele amatorie, dove il buon Battista, uscendo della sua natura, come il Boccaccio, dà nella rettorica.
Per trovare il grande scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come nell'epistola sopra l'amore, reminiscenza del Corbaccio, e la pittura delle donne e l'altra dell'amante, pari alle più belle del Corbaccio.
E, per finirla, vedi nella Tranquillità dell'animo la descrizione del duomo di Firenze, con tanta idealità nella massima precisione degli accessorii:
«...
questo tempio ha in sè grazia e maestà, e ...
mi diletta ch'io veggo in questo tempio giunta una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità, e dall'altra parte comprendo che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuità...
Qui senti in queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano misteri, una soavità maravigliosa...
Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa quello a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni altra perturbazione d'animo, e commovuomi a certa non so quale io la chiami lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio.
E qual cuore sì bravo si trova che non mansueti se stesso, quando ei sente su bello ascendere e poi discendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo, che mai sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto ...
alle nostre miserie umane, che io non lacrimi.»
Come son vere queste impressioni! E con quanta felicità rese! «Gracilità vezzosa», «lentezza d'animo», sono forme nuove, pregne d'idealità.
Il sentimento religioso, cacciato dalla coscienza, si trasforma in sentimento artistico, e move l'animo come architettura e come musica.
Pittore egregio, Battista non è del pari felice, quando ragiona, o quando narra.
I suoi ragionamenti non sono originali e non profondi, e sembrano uscire più dalla memoria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora de' Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esteriorità, lontana assai dal suo modello, il Boccaccio.
Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealità che il Poliziano poi raggiunse nella poesia.
Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono dal plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma un aspetto signorile ed elegante.
Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre, così Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio.
Patente è su di lui l'influsso che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio.
Ne' suoi trattati e dialoghi trovi prette voci latine, come «bene est», «etiam», «idest», «praesertim»; e parole e costruzioni e giri latini, come «proibire» e «vietare», e participii presenti e infiniti con costruzione latina, e «affirmare», «asseguire», «conditore di leggi», «duttore», «valitudine», e moltissimi altri vocaboli simili.
Anche nel collocamento delle parole e nell'intreccio del periodo latineggia.
Ma non è un barbaro, che ti faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed elegante, che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo.
Mira a un parlare di gentiluomo, se non con latina maestà, certo con gravità elegante ed urbana.
E come è un toscano, anzi un fiorentino, la latinità è temperata dalla vivezza e grazia paesana.
Se guardiamo a' trecentisti, il congegno del periodo, l'arte de' nessi e de' passaggi, una più stretta concatenazione d'idee, una più intelligente distribuzione degli accessorii, una più salda ossatura ti mostra qui una prosa più virile e uno spirito più coltivato, fatto maturo dalla educazione classica.
Pure, se per queste qualità Battista avanza i trecentisti, è inferiore al Boccaccio, e rimane molto al di qua dalla perfezione.
La prosa non è nata ancora: ci è una prosa d'arte, dove lo scrittore è più intento alla forma che alle cose, e mira principalmente all'eleganza, alla grazia e alla sonorità.
Come arte, i ritratti di Battista sono ciò che la prosa ti dà di più compìto in questo secolo.
Ma sono frammenti, e tutti quasi vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir cosa così perfetta come è un quadro del Poliziano.
Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il Decamerone, fra le trentacinque sue opere.
Rimangono di bei frammenti, quadri staccati.
Il secolo finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che lo riassume e lo comprende ne' suoi tratti sostanziali Se hassi a dir «secolo» un'età sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue gradazioni, come un individuo, il primo secolo comprende il Dugento e il Trecento, il cui libro fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi, nel Cinquecento.
Il Petrarca è la transizione dall'uno all'altro.
Il Quattrocento è un secolo di gestazione ed elaborazione.
È il passaggio dall'età eroica all'età borghese, dalla società cavalleresca alla società civile, dalla fede e dall'autorità al libero esame, dall'ascetismo e simbolismo allo studio diretto della natura e dell'uomo, dalla barbarie scolastica alla coltura classica.
Hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo non si rende ben conto.
Hai perciò un immenso repertorio di forme e di concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l'analisi, manca la sintesi.
Il secolo ha tendenze varie e spiccate; ma non ne ha la coscienza.
Nella sua coscienza ci è questo solo chiaro e distinto, che la perfezione è ne' classici, e che a quel modello bisogna conformarsi: onde lo studio dell'eleganza, della bella forma in qualsivoglia contenuto.
Perciò il grande uomo del secolo per confessione de' contemporanei fu Angiolo Poliziano, che nelle Stanze si accostò più a quell'ideale classico.
Ma questo grande movimento, che più tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa, fu in Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica, con l'apoteosi della coltura e dell'arte.
Il suo dio è Orfeo, e il suo ideale è l'idillio, sono le Stanze.
L'eleganza e il decoro delle forme è accompagnato con la licenza de' costumi ed uno spirito beffardo, di cui i frati, i preti e la plebe fanno le spese.
Non era una borghesia che si andava formando: era una borghesia che già aveva avuta la sua storia, e fra tanto fiore di coltura e d'arte si dissolveva sotto le apparenze di una vita prospera e allegra.
A turbare i baccanali sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo Savonarola, e parve l'ombra scura e vindice del medio evo che riapparisse improvviso nel mondo tra frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boccaccio, Pulci, Poliziano, Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il carro di Bacco e Arianna, e ritta sul carro della Morte tende la mano minacciosa e con voce nunzia di sciagure grida agli uomini: - Penitenza! Penitenza! - Tra questo canto de' morti:
Dolor, pianto e penitenza
ci tormentan tutta via:
questa morta compagnia
va gridando: - Penitenza.
-
Fummo già come voi siete:
voi sarete come noi:
morti siam, come vedete;
così morti vedrem voi.
E di là non giova poi
dopo il mal far penitenza.
La borghesia gaudente e scettica chiamò quella gente i «piagnoni», e quella gente pretese dal suo frate qualche miracolo; e poichè il miracolo non fu potuto fare, si volse contro al frate.
Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco era fra una borghesia colta e incredula, e una plebe ignorante e superstiziosa.
Su questi elementi non poteva edificar nulla il frate.
Voleva egli restaurare la fede e i buoni costumi facendo guerra a' libri, a' dipinti e alle feste, come se questo fosse la causa e non l'effetto del male.
Il male era nella coscienza, e nella coscienza non ci si può metter niente per forza.
Ci vogliono secoli, prima che si formi una coscienza collettiva; e formata che sia, non si disfà in un giorno.
Chi mi ha seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata questa coscienza italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso fosse nell'impresa del frate.
Nella storia c'è l'impossibile, come nella natura.
E il frate, che voleva rimbarbarire l'Italia per guarirla, era alle prese con l'impossibile.
Savonarola fu una breve apparizione.
L'Italia ripigliò il suo cammino, piena di confidenza nelle sue forze, orgogliosa della sua civiltà.
Quaranta anni di pace, la lega medicea tra Napoli, Firenze e Milano, l'invenzione della stampa, la digestione già fatta del mondo latino, l'apparizione e lo studio del mondo greco, la vista in lontananza del mondo orientale, l'audacia delle navigazioni e l'ardore delle scoperte, e tanto splendore e gentilezza di corti a Napoli, a Firenze, a Urbino, a Mantova, a Ferrara, tanta prosperità e agiatezza e allegria della vita, tanta diffusione ed eleganza della coltura e amore dell'arte avevano ravvivate le forze produttive, indebolite nella prima metà del secolo, e creato un movimento così efficace di civiltà, che non potè essere impedito o trattenuto dalle più grandi catastrofi.
Spuntava già la nuova generazione intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al Poliziano.
E i giovani si chiamavano Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni, tutta una falange predestinata a compiere l'opera de' padri.
L'un secolo s'intreccia talmente nell'altro, che non si può dire dove finisca l'uno, dove l'altro cominci.
Sono una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.
XII
IL CINQUECENTO
Di questo ideale, di cui adombra i lineamenti Giovanni Boccaccio, non hai finora che segni, indizi, frammenti.
