STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, di Francesco De Sanctis - pagina 25
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E se la Commedia fosse assolutamente in questi termini, sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi, grottesca figura d'idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e reale, la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri, nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta già tutta una letteratura.
Era la letteratura degli uomini semplici, poveri di spirito.
A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici, figurativi della scienza ma reali; Dio, la Vergine, Cristo, gli angioli, i santi, l'inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che essi chiamavano l'altra vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità.
Il contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l'apostolo, banditore della parola di Dio; Dante, l'amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo il filosofo, ma il profeta e l'apostolo, rivelandolo e predicandolo agli uomini; diviene il missionario dell'altro mondo, ed è san Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:
Apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo.
Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per lui una cosa così seria, come per tutt'i credenti, seria nel suo spirito e nella sua lettera.
Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza, ma la scienza non lo dissolveva, anzi lo illustrava e lo confermava.
Supporre che esso fosse una figura, una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a Goethe.
La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura.
E come la natura, così l'altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà, che ha in se stessa il suo valore e il suo significato.
Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa, com'è nei cantici, nelle prediche e ne' misteri e leggende.
Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva e si concreta nella vita reale.
Essendo la perfezione religiosa nel dispregio de' beni terreni, i credenti, da Francesco d'Assisi a Caterina, non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de' chierici e de' frati, la corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni giorno, il papa divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni, in tresca adultera co' re.
Su questo punto i santi sono così severi, come Dante; più avean fede, e maggiore era l'indignazione.
Venendo più al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo il Bello contro l'imperatore, ciò che Dante chiama un adulterio, inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi i guelfi.
Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del re di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili.
Come potere e interesse temporale, era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione stabile delle nazioni, e massime d'Italia, in quella unità civile o imperiale, che rendea immagine dell'unità del regno di Dio.
A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de' tempi evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città, prima che vi entrasse la corruzione e la licenza de' costumi, di cui la Chiesa dava il mal esempio.
Come si vede, il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano, e ne facea parte sostanziale.
La politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi: era un'appendice dell'etica e della rettorica.
E come vita reale il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava un'immagine pura in tempi più antichi, una specie di età dell, oro della vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione astratta e filosofica.
Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte.
Offeso da Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra speranze e timori, fra gli affetti più contrari, odio e amore, vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione, con l'occhio sempre volto alla patria che non dovea più vedere, in quella catastrofe italiana c'era la sua catastrofe, le sue opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell'età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino.
Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue.
Non è Omero, contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la sua personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto quel mondo, di cui era insieme l'apostolo e la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne' concetti dell'età, volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica, come entra in quel mondo, non vi trova più la figura.
Simile a quel pittore che s'inginocchia innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi nell'immaginazione la figura nella persona del santo, egli cerca la figura e trova una realtà piena di vita, trova se stesso.
Oltre a ciò, Dante era poeta.
Invano afferma che «poeta» vuol dire «profeta», banditore del vero.
Sublime ignorante, non sapea dov'era la sua grandezza.
Era poeta e si ribella all'allegoria.
La favola, ciò ch'egli chiama «bella menzogna», lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir dietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a mezza via.
Nel caldo dell'ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi e formar figure mozze, che vi rispondano appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce a' mediocri.
La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene se stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari.
Indi la disperazione de' comentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Per metter d'accordo la sua poetica con la sua poesia, Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee essere indipendente dall'allegorico, di modo che sia intelligibile per se stesso.
Con questa scappatoia si è salvato dalle strette dell'allegoria, ed ha conquistato la sua libertà d'ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue creature.
Sia pure l'altro mondo figura della scienza; ma è prima e innanzi tutto l'altro mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se di alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.
Sicchè nella Commedia, come in tutt'i lavori d'arte, si ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto.
L'uomo non fa quello che vuole, ma quello che può.
Il poeta si mette all'opera con la poetica, le forme, le idee e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista, più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza.
Vedete Brunetto e Frezzi.
Ivi tutto è chiaro, logico e concorde: la realtà è una mera figura.
Ma se il poeta è artista, scoppia la contraddizione vien fuori non il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell'arte.
Come l'argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro.
Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d'un autore.
È difficile far la geologia di un lavoro d'arte, trovare nel definitivo le tracce del provvisorio.
È probabile che la Commedia sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad imitazione di quelle «commedie dell'anima», di quelle visioni dell'altra vita, così in voga; e che dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse de' frammenti e anche de' canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente.
Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente drammatico, il tempo de' tentennamenti, del silenzioso contendere con se stesso, degli abbozzi, del va e vieni, storia intima del poeta.
Il quale, quando gli si mostra l'argomento, vede per prima cosa dissolversi quella parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti.
Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla.
Ma sono frammenti già penetrati di virtù attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati.
La creazione comincia veramente, quando quel mondo tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi.
Allora esce dall'illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza.
Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.
La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento, è insito nell'altro mondo, è il suo concetto; perchè senza di quella l'altro mondo non ha ragion d'essere.
La base dunque è vera, è nell'argomento; e se difetto c'è, il difetto è nella natura dell'argomento.
Ma Dante meditandovi sopra, e non come poeta ma come filosofo, valicò l'argomento.
Non è contento che la ci sia, ma la mostra e la spiega.
E non si contenta neppure di questo.
Quella idea diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non è più la base, il senso interiore dell'altro mondo a quel modo che lo spirito è nella natura, ma è essa il contenuto, essa l'argomento, essa lo scopo.
Così quella vivace realtà si va ad evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell'altro mondo.
Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne.
Descrivere l'altro mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo passatempo, la maniera de' narratori volgari.
La lettera ci è, ma è per i profani, per gli uomini semplici, che non vedono di là dell'apparenza.
Ma egli scrive per gl'iniziati, per gl'intelletti sani, e loro raccomanda di non fermarsi alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son messi a guardare di là.
Così sono nati due mondi danteschi, uno letterale e apparente, l'altro occulto, la figura e il figurato.
E poichè l'interesse è in questo senso occulto, in questo di là, i dotti si son messi a cercarlo.
L'hanno cercato, e non l'hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture, esce infine il buon senso, esce Voltaire e dice: «Gl'italiani lo chiamano divino ma è una divinità occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre, perchè nessuno lo legge».
E Voltaire vuol dire: - Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti; e poichè non ti vuoi far capire, statti con Dio -.
E vuol dire ancora: - Ne val poi la pena? È una falsa divinità quella che rimane nascosta -.
Pure nè il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo disprezzo ad intiepidire l'ammirazione.
Con nuovo ardore italiani e stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi, l'uno visibile e l'altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il dio.
Ma nè acutezza d'ingegno, nè copia di dottrina, nè profonda conoscenza di quei tempi, nè studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture.
Gli antichi interpreti dissentivano ne' particolari; il dissenso de' moderni è più profondo: hai interi sistemi che si confutano a vicenda.
Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania, che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere una critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un pelago di quistioni.
Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti: - Qual è il vero Dante? - Poichè ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà, di umanità, di nazionalità, chi un precursore di Lutero, chi un santo Padre.
Cercano Dante dove non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando, si sia affrettato a conchiudere: «Dunque Dante non esiste»? Io ne conchiudo: - Poichè non è là, cerchiamolo altrove.
- La grandezza del dio non è nel santuario, ma là dove si mostra con tanta pompa al di fuori.
A forza di cercar maraviglie in un mondo ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano innanzi.
Parlando a coro della dignità della Commedia e de' veri e del senso arcano, si è data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico, se non fosse per altro, per la fatica che ci si è spesa.
Se Dante tornasse in vita, sentendo a dire che Beatrice è l'eresia o la sua anima, che le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che il suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono affibbiati, potrebbe a più d'uno tirargli le orecchie e dire: - Cotesto «arri» non ci misi io -.
Ma gli si potrebbe rispondere: - Vostra colpa: perchè non siete stato più chiaro? Ci avete promessa un'allegoria: perchè non ci avete data un'allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perchè l'avete fatta sì bella? Perchè le avete data tanta realtà? In tanta ricchezza di particolari dove o come trovare l'allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per me e una per voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all'allegorico, ci è il senso morale e l'anagogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora la carne.
E anche voi gridate che i versi sono un velo della dottrina; e, come il peccatore, piantate lì il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di là dal quale non si vede nulla, e perciò si vede tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo noi.
Se dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco, messa tra voi e noi, che ci toglie la vostra vista, se il vostro poema è divenuto un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che sono un elogio.
Così è.
Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva.
Ciascuno è quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere un altro.
Dante è poeta, e avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l'aria e la luce.
Tratto ad una falsa concezione dal vezzo de' tempi, valica l'argomento e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne vuol fare la figura de' suoi concetti.
Ma, come attinge il reale, ivi sente se stesso, ivi genera, ivi l'ingegno trova la sua materia; quelle figure prendono corpo, acquistano una vita propria; e le diresti creature libere e indipendenti, se quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando a volta a volta i loro movimenti.
Così quel mondo intenzionale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo reale, solo rimasto vivo.
Tutto l'altro è l'astratto di quel mondo, è il lavoro oltrepassato: non è la Commedia, è il suo di là, la sua nebbia, che pur penetra qua e là e lascia delle grandi ombre, che gl'interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra.
A quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette, che attestano la lenta e progressiva formazione della materia, qui si discernono i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale, allegorico, scissi, isolati, sterili, più o meno tollerabili, secondo la maggiore o minore abilità dell'esposizione, inviluppati in una forma più alta, alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua poetica.
I quali frammenti sono i fossili della Commedia, morti già da gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il rimanente, gli è che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita così fresca e tenace, che distende un po' di sua luce anche sulle parti morte.
Quel contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato: spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe più.
Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei.
E guardate che gran cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell'arte.
La religione era misticismo la filosofia scolasticismo.
L'una scomunicava l'arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale.
L'altra viveva di astrazioni e di formole e di citazioni, drizzando l'intelletto a sottilizzare intorno a' nomi e alle vacue generalità che si chiamavano «essenze».
Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il contrario dell'arte.
Ne' poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne' misteri, nelle visioni, nelle leggende.
Ne' poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o figurativa e allegorica.
L'arte non era nata ancora.
C'era la figura; non c'era la realtà nella sua libertà e personalità.
Dante raccoglie da' misteri la Commedia dell'anima, e fa di questa storia il centro di una sua visione dell'altro mondo.
Tutta questa rappresentazione non è che senso letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito, lo porta verso la figura e non verso il figurato.
La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi e lo costringe a concretare, a materializzare, a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio.
Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più lettera, ma è spirito, non è più figura, ma è realtà, è un mondo in sè compiuto e intelligibile, perfettamente realizzato.
Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme, in questo gran mistero dell'anima o dell'umanità, poema universale, dove si riflettono tutt'i popoli e tutti i secoli che si chiamano il «medio evo».
Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l'intenzione del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia.
La falsa coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale spontaneità, e vi gitta dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e crudezza di colori.
Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d'immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte.
Le sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che persone conscie e libere.
Preoccupato del secondo senso che ha in mente, spesso gli escono particolari estranei alla figura, che turbano e distraggono il lettore e gli rompono l'illusione.
La presenza perenne di un altro senso, che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando, ne turba la chiarezza e l'armonia.
Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità e riesce intralciato e torbido.
Non è un tempio greco: è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non bene armonizzati.
Or rozzo, or delicato.
Ora poeta solenne, or popolare.
Ora perde di vista il vero e si abbandona a sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con semplicità.
Ora rozzo cronista, ora pittore finito.
Ora si perde nelle astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita.
Qui cade in puerilità, là spicca il volo a sopraumane altezze.
Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce dell'immagine.
E mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento.
Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne.
Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora la sua audacia ti fa stupire.
Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva tutta l'esistenza, com'era allora.
I contrari elementi, che fermentavano in una società ancora nello stato di formazione, contendevano in lui.
E senza che ne avesse coscienza.
Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è armonia.
Filosofo, pensa il regno della scienza e della virtù.
Cristiano, contempla il regno di Dio.
Patriota, sospira al regno della giustizia e della pace.
Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armonia, lo bello stile: il suo autore è Virgilio.
Maggiore era la barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo armonico e concorde.
Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza realtà e in quelle forme discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la serenità dell'artista.
E gli esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una materia non perfettamente doma.
Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo.
Perchè un argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a genio, ma è marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto e le leggi del suo sviluppo.
La più grande qualità del genio è d'intendere il suo argomento, e diventare esso, risecando da sè tutto ciò che non è quello.
Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte; e giudicare con lo stesso criterio la Commedia e l'Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica, cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile.
Che cosa è l'altro mondo?
È il problema dell'umana destinazione sciolto, è il mistero dell'anima spiegato, è la fine della storia umana, il mondo perfetto l'eterno presente, l'immutabile necessità.
Nella natura non ci è più accidente, nell'uomo non ci è più libertà.
La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta, secondo l'idea morale.
Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza è tutt'uno.
L'uomo non ha più libero arbitrio: è lì, fissato e immobilizzato, come natura.
Ogni azione è cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi.
Non c'è più successione, nè sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma.
L'individuo scompare nel genere.
Il carattere, la personalità, non ha modo di manifestarsi.
Eterno dolore, eterna gioia, senza eco, senza varietà, senza contrasto nè gradazione.
Non ci è epopea, perchè manca l'azione; non ci è dramma, perchè manca la libertà; la lirica è l'immutabile e monotona espressione di una sola aria; rimane l'esistenza nella sua immobile estrinsechezza, descrizione della natura e dell'uomo.
Che cosa è dunque l'altro mondo per rispetto all'arte? È visione, contemplazione, descrizione, una storia naturale.
Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perchè ivi dentro è rappresentata la commedia o redenzione dell'anima nel suo pellegrinaggio dall'umano al divino, «di Fiorenza in popol giusto e sano».
Ci hai dunque l'apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro mondo, i cui attori sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san Bernardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica è la Commedia dell'anima.
Dico apparenza di un dramma, perchè la santificazione nasce non dall'operare, ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e gli altri mostrano, insegnano.
Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.
Questo mondo così concepito era il mondo de' misteri e delle leggende, divenuto mondo teologico-scolastico in mano a' dotti.
Dante lo ha realizzato, gli ha dato l'esistenza dell'arte, ha creato quella natura e quell'uomo.
E se il suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto non è in lui, ma in quel mondo, dove l'uomo è natura e la natura è scienza, e da cui è sbandito l'accidente e la libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell'arte.
Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell'allegoria.
Ma Dante, entrando nel regno de' morti, vi porta seco tutte le passioni de' vivi, si trae appresso tutta la terra.
Dimentica di essere un simbolo o una figura allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di quel tempo, nella quale è compendiata tutta l'esistenza, com'era allora, con le sue astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose, con la sua civiltà e la sua barbarie.
Alla vista e alle parole di un uomo vivo, le anime rinascono per un istante, risentono l'antica vita, ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il tempo; in seno dell'avvenire vive e si muove l'Italia, anzi l'Europa di quel secolo.
Così la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternità, umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno, con la propria impronta dell'uomo e del tempo.
Riapparisce la natura terrestre, come opposizione, o paragone, o rimembranza.
Riapparisce l'accidente e il tempo, la storia e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita, ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo, Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i Donati, la nuova e l'antica Firenze, la storia d'Italia e la sua storia, le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.
Così la vita s'integra, l'altro mondo esce dalla sua astrazione dottrinale e mistica, cielo e terra si mescolano, sintesi vivente di questa immensa comprensione Dante, spettatore, attore e giudice.
La vita guardata dall'altro mondo acquista nuove attitudini, sensazioni e impressioni.
L'altro mondo guardato dalla terra veste le sue passioni e i suoi interessi.
E n'è uscita una concezione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo.
Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza d'azione, che si succedono, si avvicendano, s'incrociano, si compenetrano, si spiegano e s'illuminano a vicenda, in perpetuo ritorno l'uno nell'altro.
La loro unità non è in un protagonista, nè in un'azione, nè in un fine astratto ed estraneo alla materia, ma è nella stessa materia; unità interiore e impersonale, vivente indivisibile unità organica, i cui momenti si succedono nello spirito del poeta, non come meccanico aggregato di parti separabili, ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, com'è la vita.
Questa energica e armoniosa unità è nella natura stessa de' due mondi, materialmente distinti ma una cosa nell'unità della coscienza.
Cielo e terra sono termini correlativi, l'uno non è senza l'altro; il puro reale ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il suo ideale; ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti gli dei d'Olimpo: lo scettico può abolire l'inferno, non può abolir la coscienza.
Appunto perchè i due mondi sono la vita stessa nelle sue due facce, in seno a questa unità si sviluppa il più vivace dualismo, anzi antagonismo: l'altro mondo rende i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe, ma in quelle ombre freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano d'imprecazioni terrene fino le tranquille vòlte del cielo.
Gli uomini, con esso le loro passioni e vizi e virtù rimangono eterni, come statue, in quell'attitudine, in quella espressione di odio, di sdegno, di amore, che sono stati colti dall'artista; ma mentre l'altro mondo eterna la terra, trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto l'immagine dell'infinito, ne scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi in un diverso teatro, che è la loro ironia.
Questa unità e dualità uscente dall'imo stesso della situazione balena al di fuori nelle più varie forme, ora in un'apostrofe, ora in un discorso, ora in un gesto, ora in un'azione, ora nella natura, ora nell'uomo.