Il suo lato positivo è una sensualità nobilitata dalla coltura e trasformata nel culto della forma come forma, il regno solitario dell'arte nell'anima tranquilla e idillica: di che trovi l'espressione filosofica nell'Accademia platonica, massime nel Ficino e nel Pico, e l'espressione letteraria nell'Alberti e nel Poliziano, a cui con pari tendenza, ma con minore abilità tecnica e artistica, si avvicina il Boiardo.
Il protagonista di questo mondo nuovo è Orfeo, e il suo modello più puro e perfetto sono le Stanze.
Accanto al Poliziano, pittore della natura, sta Battista Alberti, pittore dell'uomo.
Attorno a questi due spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici, rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in quegli anni di pace e di prosperità s'interessava alle sorti di Cefalo e agli amori di Ergasto e di Corimbo.
Le accademie, le feste, le colte brigate erano un'Arcadia letteraria, alla quale in quel vuoto ozio degli spiriti il pubblico prendeva una viva partecipazione.
A Napoli, a Firenze, a Ferrara si vivea tra novelle, romanzi ed egloghe.
Gli uomini, già cospiratori, oratori, partigiani, patrioti, ora vittime, ora carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori.
E mi spiego l'infinito successo che ebbe l'Arcadia del Sannazzaro, la quale parve a' contemporanei l'immagine più pura e compiuta di quell'ideale idillico.
Ma di questo Virgilio napolitano non è rimasta viva che qualche sentenza felicemente espressa, come:
L'invidia, figliuol mio, se stessa macera...
Peggiora il mondo e peggiorando invetera.
Nè della sua Arcadia è oggi la lettura cosa tollerabile, e per la rigidità e artificio della prosa monotona nella sua eleganza, e per un cotal vuoto e rilassatezza di azione e di sentimento, che esprime a maraviglia quell'ozio interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella placidità e tranquillità della vita, dove ponevano l'ideale della felicità.
Il lato negativo di questo ideale era il comico, una sensualità licenziosa e allegra e beffarda, che in nome della terra metteva in caricatura il cielo, e rappresentava col piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni, le malizie, le dabbenaggini, i costumi e il linguaggio delle classi meno colte.
Da questa coltura sensuale, cinica e spiritosa uscì quell'epiteto, i «piagnoni», che fu a Savonarola più mortale della scomunica papale.
I canti carnascialeschi sono il tipo del genere: il suo poeta è il Boccaccio, il suo storico è il Sacchetti, il suo istrione è il Pulci, il suo centro è Firenze.
A questo lato negativo si congiunge il Pomponazzi, che spezza ogni legame tra cielo e terra, negando l'immortalità dell'anima.
Era il vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di una società indifferente e materialista, che si battezzava platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il suo papa, il suo Alessandro sesto, che così bene la rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella medesima non si aveva fatta ancora la domanda: - Cosa sono? E dove vado?
Questa società tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e costretta a svegliarsi.
Era verso la fine del secolo.
Il Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava la sampogna, e la monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto dello straniero.
Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso.
Trovava un popolo che chiamava lui un barbaro, nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma vuota l'anima e fiacca la tempra.
Francesi, spagnuoli, svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l'Italia, insino a che, caduta con fine eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero.
La lotta durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquant'anni di lotta che l'Italia sviluppò tutte le sue forze e attinse quell'ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in eredità.
All'ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e l'Ariosto, come all'ingresso del Trecento trovammo Dante.
Machiavelli aveva già trentun anno, e ventisei ne aveva l'Ariosto.
E sono i due grandi ne' quali quel movimento letterario si concentra e si riassume, attingendo l'ultima perfezione.
Gittando un'occhiata sull'insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia.
Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire senz'altro lingua italiana.
Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e nativi, e si avvicina al latino, producendo così quella forma comune di linguaggio che Dante chiamava aulica e illustre.
I letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino la perfezione e il modello, secondo l'esempio già dato dal Boccaccio e da Battista Alberti, atteggiarono la lingua alla latina.
E non pur la lingua, ma lo stile, mirando alla gravità, al decoro, all'eleganza, con grave scapito della vivacità e della naturalezza.
Questo concetto della lingua e dello stile, creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana, come si vede ne' mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne' sommi, come nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli.
La quale forma latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e al brio del dialetto, così nuda e astratta ha la sua espressione pedantesca negli Asolani del Bembo, e giunge a tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel Galateo del Casa e nel Cortigiano del Castiglione.
Ma in Toscana quella forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza, e senti negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so quale atticità, che nasce dall'uso vivo, e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella maniera, come si vede nelle Novelle del Lasca, ne' Capricci del bottaio e nella Circe del Gelli, nell'Asino d'oro e ne' Discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola.
Ma anche in questi hai qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini d'ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni, nelle Lettere, nel Dafni e Cloe.
La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e letteraria.
Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini, ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile e decorosa.
La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo.
Fioccavano i rimatori.
Da ogni angolo d'Italia spuntavano sonetti e canzoni.
Le ballate, i rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a poco a poco in disuso.
Il petrarchismo invase uomini e donne.
La posterità ha dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.
Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura, e l'ultimo prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrittori de' secoli scorsi.
E perchè tutti scrivevano bene e tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante, moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt'i generi.
Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire, orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi.
Il Trissino scrivea l'Italia liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone.
A' misteri successero commedie e tragedie, con magnifica rappresentazione.
E non solo le forme del dire latine, ma anche la mitologia s'incorporava nella lingua: e si giurò per gl'«iddii immortali», e Apollo, le muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno, Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso.
Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano, come oggi il francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo o per maggiore efficacia.
Ci erano gl'improvvisatori, che nelle corti lì su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie, come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo dava annacquato al suo «archipoeta», un improvvisatore di distici, quando il distico mal riusciva.
E c'erano anche non pochi, che conoscevano ottimamente il latino e lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazzaro, il Fracastoro e il Vida, i cui poemi latini sono ciò che di più elegante siesi scritto in quella lingua ne' tempi moderni.
Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.
Latinisti e rimatori erano le due più grosse schiere de' letterati.
Nelle loro opere l'importante è la frase, un certo artificio di espressione, che riveli nell'autore coltura e conoscenza de' classici.
I lettori non meno colti ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone.
Pareva questa imitazione il capolavoro dell'ingegno.
E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti tenere in così gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili, noiosissimi.
Ma la frase, in tanta insipidezza del fondo, non poteva essere sufficiente alimento all'attività di una borghesia così svegliata ed eccitata, che decorava la sua sensualità e il suo ozio co' piaceri dello spirito.
Salse piccanti si richiedevano, fatti maravigliosi e straordinari, intrecciati in modo che stimolassero la curiosità e tenessero viva l'attenzione.
L'intrigo diviene la base delle novelle, de' romanzi, delle commedie e delle tragedie, un intrigo così avviluppato che è assai vicino al garbuglio.
Si cerca ne' fatti il nuovo e lo strano, che stuzzichi l'immaginazione, il buffonesco e l'osceno nella commedia, il mostruoso e l'orribile nella tragedia.
Dall'una parte ci è la frase, vacua sonorità, dall'altra il fatto, il vacuo fatto uscito dal caso; e come la frase oltrepassa l'eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e civettuola, come nel Firenzuola o nel Caro, così il fatto, per voler troppo stuzzicare, diviene osceno o mostruoso, e sempre assurdo.
Il realismo abbozzato dal Boccaccio, sviluppato nel Quattrocento, corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione del gusto.
Ci è nella società italiana una forza ancora intatta, che in tanta corruzione la mantiene viva, ed è nel pubblico l'amore e la stima della coltura, e negli artisti e letterati il culto della bella forma, il sentimento dell'arte.
In quella forma letteraria e accademica vedevano gl'italiani una traduzione della lingua viva, il parlare quotidiano idealizzato, secondo quel modello dove ponevano la perfezione, ed eran larghi non pur di lodi, ma di quattrini e di onori a questi artefici della forma.
I centri letterari moltiplicarono; comparvero nuove accademie; e le più piccole corti divennero convegni di letterati, i più oscuri principi volevano il segretario che ponesse in bello stile le loro lettere, e letterati e artisti che li divertissero.
Il centro principale fu a Roma, nella corte di Leone decimo, dove convenivano d'ogni parte novellatori, improvvisatori, buffoni, latinisti, artisti e letterati, come già presso Federico secondo.
Anche i cardinali avevano segretari e parassiti di questa risma; anche i ricchi borghesi, come il conte Gambara di Brescia, il Chigi, i Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano.
Intorno a Domenico Veniero in Venezia si aggruppavano Bernardo Tasso, Trifon Gabriele, il Trissino, il Bembo, il Navagero, Speron Speroni; a Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il vecchio Sannazzaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia.
Da questi noti s'indovini la caterva de' minori.
Pensioni, donativi impieghi, abbazie, canonicati, era la manna che piovea sul loro capo.
E c'era anche la gloria: onorati, festeggiati, divinizzati, e senza discernimento confusi i sommi e i mediocri.
Furono chiamati «divini», con Michelangelo e l'Ariosto, Pietro Aretino e il Bembo, e Bernardo Accolti, detto anche l'«unico».
Costui, fatto duca, usciva con un corteggio di prelati e guardie svizzere; dove giungeva, s'illuminavano le città, si chiudevano le botteghe, si traeva ad udire i suoi versi dimenticati: tanti onori non furono fatti al Petrarca.
I letterati acquistarono coscienza della loro importanza: pitocchi e adulatori, divennero insolenti, e si posero in vendita, e la loro storia si può riassumere in quel motto di Benvenuto Cellini: «Io servo a chi mi paga».
Come si facevano statue, quadri, tempi per commissioni, così si facevano storie, epigrammi, satire, sonetti a richiesta, e spesso l'ingiuria era via a vendere a più caro prezzo la lode.
In quest'aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano servili e ciarlatani per far valere la merce.
Non ci è immagine più straziante che vedere l'ingegno appiè della ricchezza, e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente settimo, e l'Ariosto gridare al suo signore che non aveva di che rappezzarsi il manto, e veder Michelangelo, quando,
...
da' rei tempi costretto,
eroi dipinse a cui fu campo il letto:
sdegnose parole di Alfieri.
Soverchiavano i mediocri con l'audacia, la ciarlataneria, l'intrigo e la bassezza, ora addentandosi, ora strofinandosi, temuti e corteggiati.
Vecchia storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così a' tempi di Federico o di Roberto.
Se non che allora la dottrina era merce rara, e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e il sapere era diffuso, e lo scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero meccanismo, facile a imparare, che teneva luogo d'ispirazione, e per la somiglianza esteriore confondeva nella stessa lode sommi e mediocri.
Di grandi uomini è pieno quel secolo, se si dee stare a' giudizi de' contemporanei.
Francesco Arsilli nella sua elegia De poëtis urbanis ti dà la lista di cento poeti latini nella sola corte di Leone decimo, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimenticati.
Bernardo Tasso, il Rucellai, l'Alamanni, il Giovio, lo Scaligero, il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco e altri infiniti furono tenuti cime d'uomini, che oggi nessuno più legge.
Pure ne' più, anche ne' mediocrissimi, era viva la fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti.
Venale era il Giovio, e ossequioso cortigiano era Bernardo Tasso, ma quando prendevano la penna, c'era qualche cosa nel loro animo che li nobilitava, ed era lo studio della perfezione, il prendere sul serio il loro mestiere.
Quest'era la sola forza, la sola virtù rimasta intatta.
La corruzione e la grandezza del secolo non era merito o colpa di principi o letterati, ma stava nella natura stessa del movimento, ond'era uscito, che ora si rivelava con tanta precisione, generato non da lotte intellettuali e novità di credenze, come fu in altri popoli, ma da una profonda indifferenza religiosa, politica, morale, accompagnata con la diffusione della coltura, il progresso delle forze intellettive e lo sviluppo del senso artistico.
Qui è il germe della vita e qui è il germe della morte; qui è la sua grandezza e la sua debolezza.
Questo movimento è già come in miniatura tutto raccolto presso il Boccaccio, il quale, se riproduce con vivacità le apparenze, non ne ha coscienza, e non sa qual mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche caricature.
Del qual mondo nuovo appariscono i frammenti dal Sacchetti al Pulci, che ne fissano il lato negativo e comico, mentre il suo ideale trasparisce già nell'Alberti, nel Boiardo, nel Poliziano.
La violenta reazione del Savonarola non fa che accrescere forza e celerità al movimento e dargli coscienza di sè.
Il secolo decimosesto nella sua prima metà non è che questo medesimo movimento scrutato profondamente, rappresentato nel suo insieme, e condotto per le varie sue forme sino al suo esaurimento.
È la sintesi che succede all'analisi.
Qual è il lato positivo di questo movimento? È l'ideale della forma, amata e studiata come forma, indifferente il contenuto.
E qual è il suo lato negativo? È appunto l'indifferenza del contenuto, una specie di eccletismo negli uni, come Raffaello, Vinci, Michelangelo, il Ficino, il Pico, che abbracciano ogni contenuto, perchè ogni contenuto appartiene alla coltura, all'arte e al pensiero; eccletismo accompagnato negli altri da una satira allegra e senza fiele di quei princìpi e forme e costumi del passato ancora in credito presso le classi inculte.
Ciò che è divino in questo movimento è l'ideale della forma, o per trovare una frase più comprensiva, è la coltura presa in se stessa e deificata.
Il lato comico e negativo non è esso medesimo che una rivelazione della coltura.
Il «limbo» di Dante e l'Amorosa visione del Boccaccio fanno già presentire quest'orgoglio di un'età nuova, che comprendeva e glorificava tutta la coltura.
Orfeo annunzia al suono della lira la nuova civiltà, che ha la sua apoteosi nella Scuola di Atene, ispirazione dantesca di Raffaello, rimasta così popolare, perch'ivi è l'anima del secolo, la sua sintesi e la sua divinità.
Questa Scuola d'Atene, con i tre quadri compagni che comprendono nel loro sviluppo storico teologia, poesia e giurisprudenza, è il poema della coltura, di così larghe proporzioni come il paradiso di Dante, aggiuntovi il limbo.
Il quadro diviene una vera composizione, come lo vagheggiava Dante ne' suoi dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo Davide hanno un riscontro nel Cenacolo, nella Sacra famiglia, nella Trasfigurazione, nel Giudizio, poemi sparsi qua e là di presentimenti drammatici.
Il pittore vagheggia la bellezza nella forma come l'Alberti o il Poliziano, e studia possibilmente a non alterare con troppo vivaci commozioni la serenità e il riposo de' lineamenti: perciò riescono figure epiche anzi che drammatiche.
Quel non so che tranquillo e soddisfatto, che senti nelle stanze del Poliziano, e ti avvicina più al riposo della natura che all'agitazione della faccia umana, quella «pace tranquilla senz'alcuno affanno» è l'impronta di queste belle forme: salvo che quella pace non è già «simile a quella che nel cielo india», un ideale musicale, come Beatrice e Laura, ma vien fuori da uno studio del reale ne' suoi più minuti particolari.
Senti che il pittore ha innanzi un modello accuratamente studiato e contemplato con amore, che nella sua immaginazione si compie, e prende quella purezza e riposo di forma, che Raffaello chiamava «una certa idea».
In questa certa idea ci entra pure alcun poco il classico, il convenzionale e la scuola; difetti appena visibili ne' lavori geniali, usciti da una sincera ispirazione, dove domina il sentimento della bellezza e lo studio del reale.
Così nacquero le Madonne del secolo, nella cui fisonomia non è l'inquietudine, l'astrazione e l'estasi della santa, ma la ingenua e idillica tranquillità della verginità e dell'innocenza.