In questa unità penetra la più grande varietà, nè è facile trovare un lavoro artistico, in cui il limite sia così preciso e così largo.
Niente è nell'argomento che costringa il poeta a preferire il tal personaggio, il tal tempo, la tale azione: tutta la storia, tutti gli aspetti sotto a' quali si è mostrata l'umanità, sono a sua scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni, e può intramettere nello scopo generale fini particolari, senza che ne scapiti l'unità.
Il che dà al suo universo compiuta realità poetica, veggendosi nella permanente unità tutto ciò che sorge e dalla libertà dell'umana persona e dall'accidente, e moversi con vario gioco tutt'i contrasti, e il necessario congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.
Adunque, che poesia è codesta? Ci è materia epica, e non è epopea; ci è una situazione lirica, e non è lirica; ci è un ordito drammatico, e non è dramma.
È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere enciclopedie, bibbie nazionali, non questo o quel genere, ma il tutto, che contiene nel suo grembo ancora involute tutta la materia e tutte le forme poetiche, il germe di ogni sviluppo ulteriore.
Perciò nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato: l'uno entra nell'altro, l'uno si compie nell'altro.
Come i due mondi sono in modo immedesimati, che non puoi dire: - Qui è l'uno, e qui è l'altro -; così i diversi generi sono fusi di maniera, che nessuno può segnare i confini che li dividono, nè dire: - Questo è assolutamente epico, e questo è drammatico.
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È il contenuto universale, di cui tutte le poesie non sono che frammenti, il «poema sacro», l'eterna geometria e l'eterna logica della creazione incarnata ne' tre mondi cristiani: la città di Dio, dove si riflette la città dell'uomo in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal tempo; la sfera immobile del mondo teologico, entro di cui si movono tempestosamente tutte le passioni umane.
L'idea che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo, è il concetto di salvazione, la via che conduce l'anima dal male al bene, dall'errore al vero, dall'anarchia alla legge, dal molteplice all'uno.
È il concetto cristiano e moderno dell'unità di Dio sostituita alla pluralità pagana.
Questo concetto, se fosse solo un di fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pensiero, o rappresentato in forma allegorica come figurato, non basterebbe a generare un'opera d'arte.
Ma qui è non solo il di fuori, ma il di dentro, non solo il significato e la scienza di quel mondo opera di filosofo e di critico, ma principio attivo, com'è nell'uomo e nella natura, che costruisce e forma quel mondo, e gli dà una storia e uno sviluppo.
Questo principio attivo, se nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o la virtù o la legge, come realtà viva e operosa è lo spirito, che ha per suo contrario la materia o la carne, dove sta come in una prigione o in un «vasello», da cui si sforza di uscire.
La vita è perciò un antagonismo, una battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio.
E la sua storia è la progressiva vittoria dello spirito, la costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive, il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio, assoluto spirito, la Verità, la Bontà, l'Unità, l'ultimo Ideale.
Il concetto dantesco, lo spirito che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l'emancipazione della materia e del senso mediante l'espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l'inferno e il paradiso, posta e sciolta.
Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell'altro mondo e li spiritualizza.
La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l'infinito spirito; tutto l'altro è «vanità che par persona».
Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente.
L'Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell'altro mondo e s'immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena eterna.
Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell'intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione.
Nel Paradiso l'umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione s'idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell'assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:
...
...
tutta cessa
mia visione e ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di Sibilla.
Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la storia; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco, ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita, sotto tutte le forme, in tutte le quistioni che si affacciano al poeta, in religione, in filosofia, in politica, in morale, e così si concreta e compie in tutti gl'indirizzi della vita.
In religione è il cammino dalla lettera allo spirito, dal simbolo all'idea, dal vecchio al nuovo Testamento; nella scienza dall'ignoranza e dall'errore alla ragione e dalla ragione alla rivelazione; in morale dal male al bene, dall'odio all'amore, mediante l'espiazione; in politica dall'anarchia all'unità.
Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo, diventa storia: il tale uomo, il tale popolo, il tale secolo.
In religione vi sta innanzi la Chiesa romana, il papato, che il poeta vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni, le discordie, le colpe e i vizi della barbara età, dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel vostro cammino verso il sommo bene; in politica è l'Italia anarchica e sanguinosa che il poeta aspira a comporre a pace e concordia nell'unità dell'impero.
Così un solo concetto penetra il tutto, come forma, come pensiero e come storia.
Mai più vasta e concorde comprensione non era uscita da mente di uomo.
Alcuni ci vedono dentro l'altro mondo, e il resto è una intrusione e quasi una profanazione; Edgardo Quinet rimane choqué veggendo come le passioni del poeta lo inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico, di cui quello sia la rappresentazione sotto figura.
Chiamano questo poema o «religioso», o «politico», o «didascalico», o «morale», lo riducono a querele di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi e ghibellini.
Guardano non dall'alto del monte, dalla pianura, e prendono per il tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro cammino.
Ciascuno si fabbrica un piccolo mondo e dice: - Questo è il mondo di Dante.
- E il mondo di Dante contiene tutti quei mondi in sè.
È il mondo universale del medio evo realizzato dall'arte.
Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre mondi, de' quali l'inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spirito, odio e amore, e il purgatorio è il termine medio o di passaggio: tre mondi, de' quali la letteratura non offriva che povere e rozze indicazioni, e che escono dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.
L'inferno è il regno del male, la morte dell'anima e il dominio della carne, il caos: esteticamente è il brutto.
Dicesi che il brutto non sia materia d'arte, e che l'arte sia rappresentazione del bello.
Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che non possa esser nell'arte.
Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sè contraddittoria, cioè l'informe o il deforme o il difforme: e perciò non è arte il confuso, l'incoerente, il dissonante, il manierato, il concettoso, l'allegorico, l'astratto, il generale, il particolare: tutto questo non è vivo, è abbozzo o aborto di artisti impotenti.
L'altro, bello o brutto che si chiami in natura, esteticamente è sempre bello.
In natura il brutto è la materia abbandonata a' suoi istinti, senza freno di ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso estetico.
Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato se stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: - Tu sei brutto.
- Più il suo senso morale ed estetico è sviluppato, e più la sua impressione è gagliarda, più lo vede vivo e vero innanzi alla immaginazione.
Perciò non pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo, anzi lo pone in evidenza e lo ritrae co' suoi propri colori.
Il brutto è elemento necessario così nella natura, come nell'arte; perchè la vita è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto.
Togliete la contraddizione, e la vita si cristallizza.
Verità così palpabile che le immaginazioni primitive posero della vita due princìpi attivi, il bene e il male, l'amore e l'odio, Dio e il demonio; antagonismo che si sente in tutte le grandi concezioni poetiche.
Perciò il brutto, così nella natura, come nell'arte, ci sta con lo stesso dritto che il bello, e spesso con maggiori effetti, per la contraddizione che scoppia nell'anima del poeta.
Il bello non è che se stesso; il brutto è se stesso e il suo contrario, ha nel suo grembo la contraddizione, perciò ha vita più ricca, più feconda di situazioni drammatiche.
Non è dunque maraviglia che il brutto riesca spesso nell'arte più interessante e più poetico.
Mefistofele è più interessante di Fausto, e l'inferno è più poetico del paradiso.
Dante concepisce l'inferno come la depravazione dell'anima, abbandonata alle sue forze naturali, passioni, voglie, istinti, desidèri, non governati dalla ragione o dall'intelletto; contraddizione ch'egli esprime con l'energia di uomo offeso nel suo senso morale:
...
...
le genti dolorose,
che hanno perduto il ben dell'intelletto...
Che libito fe' licito in sua legge...
Che la ragion sommettono al talento...
L'anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza; peccatrice in vita, peccatrice ancor nell'inferno, salvo che qui il peccato è non in fatto, ma in desiderio.
Onde nell'inferno la vita terrena è riprodotta tal quale, essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora presente al dannato.
Il che dà all'inferno una vita piena e corpulenta, la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi diviene povera e monotona.
Gli è come un andare dall'individuo alla specie e dalla specie al genere.
Più ci avanziamo, e più l'individuo si scarna e si generalizza.
Questa è certo perfezione cristiana e morale, ma non è perfezione artistica.
L'arte come la natura è generatrice, e le sue creature sono individui, non specie o generi, non tipi o esemplari; sono res, non species rerum, Perciò l'inferno ha una vita più ricca e piena, ed è de' tre mondi il più popolare.
Aggiungi che la vita terrena o infernale è colta dal poeta nel vivo stesso della realtà in mezzo a cui si trova, essendo essa la rappresentazione epica della barbarie, nella quale il rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori.
Dante stesso è un barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo, libera ed energica natura.
Al contrario la vita negli altri due mondi non ha riscontro nella realtà, ed è di pura fantasia, cavata dall'astratto del dovere e del concetto, e ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e contemplativa.
Essendo l'inferno il regno del male o della materia in se stessa e ribelle allo spirito, la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi dello spirito, insino alla sua estinzione, alla materia assoluta.
Il suo punto di partenza è l'indifferente, l'anima priva di personalità e di volontà, il negligente.
Il carattere qui è il non averne alcuno.
In questo ventre del genere umano non è peccato, nè virtù, perchè non è forza operante: qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il preludio di esso.
Ma se, moralmente considerati, i negligenti tengono il più basso grado nella scala de' dannati e paiono a Dante «sciaurati» più che peccatori, il concetto morale rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare i dannati.
Altri sono i criteri del poeta.
La morale pone i negligenti sul limitare dell'inferno, la poesia li pone più giù dell'ultimo scellerato, che Dante stima più di questi mezzi uomini.
E la poesia è d'accordo con la tempra energica del gran poeta e de' suoi contemporanei.
A quegli uomini vestiti di ferro anima e corpo questi esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il più alto dispregio.
E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi.
Sono uomini che vissero senza infamia e senza lode», anzi «non fur mai vivi».
La loro pena è di essere stimolati continuamente, essi che non sentirono stimolo alcuno nel mondo.
La pena è minima, eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono così vinti nel «duolo», che lacrimano e gettano le alte strida, che fanno tumultuare l'aria
come la rena quando il turbo spira.
A' loro piedi è la loro immagine, il verme.
Turba infinita, senza nome: appena accenna ad un solo, e senza nominarlo,
colui che fece per viltate il gran rifiuto
Il loro supplizio è la coscienza della loro viltà, il sentirsi dispregiati, cacciati dal cielo e dall'inferno.
Ritratto immortale e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono rimasti proverbiali.
Esseri poetici, appunto perchè assolutamente prosaici, la negazione della poesia e della vita: onde nasce il sublime negativo degli ultimi tre versi:
Fama di loro il mondo esser non lassa:
Misericordia e Giustizia gli sdegna.
Non ragioniam di lor; ma guarda e passa.
Se i negligenti non sono nell'inferno, perchè mancò loro la forza del bene e del male, gl'innocenti e i virtuosi non battezzati non sono in paradiso, perchè mancò loro la fede, sono nel Limbo.
E anche qui il concetto teologico ci sta per memoria, per semplice classificazione.
La poesia nasce da altre impressioni e da altri criteri.
Il valore poetico dell'uomo non è nella sua moralità e nella sua fede, ma nella sua energia vitale; non è una idea, ma una forza, il personaggio poetico.
Perciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo, la negazione della forza, il non esser vivo.
E perciò qui nel Limbo la mancanza di fede è un semplice accessorio, e l'interesse è tutto nel valore intrinseco dell'uomo, come essere vivo, come forza.
Dio ha lo stesso criterio poetico e dà ad alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore bontà, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell'ingegno e delle opere:
...
...
L'onrata nominanza
che di lor suona su nel vostro mondo,
grazia acquista nel ciel che sì gli avanza.
Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un pantheon di uomini illustri.
E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando alzava questo magnifico tempio della storia e della coltura antica, e le impressioni che ne dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue impressioni quando giovinetto su' banchi della scuola gli si affacciavano le maraviglie di questo mondo greco-latino.
Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare, Bruto, ciascuno di questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava! Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti caratteristici che segnano i protagonisti, il «signore dell'altissimo canto» e il «maestro di color che sanno».
E colui, che a quella vista si sente «esaltare» in se stesso e s'incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de' tempi nuovi, «sesto tra cotanto senno», è non il Dante dell'altro mondo, ma Dante Alighieri.
Ecco ciò che rende il Limbo così interessante, come il mondo de' negligenti, due concezioni originalissime, uscite da un profondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime ne' secoli.
Molti tratti sono ancora oggi in bocca del popolo.
Come l'inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel canto undecimo il poeta stesso, architetto e filosofo delle sue costruzioni.
Quel regno del male è partito in tre mondi, rispondenti alle tre grandi categorie del delitto: la incontinenza e violenza, la malizia, e la fredda premeditazione.
Ciascuna di queste categorie si divide in generi e specie, in cerchi e gironi.
Il concetto etico di questa scala de' delitti è che dove è più ingiuria è più colpa, e l'ingiuria non è tanto nel fatto, quanto nell'intenzione.
Perciò la malizia e la frode è più colpevole della incontinenza e violenza, e la fredda premeditazione de' traditori è più colpevole della malizia.
Indi la storica evoluzione dell'inferno, dove da' meno colpevoli, gl'incontinenti, si passa alla città di Dite, sede de' violenti, e poi si scende in Malebolge, e di là nel pozzo de' traditori.
Questo è l'inferno scientifico o etico.
Ma non è ancora l'inferno poetico.
La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in natura vivente.
L'ordine scientifico presenta una serie di concetti astratti, il poetico una serie di figure, di fatti e d'individui: il primo una serie di delitti, il secondo una serie non solo d'individui colpevoli, ma di tali e tali individui.
Dividere in categorie significa considerare in un gruppo d'individui non quello che ciascuno ha di proprio, ma quello che ha di comune col gruppo a cui appartiene.
Così una classificazione è possibile, una esatta riduzione a generi e specie.
Ma la poesia ritorna l'individuo nella sua libera personalità, e lo considera non come essere morale, ma come forza viva e operante.
E più in lui è vita, più è poesia.
Perciò, se l'inferno, come mondo etico, è il successivo incattivirsi dello spirito, sì che alla violenza, comune all'uomo e all'animale, succede la malizia, «male proprio dell'uomo», e alla malizia la fredda premeditazione, questo concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione.
Come natura vivente o come forma, l'inferno è la morte progressiva della natura, la vita e il moto che manca a poco a poco sino alla compiuta immobilità, alla materia come materia, dove insieme con la vita muore la poesia.
Indi la storia dell'inferno.
Dapprima la situazione è tragica: il motivo è la passione, dove la vita si manifesta in tutta la sua violenza; perchè la passione raccoglie tutte le forze interiori, distratte e sparpagliate nell'uso quotidiano della vita, intorno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista la coscienza della sua libertà infinita.
Preso per se stesso lo spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e non può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio fare ch'esso non creda, non senta e non voglia quello che crede, sente e vuole.
Non vi è donnicciuola, così vile, che non si senta forza infinita, quando è stretta dalla passione.
- Io ti amo e ti amerò sempre, e se dopo morte si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con te in inferno che senza te in paradiso.
- Queste sono le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore appassionato, e che rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.
Ma quando la passione vuole realizzarsi, s'intoppa in un altro infinito, nell'ordine generale delle cose, di cui si sente parte e innanzi a cui è un fragile individuo.
E n'esce la tragica collisione tra la passione e il fato, l'uomo e Dio, il peccato.
Nella vita nè la passione, nè il fato sono nella loro purezza: la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni; il fato talora è il caso, o l'espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in cui intoppa il protagonista.
Ma nell'inferno l'anima è isolata dal fatto ed è pura passione e puro carattere, perciò inviolabile e onnipotente, e il fato è Dio, come eterna giustizia e legge morale: onde la prima parte dell'inferno, ove incontinenti e violenti, esseri tragici e appassionati, mantengono la loro passione di rincontro a Dio, è la tragedia delle tragedie, l'eterna collisione nelle sue epiche proporzioni.
Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto.
La natura infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt'i caratteri che la rendono un sublime negativo, l'eternità, la disperazione, le tenebre.
L'eterno è sublime, perchè ti mostra un di là sempre allo stesso punto, per quanto tu ti ci avvicini; la disperazione è sublime, perchè ti mostra un fine non possibile a raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è sublime, come annullamento della forma e morte della fantasia, per quella stessa ragione che è sublime la morte, il male, il nulla.
Leggete la scritta sulla porta dell'inferno.
Ne' primi tre versi è l'eterno immobile che ripete se stesso, dolore, dolore e dolore, quel luogo, quel luogo e quel luogo, per me, per me e per me, insino a che in ultimo l'eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
La luce, il «dolce lome», rende sublimi le tenebre, morte del sole e delle stelle e dell'occhio, come è «l'aer senza stelle», e il «loco d'ogni luce muto», e quel «ficcar lo viso al fondo» e «non discernere alcuna cosa».
Certo, l'eternità, le tenebre e la disperazione sono caratteri comuni a tutto l'inferno; ma solo qui sono poesia, quando l'inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime impressioni.
Appresso, diventano spettacolo ordinario, come è il sole, visto ogni giorno.
E Dante, che parte da princìpi preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche, quando è tutto nel realizzare e formare i suoi mondi, opera con piena spontaneità, abbandonato alle sue impressioni.
Il canto terzo è il primo apparire dell'inferno, e come ci si sente la prima impressione, come si vede il poeta esaltato, turbato dalla sua visione, assediato di forme, di fantasmi, impazienti di venire alla luce! In quel «diverse voci, orribili favelle» ecc., non ci è solo il grido de' negligenti: ci è lì tutto l'inferno, che manda il suo primo grido.
Quel canto del sublime è una sola nota musicale variamente graduata, è l'eterno, il tenebroso, il terribile, l'infinito dell'inferno, che invade e ispira il poeta e vien fuori co' vivi colori della prima impressione, è il vero canto del regno de' morti, della «morta gente», è l'albero della vita, che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa, e ne toglie la speranza:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
E ne toglie le stelle:
risonavan per l'aer senza stelle.
E ne toglie il tempo:
facevano un tumulto il qual s'aggira
sempre in quell'aria senza tempo tinta.
E ne toglie il cielo:
non isperate mai veder lo cielo.
E ne toglie Dio:
ch'hanno perduto il ben dello intelletto.
Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza contorni, cerchio, loco, null'altro: la diresti natura vuota, se non la riempissero l'eternità e le tenebre e la morte e la disperazione.
Nel regno de' violenti prende una forma.
Si esce dal sublime: si entra nel bello negativo.
Incontri tutto ciò che è figura, ordine, regolarità, proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città, la città di Dite.
Vedi selve, laghi, sepolcri; e l'effetto poetico nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti gli accessorii che la rendono bella in terra.
Non frondi verdi, ma di color fosco:
non rami schietti, ma nodosi e involti
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
La natura spogliata della sua vita, del suo cielo, della sua luce, delle sue speranze, è un sublime che ti gitta nell'animo il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello negativo pieno di strazio e di malinconia.
È la natura snaturata, depravata, a immagine del peccato: con la virtù se n'è ita la bellezza, sua faccia.
Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle pene.
Perchè il concetto nella natura sta immobile come nell'architettura e nella scultura; dove nelle pene acquista ogni varietà di attitudini e di movenze.
Le pene sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza della passione.
In quella natura eterna e tenebrosa odi un mugghio, «come fa mar per tempesta», e il rovescio della grandine, e il cozzo delle moltitudini: moti disordinati, violenti, come i moti dell'animo.
Vedi tombe ardenti, laghi di sangue, alberi che piangono e parlano, la natura sforzata e snaturata dal peccatore.
Gli strani accozzamenti producono l'effetto del maraviglioso e del fantastico, ma il fantastico è presto vinto e ti piglia il raccapriccio e l'orrore.
Il poeta prende in troppa serietà il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderti con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto sulla tua immaginazione, vuol colpire la tua coscienza.
Dove il fantastico è più sviluppato, è nella selva de' suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione, e la maraviglia dà luogo a una profonda tristezza.
Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività, non è ancora anima.
Un primo grado di questa forma è nel demonio.
Cielo e inferno sono stati sempre popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l'intervallo tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e Satana.
È la storia del bene e del male che si sviluppa nella nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi.
Diversi di nomi e di forme secondo le religioni e le civiltà, i demòni hanno per base i diversi gradi del male, e per forma il gigantesco e il mostruoso, il puro terrestre, il bestiale giunto all'umano, e spesso preponderante, come nella sfinge, nella chimera, in Cerbero.
Il demonio di Dante non ha più la sua storia, come in terra, spirito tentatore accanto all'uomo e ribelle e rivale di Dio.
Qui è immobilizzato come l'uomo; la sua storia è finita; cosa gli resta? Soffrire e far soffrire, vittima e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato che flagella nell'uomo.
Il Satana di Milton e Mefistofele, che combattono contro Dio e contro l'uomo, erano compiute persone poetiche.
Altra è qui la situazione, e altro è il demonio.
Esso è il vinto di Dio, e meno che uomo, perchè non è dell'uomo che una sua parte sola, il peccato.
È piuttosto tipo, specie, simbolo, che persona.
È il più basso gradino nella scala degli esseri spirituali, lo spirito tra l'umano e il bestiale, in cui l'intelletto è ancora istinto e la volontà è ancora appetito.
Figure vive e mobili della colpa, ma figure, semplice esteriorità: non carattere, non passione, non intelligenza, non volontà.
Fra gl'incontinenti e i violenti il demonio è tragico e serio: è azione mimica e tutta esterna, passione tradotta in moti e gesti, senza la parola, salvo brevi imprecazioni.
La natura ti dà figura e colore: qui la figura si muove e il colore si anima, è la figura in azione.
Il poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane, e le ha rifatte e rinnovate.
Come a costruire il suo inferno toglie alla terra le sue forme, e strappandole dal circolo loro assegnato, le compone diversamente e ti crea una nuova natura; così ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache, Minos Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le arpie, le furie, e le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto, di vita e di religione, e le ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo pensiero e la sua religione.
Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte, in cui vien fuori l'apparenza di un carattere: impaziente rissoso, manesco, che grida e batte.
Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non fa dissonanza con la solennità della natura infernale, dove si trova collocata.
Minos è il giudizio rappresentato in modo affatto esteriore e plastico, e rapido come saetta:
dicono e odono e poi son giù vòlte.
Le altre figure sono schizzi, appena disegnati; ingegnoso è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle più belle ottave dell'Ariosto.
Noi concepiamo oramai la costruzione de' singoli canti.
Il poeta comincia col porci innanzi la natura del luogo e la qualità della pena; il demonio ora precede, ora vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme e misti, non ancora l'individuo, ma l'uomo collettivo, gruppi di mezzo a' quali spesso si stacca l'individuo e tira la tua attenzione.
I gruppi sono l'espressione generale del sentimento che riempie i peccatori nella società infernale; sono la parentela del delitto, dove trovi nello stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.
Come nella natura e nel demonio, così ne' gruppi l'aspetto è dapprima severo e tragico.
Essi esprimono il sublime dello spirito la disperazione.
L'uomo ha bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia sentimento; l'uomo vive quando è in un'onda assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è l'annullamento della vita morale, la stagnazione del pensiero e del sentimento, la morte, il nulla, il caos, le tenebre dello spirito, un sublime negativo.
Come il sublime delle tenebre è nella luce che muore, il sublime della disperazione è nella morte della speranza:
nulla speranza gli conforta mai
non che di posa, ma di minor pena.
L'espressione estetica della disperazione è la bestemmia, violenta reazione dell'anima, innanzi a cui tutto muore, e che nel suo annichilamento involge l'universo:
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
l'umana specie e il luogo e il tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
La passione trasforma la faccia dell'uomo, abitualmente tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi: momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne' suoi gruppi.
Gli avari stanno col pugno chiuso, gl'irosi si lacerano le membra: violenza di moti appassionati, niente che sia basso o vile: puoi abborrirli, non puoi disprezzarli.
Immaginate una piramide.
Nella larghissima base vedete la natura infernale.
Più su è il demonio, figura bestiale in faccia umana, bestia talora in tutto, mai in tutto uomo.
Alzate ancora l'occhio, e vedete gruppi nella violenza della passione.
È la stessa idea che si sviluppa e si spiritualizza, insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla cima la statua, l'individuo libero, l'idea nella sua individuale realtà, e più che l'idea, se stesso nella sua libertà.
È di mezzo a quella folla confusa, a quei gruppi, che escono i grandi uomini dell'inferno o piuttosto della terra; è da questa triplice base dell'eternità che esce fuori il tempo e la storia e l'Italia e più che altri Dante come uomo e come cittadino.
L'inferno degl'incontinenti e de' violenti è il regno delle grandi figure poetiche.
Qui trovi come in una galleria di personaggi eroici Francesca, Farinata, Cavalcanti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Capaneo, Dante, il Fato, Dio e la Fortuna.
Sono in presenza forze colossali, la energia della passione e la serenità del fato.
Qui è Francesca eternamente unita al suo Paolo, là è la Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e beata si gode.
Ora ti percote il suono della divina giustizia che in eterno rimbomba; ora ti stupisce Capaneo che tra le fiamme oppone sè a tutte le folgori di Giove.
Su questo fondo tragico s'innalza la libera persona umana e vi si spiega in tutta la ricchezza delle sue facoltà.
Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e scolastiche, e prendiamo possesso della realtà.
La donna non è più Beatrice, il tipo realizzato de' trovatori, fluttuante ancora tra l'idea e la realtà; qui acquista carattere, storia, passioni, una ricca e vivace personalità, è Francesca da Rimini, la prima donna del mondo moderno.
L'uomo non è più il santo con le sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria, il suo uffizio, il suo partito, la sua famiglia, le sue passioni e il suo carattere; è Farinata, è Cavalcanti, è Brunetto, è Pier delle Vigne, è Dante Alighieri, alla cui fiera natura Virgilio applaude:
...
...
Alma sdegnosa,
benedetta colei che in te s'incinse!
L'inferno dà loro una realtà più energica, creando nuove immagini e nuovi colori.
Pier delle Vigne giura «per le nuove radici del suo legno».
Farinata dice:
ciò mi tormenta più che questo letto.
All'annunzio della morte del figlio, Cavalcanti
supin ricadde e più non parve fuora.
Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel quale si sente vivere ancora.
Capaneo può dire: «Qual i' fui vivo, tal son morto».
E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria.
L'inferno è il loro piedistallo, sul quale si ergono col petto e con la fronte, affermando la loro umanità.
Nascono situazioni e forme novissime, che danno rilievo alle figure e a' sentimenti.
Questo mondo tragico, dove l'impeto della passione e la violenza del carattere mette in gioco tutte le forze della vita, ha la sua perfetta espressione in questi grandi individui, rimasti così vivi e giovani e popolari, come Achille ed Ettore.
È il mondo della grande poesia, della epopea e della tragedia.
E ora quale contrasto! Lasciamo appena le falde dilatate di foco e la rena che s'infiamma come esca sotto fucile, e ci troviamo in una pozzanghera che fa zuffa con gli occhi e col naso.
Lasciamo i tragici demòni dell'antichità, i centauri e le arpie, e incontriamo diavoli con le corna e armati di frusta, e vilissimi uomini che alle prime percosse scappano senz'aspettar le seconde nè le terze.
In luogo di Capaneo con la fronte levata, il primo che vediamo ha gli occhi bassi, vergognoso di mostrarsi; e Dante, così riverente e pietoso finora e anche sdegnoso, diviene maligno e sarcastico, e compone per la prima volta il labbro ad un sorriso sardonico.
Chiama «salse pungenti» quel letamaio,
che dagli uman privati parea mosso
.
Un altro lo sgrida:
...
...
«Perchè se' tu sì ingordo
di riguardar più me che gli altri brutti?»
E Dante, che lo vede col capo lordo tanto che non parea «s'era laico o cherco», gli ricorda crudelmente di averlo veduto in terra co' capelli asciutti.
E quegli esprime il suo dolore, «battendosi la zucca».
Tutto è mutato: natura, demonio e uomo, immagini e stile.
Cadiamo in pieno plebeo.
Chi sono questi uomini? Sono adulatori e meretrici dannati alla stessa pena: gli uni vendono l'anima, le altre vendono il corpo.
Sentite che noi passiamo in un altro mondo, nel mondo de' fraudolenti.
Esteticamente, il mondo de' fraudolenti è la prosa della vita; precipitata dal suo piedistallo ideale, e divenuta volgarità.
È la passione che si muta in vizio, il carattere che diviene abitudine, la forza che diviene malizia.
La passione è poetica, perchè ha virtù di concitare tutte le forze dell'anima, sì ch'elle prorompano di fuori liberamente: il vizio è la passione fatta abitudine, ripetizione degli stessi atti, un fare perchè si è fatto; è l'artista divenuto artefice, l'arte divenuta mestiere.
L'uomo appassionato spiritualizza la sua azione, ci mette dentro se stesso, ma nel vizioso l'anima è sonnolenta, la sua azione è stupida materia, atto meccanico a cui lo spirito rimane estraneo.
La passione produce il carattere, la forte volontà, che è la stessa passione in continuazione; il vizio ha compagna la fiacchezza e bassezza dell'anima, non essendo altro la bassezza che l'abdicazione e l'apostasia della propria anima.
I grandi caratteri sicuri di sè hanno a loro istrumento la forza, impetuosi fino all'imprudenza, semplici fino alla credulità; gli animi fiacchi hanno a loro istrumento la malizia, coscienza della loro impotenza, e, pipistrelli notturni, assaltano alle spalle e non osano guardare in viso.
In questo mondo il di fuori è mutato, perchè mutato è il di dentro, ove non trovi più caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia, lo spirito oscurato e materializzato, la dissoluzione della vita.
A quei cerchi indeterminati, a quella città rosseggiante di Dite, nomi e figure terrene, succede un non so che, una cosa senza nome, che il poeta chiama bizzarramente «Malebolge», una natura sformata e in dissoluzione, ripe scoscese, scogli mobili che fanno da ponticelli, e giù valloni paludosi, dove le acque finora impetuose e correnti stagnano e si putrefanno, valloni angusti, bolge, valigie, borse, che stringendosi più e più vanno a finire in un pozzo: natura piccola, in rovina e in putrefazione.
Al demonio mitologico iroso e appassionato succede il diavolo cornuto, essere grottesco, o piuttosto i diavoli che vanno in frotte, e si mescolano in ignobili parlari con la gente più abbietta, e canzonano e sono canzonati, maliziosi, bugiardi, plebei, osceni.
Al vivo movimento delle bufere e delle grandini e delle fiamme succede la materia in decomposizione, quanti strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia e quante malattie ti offre lo spedale.
Tali la natura, il demonio, le pene.
Vedi ora l'uomo.
La faccia umana è rimasta finora inviolata: innanzi all'immaginazione la passione invermiglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell'anima pare nella faccia dell'uomo che si leva dritto dalla cintola in su.
Qui la faccia umana sparisce: hai caricature e sconciature di corpi.
Uomini cacciati in una buca, capo in giù, piedi in su; vólti travolti in su le spalle, sì che il pianto scende giù per le reni; visi, occhi e corpi imbacuccati e incappucciati; musi umani fuor della pegola a modo di ranocchi; corpi, altri smozzicati, accismati, altri marciti e imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici.
Di questa figura umana deturpata e contraffatta l'immagine più viva è Bertram dal Bormio, il cui busto si fa lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome.
In questo mondo prosaico e plebeo, che comincia con Taide e finisce con mastro Adamo, la materia ovvero la parte bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul domandarci: - Costoro sono uomini o bestie? - Non sono ancora bestie, e l'uomo già muore in loro:
che non è nero ancora e il bianco muore.
Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana; e la più profonda concezione di Malebolge è questa trasformazione dell'uomo in bestia e della bestia in uomo: hanno l'appetito e l'istinto della bestia, hanno la coscienza dell'uomo.
Si sanno uomini e sono bestie; e qui è la pena, nella coscienza umana che loro è rimasta.
La forma estetica di questo mondo è la commedia, rappresentazione de' difetti e de' vizi.
Fra tanta fiacchezza della personalità il grande uomo, l'individuo, è gittato nell'ombra, e vien su il descrittivo, l'esteriorità.
Nell'inferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide, l'interesse principale è negli attori che prendono la parola: qui è un gregge muto, visto da lontano.
Virgilio dice a Dante: - Vedi là Mirra, vedi Giasone, vedi Manto.
- Appena è se qualche epiteto ti segna in fronte alcuno de' più grandi personaggi, come si fa di Giasone:
e per dolor non par lacrima spanda.
Prima dite: «Il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto Latini» ; ora dite: «Il canto de' ladri, de' falsari, de' truffatori»: vi sono gruppi, non individui; vi è il descrittivo, manca il drammatico.
Manca la grandezza negli attori, e manca la pietà negli spettatori.
La figura umana così torta, che il pianto degli occhi bagnava le natiche, cava a Dante lacrime; l'«homo sum» si sente colpito in lui; ma Virgilio lo sgrida:
Ancor sei tu degli altri sciocchi?
Qui vive la pietà, quand'è ben morta.
Abbonda il descrittivo; l'immaginazione di Dante è così robusta, che avendo a fare con oggetti così fuori della natura, non che sentirsi impacciata, pare che scherzi: con tanta facilità e spontaneità esprime le più varie e strane attitudini: la fiamma parla come lingua d'uomo, le zanche piangono e fremono.
Il più grande sforzo dell'immaginazione umana è la trasformazione di uomini in bestie, nel canto ventesimoquinto, quantunque la soverchia minutezza generi sazietà.
Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in cui si sviluppa con più chiara coscienza il concetto di Malebolge.
Un lato serio di questo concetto è lo spirito che varca il limite assegnatogli.
Se la ragione potesse veder tutto,
mestier non era partorir Maria.
L'esperienza avea le sue colonne d'Ercole; la ragione avea pure le sue colonne.
Questo concetto qui è serio, non è sublime, nè tragico; perchè l'uomo, che con la temerità oraziana sforza la natura, è qui non dirimpetto a Dio come Prometeo e Capaneo, ma colpito e soggiogato, senza che in lui paia vestigio di ribellione, di orgoglio e di violenza:
...
...
Dove rui,
Anfiarao? perchè lasci la guerra?
E non restò di rovinare a valle,
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
L'uomo di Orazio è sublime, perchè lo vedi nell'opera, senti in lui la voluttà del frutto proibito, malgrado Dio e la natura.
Anfiarao è un puro nome; sublime di terrore è quel suo precipitare a valle, mostrandocelo successivamente inabissarsi, ma il grottesco vien subito dopo:
Mira che ha fatto petto delle spalle:
perchè volle veder troppo davante,
di rietro guarda e fa ritroso calle.
Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle acque per giudizio di Dio, «come a lui piacque».
Pure un po' dell'audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in bocca nobili parole, e ti fa sentire quell'ardente curiosità del sapere che invadeva i contemporanei.
Ti par di assistere al viaggio di Colombo.
Il peccato diviene virtù.
Se la logica ghibellina pone in inferno l'autore dell'agguato contro Troia, radice dell'impero sacro romano, la poesia alza una statua a questo precursore di Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi, e dice a' compagni:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Ulisse è il grand'uomo solitario di Malebolge.
È una piramide piantata in mezzo al fango.
Il comico penetra da tutt'i lati, traendosi appresso il lordo, l'osceno, il disgustoso: lo spirito, divenuto malizia, è qui decaduto, degradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana.
Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle fiamme.
Siamo in un mondo comico.
La regina delle forme comiche è la caricatura, il difetto colto come immagine e idealizzato.
Al che si richiede che il personaggio operi ingenuamente e brutalmente, come non avesse coscienza del suo difetto, a quel modo che si vede in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti caratteri comici.
I dannati di Malebolge sono così fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli, come i diavoli nel canto ventesimosecondo, rissosi, abietti, vanitosi, bassamente feroci ne' loro atti.
Così sono i ladri, i truffatori, i barattieri, plebe in cui il vizio è così connaturato, che non se ne accorge più.
Tale è Nicolò terzo vano del suo papale ammanto, che crede Dante venuto nell'inferno apposta per veder lui.
Tali sono pure Sinone e maestro Adamo.
Essi si mostrano nella loro naturalezza, e possono essere rappresentati nella forma diretta e immediata, isolando il difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un contromodello, l'immagine opposta a quel tipo, a quel modello di perfezione che ciascuno ha in mente: qui è la caricatura.
Le concezioni di Dante sono di un comico plebeo della più bassa lega: sia esempio la rissa tra Sinone e maestro Adamo.
Si rimane nel buffonesco, l'infimo grado del comico.
Quest'uomo, così possente creatore d'immagini nell'inferno tragico, qui si sente arido, freddo, in un mondo non suo.
Le situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non è artistico, non ha la sua immagine che è la caricatura, nè la sua impressione che è il riso.
Due persone in rissa cadono in un lago d'acqua bollente che li divide.
Situazione comica, se mai ce ne fu.
Il poeta dice:
Lo caldo sghermidor subito fue.
Espressione vivace, ma che non sveglia nessuna immagine e ti lascia freddo.
Non ha saputo cogliere quel movimento, quella smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono.
La pancia di mastro Adamo, che sotto il pugno di Sinone «sonò come fosse un tamburo», è una felice caricatura; ma è una freddura il dire:
e mastro Adamo gli percosse 'l volto
col pugno suo che non parve men duro.
Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi più comici non fanno ridere.
Perchè a fare la caricatura bisogna fermare l'immaginazione nell'oggetto comico, spassarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello.
Dante non ha questo sublime obblio comico, non ha indulgenza, nè amabilità.
Teme di sporcarsi tra quella gente, e se ode, se ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci sta, se ne scusa:
Ahi fera compagnia! Ma in chiesa
coi santi e in taverna coi ghiottoni.
Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno; e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.
Il riso muore, quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio, e non che sentirne vergogna vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo.
Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e se ne fa un'aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo più acconcio a dire: - Miratemi -; più acconcio a dare spicco al suo vizio.
La bestia non cela il suo vizio e non arrossisce; il rossore è proprio della faccia umana.
L'uomo consapevole del suo difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi «sfacciato» o «sfrontato».
Qui la caricatura uccide se stessa, il comico giunto alla sua ultima punta si scioglie; e n'esce un sentimento di supremo disgusto e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abbiezione predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l'orrore.
Qui Dante è nel suo campo.
Il suo eroe è Vanni Fucci.
Mastro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni Fucci ha avuto la coscienza e l'ha soffocata; sono i due estremi nella scala del vizio; l'uno non è mai salito fino all'uomo; l'altro è passato per l'uomo ed è ricaduto nella bestia.
Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e sceglie le circostanze più acconce a darvi risalto:
Vita bestial mi piacque e non umana,
siccome a mul ch'io fui.
Son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
Ecco l'uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo di Malebolge, l'umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.
Ma l'umano non muore mai in tutto.
L'uomo diviene bestia, ma la bestia torna uomo.
E con senso profondo Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci scoperto ladro gitta il rossore della vergogna:
e di trista vergogna si dipinse.
L'uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna, in luogo di mostrarlo al naturale (ciò che produce la caricatura) cerca occultarlo sotto contraria apparenza: il poltrone fa il bravo.
Nasce il contrasto tra l'essere e il parere: la situazione divien comica, e la sua forma è l'ironia.
Lo spettatore indulgente e che vuole spassarsi a sue spese finge di crederlo e di secondarlo; accetta come seria l'apparenza che si dà, anzi la carica ancora di più; fa il bravo, ed egli lo chiama un «Orlando», ma accompagnando le parole di un cotale ammiccar d'occhi che esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce in falsetto, di un riso equivoco, che vuol dire: - Io ti conosco.
- Perciò l'essenziale dell'ironia non è nell'immagine, ma nel sottinteso: è il riflesso che succede allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento.
Forma delicata, perchè lo spettatore, alla vista del difetto che altri cerca di mascherare, non sente collera, non gli strappa la maschera dal viso, anzi se la mette egli stesso e serba una compostezza e una pulitezza, equivoca ne' movimenti e ne' gesti.
Forma di tempi civili, assai rara nelle età barbare e nelle poesie primitive.
Dante, accigliato, brusco, tutto di un pezzo, com'è ne' suoi ritratti, ha troppa bile e collera, e non è buono nè alla caricatura, nè all'ironia.
Ma dalla sua fantasia d'artista è uscita una di quelle creazioni, che sono le grandi scoperte nella storia dell'arte, un mondo nuovo: il «nero cherubino», che strappa a san Francesco l'anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele.
Egli crea il diavolo, gli dà il suo concetto e la sua funzione.
Il diavolo è l'ironia incarnata: non ci è uomo tanto briccone che il diavolo non sia più briccone di lui, e capite che non è disposto a guastarsi la bile per le bricconerie degli uomini.
L'uomo può ingannare un altro uomo, ma non può ficcarla al diavolo, perchè il diavolo nel suo senso poetico è lui stesso, la sua coscienza che risponde con un'alta risata a' suoi sofismi, e gli fa il controsillogismo, e gli dice beffandolo:
...
...
Forse
tu non sapevi ch'io loico fossi!
Il brutto come il bello muore nel sublime.
E il brutto è sublime quando offende il nostro senso morale ed estetico e ci gitta in violenta reazione.
Scoppia la collera, l'indignazione, l'orrore: il comico è immediatamente soffocato.
Quando veggo un difetto rivelarsi all'improvviso, uso la caricatura.
Quando veggo un difetto che cerca mascherarsi, prendo la maschera anch'io e uso l'ironia.
Ma quando quel difetto mi offende, mi sfida, mi provoca, si mette dirimpetto a me come contraddizione al mio intimo senso, la mia coscienza così audacemente negata e contraddetta reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo mostro qual è, nella sua laida nudità.
La caricatura e l'ironia si risolvono in una forma superiore, il sarcasmo, la porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rientriamo nella grande poesia.
Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma per morire: nasce la caricatura, ed è guastata; spunta la maschera, ed è strappata.
E la morte viene da questo, che nella forma sarcastica del brutto ci è l'idea che l'uccide, il suo contrario.
Nel canto de' simoniaci il sarcasmo fa la sua splendida apparizione.
Il comico muore sotto l'ira di Dante.
L'antitesi tra quello che è di fuori e quello che è nella sua anima scoppia in ravvicinamenti innaturali, come «calcando i buoni e sollevando i pravi», «Dio d'oro e d'argento»; e spesso in parole a doppio contenuto, che è l'immagine del sarcasmo.
Tale è la parola rimasa proverbiale, con che è qualificata la servilità della Chiesa.
Parimente chiama «adulterio» la simonia e «idolatria» l'avarizia, parole, nelle quali entrano come elementi la santità del matrimonio e il vero Dio: in una sola immagine c'è il brutto e ci è l'idea che lo condanna.
Ma il sarcasmo dee purificare e consumare se stesso.
Finchè rimane nel particolare e nel personale, il linguaggio è acre, bilioso: hai Giovenale e Menzini.
Il poeta, non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l'orizzonte, essere eloquente, voce di verità, espressione impersonale della coscienza.
Certo, in quel canto de' simoniaci vive immortale la vendetta dell'uomo ingannato che anticipa a Bonifazio l'inferno, e del ghibellino e del cristiano che vede nel papato temporale una pietra d'inciampo e di scandalo.
Ma i sentimenti e le passioni personali, se hanno ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua fantasia, non penetrano nella rappresentazione.
Bisogna sapere la storia per indovinare i terribili incentivi dell'alta creazione.
Ciò che qui senti è la convinzione, la buona fede del poeta, la sincerità e l'impersonalità della sua collera: onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d'immagini e di concetti.
Prima Dante è in collera con Nicolò, pinto in pochi tratti vano, piccolo, col cervello e co' sensi nel piede.
E comincia col «tu», e l'assale corpo a corpo, con ironia amara che si trasforma nel pugnale del sarcasmo:
e guarda ben la mal tolta moneta,
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
Ma nel pendìo dell'ingiuria si contiene d'un tratto, passaggio meritamente ammirato: la piccola persona di Nicolò scomparisce; sottentra il «voi», i papi, il papato; le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia, e da ultimo la collera svanisce in una certa tristezza pura di ogni stizza; è un deplorare, non è più un inveire:
Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici, concezione delle più originali, dove il comico è posto ed è sciolto.
Poco felice nel maneggio delle forme comiche, il poeta è insuperabile quando se ne sviluppa, mutato il riso in collera, come nella sua invettiva, nella pena di Bertram dal Bormio, nella rappresentazione di Vanni Fucci.
Rimane un fondo comico che aspetta ancora il suo artista.
Pure in quella materia appena formata vive immortale il suo nero cherubino.
Nel pozzo de' traditori la vita scende di un grado più giù: l'uomo bestia diviene l'uomo ghiaccio, l'essere petrificato, il fossile.
In questo regresso dell'inferno, in questo cammino a ritroso dell'umanità siamo giunti a quei formidabili inizi del genere umano, regno della materia stupida, vuota di spirito, il puro terrestre, rappresentato ne' giganti, figli della terra, nella loro lotta contro Giove, natura celeste e spirituale, inferiore di forza fisica, ma armato del fulmine:
...
...
con minaccia
Giove dal cielo ancora, quando tuona
Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli ribelli.
Qui all'ingresso trovi i giganti; alla fine Lucifero: mitologia e Bibbia si mescolano, espressioni della stessa idea.
La lotta è finita: i giganti sono incatenati; Lucifero è immenso e stupido carname, il gradino infimo nella scala de' demòni.
Il gigantesco è la poesia della materia; ma qui, vuoto e inerte, è prosa.
Tra' giganti e Lucifero stanno i dannati fitti nel ghiaccio.
Le acque putride di Malebolge, ventate dalle enormi ali di Lucifero, si agghiacciano, s'indurano, diventano mare di vetro, di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori contro i congiunti nella Caina, contro la patria nell'Antenora, contro gli amici nella Tolomea, e contro i benefattori nella Giudecca.
La pena è una, ma graduata secondo il delitto.
Il movimento si estingue a poco a poco, la vita si va petrificando, finchè cessa in tutto la lacrima, la parola e il moto.
L'immagine più schietta di questo mondo cristallizzato è il teschio dell'arcivescovo Ruggieri, inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.
L'Ugolino è una delle più straordinarie e interessanti fantasie.
E per lui che la vita e la poesia entra in questo mare morto, dove la natura e il demonio e l'uomo è materia stupida e senza interesse.
Come concetto morale, il tradimento è la colpa più grave; ma qui manca l'organo della colpa: il grido della coscienza sembra agghiacciato insieme col colpevole.
Questo grido può uscire dal petto concitato di Dante spettatore, come è già avvenuto in Malebolge, dove l'invettiva di Dante risolve il comico.
Qui ci è di meglio.
Tra questi esseri petrificati Dante gitta il suo Ugolino, ghiacciato con gli altri, come traditore egli pure, ma col capo sul capo di Ruggieri, perchè insieme egli è il suo tradito e il suo carnefice.
È la vittima che qui alza il grido contro il traditore, e gli sta eternamente co' denti sul capo, saziando in quello il suo odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio.
Così è nato l'Ugolino, il personaggio più ricco, più moderno, più popolare di Dante dove l'analisi è più profonda e più sviluppata, nelle sue straordinarie proporzioni così umano e vero.
Prendete ora una carta topografica dell'inferno, e guardate questa piramide capovolta, a forma d'imbuto.
Vedete l'immensa base alla cima, senza figura altra che di cerchi, fra le tenebre eterne; e poi quei cerchi prendon figura di città rosseggiante di fiamme, e la città di bolgia putrida e puzzolenta, e la bolgia di pozzo entro il quale è petrificata la natura; in cima l'infinito, alla fine il tristo buco
sopra 'l qual pontan tutte le altre rocce;
e voi avete così l'immagine visibile di questo inferno estetico.
Gli è come nelle rivoluzioni.
Nel primo entusiasmo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario, il feroce, l'orribile, finchè da' più bassi fondi della società sale su il laido, l'abietto e il plebeo.
Questa decomposizione e depravazione successiva della vita è l'Inferno.
L'Inferno è l'uomo compiutamente realizzato come individuo, nella pienezza e libertà delle sue forze.
E può misurare la grandezza dell'opera, chi vede gli abbozzi di Dino Compagni, o lo scarno Ezzelino, o le rozze formazioni de' misteri e delle leggende.
L'individuo era ancora astratto e impigliato nelle formole, nelle allegorie e nell'ascetismo.
In quelle vuote generalità ci è la donna e l'uomo, come genere, come simbolo, come l'anima; manca l'individuo.
E manca tanto, che spesso non ha un nome, ed è la «mia donna», o «un giovine», «un santo uomo».
Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo dell'arte, fra tante liriche e leggende.
Dante volea scrivere il mistero dell'anima; si cacciò tra allegorie e formole, ed ecco uscirgli dalla fantasia l'individuo, volente e possente, nel rigoglio e nella gioventù della forza, spezzato il nocciolo dove lo avea chiuso il medio evo.
I pittori disegnavano santi e cupole, i filosofi fantasticavano sull'ente; i lirici platonizzavano, gli ascetici contemplavano e pregavano: Dante pensava l'inferno; e là, tra' furori della carne e l'infuriar delle passioni, trovava la stoffa di Adamo, l'uomo com'è impastato, con la sua grandezza e con la sua miseria, e non descritto, ma rappresentato e in azione, e non solo ne' suoi atti, ma ne' suoi motivi più intimi.
Così apparvero sull'orizzonte poetico Francesca, Farinata, Cavalcanti, la Fortuna, Pier delle Vigne, Brunetto, Capaneo, Ulisse, Vanni Fucci, il «nero cherubino», Nicolò terzo e Ugolino.
Tutte le corde del cuore umano vibrano.
Vedi attorno a questa schiera d'immortali, turba infinita di popolo nella maggior varietà di attitudini, di forme, di sentimenti, di caratteri, che ti passano avanti, alcuni appena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati in fronte di qualche frase indimenticabile, che li eterna, come Taide, Mosca, Giasone, Omero, Aristotile, papa Celestino, Bonifazio, Clemente, Bruto, Bocca degli Abati, Bertram dal Bormio.
Nel regno de' morti si sente per la prima volta la vita nel mondo moderno.
Come è bella la luce, il «dolce lome», a Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva de' suicidi, spogliata del verde! Come è commovente Brunetto, che raccomanda a Dante il suo Tesoro, e Pier delle Vigne che gli raccomanda la sua memoria! Come ride quel giardino del peccato innanzi a Francesca! Col vivo sentimento della dolce vita, della bella natura, è accompagnato il sentimento della famiglia.
Quel padre che cade supino, udendo la morte del figlio, e Ugolino che dannato a morire di fame guarda nel viso a' figliuoli, e Anselmuccio che gli domanda: - Che hai? - E Gaddo che gli dice: - Perchè non mi aiuti? - Sono scene solitarie della poesia italiana.
Ciascuno è in una situazione appassionata.
I sentimenti spinti alla punta idealizzano e ingrandiscono gli oggetti.
Tutto è colossale, e tutto è naturale E in mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più vivente di tutti, pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce, col suo elevato sentimento morale col suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa, coi suo dispregio del vile e dell'ignobile, alto sopra tanta plebe, così ingegnoso nelle sue vendette, così eloquente nelle sue invettive.
Queste grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue, attendono l'artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici.
E l'artista non fu un italiano: fu Shakespeare.
Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta in quella età della vita che le passioni si scoloriscono, e l'esperienza e il disinganno tolgono le illusioni, e scemata la parte attiva e personale, l'uomo si sente generalizzare, si sente più come genere che come individuo.
Spettatore più che attore, la vita si manifesta in lui non come azione, ma come contemplazione artistica, filosofica, religiosa.