Queste facce si vanno sempre più realizzando, insino a che nella immaginazione veneziana di Tiziano pigliano una forma quasi voluttuosa.
La stessa larghezza di concezione nella purezza e semplicità de' lineamenti trovi nell'architettura: il gotico è debellato dal Brunelleschi; si collega insieme l'ardito e il semplice, Michelangiolo e Palladio.
Chi ricordi in che guisa l'Alberti rappresenta il duomo di Firenze, può concepire il San Pietro, la vasta mole, che è il medio evo nella sua materia e il mondo nuovo ne' suoi motivi, la vera e profonda sintesi di tutto quel gran movimento, che ti offriva nell'apparenza lo stesso mondo del passato, quelle forme, quei nomi, quei costumi, que' concetti e quella materia, pure sostanzialmente trasformato ne' suoi motivi, uscito dalla coscienza e divenuto un puro ideale artistico, l'ideale della forma.
Questa materia antica penetrata di uno spirito nuovo nella sua vasta comprensione epica, dove trovi fusi tutti gli elementi della nuova civiltà, ti dà anche la letteratura nell'Orlando furioso.
La Scuola di Atene, il San Pietro, l'Orlando furioso sono le tre grandi sintesi del secolo.
L'Orlando furioso ti dà la nuova letteratura sotto il suo duplice aspetto, positivo e negativo.
È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali, un mondo puro dell'arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo dell'immaginazione l'ideale della forma.
L'autore vi si travaglia con la più grande serietà, non ad altro inteso che a dare alla sua materia l'ultima perfezione, così nell'insieme come ne' più piccoli particolari.
Il poeta non ci è più, ma ci è l'artista che continua il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e chiude il ciclo dell'arte nella poesia.
Ma poichè in fine questo mondo così bello, edificato con tanta industria, non è che un giuoco d'immaginazione, vi penetra un'ironia superiore, che se ne burla e vi si spassa sopra col più allegro umore.
La parte plebea, che nel Decamerone occupa il proscenio, qui giace ne' bassi fondi, con la sua oscenità e la sua buffoneria, e sorge a galla il mondo della cortesia e del valore, ne' suoi più bei colori, ma accompagnato da questo sentimento, che è un bel sogno: la realtà si fa valere e disfà il castello incantato.
È la visione severa di un'anima ricca che si effonde in amabili fantasie, elegiaca nelle sue turbazioni, idillica nelle sue gioie, con non altro fine e non altra serietà che la produzione artistica.
Nelle arti figurative, la produzione è accompagnata con un perfetto obblio dell'anima nella sua creatura: Raffaello è tutto intero nella sua opera, e non guarda mai fuori, e realizza la sua idea con quella serietà con la quale Dante costruisce l'altro mondo.
L'ideale della forma, che si esprime con tanta serietà nelle arti, non ha ancora la coscienza che esso è mera forma, mero giuoco d'immaginazione.
Ma qui l'arte si manifesta e si sente pura arte, e sa che il mondo reale non è quello, e accompagna con un sorriso la sua produzione.
In questo sorriso, in questa presenza e coscienza del reale tra le più geniali creazioni è il lato negativo dell'arte, il germe della dissoluzione e della morte.
Intorno a questo mondo ariostesco pullulano poemi e romanzi e novelle.
Lascio stare il Girone e l'Avarchide dell'Alamanni, prette imitazioni, senza alcuna serietà.
Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il Trissino e Bernardo Tasso.
A tutti e due spiacque il sorriso ariostesco.
Orlando e Rinaldo parvero al Trissino, non altrimenti che al cardinale d'Este, delle «corbellerie», fole e capricci di cervello ozioso.
Cercando nella storia le sue ispirazioni e in Omero il suo modello, scrisse l'Italia liberata dà' Goti.
Nella sua intenzione dovea essere un poema eroico e serio come l'Iliade, che chiamasse l'Italia ad alti e virili propositi.
Ma il Trissino non era che un erudito, non poeta e non patriota, e non potea trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua anima, e nemmeno nella sua arida immaginazione.
Di eroico non c'è nel suo poema che le armi e le divise: manca l'uomo.
La sua punizione fu il silenzio e la dimenticanza, e il poveruomo, non volendo recarne la colpa a difetto d'ingegno, se la piglia con l'argomento, e prorompe:
Sia maledetta l'ora e il giorno, quando
presi la penna e non cantai d'Orlando.
Ma l'argomento cavalleresco non valse a salvare dal naufragio Bernardo Tasso, che nel suo Floridante e nel suo Amadigi, più noto, vagheggiò una rappresentazione epica più conforme a' precetti dell'arte e lontana da ciò ch'egli diceva licenza ariostesca.
Non piacque al pubblico, ma piacque a Speron Speroni, come il Girone era piaciuto al Varchi.
E il pubblico avea ragione; chè non s'intendeva di Aristotile e di Omero, e non poteva pigliare sui serio gli eroi cavallereschi, si chiamassero Orlando o Amadigi.
Bernardo è tutto fiori e tutto mèle, così artificiato e prolisso lui, come il Trissino negletto e arido, tutti e due noiosi.
Piacque invece l'Orlando innamorato rifatto dal Berni, dove la soverchia e uniforme serietà del testo è temperata da forme ed episodi comici appiccativi dal Berni.
Ma il comico non passa la buccia e non penetra nell'intimo stesso di quel mondo e non lo trasforma, e il Berni mi fa l'effetto di quel buffone nelle commedie, posto lì per far ridere il pubblico co' suoi lazzi, mentre gli attori accigliati conservano la lor posa tragica.
Scrivere romanzi diviene un mestiere: l'epopea ariostesca è smembrata, e i suoi episodi diventano romanzi.
Sei ne scrive Lodovico Dolce, tra' quali Le prime imprese di Orlando.
Il Brusantini ferrarese canta Angelica innamorata, il Bernia canta Rodomonte, il Pescatore Ruggiero, e Francesco de' Lodovici Carlo Magno.
Romanzi con la stessa facilità composti, applauditi e dimenticati.
Accanto agl'imitatori del Petrarca e del Boccaccio sorgono gl'imitatori dell'Ariosto.
Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega con l'idillio, e nel suo lato negativo con la satira e la novella.
Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l'idillio è la vera musa della poesia italiana, la materia nella quale lo spirito realizza l'ideale della pura forma, l'arte come arte.
In quella grande dissoluzione sociale la poesia lascia le città e trova il suo ideale ne' campi, tra ninfe e pastori, fuori della società, o piuttosto in una società primitiva e spontanea.
Là trovi quell'equilibrio interiore, quella calma e riposo della figura, quella perfetta armonia de' sentimenti e delle impressioni, che chiamavano l'«ideale della bellezza» o della «bella forma».
Questo spiega la grande popolarità delle Stanze, dove questo ideale si vede realizzato con grande perfezione.
Sono imitazioni la Ninfa tiberina del Molza e il Tirsi del Castiglione.
Nella Ninfa tiberina hai di belle stanze: Euridice in fuga con alle spalle l'innamorato Aristeo è così dipinta:
La sottil gonna in preda ai venti resta,
e col crine ondeggiando indietro torna.
Ella più ch'aura o più che strale presta
per l'odorata selva non soggiorna,
tanto che il lito prende snella e mesta,
fatta per la paura assai più adorna.
Esce Aristeo la vaga selva anch'egli,
e la man par avergli entro i capegli.
Tre volte innanzi la man destra spinse
per pigliar de le chiome il largo invito;
tre volte il vento solamente strinse,
e restò lasso senza fin schernito.
Maniera corretta, e nulla più.
Manca in queste stanze il movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la voluttà idillica del Poliziano.
La stessa parca lode è a fare de' due poemi idillici, le Api del Rucellai e la Coltivazione dell'Alamanni.
Ci è la naturalezza, manca il sangue.
L'idillio fu la moda dell'Italia ne' suoi anni di pace e di prosperità.
Era il riposo voluttuoso di una borghesia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita privata, fra ozi e piaceri eleganti.
Ora tra il rumore delle armi, fra tante avventure e agitazioni della vita sottentra il romanzo cavalleresco.