In quella calma delle passioni e de' sensi era posto l'ideale antico del savio, l'ideale nuovo del santo, fuso insieme in quel Catone, che Dante chiama nel Convito anima nobilissima e la più perfetta immagine di Dio in terra.
Catone è il savio antico, pinto come i filosofi, con quella sua lunga barba, in quella calma e gravità della sua decorosa vecchiezza:
degno di tanta riverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Ma è qualcosa di più; è il savio battezzato e santificato, con la fronte radiante, illuminata dalla grazia, sì che pare un sole.
Virgilio non comprende questo savio cristianizzato, e parla al Catone di sua conoscenza, ricordando la sua virtù, la sua morte per la libertà, la sua Marzia.
E il nuovo Catone risponde: - Marzia, che piacque tanto agli occhi miei, non mi move più; ma se Donna del cielo ti guida, non ci è mestier lusinga:
basta ben che per lei mi richegge.
Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo doppio ideale è realizzato: il mondo di Catone o della libertà, dove lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la sua libertà:
Libertà va cercando ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma, altro stile.
Non è più l'Iliade, è l'Odissea, è un nuovo poema.
Paragonare Inferno e Purgatorio e maravigliarsi che qui non sieno le bellezze ammirate colà, gli è come maravigliarsi che il purgatorio sia purgatorio e non inferno.
O, se pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa, maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiutamente dimenticare l'antico se stesso, le sue abitudini di concepire, di disporre, di colorire, e seppellito in questo nuovo mondo ricrearsi l'ingegno e la fantasia a quella immagine, e con tanta spontaneità che pare non se ne accorga: obblio dell'anima nella cosa, il secreto della vita, dell'amore e del genio.
L'inferno e il regno della carne, che scende con costante regresso sino a Lucifero.
Il purgatorio e il regno dello spirito, che sale di grado in grado sino al paradiso.
È là che si sviluppa il mistero, la Commedia dell'anima, la quale dall'estremo del male si riscote e si sente e mediante l'espiazione e il dolore si purifica e si salva.
Onde con senso profondo il purgatorio esce dall'ultima bolgia infernale, e Lucifero, principe delle tenebre, e quello stesso per le spalle del quale Dante salendo esce a riveder le stelle.
Ci è un avanti-purgatorio, dove la carne fa la sua ultima apparizione.
Il suo potere non è più al di dentro: l'anima è già libera; della carne non resta che la mala abitudine.
Gradazione finissima e altamente comica, dalla quale è uscito l'immortale ritratto di Belacqua, caricatura felicissima nella figura, ne' movimenti, nelle parole, e tanto più comica quanto più Belacqua si sforza di rimaner serio, usando un'ironia che si volge contro di lui.
Questo avanti-purgatorio è quasi una transizione tra l'inferno e il purgatorio: il peccato vi è e non v'è; e ancora nell'abitudine non è più nell'anima; il demonio ci sta sotto la forma del serpente d'Eva, involto tra l'erbe e i fiori, cacciato via da due angioli dalle vesti e dalle ali di color verde, simbolo della speranza.
Comparisce per scomparire, quasi per far testimonianza che se ne va dalla scena per sempre.
Innanzi alla porta del purgatorio scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne gran parte di poesia se ne va.
L'anima non appartiene più alla carne, ma l'ha avuta una volta sua padrona e se ne ricorda.
La carne non è più una realtà, come nell'inferno, ma una ricordanza.
Ne' sette gironi, rispondenti a' sette peccati mortali, le anime ricordano le colpe per condannarle; ricordano le virtù per compiacersene.
Quel ricordare le colpe non è se non l'inferno che ricomparisce in purgatorio per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtù non è se non il paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato: l'inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci sta in desiderio.
Carne e spirito non sono una realtà: la tirannia della carne è una rimembranza; la libertà dello spirito è un desiderio.
Poichè la realtà non è più in presenza, ma in immaginazione, essa vi sta non come azione rappresentata e drammatica, ma come immagine dello spirito, a quel modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle cose non presenti, e pingiamo al di fuori quello spettro della mente.
Questa realtà dipinta vien fuori nelle pareti e ne' bassirilievi del purgatorio.
Nell'inferno e nel paradiso non sono pitture, perchè ivi la realtà è natura vivente, è l'originale, di cui nel purgatorio hai il ritratto.
Inferno e paradiso sono in purgatorio, ma in pittura, come il passato e l'avvenire delle anime, non presenti agli occhi, ma all'immaginativa.
Quelle pitture sono il loro «memento», lo spettacolo di quello che furono, di quello che saranno, che le stimola, mette in attività la loro mente, si che ricordano altri esempli e si affinano, si purgano.
Siamo dunque fuori della vita.
Le passioni tornano innanzi alle anime, ma non sono più le loro passioni, sono fuori di esse, contemplate in sè o in altri con l'occhio dell'uomo pentito.
Anche le virtù sono estrinseche alle anime, contemplate al di fuori come esempli e ammaestramenti.
Le anime sono spettatrici, contemplanti, non attrici.
Passioni buone o cattive non sono in presenza e in azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in intagli e pitture.
Questa concezione così semplice e vera nella sua profondità è la pittura e la scoltura, l'arte dello spazio, idealizzata nella parola e fatta poesia.
Perchè il poeta non dipinge, ma descrive il dipinto.
La parola non può riprodurre lo spazio che successivamente, e perciò è inefficace a darti la figura, come fa il pennello e lo scarpello.
Nè Dante si sforza di dipingere, entrando in una gara assurda col pittore.
Ma compie e idealizza il dipinto, mostrando non la figura, ma la sua espressione e impressione: dinanzi all'immaginazione la figura diviene mobile, acquista sentimento e parola.
Le aguglie di Traiano in vista si movono al vento; la vedovella è atteggiata di lagrime e di dolore; nell'attitudine di Maria si legge: «Ecce ancilla Dei»; l'angiolo intagliato in atto soave non sembrava immagine che tace:
Giurato si saria ch'ei dicesse Ave.
Davide ballando sembra più e meno che re; e gli sta di contro Micol, che ammirava,
siccome donna dispettosa e trista.
Erano i tempi di Giotto, e parevano maravigliosi quei primi tentativi dell'arte.
Quest'alto ideale pittorico di Dante fa presentire i miracoli del pennello italiano.
Il poeta avea innanzi all'immaginazione figure animate, parlanti, dipinte da
Colui, che mai non vide cosa nuova,
ben più vivaci che non gliele potevano offrire i suoi contemporanei.
Più in la il dipinto sparisce: senza aiuto di senso, per sua sola virtù, lo spirito intuisce il bene e il male, ricorda i buoni e i cattivi esempli, vede da se stesso e in se stesso.
La realtà non solo non ha la sua esistenza, come cosa sensata, il sensibile; ma neppure come figurativa, in pittura; diviene una visione diretta dello spirito, che opera già libero e astratto dal senso.
Nasce un'altra forma dell'arte, la visione estatica.
L'anima vede farsi dentro di sè una luce improvvisa, nella quale pullulano immagini sopra immagini come bolle d'acqua che gonfiano e sgonfiano, e l'universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di modo che il «suono di mille tube» non basterebbe a rompere la contemplazione.
Dante trova forme nuove ed energiche ad esprimere questo fenomeno.
Le immagini «piovono» nell'alta fantasia; la mente è
...
...
sì ristretta
dentro di se', che di fuor non venia
cosa che fosse allor da lei ricetta.
L'immaginativa ne «ruba» di fuori, sì
che uom non s'accorge
perchè d'intorno suonin mille tube.
L'anima vòlta in estasi ficca gli occhi nell'immagine con ardente affetto:
come dicesse a Dio: - D'altro non calme -.
Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di santo Stefano: un quadro a contrasto, dove tra la folla inferocita che grida: - Martira, martira -, è la figura del santo, la persona già aggravata dalla morte e china verso terra, ma gli occhi al cielo preganti pace e perdono: è il soprastare dell'anima nell'abbandono del corpo.
Siamo dunque in piena vita contemplativa.
Il processo della santificazione si sviluppa.
Nell'inferno i tumulti e le tempeste della vita reale appassionata dal furore de' sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi, in quel mondo de' misteri e delle estasi, così popolare, nel mondo di Girolamo, di Francesco d'Assisi e di Bonaventura, dove la pittura attingea le sue ispirazioni.
Nella visione estatica lo spirito ha già un primo grado di santificazione, ha conquistato la sua libertà dal senso, ha già il suo paradiso; ma è un paradiso interiore, immagine e desiderio, e non sarà realtà, paradiso reale, se non quando quella luce e quelle immagini, vedute dallo spirito entro di sè, sieno fuori di sè, sieno cose e non immagini.
Il purgatorio è il regno delle immagini, uno spettro dell'inferno, un simulacro del paradiso.
Nella visione estatica lo spirito è attivo e conscio; nel sogno è passivo e inconscio: è una forma di visione superiore, non solo senza opera del senso, ma senza opera dello spirito; è visione divina, prodotta da Dio.
Perciò il sogno
anzi che 'l fatto sia, sa le novelle;
e l'anima
alle sue vision quasi è divina.
Nel sogno si rivela il significato delle visioni e delle apparenze del purgatorio.
Che cosa significano quelle pitture e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il regno dell'intelletto e del vero, dove il senso è spogliato delle sue belle e piacevoli apparenze, e mostrato qual'è, brutto e puzzolento.
L'apparenza è una sirena:
Io son - cantava - io son dolce Sirena,
che i marinari in mezzo al mar dismago,
tanto son di piacere a sentir piena.
Ma una donna santa, la Verità, fende i drappi; e la mostra qual femmina balba e scialba, e mostra il ventre:
quel mi svegliò col puzzo che ne usciva.
Vinto il senso e l'apparenza, si presenta a Dante in sogno l'immagine della vita, non quale pare, ma qual è, la vera vita a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio.
E vede la vita nella prima delle due sue forme, la vita attiva, lo affaticarsi nelle buone opere per giungere alla beatitudine della vita contemplativa.
La sirena è rozzamente abbozzata: manca a Dante il senso della voluttà; senti nel verso stesso non so che intralciato e stanco.
Lia è una delle sue più fresche creazioni, personaggio tipico così perfetto nel suo genere, come la Fortuna.
La sua felicità non è ancora beatitudine, come è della suora che vive guardando Dio, il suo miraglio; ma appunto perciò è più interessante e poetica, più umana, più vicina a noi questa bella fanciulla, che va tutta lieta pel prato, e coglie fiori e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio.
Tale è la prima immagine che il giovine incontra sovente ne' suoi sogni!
L'ultima forma sotto la quale si presenta la realtà è la visione simbolica, dove la forma non significa più se stessa, ma un'altra cosa.
Il purgatorio finisce tra' simboli: è il paradiso che si offre all'anima sotto figura.
Cristo è un grifone, e il carro su cui sta è la Chiesa, e Dante ha una serie di strane visioni, che rappresentano simbolicamente la storia della Chiesa.
Così la realtà corpulenta e tempestosa dell'inferno si va diradando e sottilizzando per trasformarsi nella vera realtà, lo spirito o il paradiso.
Questo processo di carne a spirito è il purgatorio, dove la forma diviene pittura, estasi, sogno, simbolo.
Il simbolo già non è più forma, ma puro spirito, lavoro intellettuale.
Sotto la figura ci è la nuova e vera realtà, pronta a svilupparsene e comparire essa direttamente.
L'uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a questo stato dell'anima.
Il suo carattere è la calma interiore, assai simile alla tranquilla gioia dell'uomo virtuoso, che nella miseria terrena sulle ali della fede e della speranza alza lo spirito al paradiso.
Le ombre sono contente nel fuoco, gli affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro d'inquietudine e d'impazienza.
Ne nasce un mondo idillico, che ricorda l'età dell'oro, dove tutto è pace e affetto, e dove si manifestano con effusione le pure gioie dell'arte, i dolci sentimenti dell'amicizia.
In questo mondo di pitture e scolture Dante si è coronato di artisti: Casella, Sordello, Guido Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Arnaldo Daniello, Oderisi, Stazio, e ne ha cavato episodi commoventi, che fanno vibrare le fibre più delicate del cuore umano.
Ricorderò il suo incontro con Casella, e il ritratto di Sordello, e i cari ragionamenti dell'arte con Guinicelli e Buonagiunta, e l'incontro di Stazio e Virgilio.
È un lato della vita nuovo, pur così vero in tempi che la vita intima della famiglia, dell'arte e dell'amicizia era un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita pubblica.
Come tocca il core l'amicizia di Dante e di Forese, fratello di Corso Donati, il principale nemico di Dante, e quel domandar ch'egli fa di Piccarda! I movimenti improvvisi dell'affetto e della maraviglia sono colti con tanta felicità, che rimangono anche oggi vivi nel popolo, come è l'«o» lungo e roco delle anime che veggon l'ombra di Dante, o il paragone delle pecorelle, e la calma di Sordello,
a guisa di leon quando si posa,
mutata subito in un sì vivace impeto di affetti, e Stazio che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo, obliando di essere un'ombra, e il cerchio dell'anime intorno a Dante,
quasi obliando d'ire a farsi belle,
e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia di Dante:
Oh ombre vane, fuor che nell'aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all'arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a' profani, è il mondo rappresentato nel Purgatorio.
Le ricordanze de' casi anche più tristi sono pure di amarezza, raddolcite dalle speranze dell'ultimo giorno.
Manfredi non ha una ingiuria per i suoi nemici, chiede perdono, ed ha già perdonato.
Io mi rendei
piangendo a quei che volentier perdona.
Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più strazianti della sua morte con una calma e una serenità, che diresti indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il sentimento espresso in questi versi:
Qui vi perdei la vista
nel nome di Maria finio, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore il suo tempio domestico.
Ciascuno vuol essere ricordato a' suoi diletti.
Come è caro quel Forese con quel «Nella mia»,
la vedovella mia che tanto amai!
E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che si sono dimenticati di lui, e Manfredi vuol essere ricordato a Costanza, e Iacopo a' suoi fanesi, che pregassero per lui: la sola Pia non ha alcun nome nel suo santuario domestico, e non ha che Dante che possa ricordarsi di lei:
ricordati di me, che son la Pia.
Questo mondo così affettuoso è penetrato di malinconia: sentimento nuovo, che avrà tanta parte nella poesia moderna, e generato qui, nel Purgatorio.
Questo sentimento ti prende a udir la Pia, così delicata nella solitudine del suo cuore; eppure non era sola, e ricorda la gemma, pegno d'amore.
La tenerezza e delicatezza de' sentimenti dispone l'animo alla malinconia: perchè malinconia non è se non dolce dolore, dolore raddolcito da immagini care e tenere.
Richiede perciò anime raccolte che vivano in fantasia, sieno «pensose», non distratte dal mondo, chiuse nella loro intimità La malinconia è il frutto più delicato di questo mondo intimo.
Come ti va al core quell'ora che incomincia i tristi lai la rondinella, presso alla mattina, e quella squilla di lontano,
che pare il giorno pianger che si more,
e quell'ora della sera che i naviganti partono e s'inteneriscono pensando
lo dì c'han detto a' dolci amici: addio!
Qui Dante gitta via l'astronomia, che rende spesso così aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le dolcezze di una natura malinconica.
Tra le scene più intime, più penetrate di malinconia, è il suo incontro con Casella.
Cominciano espansioni di affetto.
Nel primo impeto corrono ad abbracciarsi.
Casella dice:
Così com'io t'amai
nel mortal corpo, così t'amo sciolta.
Dante risponde: - Casella mio! - e lo prega a voler cantare, come faceva in vita, che col canto gli acquietava l'anima, e ora l'anima sua è così affannata.
E Casella canta una poesia di Dante, e Dante e Virgilio e le anime fanno cerchio, rapite, dimentiche del purgatorio, sgridate da Catone.
Ma se Catone non perdona, perdonano le muse.
Quest'oblio del purgatorio, questa musica che ci riconduce alle care memorie della vita, la terra che scende nell'altro mondo e si impossessa delle anime, sì che obliano di essere ombre e vogliono abbracciare gli amici e pendono dalla bocca di Casella, questo è poesia.
Ci si sente qua dentro la malinconia dell'esilio, l'uomo che giovine ancora desiderava con la sua Bice e i suoi amici e le loro donne ritrarsi in un'isola e farne il santuario dei suoi affetti e obliarvi il mondo.
E c'è la malinconia propria del purgatorio, quel vedere di là con mutati occhi le grandezze e gli affetti terreni, quel disabbellirsi della vita, quel cadere di tutte le illusioni:
Non è il mondan rumore altro ch'un fiato
di vento, ch'or vien quinci ed or vien quindi,
e muta nome perchè muta lato.
Una delle figure più interessanti è Adriano.
All'ultimo della grandezza dice:
Vidi che lì non si quetava il core,
ne più salir poteasi in quella vita;
per che di questa in me s'accese amore.
Questo papa disilluso ha lunga e mala parentela, e sono tutti morti per lui, eccetto la buona Alagia:
E questa sola m'è di la rimasa.
Quest'ultimo verso è pregno di malinconia.
Questa calma filosofica, che fa guardare dall'alto del purgatorio la vita e ne scopre il vano e il nulla, restringe il circolo della personalità e della realtà terrena.
Gli individui appariscono e spariscono, appena disegnati; hanno la bellezza, ma anche la monotonia e l'immobilità della calma.
Sono uomini che discutono e conversano in una sala, più che uomini agitati e appassionati.
I grandi individui storici, le grandi creature della fantasia scompariscono.
Più che negli individui la vita si manifesta nei gruppi: la vita qui è meno individuo che genere.
La comune anima ha la sua espressione nel canto.
Nell'inferno non ci son cori; perchè non vi è l'unità dell'amore.
L'odio è solitario; l'amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i loro effetti nella misurata varietà delle voci e degl'istrumenti.
Qui le anime sono esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno stesso spirito di carità:
Una parola era in tutto e un modo,
sì che parea tra esse ogni concordia.
Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni, espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera, di letizia, di lodi al Signore.
Quando giungono al purgatorio, le odi cantare: «In exitu Israel de Aegypto».
Giungono nella valle, ed ecco intonare il Salve Regina.
La sera odi l'inno: «Te lucis ante terminum Rerum creator poscimus».
Entrando nel purgatorio, risuona il Te Deum.
Sono i salmi e gl'inni della Chiesa, cantati secondo le varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime parole.
Ti par d'essere in chiesa e udir cantare i fedeli.
Quei canti latini erano allora nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava a ricordarli.
Il poeta ha creduto bastar questo ad accendere ne' petti l'entusiasmo religioso.
E forse bastava allora, quando quei versi suscitavano tante rimembranze e immagini della vita religiosa.
La poesia qui non è nella rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi.
Un nome, una parola basta in certi tempi a produrre tutto l'effetto: con quei tempi se ne va la loro poesia, e restano cosa morta.
Molte parti del poema dantesco, aride liste di nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche, allora così vive, oggi son morte.
E tutta questa lirica del purgatorio è cosa morta.
Perchè Dante non crea dal suo seno quei sentimenti, ma li trova belli e scritti ne' canti latini, e si contenta di dirne le prime parole.
Pure, la situazione delle anime purganti è altamente lirica; la loro personalità non è individuale, ma collettiva, e l'espressione di quella comune anima svegliatasi in loro è l'onda canora de' sentimenti.
Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e si rimise a Davide di quello ch'era suo compito.
Più che visioni e simboli e dipinti, la vita del purgatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di amore, di quell'incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi in uno stesso spirito di carità.
Ha saputo così ben dipingerle queste anime ardenti, che s'incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate su verso il cielo!
Li veggio d'ogni parte farsi presta
ciascun'ombra, e baciarsi una con una,
senza restar, contente a breve feste.
Così per entro loro schiera bruna
s'ammusa l'una con l'altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna.
E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i loro sentimenti, non solo il vago e l'indeterminato, ma anche il proprio e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio, lo mostra il suo «paternostro», rimaso canto solitario.
Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza.
In essi non e alcuna subbiettività: sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell'estasi, e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.
Tal che parea beato per iscritto...
Verdi come fogliette pur mo' nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate...
Ben discernea in lor la testa bionda,
ma nelle facce l'occhio si smarria,
come virtù ch'a troppo si confonda...
A noi venìa la creatura bella,
bianco vestita, e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Molto per la pittura, poco per la poesia.
Manca la parola, manca la personalità.
Ci è il corpo dell'angiolo; non ci è l'angiolo.
Nelle dolci note, tra quelle forme d'angioli, l'anima s'infutura, «gusta le primizie del piacere eterno».
Di che prende qualità la natura del purgatorio, una montagna, scala al paradiso, in principio faticosa a salire:
E quanto uom più va su, e men fa male.
Però quando ella ti parrà soave
tanto che il su andar ti sia leggiero,
com'a seconda in giuso l'andar con nave,
allor sarai al fin d'esto sentiero.
Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco.
La prima impressione della luce, uscendo dall'inferno, cava a Dante questa bella immagine:
Dolce color d'oriental zaffiro
che s'accoglieva nel sereno aspetto
dell'aer puro infino al primo giro,
agli occhi miei ricomincio diletto.
La natura è l'accordo musicale e la voce di quel di dentro: qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un solo universo lirico.
Scena stupenda è nel canto settimo, maravigliosa consonanza tra le ombre sedute, quete, che cantano «Salve Regina», e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.
«Salve Regina» in sul verde e in su' fiori
quindi seder, cantando, anime vidi.
Le anime piangono e cantano, e il luogo alpestre è lieto di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha termine, quando l'anima si leva con libera volontà a miglior soglia, tolte le «schiume della coscienza», con pura letizia.
Così come nell'inferno si scende sino al pozzo ghiacciato della morte, nel purgatorio si sale sino al paradiso terrestre, immagine terrena del paradiso, dove l'anima è monda del peccato o della carne, e rifatta bella e innocente.
Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusinghi l'immaginazione: riso di cielo, canti di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolar di fronde e mormorare di acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con tale austera misura, che non dà luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi, nè il diletto turba la calma.
Il purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell'anima; è qua che il nodo si scioglie.
Dante, più che spettatore è attore.
Uscito dall'inferno, appena all'ingresso del purgatorio l'angiolo incide sulla sua fronte sette «P», che sono i sette peccati mortali, che si purgano ne' sette gironi.
Da un girone all'altro una «P» scomparisce dalla fronte, finchè van via tutte, e puro e rinnovellato giunge al paradiso terrestre.
Passa da uno stato nell'altro in sonno, cioè a dire per virtù della grazia, senza sua coscienza.
È Lucia, «nemica di ciascun crudele», che lo piglia dormente e sognante, e lo conduce in purgatorio.
Così la storia intima dell'anima, i suoi errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti, sono storia esterna e simbolica: il dramma è strozzato nella sua culla.
La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si scioglie, e il pentimento, l'anima che si riconosce, e caccia via da sè il peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione.
A questo punto il dramma si fa umano, e ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha fatto qui; ma una storia intima, personale, drammatica dell'anima, com'è il Faust, non era possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.
Qui tutt'i personaggi del dramma si trovano a fronte.
Di qua Dante, Virgilio, Stazio; di là Beatrice con gli angeli; in mezzo e il rio che li divide, bipartito in due fiumi, Lete, l'obblio, ed Eunoè, la forza.
Nell'uno l'anima si spoglia della scoria del passato; nell'altra attinge virtù di salire alle stelle.
L'alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Lete si passasse, e tal vivanda
fosse gustata senza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda.
Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto del pentimento, e le passa all'altra riva, rifatte nell'antico stato d'innocenza.
E lo specchio dell'anima rinnovellata è Matilde, che danza e sceglie fiori, in sembianza ancora umana, celeste creatura, con l'ingenua giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una silfide, col pudico sguardo di vergine, il viso radiante di luce.
Tale era Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il nunzio del paradiso terrestre.
La scena dove questo mistero dell'anima si scioglie ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero liturgico, una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano durante le processioni.
Vedi una Chiesa animata e ambulante in processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi d'oro, e dietro gente vestita di bianco che canta «Osanna», e le fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo di luce sfila la processione.
Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell'antico Testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio:
Tutti cantavan: - Benedetta tue
nelle figlie di Adamo, e benedette
sieno in eterno le bellezze tue.
-
Segue la Chiesa in figura di carro trionfale, a due ruote (i due testamenti), tra quattro animali (i quattro vangeli), tirato da un grifone, simbolo di Cristo; a destra Fede, Speranza e Carità; a sinistra Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, vestite di porpora; dietro due vecchi, san Luca e san Paolo, e dietro a loro, quattro in umile paruta, forse gli scrittori dell'Epistole, e solo e dormente san Giovanni dall'Apocalisse:
E diretro da tutti un veglio solo
venir dormendo con la faccia arguta.
Si ode un tuono.
La processione si ferma.
Comincia la rappresentazione.
Virgilio guarda attonito, non meno che Dante.
Il senso di quella processione allegorica gli sfugge.
La missione del savio pagano è finita.
Hai innanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo co' suoi profeti e patriarchi, co' suoi evangelisti e apostoli, co' suoi libri santi.
Fermata la processione, uno canta e gli altri ripetono: «Veni sponsa, de Libano», e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano e gittano fiori.
Tutti dicean: - Benedictus qui venis
e fior gittando di sopra e dintorno
manibus o date lilia plenis.
-
Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido velo, cinta d'oliva, sotto verde manto, vestita di colore di fiamma; appare come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli.
Dante non la vede, ma la sente: è Beatrice.
Quest'apoteosi di Beatrice, questo primo apparire della sua donna ancora velata fra tanta gloria, scioglie l'immaginazione dalla rigidità de' simboli e de' riti, e le dà le libere ali dell'arte.
Il dramma si fa umano; spuntano le immagini e i sentimenti:
Io vidi già nel cominciar del giorno
le parte oriental tutta rosata,
e l'altro ciel di bel sereno adorno
e la faccia del sol nascere ombrata
sì chè per temperanza di vapori
l'occhio la sostenea lunga fiata.
Così dentro una nuvola di fiori,
che dalle mani angeliche saliva
e ricadeva giù dentro e di fuori,
sovra candido vel, cinta di oliva
donna m'apparve sotto il verde manto
vestita di color di fiamma viva.
L'apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio.
Qui l'astrattezza del simbolo è superata.
Ti senti innanzi ad un'anima d'uomo.
Quella donna è la sua Beatrice, l'amore della sua prima giovinezza; e Virgilio e il dolcissimo padre che sparisce, quando più ne aveva bisogno, quando era proprio come un fantolino in paura che si volge alla mamma; e si volge, e non lo vede più, e lo chiama tre volte per nome nella mente sbigottita.
Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno:
E lo spirito mio che già cotanto
tempo era stato ch'alla sua presenza
non era di stupor tremando affranto,
senza dagli occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d'antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che nella vista mi percosse
l'alta virtù che già m'avea trafitto
prima ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi alla sinistra, col respitto
col quale il fantolin corre alla mamma,
quando ha paura o quando egli è afflitto,
per dicer a Virgilio: - Men che dramma
di sangue m'è rimaso, che non tremi;
conosco i segni dell'antica fiamma -.
Ma Virgilio ne avea lasciati scemi
di sè; Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio, a cui per mia salute dièmi.
Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per introdurre in iscena Beatrice:
Dante, perchè Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada.
Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chiama per nome:
Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
Non sapei tu che qui l'uomo è felice?
E gli occhi cadono nella fontana, e non sostenendo la propria vista, cadono sull'erba:
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, io trassi all'erba:
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Qui è la prima volta e sola che un'azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo svolgimento, come in un mistero, e Dante vi rivela un ingegno drammatico superiore.
I più intimi e rapidi movimenti dell'animo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono perfettamente disegnati; gli angioli fanno coro e intervengono.
La scena è rapida, calda, piena di movimenti e di gradazioni fini e profonde.
La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri giunge a poco a poco sino al pianto dirotto.
Dapprima sta li più attonito che compunto, ma quando gli angioli nel loro canto hanno aria di compatirgli, come se dicessero: «Donna, perchè sì lo stempre?» scoppia il pianto.
Quello che non potè il rimprovero, ottiene il compatimento.
Gradazione vera e profonda e rappresentata con rara evidenza d'immagine.
Instando Beatrice: - Di' di', se questo è vero -, tra confusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un tale «sì» dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:
al quale intender fur mestier le viste.
I sentimenti dell'animo scoppiano con tanta ingenuità e naturalezza, che rasentano il grottesco; quando Beatrice dice: «Alza la barba», il nostro dottore con linguaggio della scuola riflette:
e quando per la «barba» il «viso» chiese,
ben conobbi 'l velen dell'argomento.
Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo di Dante fra le lacrime e i sospiri, e dà a questa magnifica storia del cuore un colorito locale.
Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice.
Qui non ci è dialogo: è lei che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni.
Pure non ci è monotonia, ne declamazione: tutto esce da una situazione vera e finamente analizzata.
«Regalmente proterva», la sua severità è raddolcita poi dal canto degli angioli.
Beatrice non parla più a Dante: parla agli angioli, e narra loro la storia di Dante.
La situazione diviene meno appassionata, ma più elevata: mai la poesia non s'era alzata a un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la sua musa:
Quando di carne a spirto era salita
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu' io a lui men cara e men gradita:
e torse i passi suoi per via non vera,
immagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.
Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale, stringente, implacabile nella sua logica.
E una sola idea sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta.
- Sei uomo, hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della terra,
o pargoletta,
o altra vanità per sì breve uso?
- E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:
...
...
Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che 'l vostro viso si nascose.
Come si vede, è l'antica lotta tra il senso e la ragione che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell'anima fra gli errori e le battaglie del senso, che qui si scioglie in commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello spirito.
L'idea è più che trasparente, è manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico.
Ma l'idea e calata nella realtà della vita e produce una vera scena drammatica, con tale fusione di terreno e di celeste, di passione e di ragione, di concreto e di astratto, che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi il dramma spagnuolo.
Dante, pentito, tuffato nel fiume Lete, e menato a Beatrice dalle virtù, sue ancelle:
Noi sem qui ninfe; e nel ciel semo stelle.
Pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Menrenti agli occhi suoi...
E Beatrice gli svela la sua faccia.
Non è poesia che possa rendere quello che Dante vede, quello che sente:
O isplendor di viva luce eterna,
chi pallido si fece sotto l'ombra
sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te, qual tu paresti,
là, dove armonizzando il ciel ti adombra,
quando nell'aere aperto ti solvesti?
Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione sino all'albero della vita, dove, antitesi a questa Chiesa gloriosa di Cristo, apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena, trafitta dall'impero, travagliata dall'eresia, corrotta dal dono di Costantino, smembrata da Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del re di Francia.
Concetto stupendo, questo apparire della vita terrena nell'ultimo del purgatorio, germogliata dall'albero infausto del peccato di Adamo.
Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in realtà, ma in ricordanza.
Siamo già alla soglia del paradiso.
Così finisce questa processione dantesca, una delle concezioni più grandiose del poema, anzi in sè sola tutto un poema, dove ci vediamo sfilare davanti tutt'i grandi personaggi della Chiesa celeste, immagine anticipata del regno di Dio, un'apoteosi del cristianesimo, entro di cui si rappresenta il più alto mistero liturgico, la Commedia dell'anima.
Questa processione dove far molta impressione in quei tempi delle processioni, de' misteri e delle allegorie, quando gli angeli, le virtù e i vizi, e Cristo e Dio stesso entravano in iscena.
Ma è appunto questo carattere liturgico e simbolico, che qui scema in gran parte la bellezza della poesia.
Questo difetto nuoce soprattutto nella rappresentazione della Chiesa terrena, dove l'aquila, la volpe, e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto così magnifico, una storia così interessante.
Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il mantovano Sordello, sentendo Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:
O mantovano, io son Sordello.
della tua terra.
- E l'un l'altro abbracciava.
E Dante pensa alla sua Firenze, dove
...
...
l'un l'altro si rode
di quei che un muro e una fossa serra.
Qui non è impigliato nelle allegorie.
Scoppia il contrasto impetuoso, eloquente, e n'esce una poesia tutta cose, dove si riflettono i più diversi movimenti dell'animo, il dolore, lo sdegno, la pietà, l'ironia, una calma tristezza.
Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza.
Quando la vita si disabbella a' nostri sguardi, quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degli affetti domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere dell'arte e del pensiero, il Purgatorio ci s'illumina di viva luce e diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran parte di noi.
Fu il libro di Lamennais, di Balbo, di Schlosser.
Viene il Paradiso.
Altro concetto, altra vita, altre forme.
Il paradiso e il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla carne o dal senso, perciò il soprasensibile, o come dice Dante, il trasumanare, il di la dall'umano.
È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare in terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e atto sono una cosa.
Amore conduce lo spirito al supremo intelletto, e il supremo intelletto è insieme supremo atto.
La triade è insieme unità.
Quando l'uomo è alzato dall'amore fino a Dio, hai la congiunzione dell'umano e del divino, il sommo bene, il paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta, è una forma della vita umana.
Ci è nel nostro spirito un di là, ciò che dicesi il sentimento dell'infinito, la cui esistenza si rivela più chiaramente alle nature elevate.
L'arte antica avea materializzato questo di là, umanando il cielo, e la filosofia partendo dalle più diverse direzioni era giunta a questa conclusione pratica, che l'ideale della saggezza, e perciò della felicità, è posto nella eguaglianza dell'animo, ciò che dicevasi «apatia», affrancamento dalle passioni e dalla carne: pagana tranquillità, che vedi nelle figure quiete e serene e semplici dell'arte greca.
Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del limbo:
Sembianza avevan ne' trista ne' lieta...
Parlavan rado, con passi soavi
Virgilio n'è il tipo più puro, le cui impressioni vanno di rado al di là di un sospiro, o di un movimento tosto represso.
Questa calma è la fisonomia del purgatorio, il carattere più spiccato di quelle anime, dove l'aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicure di salirvi quandochessia.
Ma già in quelle anime penetra un elemento nuovo, l'estasi, il rapimento, la contemplazione; ci sta Catone, ma irradiato di luce.
Col cristianesimo s'era restaurato nello spirito questo inquieto di là, e divenne in breve molta parte della vita, anzi la principale occupazione della vita.
E si sviluppò un'arte e una letteratura conforme.
Chi vede gli ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di San Giovanni Laterano, o le facce estatiche de' santi consumate dal fervore divino ha innanzi stampato il tipo di questo uomo nuovo.
Quel di là, il celeste, il divino, appare su quelle facce, come appare nella Città di Dio di santo Agostino e nella Dieta salutis di san Bonaventura.
A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.
Questo di là, intravveduto nelle estasi, ne' sogni, nelle visioni nelle allegorie del purgatorio, eccolo qui nella sua sostanza, è il paradiso.