L'idillio cessa di essere un genere vivo, e va a raggiungere il platonismo e il petrarchismo.
Gli angeli e il paradiso, Giove e Apollo, le piagge apriche e i vaghi colli, i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e n'esce un vasto repertorio di luoghi comuni, dove attingono poeti e poetesse: chè di poetesse fu anche fecondo il secolo.
Il Quattrocento ondeggiava tra l'idillio e il carnevale: ozio di villa e ozio di città.
La quiete idillica era il solo ideale superstite, nella morte di tutti gli altri, presso una società sensuale e cinica, la cui vita era un carnevale perpetuo.
Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale di Roma.
I canti carnascialeschi fanno il giro d'Italia.
La buffoneria, l'equivoco osceno, lo scherzo grossolano diventano un elemento importante della letteratura in prosa e in verso, l'impronta dello spirito italiano.
Le accademie sono il semenzaio di lavori simili.
Esse rassomigliano quelle liete brigate di buontemponi e fannulloni, che ispirarono il Decamerone, modello del genere.
Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellettuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i più frivoli argomenti, tanto più ammirati per la vivacità dello spirito e l'eleganza delle forme, quanto la materia è più volgare.
Strani sono i nomi di queste accademie e di questi accademici, come lo Impastato, il Raggirato, il Propaginato, lo Smarrito, ecc.
E recitano le loro dicerie, o come dicevano, «cicalate» sull'insalata, sulla torta ,sulla ipocondria, inezie laboriose.
Simili cicalate fatte in verso erano dette «capitoli»: il Casa canta la gelosia, il Varchi le ova sode, il Molza i fichi, il Mauro la bugia, il Caro il naso lungo; si cantano le cose più volgari e anco più turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene, al modo di Lorenzo, il maestro del genere.
Il carnevale dalla piazza si ritira nelle accademie, e diviene più attillato, ma anche più insipido.
Tra queste accademie era quella dei Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro, il Casa, il Molza, il Berni tra prelati e monsignori.
Il Berni piacque fra tutti, e si disputavano i suoi capitoli, e se li passavano di mano in mano.
Francesco Berni, «maestro e padre del burlesco stile», detto poi «bernesco», è l'eroe di questa generazione, erede di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo, nella sua sensualità ornata dalla coltura e dall'arte.
Nella sua ammirazione per questo «primo e vero trovatore» dello stile burlesco, il Lasca dice:
Non sia chi mi ragioni di Burchiello;
che saria proprio come comparare
Caron dimonio all'agnol Gabriello.
Buontempone, amico del suo comodo e del dolce far niente, la sua divinità è l'ozio più che il piacere:
Cacce, musiche, feste, suoni e balli,
giochi, nessuna sorte di piaceri
troppo il movea...
Onde il suo sommo bene era in iacere
nudo, lungo, disteso; e 'l suo diletto
era il non far mai nulla e starsi in letto.
Ma il poveruomo è costretto a lavorare per guadagnarsi la vita, e fa il segretario, come tutti quasi i letterati di quel tempo, a' servigi di questo e quel cardinale:
aveva sempre in seno e sotto il braccio
dietro e innanzi di lettere un fastello,
e scriveva e stillavasi il cervello.
Dietro a' capricci del suo padrone, una volta non ne può più, chè ha sonno, e dee stare lì a guardarlo giocare la primiera:
Può far la nostra donna ch'ogni sera
io abbia a stare a mio marcio dispetto
infino alle undici ore andarne a letto
a petizion di chi gioca a primiera?
Direbbon poi costoro: - Ei si dispera,
e a' maggiori di sè non ha rispetto.
-
Corpo di...
, io l'ho pur detto:
hassi a vegliar la notte intera intera?
La morte di papa Leone gitta il terrore tra' letterati, che vedono mancare la mangiatoia, e più quando il successore è Adriano sesto spagnuolo, oltramontano, avaro, contadino, e non so quanti altri epiteti gli appicca nella sua indignazione il Berni:
Pur quando io sento dire oltramontano
vi fo sopra una chiosa col verzino,
«idest nemico del sangue italiano».
Era in fondo un brav'uomo, senza fiele, un buon compagnone, col quale si passava piacevolmente un quarto d'ora, anima tranquilla e da canonico, vuota di ambizioni e di cupidigie e di passioni, e anche d'idee.
Sapea di greco, e più di latino, e fece anche lui i suoi bravi versi latini e i suoi sonetti petrarcheschi, come portava il tempo.
Scrivea il più spesso a «sfogamento di cervello, il maggior suo passatempo».
Non cercava l'eleganza, per fuggire fatica, e gli veniva «il sudor della morte», quando si dovea «metter la giornea» e rispondere «per le consonanze o per le rime» a lettere eleganti.
Lo scrivere stesso gli era fatica.
«A vivere avemo sino alla morte, - dice al Bini, - a dispetto di chi non vuole, e il vantaggio è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma, e scrivendo soprattutto il manco che potete; quia haec est victoria quae vincit mundum».
Si qualifica «asciutto di parole, poco cerimonioso e intrigato in servitù»: ottime scuse alla sua pigrizia.
E quando lo assediano e lo tormentano e si dolgono che non risponda, e non li ami e li dimentichi, gli viene la stizza:
Perchè m'ammazzi con le tue querele,
Priuli mio, perchè ti duoli a torto,
che sai che t'amo più che l'orso il miele?
Sai che nel mezzo del petto ti porto
serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
più che non son le radici nell'orto:
se ti lamenti perchè non ti ho scritto...
E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia, e la lettera finisce con un eccetera.
Benedetta pigrizia, che lo fa parlare «come gli viene alla bocca» e gli fa scriver lettere che sono «un zucchero di tre cotte», intarsiate di brevi motti latini per vezzo, le più saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de' segretari, che se ne scrissero tante e così sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza, chè volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la coda.
- Fateci un capitolo sulla primiera!
«Compare, - scrive il poveruomo, - io non ho potuto tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori questo benedetto capitolo e commento della primiera, e siate certo che l'ho fatto, non perchè mi consumassi d'andare in istampa, nè per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per fuggire la fatica mia e la malevolenzia di molti che, domandandomelo e non lo avendo, mi volevano mal di morte.
Avendogliel' a dare, mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere; e l'uno e l'altro non mi piaceva troppo, per non m'affaticare e non m'obbligare.»
Eccolo dunque costretto a fare il capitolo, e poi a stamparlo; eccolo immortale a suo dispetto.
E scrisse sulle anguille, i cardi, la peste, le pesche, la gelatina, e sopra Aristotile, il quale
ti fa con tanta grazia un argomento,
che te lo senti andar per la persona
fino al cervello e rimanervi drento.
Così venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vivono eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso e ameno.
Il successo fu grande.
Dicono, perchè era fiorentino e maneggiava assai bene la lingua.
Ed è un dir poco.
Il vero è che il Berni ha una intuizione immediata e netta delle cose, che rende vive e fresche con facilità e con brio.
Tra lui e la cosa non ci è nessun mezzo, o imitazione, o artificio di stile, o repertorio; egli l'attinge direttamente secondo l'immagine che gli si presenta nel cervello.
E l'immagine è la cosa stessa in caricatura, guardata cioè da un punto che la scopra tutta nel suo aspetto comico.
Il quale aspetto balza improvviso innanzi alla nostra immaginazione, perchè non esce fuori a pezzi e a bocconi da una descrizione, ma ti sta tutto avanti per virtù di somiglianze o di contrasti inaspettati.
Tale è la pittura di maestro Guazzaletto, e la mula di Florimonte, e la bellezza della sua donna, contraffazione della Laura petrarchesca.
In questi ritratti a rapporti non hai niente che stagni o langua; hai una produzione continua, che ti tien desto e ti sforza a ire innanzi insino a che il poeta trionfalmente ti accomiata:
Ora eccovi dipinta
una figura arabica, un'arpia,
un uom fuggito dalla notomia.
Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa in caricatura plebe e frati; e anche il Berni ci si prova nella Catrina e nel Mogliazzo, imitazioni caricate di parlari e costumi plebei, inferiori per grazia e spontaneità alla Nencia.
Ma la materia ordinaria del Berni è la caricatura della borghesia, in mezzo a cui viveva.
Non è più la coltura che ride dell'ignoranza e della rozzezza, è la coltura che ride di se stessa: la borghesia fa la sua propria caricatura.
Il protagonista non è più il cattivello di Calandrino, ma è il borghese vano, poltrone, adulatore, stizzoso, sensuale e letterato, la cui immagine è lo stesso Berni, che mena in trionfo la sua poltroneria e sensualità.
L'attrattivo è appunto nella perfetta buona fede del poeta, che ride de' difetti propri e degli altrui, come di fragilità perdonabili e comuni, delle quali è da uomo di poco spirito pigliarsi collera.
Il guasto nella borghesia era già così profondo e tanto era oscurato il senso morale, che non si sentiva il bisogno dell'ipocrisia, e si mostravano servili e sensuali uomini per altre parti commendevoli; com'erano moltissimi letterati e il nostro Berni, «il dabbene e gentile» Berni, dice il Lasca, che si dipinge a quel modo con piena tranquillità di coscienza, e non pensa punto che gliene possa venire dispregio.
Quando certi vizi diventano comuni a tutta una società, non generano più disgusto e sono magnifica materia comica, e possono stare insieme con tutte le qualità di un perfetto galantuomo.
Il Berni è poltrone e sensuale e cortigiano, e non lo dissimula, ciò che farebbe ridere a sue spese, anzi lo mette in evidenza, cogliendone l'aspetto comico, come fa un uomo di spirito, che non crede per questo ne scapiti la sua riputazione.
Questa credenza o perfetta buona fede lo mette in una situazione netta e schiettamente comica, sì ch'egli contempla e vagheggia il suo difetto senz'alcuna preoccupazione di biasimo e con perfetta libertà di artista.
È sottinteso che in questi ritratti berneschi non è alcuna profondità o serietà di motivi; appena la scorza è incisa: ci è la borghesia spensierata e allegra, che non ha avuto ancora tempo di guardarsi in seno, ed è tutto al di fuori, nella superficie delle cose.
Questa superficialità e spensieratezza è anch'essa comica, è parte inevitabile del ritratto.
Perciò la forma comica sale di rado sino all'ironia, e rimane semplice caricatura, un movimento e calore d'immaginazione, com'è generalmente ne' comici italiani, a cominciare dal Boccaccio.
Dove non è immaginazione artistica, il comico non si sviluppa, ed il difetto rimane prosaico, e perciò disgustoso, come è in tutti gli scrittori di proposito osceni.
Ne' ritratti del Berni entra anche l'osceno, ingrediente di obbligo a quel tempo; ma non è lì che attinge la sua ispirazione, non vi si piace e non vi si avvoltola.
Ciò che l'ispira non è il piacere dell'osceno, o la seduzione del vizio, ma è un piacere tutto d'immaginazione e da artista, che senti nel brio e nella facilità dello stile, e che mettendo in moto il cervello gli fa trovare tanta novità di forme, d'immagini e di ravvicinamenti, come è il ritratto della sua cameriera, e l'altro, un vero capolavoro, della sua famiglia.
Ecco perchè il Berni è tanto superiore a' suoi imitatori ed emuli, freddamente osceni e buffoni.
Pure la buffoneria oscena diviene l'ingrediente de' banchetti, delle accademie e delle conversazioni, e invade la letteratura, quasi condimento e salsa dello spirito: la statua di Pasquino diviene l'emblema della coltura.
Ci erano capitoli e sonetti: sorgono poemi interi berneschi, com'è la Vita di Mecenate del Caporali, di una naturalezza spesso insipida e volgare, e il suo Viaggio al Parnaso, e la Gigantea dell'Arrighi, e la Nanea del Grazzini, o i Nani vincitori de' giganti.
Di tanti poeti berneschi si nomina oggi appena il Caporali.
Nondimeno questa lirica bernesca è la sola viva in questo secolo.
Gli stessi poeti petrarcheggiando annoiano, e si fanno leggere piacevoleggiando; perchè i loro sospiri d'amore escono da un repertorio già vecchio di concetti e di frasi, e non corrispondono allo stato reale della società e della loro anima; dove in quel piacevoleggiare ci è il secolo, ci è loro, e non ci è ancora modelli o forme convenzionali, e qualche cosa dee pur venire dal loro cervello.
I canti carnascialeschi, come i rispetti e le ballate e le serenate, erano legati con la vita pubblica; ora il circolo della vita si restringe: la vita letteraria è nelle accademie e tra' convegni privati.
Per le piazze si aggirano ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee.
Ma la coltura se ne allontana, e la trovi in corte o nell'accademia o nelle conversazioni, centri di allegria spensierata e licenziosa; però da gente colta, che sa di greco e di latino, che ammira le belle forme e cerca ne' suoi divertimenti l'eleganza, o come dicevasi, il «bello stile».
Vi si recitavano capitoli, sonetti, poemi burleschi, poemi di cavalleria e novelle.
Come però l'arte è una merce rara e la produzione era infinita, il pubblico diveniva meno severo, e pur d'esser divertito non mirava tanto pel sottile nel modo.
In sostanza questa borghesia spensierata e oziosa era sotto forme così linde vera plebe, mossa dagli stessi istinti grossolani e superficiali, la curiosità, la buffoneria, la sensualità, e quando quest'istinti erano accarezzati, accettava tutto, anche il mediocre, anche il pessimo: il che era segno manifesto di non lontana decadenza.
Questa letteratura comica o negativa si sviluppa in modo prodigioso.
Accanto a' capitoli e a' romanzi moltiplicano le novelle.
Il cantastorie diviene l'eroe della borghesia.
E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo, il Decamerone.
Il petrarchismo era una poesia di transizione, che in questo secolo è un così strano anacronismo come l'imitazione di Virgilio o di Cicerone.
Ma il Decamerone portava già ne' suoi fianchi tutta questa letteratura, era il germe che produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il Berni, l'Ariosto e tutti gli altri.
Quasi ogni centro d'Italia ha il suo Decamerone.
Masuccio recita le sue novelle a Salerno, il Molza scrive a Roma il suo decamerone, e il Lasca le sue Cene a Firenze, e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti o cento favole, e Antonio Mariconda a Napoli le sue Tre giornate, e Sabadino a Bologna le sue Porretane, e quattordici novelle scrive il milanese Ortensio Lando, e Francesco Straparola scrive in Venezia le sue Tredici piacevoli notti, e Matteo Bandello il suo novelliere, e le sue diciassette novelle il Parabosco.
A Roma si stampano le novelle del Cadamosto da Lodi e di monsignor Brevio da Venezia.
A Mantova si pubblicano le novelle di Ascanio de' Mori, mantovano, e a Venezia escono in luce le Sei giornate di Sebastiano Erizzo, gentiluomo veneziano, e le dugento novelle di Celio Malespini, gentiluomo fiorentino, e i Giunti a Firenze pubblicano i Trattenimenti di Scipione Bargagli.
Aggiungi la Giulietta di Luigi da Porto vicentino, e l'Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.
Tutti questi scrittori, dal quattrocentista Masuccio sino al Bargagli che tocca il Seicento, si professano discepoli e imitatori del Boccaccio.
Chi se ne appropria lo spirito, e chi le invenzioni anche e la maniera.
I toscani, presso i quali il Boccaccio è di casa, scrivono con più libertà, e ci hanno una grazia e gentilezza di dire loro propria, che copre la grossolanità de' sentimenti e de' concetti: tale è il Lasca, e il Firenzuola nelle novelle inserite ne' suoi Discorsi degli animali e nel suo Asino d'oro. Gli altri procedono più timidi, e riescono pesanti, come il Giraldi e il Brevio e il Bargagli, o scorretti e trascurati, come il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto.
Il linguaggio è quell'italiano comune che già si usava dalla classe colta nello scrivere e talora anche nel parlare, tradotto in una forma artificiosa e alla latina che dicevasi letteraria, e solcato di neologismi, barbarismi, latinismi e parole e frasi locali, salvo ne' più colti, come è il Molza, per speditezza e festività vicino a' toscani.
Quel bel mondo della cortesia che nel Decamerone tiene sì gran parte, rifuggitosi ne' poemi cavallereschi, scompare dalla novella.
E neppure ci è quello stacco tra borghesia e plebe, quella coscienza di una coltura superiore, che si manifesta nella caricatura della plebe, quell'allegrezza comica a spese delle superstizioni e de' pregiudizi frateschi e plebei, che tanto ti alletta nelle novelle fiorentine e fino nella Nencia.
Questo mondo interiore scompare anch'esso.
La novella attinge tutta la società ne' suoi vizi, nelle sue tendenze, ne' suoi accidenti, con nessun altro scopo che d'intrattenere le brigate con racconti interessanti.
L'interesse è posto nella novità e straordinarietà degli accidenti, come sono i mutamenti improvvisi di fortuna, o burle ingegnose per far danari o possedere l'amata, o casi maravigliosi di vizi o di virtù.
Re, principi, cavalieri, dottori, mercanti, malandrini, scrocconi, tutte le classi vi sono rappresentate e tutt'i caratteri, comici e seri, e tutte le situazioni, dalla pura storia sino al più assurdo fantastico.
Sono migliaia di novelle, arsenale ricchissimo, dove hanno attinto Shakespeare, Molière e altri stranieri.
La più parte di queste novelle sono aridi temi, magri scheletri in forma affettata insieme e scorretta.
L'interessante è stimolare la curiosità del pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari.
Perciò hai da una parte il comico e dall'altra il fantastico.
Nel comico, salvo i toscani, ne' quali supplisce la grazia del dialetto, i novellieri mostrano pochissimo spirito.
Una delle novelle meglio condotte è la «scimia» del Bandello, la quale si abbiglia co' panni di una vecchia morta, e par dessa, e spaventa quelli di casa.
Il fatto è in sè comico, ma l'esposizione è arida e superficiale, e i sentimenti e le impressioni comiche ci sono appena abbozzate.
C'è una novella di Francesco Straparola assai spiritosa d'invenzione, dove si racconta il modo che tenne un marito per rendere ubbidiente la moglie, e la sciocca imitazione fattane dal fratello, novella che suggerì al Molière la Scuola de' mariti.
Ma di spiritoso non c'è che l'invenzione, forse neppur sua: così triviale e abborracciata è l'esposizione.
Un villano che fa la scuola ad un astrologo è anche un bel concetto del Lando, ma scarso di trovati e situazioni comiche.
Pure il Lando è scrittor vivace e rapido, e nelle descrizioni efficace e pittoresco.
Il villano predice la pioggia; ma l'astrologo vede il cielo sereno.
«Alzato il viso, guatava d'ogni intorno, e diligentemente ogni cosa contemplando, s'avvide essere il cielo tutto bello, il sole temperato, il monte netto da nuvoli, e appresso s'accorse che l'austro nel soffiare era dolcissimo, e cominciò attentamente a considerare in qual segno fosse il sole e in qual grado, che cosa stesse nel mezzo del cielo, e qual segno stessegli in dritta linea opposto.
Nè potendo in verun modo conoscere che pioggia dovesse dal cielo cadere, al villano rivolto, disse con ira e con isdegno: - Dio e la Natura potrebbono far piovere, ma la Natura sola non lo potrebbe fare.»
Sopravvenuta più tardi pioggia dirottissima, descrive le sue rovine e i suoi effetti in questo modo:
«Rovinarono torri, sbarbicaronsi molte querce, caddero bellissimi palagi, tremò tutta la riviera dell'Adige, parve che il cielo cadesse e che tutta la macchina mondana fosse per disciogliersi.»
Tutta la novella è scritta in questa prosa spedita e animata, e si legge volentieri, ma il sentimento comico vi fa difetto, nè vi supplisce una lingua poetica e senza colore locale.
Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non di spirito o di coltura o di arte, ma di lingua, essendo il dialetto toscano, ricco di sali e di frizzi e di motti e di modi comici, un istrumento già formato e recato a perfezione dal Boccaccio al Berni.
Materia ordinaria del Lasca è la semplicità degli uomini «tondi e grossi», fatta giuoco de' tristi e degli scrocconi.
È la novella ne' termini che l'aveva lasciata il Boccaccio.
Il suo Calandrino è Gian Simone o Guasparri, rigirati e beffati da scrocconi che si prevalgono della loro credulità.
Il Boccaccio mette in iscena preti e frati, il Lasca astrologi, guardando meno alle superstizioni religiose che alle credenze popolari nell'«orco, tregenda e versiera», negli spiriti e ne' diavoli.
Oggi abbiamo i magnetisti e gli spiritisti; allora c'erano i maghi o gli astrologi, con la stessa pretensione di conoscere l'avvenire e di guarire gl'infermi, e conoscere i fatti altrui, e farti comparire i morti o le persone lontane: materia inesausta di ridicolo, non altrimenti che i miracoli de' frati.
Se il Boccaccio mette in gioco il mondo soprannaturale della religione, il Lasca si beffa del mondo soprannaturale della scienza.
Il fantastico regna ancora qua e colà in Italia; ma a Firenze era morto sotto l'ironia del Boccaccio, del Sacchetti, di Lorenzo e del Pulci, nè i piagnoni poterono risuscitarlo.
Il nostro Lasca non ha lo spirito e la finezza del Boccaccio, non ha ironia ed è grossolano nelle sue caricature; ma è facile, pieno di brio e di vena, evidente, e trova nel dialetto immagini e forme comiche belle e pronte, senza che si dia la pena di cercarle.
Ecco la magnifica pittura dell'astrologo Zoroastro:
«...
era uomo di trentasei in quarant'anni, di grande e di ben fatta persona, di colore ulivigno, nel viso burbero e di fiera guardatura, con barba nera, arruffata e lunga infino al petto, ghiribizzoso molto e fantastico; aveva dato opera all'alchimia, era ito dietro e andava tuttavia alla baia degl'incanti; aveva sigilli, caratteri, filattiere, pentacoli, campane, bocce e fornelli di varie sorte da stillare erba, terra, metalli, pietre e legni; aveva ancora carta non nata, occhi di lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di pesce colombo, ossa di morti, capestri d'impiccati, pugnali e spade che avevano ammazzato uomini, la chiavicola e il coltello di Salomone, e erba e semi colti a vari tempi della luna e sotto varie costellazioni, e mille altre favole e chiacchiere da far paura agli sciocchi; attendeva all'astrologia, alla fisonomia, alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva molto nelle streghe, ma soprattutto agli spiriti andava dietro, e con tutto ciò non aveva mai potuto vedere ne fare cosa che trapassasse l'ordine della natura, benchè mille scerpelloni e novellacce intorno a ciò raccontasse e di farle credere s'ingegnasse alle persone; e non avendo nè padre, nè madre, e assai benestante sendo, gli conveniva stare il più del tempo solo in casa, non trovando per la paura nè serva, nè famiglio che volesse star seco, e di questo infra sè maravigliosamente godea; e praticando poco, andando a casa con la barba avviluppata senza mai pettinarsi, sudicio sempre e sporco, era tenuto dalla plebe per un gran filosofo e negromante.»
È un periodo interminabile, tirato giù felicemente, dove, come in un quadro, ti sta dinanzi tutta la persona, in una ricchezza di accessorii, espressi con una proprietà di vocaboli, che si può trovar solo in un fiorentino.
«Struggersi d'amore» è un sentimento serio che il Lasca traduce in comico, aggiungendovi le immagini del dialetto: «la farà in modo innamorar di voi ch'ella non vegga altro dio, e si consumi e strugga de' fatti vostri, come il sale nell'acqua, e ...
vi verrà dietro, più che i pecorini al pane insalato».
Parlando del banchetto che tenne l'astrologo con i suoi compagni di giunteria, lo Scheggia, il Pilucca e il Monaco, alle spese del candido Gian Simone, dice: «E fecero uno scotto da prelati, con quel vino che smagliava».
Se il Lasca dee molto al dialetto, ha pure un pregio proprio che lo mette accanto al Berni, una intuizione chiara e viva delle cose, che te le dà scolpite in rilievo.
Tale è il viaggio per aria del Monaco, come Zoroastro dà a credere al dabben Simone:
«[Zoroastro] si stese in terra boccone, e disse non so che parole, e rittosi in piede e fatto due tomboli, s'arreco da un canto del cerchio inginocchioni, e guardando fisso nel vaso,...
disse: - Il Monaco nostro ha già riavuto il resto, e vassene con l'insalata verso Pellicceria per andarsene a casa; ma in questo istante io l'ho fatto invisibilmente alzare ai diavoli da terra: oh eccolo che egli e già sopra il Vescovado: oh che gli vien bene, egli è già sopra la piazza di Madonna: oh ora egli è sopra la vecchia di Santa Maria Novella: testè entra in Gualfonda: oh eccolo a mezza la strada! Oh egli è già presso a meno di cinquanta braccia: oh eccolo, eccolo già rasente alla finestra! Or ora sarà nel cerchio in pianelle, in mantello, in cappuccio, e con l'insalata e con le radici in mano.» Il nostro speziale, chè colui che chiamavano «il Lasca» nell'accademia degli Umidi era appunto lo speziale Anton Maria Grazzini, dipinge con tanto rilievo gli oggetti, perchè li vede chiarissimi nell'immaginazione, e non si ha a travagliare intorno alla forma, e non v'usa alcuno artificio, scrive parlando.
Nè è meno evidente e parlante nel dialogo.
Simone, passata la paura e uscitogli tutto l'amore di corpo, non vuol più dare all'astrologo i venticinque fiorini promessigli.
E dice allo Scheggia:
«- Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito ...
tutto l'amor di corpo, e della vedova non mi curo più niente...
Oh che vecchia paura ebb'io per un tratto! e' mi si arricciano i capelli quando vi ci penso, sicchè pertanto licenzia e ringrazia Zoroastro.
- Lo Scheggia, udite le di colui parole, diventò piccino piccino..., e parendogli rimanere scornato, disse: - Oimè, Gian Simone, che è quello che voi mi dite? Guardate che il negromante non si crucci.
Che diavol di pensiero e il vostro? Voi andate cercando Maria per Ravenna: io dubito fortemente, come Zoroastro intenda questo di voi, ch'egli non si adiri tenendosi uccellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco.
Bella cosa e da uomini dabbene mancar di parola! ...Tanto è Gian Simone, egli non è da correrla così a furia: se egli vi fa diventare qualche animalaccio, voi avrete fatto poi una bella faccenda.
- Colui era già per la paura diventato nel viso un panno lavato, e rispondendo allo Scheggia, disse: - Per lo sangue di tutt'i diavoli che fo giuro d'assassino, che domattina, la prima cosa, io me ne voglio andare agli Otto, e contare il caso, e poi farmi bello e sodare, non so chi mi tiene che non vada ora.
- Tosto che lo Scheggia senti ricordare gli Otto, diventò nel viso di sei colori, e fra sè disse: - Qui non è tempo da battere in camicia, facciamo che il diavolo non andasse a processione -; e a colui rivolto, dolcemente prese a favellare e disse: - Voi ora, Gian Simone, entrate bene nell'infinito, e non vorrei per mille fiorini d'oro in beneficio vostro, che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto.
Ora non sapete che l'ufficio degli Otto ha potere sopra gli uomini, e non sopra i demòni? Egli ha mille modi di farvi, quando voglia gliene venisse, capitar male, che non si saperrebbe mai.»
Cosa manca al Lasca? La mano che trema.
Scioperato, spensierato, balzano, vispo e svelto, ci è in lui la stoffa di un grande scrittor comico; ma gli manca il culto e la serietà dell'arte, e abborraccia e tira giù come viene, e lascia a mezzo le cose, e si arresta alla superficie, naturale e vivace sempre, spesso insipido, grossolano e trascurato, massime nell'ordito e nel disegno.
Questo basso comico, plebeo e buffonesco, ne' confini della semplice caricatura, perciò superficiale ed esteriore, ritratto di una borghesia colta, piena di spirito e d'immaginazione, e insieme spensierata e tranquilla, ha la sua sorgente colà stesso onde uscì il Morgante, e poi i capitoli e i sonetti del Berni: è il bernesco nell'arte, buffoneria ingentilita dalla grazia e alzata a caricatura, maniera sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca, infiltratasi nel dialetto e rimasta forma toscana.
Nelle altre parti d'Italia la buffoneria è senza grazia, spesso caricata troppo, e lontana da quel brio tutto spontaneità e naturalezza, che senti nel Berni e nel Lasca.
Tra' più sgraziati è il Parabosco.
Col comico va congiunto il fantastico.
Il novelliere, in luogo di guardare nella vita reale e studiarvi i caratteri, i costumi, i sentimenti, cerca combinazioni tali di accidenti che solletichino la curiosità.
Per questa via dal nuovo si va allo strano, e dallo strano al fantastico, al soprannaturale e all'assurdo.
Così una borghesia scettica, che ride de' miracoli, che si beffa del soprannaturale religioso e non vuol sentire a parlare di misteri e di leggende, come forme barbare, sente poi a bocca aperta racconti di fate, di maghi, di animali parlanti, che tengano desta la sua curiosità.
Il Mariconda narra con serietà rettorica i casi di Aracne, di Piramo e Tisbe e altre favole mitologiche.
E con la stessa serietà Francesco Straparola raccoglie nelle sue Notti le più sbardellate invenzioni di quel tempo, saccheggiando tutt'i novellatori, Apuleio, Brevio, soprattutto il napolitano Girolamo Morlino, autore di ottanta novelle in latino.
Ivi trovi il fantastico spinto all'ultimo limite dell'assurdo.
Vedi un anello trasformato in un bel giovane, pesci e cavalli e falconi e bisce e gatte fatate che fanno maraviglie, e satiri e uomini salvatici o in forma porcile, e morti risuscitati, e asini e leoni in conversazione, e fate e negromanti e astrologi.
Queste ch'egli chiama «favole», si accompagnano con altri racconti osceni o faceti, o com'egli dice, «ridicolosi», e sono le solite burle fatte alla gente semplice e grossa, o com'egli dice, «materiale».
Il pretesto è uno scopo di volgare morale o prudenza, un «fabula docet», ma in fondo l'autore mira a render piacevoli le sue Notti, eccitando il riso o movendo la curiosità.
Non mostra alcuna intenzione letteraria, salvo nelle descrizioni, una goffa imitazione del Boccaccio chiama egli medesimo «basso» e «dimesso» il suo stile, e dice che le invenzioni non son sue, ma suo è il modo di raccontarle.
Non hai qui dunque contorcimenti, lenocini, artifici, eleganze: è un narrare alla buona e a corsa, in quella lingua comune italiana, di forma più latina che toscana, mescolata di parole venete, bergamasche e anche francesi, come «follare» (fouler) per calpestare.
Non si ferma sul descrivere o particolareggiare, non bada a' colori salta le gradazioni, va diritto e spedito, cercando l'effetto nelle cose, più che nel modo di dirle.
E le cose, non importa se di lui o di altri, contengono spesso concetti molto originali, come Nerino, lo studente portoghese, che fa le sue confidenze amorose al suo maestro Brunello, ch'egli non sa essere il marito della sua bella onde Molière trasse il pensiero della sua Ecole des femmes; o l'asino che co' suoi vanti la fa al leone; o i bergamaschi che con la loro astuzia la fanno a' dottori fiorentini; o la vendetta dello studente burlato dalle donne; o Flaminio che va in cerca della morte; o le nozze del diavolo.
Il successo fu grande: si fecero in poco tempo del libro più di venti edizioni; e di molte f
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