Il quale intravveduto nella vita ha una forma, e può essere arte; ma non si concepisce come, veduto ora nella sua purezza, come regno dello spirito, possa avere una rappresentazione.
Il paradiso può essere un canto lirico, che contenga.
non la descrizione di cosa che è al di sopra della forma, ma la vaga aspirazione dell'anima a «non so che divino», ed anche allora l'obietto del desiderio, pur rimanendo «un incognito indistinto», riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nell'Aspirazione e nel Pellegrino di Schiller, e in questi bei versi del Purgatorio, imitati dal Tasso:
Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze eterne.
Per rendere artistico il paradiso, Dante ha immaginato un paradiso umano, accessibile al senso e all'immaginazione.
In paradiso non c'è canto, e non luce e non riso; ma essendo Dante spettatore terreno del paradiso, lo vede sotto forme terrene:
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultade, e mani e piedi
attribuisce a Dio ed altro intende.
Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l'arte.
Il paradiso teologico è spirito, fuori del senso e dell'immaginazione, e dell'intelletto; Dante gli dà parvenza umana e lo rende sensibile ed intelligibile.
Le anime ridono, cantano, ragionano come uomini.
Questo rende il paradiso accessibile all'arte.
Siamo all'ultima dissoluzione della forma.
Corpulenta e materiale nell'Inferno, pittorica e fantastica nel Purgatorio, qui è lirica e musicale, immediata parvenza dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e cerchio dello spirito, non esso spirito.
Il purgatorio, come la terra, riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l'hanno immediatamente da Dio, sicchè le anime purganti, come gli uomini, veggono il sole, e nel sole intravvedono Dio, offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di luce; ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui senza mezzo:
lume che a lui veder ne condiziona.
Adunque il paradiso e la più spirituale manifestazione di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt'i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione.
Amore, beatitudine, contemplazione prendono anche forma di luce; gli spiriti si scaldano ai raggi d'amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto eterno:
Luce intellettual piena d'amore,
amor di vero ben pien di letizia,
letizia che trascende ogni dolzore.
Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce; l'ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.
Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso, come l'inferno e il purgatorio.
È una progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire, manifestazione ascendente di Dio che risponde a' diversi ordini o gradi di virtù.
Sali di stella in stella, come di virtù in virtù, sino al cielo empireo, soggiorno di Dio.
Ad esprimere queste gradazioni, unica forma è la luce.
Perciò non hai qui, come nell'inferno o nel purgatorio, differenze qualitative, ma unicamente quantitative, un più e un meno.
Prima la luce non è così viva che celi la faccia umana; più si sale e più la luce occulta le forme come in un santuario.
Come è la luce, così è il riso di Beatrice, un «crescendo» superiore ad ogni determinazione; la fantasia, formando, non può seguire l'intelletto, che distingue.
Bene il poeta vi adopera l'estremo del suo ingegno, conscio della grandezza e difficoltà dell'impresa:
L'acqua ch'io prendo giammai non si corse.
Minerva spira e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran l'Orse.
Dapprima caldo di questo mondo, sua fattura, allettato dalla novità o dal maraviglioso de' fenomeni che gli si affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine; poi quasi stanco diviene arido e dà in sottigliezze; ma lo vedi rilevarsi e poggiare più e più a inarrivabile altezza, sereno, estatico: diresti che la difficoltà lo alletti, la novità lo rinfranchi, l'infinito lo esalti.
Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che tutto move, centro dell'universo.
Ivi sono gli spiriti, ma secondo i gradi de' loro meriti e della loro beatitudine appariscono ne' nove cieli che girano intorno alla terra, la luna, Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove, Saturno, le stelle fisse e il primo mobile.
Ne' primi sette cieli, che sono i sette pianeti, ti sta avanti tutta la vita terrena.
La luna è una specie di avanti-paradiso.
I negligenti aprono l'inferno e il purgatorio, e aprono anche il paradiso.
E i negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontà propria, ma per violenza altrui.
Il loro merito non è pieno, perchè mancò loro quella forza di volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe' Muzio severo alla sua mano.
Perciò in loro rimane ancora un vestigio della terra: la faccia umana.
In Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove hai le glorie della vita attiva, i legislatori, gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti.
In Saturno hai la corona e la perfezione della vita, i contemplanti.
Percorsi i diversi gradi di virtù, comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della beatitudine.
Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo, nel primo mobile il trionfo degli angioli, e nell'empireo la visione di Dio, la congiunzione dell'umano e del divino, dove s'acqueta il desiderio.
Questa storia del paradiso secondo i diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne' diversi gradi di luce.
La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite di tutte le forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione dell'occhio mortale.
Essa è la stessa beatitudine, la letizia delle anime, che prende quell'aspetto agli occhi di Dante:
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia d'intorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Queste parvenze dell'interna letizia si atteggiano, si determinano, si configurano ne' più diversi modi, e non sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che paion fuori in quelle forme.
E n'esce la natura del paradiso, luce diversamente atteggiata e configurata, che ha aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio, or di costellazione, ora di scala, con viste nuove e maravigliose.
Queste combinazioni di luce non sono altro che gruppi d'anime, che esprimono i loro pensieri co' loro moti e atteggiamenti.
A rendere intelligibili le parvenze di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più delicati, e ne fa lo specchio della natura celeste.
Così rientra la terra in paradiso, non come sostanziale, ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti.
È la terra che rende amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e simboliche.
La terra ha pure la sua parte di paradiso, ed è in quei fenomeni che inebbriano, innalzano l'animo e lo dispongono alla tenerezza e all'amore: trovi qui tutto che in terra è di più etereo, di più sfumato, di più soave.
E come l'impressione estetica nasce appunto da questo profondo sentimento della natura terrestre, avviene che il lettore ricorda il paragone, senza quasi più sapere a che cosa si riferisca.
Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del Paradiso:
Come a raggio di sol che puro mèi
per fratta nube, già prato di fiori
vider coverti d'ombra gli occhi miei;
vid'io così più turbe di splendori
fulgorati di su da' raggi ardenti,
senza veder principio di fulgori.
Sì come 'l Sol che si cela egli stessi
per troppa luce, quando il caldo ha rose
le temperanze de' vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa,
e così chiusa chiusa mi rispose...
Come l'augello, intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati,
la notte che le cose ci nasconde,
che per veder gli aspetti desiati
e per trovar lo cibo onde gli pasca,
in che i gravi labori gli sono grati,
previene 'l tempo in su l'aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur se l'alba nasca...
...
come orologio che ne chiami
nell'ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perchè l'ami;
che l'una parte e l'altra tira ed urge,
«tin tin» sonando con si dolce nota,
che il ben disposto spirto d'amor turge...
...
e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
Qual lodoletta che in aere si spazia,
prima cantando e poi tace contenta
dell'ultima dolcezza che la sazia...
Pareva a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sè l'eterna margherita
ne ricevette, com'acqua recepe
raggio di luce, rimanendo unita.
Siccome schiera d'api che s'infiora
una fiata, ed una si ritorna
là dove suo lavoro s'insapora...
E vidi lume in forma di riviera,
fulvido di fulgore, intra duo rive,
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d'ogni parte si mettean ne' fiori
quasi rubin che oro circoscrive.
Poi come inebriate dagli odori
riprofondavan sè nel miro gurge;
e s'una entrava, un'altra usciane fuori.
Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e di evidenza.
Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante.
Siamo nell'empireo.
La virtù visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice, sì che gli appare la riviera di luce, e fortificata la vista in quella riviera, in quei fiori inebbrianti, in quell'oro, in quei rubini, in quelle vive faville, Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio.
Ma in verità gli scanni de' beati sono meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.
Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un press'a poco, un quasi, un come, «fioca e corta» al concetto.
Questa impotenza della forma produce un sublime negativo, che Dante esprime con l'energia intellettuale di chi ha vivo il sentimento dell'infinito:
...
appressando sè al suo desire
nostro intelletto si profonda tanto
che la memoria retro non può ire.
...
ogni minor natura
è corto recettacolo a quel bene,
che non ha fine e sè con sè misura.
...
nella giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com'occhio per lo mare, entro s'interna;
chè, benchè dalla proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
egli è, ma 'l cela lui l'esser profondo.
La letizia che move le anime e «trascende ogni dolzore», non è se non beatitudine.
E rende beate le anime l'entusiasmo dell'amore e la chiarezza intellettiva, o come dice Dante, «luce intellettual piena d'amore».
Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente.
Nel cuore è perenne desiderio e perenne appagamento.
Nella mente la verità sta come «dipinta».
La luce è forma inadeguata della beatitudine.
Ti dà la parvenza, ma non il sentimento e non il pensiero.
Spuntano perciò due altre forme, il canto e la visione intellettuale.
Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è amore, ardore di desiderio placato sempre non saziato mai, infinito come lo spirito.
Stato lirico e musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel canto.
La medesimezza del sentimento spinto sino all'entusiasmo genera la comunione delle anime; la persona non è l'individuo, ma il gruppo, come è delle moltitudini nei grandi giorni della vita pubblica.
I gruppi qui non sono cori, che accompagnino e compiano l'azione individuale, ma sono la stessa individualità diffusa in tutte le anime, o se vogliamo chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili e muti, di Cristo, di Maria e d'Iddio.
Ecco il coro di Maria:
Per entro 'l cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
quaggiù e più a sè l'anima tira,
parrebbe nube che squarciata tuona,
comparata al suonar di quella lira,
onde si coronava il bel zaffiro,
del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
- Io sono amore angelico che giro
l'alta letizia che spira dal ventre
che fu albergo del nostro desiro;
e girerommi, Donna del ciel, mentre
che seguirai tuo Figlio e farai dia
più la spera superna, perchè lì entre -.
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti gli altri lumi
facèn sonar lo nome di Maria...
E come fantolin che inver' la mamma
tende le braccia, poi che 'l latte prese,
per l'animo che infin di fuor s'infiamma;
ciascun di quei candori in su si stese
con la sua cima sì che l'alto affetto
ch'egli aveano a Maria, mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
«Regina coeli» cantando sì dolce
che mai da me non si partì il diletto.
Quella facella è l'angiolo Gabriele, e il coro è angelico.
Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito, hanno vita comune, se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è irriflessa: plenitudine volante tra' beati e Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della prima età, tripudianti e folleggianti con una espansione che il poeta chiama «arte» e «gioco»:
Qual è quell'angel che con tanto gioco
guarda negli occhi la nostra Regina,
innamorato sì che par di fuoco?
L'amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta «sodalizio».
I loro moti sono danze, le loro voci sono canti; ma, in quell'accordo di voci, in quel turbine di movimenti la personalità scompare: è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melode.
Non ci è differenza di aspetto, ma per dir così una faccia sola.
Questa comunanza di vita è il fondo lirico del Paradiso, ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta, contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici, non ha avuta tanta libertà e attività di spirito da creare la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio.
E dove potea giungere, lo mostra la preghiera di san Bernardo, che è un vero inno alla Vergine, e l'inno a san Francesco d'Assisi e l'inno a san Domenico, nella loro semplicità anche un po' rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni.
I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia: è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco:
- Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo -
cominciò - gloria - tutto il paradiso,
tal che m'inebbriava il dolce canto.
Ciò ch'io vedeva, mi sembrava un riso
dell'universo, perochè mia ebbrezza
entrava per l'udire e per lo viso.
Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!
Oh vita intera d'amore e di pace!
Oh senza brama sicura ricchezza!
È l'armonia universale, l'inno della creazione.
La luce, vincendo la corporale impenetrabilità e frammischiando i suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime, l'individualità sparita nel mare dell'essere.
Il poeta, signore anzi tiranno della lingua, forma ardite parole a significare questa medesimezza amorosa degli esseri nell'essere: «inciela», «imparadisa», «india», «intuassi», «immei», «inlei», «s'infutura», «s'illuia», delle quali voci alcune dopo lungo obblio rivivono.
La redenzione dell'anima è la sua progressiva emancipazione dall'egoismo della coscienza; la sua individualità non le basta; si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla idealità nella vita universale.
Questo è il carattere della vita in paradiso.
Non solo sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la personalità.
Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.
Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra e con la terra altre forme ed altre passioni.
La terra penetra come contrapposto a questa vita d'amore e di pace.
È vita d'odio e di vana scienza, e provoca le collere e i sarcasmi de' celesti.
Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici.
Accolto nel sole gloriosamente allato a Beatrice, si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure terrestri:
O insensata cura de' mortali
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l'ali!
Chi dietro a iura, e chi ad aforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi in rubare, e chi in civil negozio;
chi nel diletto della carne involto
s'affaticava e chi si dava all'ozio.
Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall'alto delle stelle fisse guarda alla terra:
...
e vidi questo globo
tal ch'io sorrisi del suo vil sembiante.
La terra «che ci fa tanto feroci», veduta dal cielo, gli pare un'aiuola.
Il concetto, abbellito e allargato dal Tasso, ha qui una severità di esecuzione quasi ieratica.
Il poeta si sente già cittadino del cielo, e guarda così di passata e con appena un sorriso a tanta viltà di sembiante volgendone immediatamente l'occhio e mirando in Beatrice:
L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendomi io con gli eterni gemelli,
tutta m'apparve da' colli alle foci:
poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.
Pure è quest'aiuola che desta nel seno de' beati varietà di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde.
Accanto all'inno spunta la satira in tutte le sue gradazioni, il frizzo, la caricatura, l'ironia, il sarcasmo.
Qual frizzo, che l'allusione di Carlo Martello, così pungente nella sua generalità:
e fanno re di tal, che è da sermone!
Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta nel maneggio della caricatura e dell'ironia, frustando i predicatori plebei di quel tempo:
Or si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia 'l cappuccio e più non si richiede.
Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi e della gloria dell'antica Roma con fiere minacce ai guelfi, nemici dell'aquila imperiale.
Papa e monaci sono i più assaliti.
San Tommaso, dette le lodi di san Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto i benedettini, e san Pietro il papa.
Tutt'i re di quel tempo mandano sangue sotto il flagello di Dante.
Non si può attendere da' santi alcuna indulgenza alle umane fralezze.
La satira è acerba; la sua musa è l'indignazione, e la sua forma ordinaria è l'invettiva.
Le forme comiche sono uccise in sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo.
Il sarcasmo non è qui nè un pensiero, nè un tratto di spirito, ma pittura viva del vizio, con parole anche grossolane, come «cloaca», che mettano in vista il laido e il disgustoso.
Il vizio è colto non in una forma generale e declamatoria, ma là, in quegli uomini, in quel tempo, sotto quelli aspetti, con pienezza di particolari ed esattezza di colorito.
Capilavori di questo genere sono la pittura de' benedettini e l'invettiva di san Pietro.
Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è altro se non l'antitesi che è in terra tra i buoni e i cattivi, e per scendere al particolare, tra l'età dell'oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è il presente condannato dal passato, è il passato messo in risalto dal suo contrasto con la corruzione presente.
Ci erano i benedettini, ma ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano.
Gli uomini di quell'aurea età più illustri per santità e per scienza sono qui raccolti, come in un pantheon; è il mondo eroico cristiano, succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo, e di cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso.
Questa età dell'oro collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti, ed è la pittura dell'antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida, uno de' suoi antenati.
Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l'ideale dell'età dell'oro e della domestica felicità con tanta semplicità di costumi, con tanta modestia di vita, e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine.
La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli medesimo il suo piedistallo.
Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta.
L'esilio non è rappresentato ne' patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai magnanimi, lasciare ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane all'insolente pietà degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne' versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande.
Ma è un dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall'alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a' suoi piedi tutt'i potenti della terra.
La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale.
La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce e detta «intellettuale».
Beatrice spiega così il suo riso a Dante:
S'io ti fiameggio nel caldo d'amore
di là dal modo che in terra si vede,
sì che degli occhi tuoi vinco il valore,
non ti maravigliar; chè ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
La beatitudine e la contemplazione, e la contemplazione è appunto questa perfetta visione intellettuale.
Perciò le anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono la verità, non come idea, ma come natura vivente.
In terra ci è l'apparenza del vero, e perciò diversità di sistemi filosofici, come spiega Beatrice:
Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l'amor dell'apparenza e 'l suo pensiero.
In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto eterno; in Dio è legato con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna; vedere Dio è vedere la verità.
E non è visione solo di cose, ma di pensieri e di desidèri.
I beati vedono il pensiero di Dante senza ch'egli lo esprima.
La scienza com'era concepita a' tempi di Dante, sposata alla teologia, avea una forma concreta e individuale, materia contemplabile e altamente poetica.
Un Dio personale, che, immobile motore, produce amando l'idea esemplare dell'universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una parte più e meno in un'altra sino alle ultime contingenze; gli astri, dove si affacciano i beati, influenti sulle umane sorti e governati da intelligenze da cui spira il moto e le virtù de' loro giri; il cielo empireo, centro di tutt'i cerchi cosmici e soggiorno della pura luce; l'universo, splendore della divinità, dove appare squadernato ciò che in Dio è un volume; l'ordine e l'accordo di tutto il creato dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la caduta dell'uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l'incarnazione e la passione del Verbo; la verità rivelata, oscura all'intelletto, visibile al cuore, avvalorata dalla fede, confortata dalla speranza, infiammata dalla carità: in questa scienza della creazione il pensiero è talmente concretato e incorporato, che il poeta può contemplarlo come cosa vivente, come natura.
Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che una descrizione, come di cosa che si vede e non si dimostra.
Il perfetto vedere de' beati è privilegio di Dante; nessuno gli sta del pari nella forza e chiarezza della visione.
Spirito dommatico, credente e poetico, predica dal paradiso la verità assoluta, e non la pensa, la scolpisce.
Diresti che pensi con l'immaginazione, aguzzata dalla grandezza e verità dello spettacolo.
Nascono ardite metafore e maravigliose comparazioni.
L'accordo della prescienza col libero arbitrio è una delle concezioni più difficili e astruse; ma qui non è una concezione, è una visione, uno spettacolo: così potente è questa immaginazione dantesca:
La contingenza che fuor del quaderno
della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
se non come dal viso in che si specchia
nave che per corrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti si apparecchia.
Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dall'alto del paradiso, da cui dechina via via fino alle ultime conseguenze: forma contemplativa e dommatica, anzi che discorsiva e dimostrativa, e propria della poesia, presentando all'immaginazione vasti orizzonti in una sola comprensione:
Guardando nel suo Figlio con l'Amore
che l'uno e l'altro eternalmente spira
lo primo e ineffabile valore
quanto per mente e per occhio si gira
con tant'ordine fe' ch'esser non puote
senza gustar di lui chi ciò rimira.
Questa forma poetica della scienza, questa visione intellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a molta perfezione.
È un certo modo di situare l'oggetto e metterlo in vista, sì che l'occhio dell'immaginazione lo comprenda tutto.
Se ci è cosa che ripugna a questa forma, è lo scolasticismo con la barbarie delle sue formole e le sue astrazioni; ma l'immaginazione vi fa penetrare l'aria e la luce: miracolo prodotto dalle due grandi potenze della mente dantesca, la virtù sintetica e la virtù formativa.
Veggasi la stupenda descrizione che fa Beatrice del moto degli astri, di poco inferiore alla storia del processo creativo, il capolavoro di questo genere.
Qui la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar d'occhio, con sì stretta e rapida concatenazione che tutto il creato ti sta innanzi come una sola idea semplice.
Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi, come l'unità della luce nella sua diversità, e l'imperfezione della natura, che non ti dà mai realizzato l'ideale.
I concetti qui non sono astrazioni, ma forze vive, gli attori della creazione, la luce, il cielo, la natura, e non hai un ragionamento, hai una storia animata, con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone poetiche:
Ciò che non muore e ciò che può morire
non è se non splendor di quell'idea,
che partorisce amando il nostro Sire.
Chè quella viva luce che si mea
dal suo Lucente, che non si disuna
da lui, nè dall'amor che in lor s'intrea;
per sua bontate il suo raggiare aduna
quasi specchiato in nuove sussistenze,
eternalmente rimanendosi una.
Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di energia in dir cosa difficilissima.
Nè minor potenza d'intuizione trovi nella fine, quando, paragonando l'ideale alla cera del suggello, aggiunge:
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando all'artista,
che ha l'abito dell'arte e man che trema.
Ed anche la mano di Dante trema, che fra tante bellezze ci è non poca scoria.
Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che esce dall'università di Parigi, pieno il capo di tesi e di sillogismi.
Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di barbarie scolastica: definizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni.
E questo è non per difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio.
A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca.
- Tornate indietro - egli dice - che il mio libro e per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; - e sono i filosofi e i dottori suoi pari.
Perciò il Paradiso e poco letto e poco gustato.
Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.
La visione intellettuale è la beatitudine.
L'esposizione della scienza riesce in cantici e inni, le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del cielo:
Finito questo, l'alta corte santa
risuona per le spere un Dio lodiamo,
nella melode che lassù si canta.
Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
risono per lo cielo, e la mia donna
dicea con gli altri: «Santo, santo, santo !»
Così è sciolto questo mistero dell'anima.
Adombrato ne' simboli e allegorie del Purgatorio, qui il mistero è svelato, è la Divina Commedia dell'anima, il suo indiarsi nell'eterna letizia.
La forza che tira Dante a Dio, si che sale come rivo,
se di alto monte scende giuso ad imo,
è l'amore, è Beatrice, che all'alto volo gli veste le piume Beatrice è in sè il compendio del paradiso, lo specchio dove quello si riflette ne' suoi mutamenti.
Puoi dipingerla quando prega Virgilio o quando «regalmente proterva» rimprovera l'amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello.
La stessa parola non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile, se non ne' suoi effetti su Dante e su' celesti.
Ecco uno de' più bei luoghi:
Quivi la donna mia vid'io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fe' il pianeta;
e se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec'io, che pur di mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come in peschiera che è tranquilla e pura
traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
per modo che lo stimin lor pastura;
sì vid'io ben più di mille splendori
trarsi ver' noi, ed in ciascun s'udia:
Ecco chi crescerà li nostri amori.
-
Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l'anima.
L'amore è purificato: nulla resta più di sensuale.
Dante che nel purgatorio sentì il tremore dell'antica fiamma, qui ode Beatrice con un sentimento assai vicino alla riverenza.
Quando ella si allontana, ei non manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata.
Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome, nel piccolo cenno che gli fa Beatrice, l'amore dell'uomo come ombra si dilegua nell'amore di Dio, ella lo ama in Dio:
Così orai, e quella si lontana,
come parea, sorrise e riguardommi:
poi si tornò alla eterna fontana.
Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo «scotto» del pentimento, così non può ne' «gemelli» o stelle fisse contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua fede.
Allora san Pietro lo incorona poeta, e poeta vuol dire banditore della verità.
San Pietro gli dice:
e non asconder quel ch'io non ascondo.
Così la Commedia ha la sua consacrazione e la sua missione.
È la verità bandita dal cielo, della quale Dante si fa l'apostolo e il profeta: è il «poema sacro».
Con quella stessa coscienza della sua grandezza che si fe' «sesto fra cotanto senno», qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l'interprete, congiungendo in sè le due corone, il savio e il santo, l'antica e la nuova civiltà, il filosofo e il teologo.
Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato, Dante si sente oramai vicino a Dio.
Avea già contemplata la divinità nella sua umanità, il Dio-uomo.
Il trionfo di Cristo, la festa dell'Incarnazione, sembra reminiscenza di funzioni ecclesiastiche, co' suoi principali attori, Cristo, la Vergine, Gabriello.
Cristo e la Vergine sono come nel santuario, invisibili; la festa è tutta fuori di loro e intorno a loro.
Succede il trionfo degli angioli, e poi nell'empireo il trionfo di Dio.
L'empireo è la città di Dio, il convento de' beati, il proprio e vero paradiso.
Beatrice raggia sì, che il poeta si concede vinto più che tragedo o comico superato dal suo tema, e desiste dal seguir
più dietro a sua bellezza poetando,
come all'ultimo suo ciascun artista.
Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile
lo Creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa, le cui bianche foglie si distendono per l'infinito spazio, e sono gli scanni de' beati.
San Bernardo spiega e descrive il maraviglioso giardino.
Il punto che più splende è là dove sono
gli occhi da Dio diletti e venerati,
dove è la Vergine e gli angioli.
Quel punto è la pacifica orifiamma del paradiso, la bandiera della pace.
Il giardino, la rosa, l'orifiamma sono immagini graziose, ma inadeguate.
Queste metafore non valgono la stupenda terzina, dove san Bernardo è rappresentato in forma umana e intelligibile:
Diffuso era per gli occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio,
quale a tenero padre si conviene.
Il paradiso, appunto perchè paradiso, non puoi determinarlo troppo e descriverlo, senza impiccolirlo.
La sua forma adeguata è il sentimento, l'eterno tripudio: ciò che è ben colto in quella plenitudine volante di angeli, che diffondono un po' di vita tra quella calma.
Il vero significato lirico del paradiso è nell'inno di Dante a Beatrice e nell'inno di san Bernardo alla Vergine, ne' quali è il paradiso guardato dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo.
I beati stessi diventano interessanti, quando tra quella luce vedi spuntare
visi a carità suadi,
ed atti ornati di tutte onestadi
o quando «chiudon le mani» implorando la Vergine.
Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui l'universo, e poi la Trinità, e poi l'Incarnazione, congiunzione dell'umano e del divino, in cui si acqueta il desiderio, il «disiro» e il «velle»,
sì come ruota ch'egualmente e mossa.
Dante vede, ma è visione, di cui hai le parole e non la forma; ci è l'intelletto, non ci è più l'immaginazione, divenuta un semplice lume, un barlume.
La forma sparisce; la visione cessa quasi tutta; sopravvive il sentimento:
...
quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di sibilla.
L'immaginazione morendo manda in questi bei versi l'ultimo raggio.
All'«alta fantasia» manca la possa; e insieme con la fantasia muore la poesia.
Così finisce la storia dell'anima.
Di forma in forma, di apparenza in apparenza, ritrova e riconosce se stessa in Dio, pura intelligenza, puro amore e puro atto.
Ed è in questa concordia che l'anima acqueta il suo desiderio, trova la pace.
Nell'Inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme ricevono d'ogni sorte differenze, spiccate, distinte, corpulente e personali.
Nel Purgatorio la materia non è più la sostanza, ma un momento: lo spirito acquista coscienza di sua forza, e contrastando e soffrendo conquista la sua libertà: la realtà vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui si sprigiona, aspirazione all'avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell'immaginativa anzi che obbietti reali: pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e canti.
Nel Paradiso lo spirito già libero di grado in grado s'india; le differenze qualitative si risolvono, e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce, nella incolorata melodia musicale, nel puro pensiero.
Quel regno della pace che tutti cercavano, quel regno di Dio, quel regno della filosofia, quel «di là», tormento e amore di tanti spiriti, è qui realizzato.
Il concetto della nuova civiltà, di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui compreso in una immensa unità, che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e tutta la storia.
E chi costruisce così vasta mole, ci mette la serietà dell'artista, del poeta del filosofo e del cristiano.
Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti stimoli all'opera, la patria, la posterità, l'adempimento di quella sacra missione che Dio affida all'ingegno, acuti stimoli, ne' quali sono purificati altri motivi meno nobili, l'amor della parte, la vendetta, le passioni dell'esule: ci è là dentro nella sua sincerità tutto l'uomo, ci è quel d'Adamo e ci è quel di Dio.
A poco a poco quel mondo della fantasia diviene parte del suo essere, il suo compagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro della memoria, l'eco de' suoi dolori, delle sue speranze e delle sue maledizioni.
Nato a immagine del mondo che gli era intorno, simbolico, mistico e scolastico, quel mondo si trasforma e si colora e s'impolpa della sua sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto.
La sua mente sdegna la superficie, guarda nell'intimo midollo, e la sua fantasia ripugna all'astratto, a tutto dà forma.
Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il carattere del suo genio.
E non solo l'oggetto gli si presenta con la sua forma, ma con le sue impressioni e i suoi sentimenti.
E n'esce una forma, che è insieme immagine e sentimento, immagine calda e viva, sotto alla quale vedi il colore del sangue, il movere della passione.
E con l'immagine tutto è detto, e non vi s'indugia e non la sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e sdegna gli accessorii.
A conseguire l'effetto spesso gli basta una sola parola comprensiva, che ti offre un gruppo d'immagini e di sentimenti, e spesso, mentre la parola dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, l'armonia del verso ne esprime il sentimento.
Tutto è succo, tutto è cose, cose intere nella loro vivente unità, non decomposte dalla riflessione e dall'analisi.
Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non squadernato.
È un mondo pensoso, ritirato in sè, poco comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero in travaglio.
In quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri.
Là vive involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo, che sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna.
VIII
IL CANZONIERE
Dante morì nel 1321.
La sua Commedia riempie di sè tutto il secolo.
I contemporanei la chiamarono «divina», quasi la parola sacra, il libro dell'altra vita, o come diceano, il «libro dell'anima».
Un tal Trombetta, quattrocentista, la mette fra le opere sacre e i libri dell'anima «da studiarsi in quaresima», come le Vite de' santi Padri la Vita di san Girolamo.
Il popolo cantava i suoi versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua fantasia.
I dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle favole, quantunque alcuni austeri, come Cecco d'Ascoli, quel velo non ce l'avrebbero voluto.
E Fazio degli Uberti crede di far cosa più degna, rimovendo ogni velo ed esponendoci arida scienza nel suo Dittamondo, «dicta mundi».
L'impressione non fu puramente letteraria.
Ammiravano la forma squisita, ma tenevano il libro più che poesia.
Vedevano là entro il libro della vita o della verità, e ben presto fu spiegato e comentato come la Bibbia e come Aristotile, accolto con la stessa serietà con la quale era stato concepito.
Oscurissimo in molti particolari, e per le allusioni politiche e storiche e pel senso allegorico, il libro nel suo insieme è così chiaro e semplice, che si abbraccia tutto di un solo sguardo.
La scienza della vita o della creazione è colta ne' suoi tratti essenziali e rappresentata con perfetta chiarezza e coesione.
L'armonia intellettuale diviene cosa viva nell'architettura, così coerente e significativa nelle grandi linee, così accurata ne' minini particolari.
L'immaginazione anche più pigra concepisce di un tratto inferno, purgatorio e paradiso.
Il pensiero nuovo, mistico e spiritualista, lunga elaborazione dei secoli, compariva qui perfettamente armonizzato e pieno di vita.
In questo mondo intellettuale e dommatico, così ben rispondente alla coscienza universale, si sviluppava la storia o il mistero dell'anima nella più grande varietà delle forme, sì che vi si rifletteva tutta la vita morale nel suo senso più serio e più elevato.
Il sentimento della famiglia, la viva impressione della natura, l'amor della patria, un certo senso d'ordine, di unità, di pace interiore che fa contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici e privati, la virtù dell'indignazione, il disprezzo di ogni viltà e volgarità, la virilità e la fierezza della tempra, l'aspirazione ad un ordine di cose ideale e superiore, il vivere in ispirito e in contemplazione, come staccato dalla terra, il sentimento della giustizia e del dovere, la professione della verità, piaccia o non piaccia, con l'occhio volto a' posteri, e quella fede congiunta con tanto amore, quell'accento di convinzione, quella coscienza che ha il poeta della sua personalità, della sua grandezza e della sua missione; tutto questo appartiene a ciò che di più nobile ed elevato e nella natura umana.
Anche quel non so che scabro e rozzo e quasi selvaggio, ch'è nella superficie, rendeva l'immagine di quella eroica e ancor barbara giovinezza del mondo moderno.
Ma l'impressione prodotta dalla Commedia rimaneva circoscritta nell'Italia centrale.
La scuola del nuovo stile non avea fatto ancora sentire la sua azione nelle rimanenti parti d'Italia, dove la lingua dominante era sempre il latino scolastico ed ecclesiastico.
Malgrado l'esempio di Dante, non era ancora stabilito che in rima si potesse scrivere d'altro che di cose d'amore.
E in questa sentenza era anche Cino da Pistoia, solo superstite di quella scuola immortale, dalla quale era uscita la Commedia.
Compariva sulla scena la nuova generazione.
Lo studio de' classici, la scoperta di nuovi capilavori, una maggior pulitezza nella superficie della vita, la fine delle lotte politiche col trionfo de' guelfi, la maggior diffusione della coltura sono i tratti caratteristici di questa nuova situazione.
La superficie si fa più levigata, il gusto più corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il culto della forma per se stessa.
Gli scrittori non pensarono più a render le loro idee in quella forma più viva e rapida che si offrisse loro innanzi; ma cercarono la bellezza e l'eleganza della forma.
Dimesticatisi con Livio, Cicerone, Virgilio parve loro barbaro il latino di Dante; ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano state l'ammirazione della forte generazione scomparsa, e non poterono tollerare il latino degli scolastici e della Bibbia.
Intenti più alla forma che al contenuto, poco loro importava la materia, pur che lo stile ritraesse della classica eleganza.
Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Nel Petrarca si manifesta energicamente questo carattere della nuova generazione.
Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di Varrone, le storie di Plinio, la seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e due sue orazioni.
Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua liberalità la prima versione di Omero e di parecchi scritti di Platone.
Scopritore instancabile di codici emendava, postillava, copiava: copiò tutto Terenzio.
In questa intima familiarità co' più grandi scrittori dell'antichità greco-latina, tutto quel tempo di poi, che fu detto «il medio evo», gli apparve una lunga barbarie; di Dante stesso ebbe assai poca stima; gli stranieri chiamava «barbari»; gl'italiani chiamava «latin sangue gentile»; voleva una ristaurazione dell'antichità, e che non fosse ancora fattibile, ne accagiona la corruttela de' costumi.
Era Petracco e si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e li chiamò Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono lui e lo chiamarono Cicerone.
Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano, a Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co' quali viveva in ispirito, e poco innanzi di morire, scrisse una lettera alla posterità, alla quale raccomanda la sua memoria.
Così appariva l'aurora del Rinnovamento.
L'Italia volgeva le spalle al medio evo, e dopo tante vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava popolo romano e latino.
Questo proclamava Cola da Rienzo dall'alto del Campidoglio.
Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti; gli scolastici cessero il campo agli eruditi e a' letterati; la teologia fu segregata dagli studi di coltura generale e divenne scienza de' chierici; la filosofia conquistò il primato in tutto lo scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le leggende, i miti, i misteri, separati dal tronco in cui vivevano, divennero forme puramente letterarie e d'imitazione; tutto quel mondo teologico, mistico nel concetto, scolastico e allegorico nelle forme, fu tenuto barbarie da uomini che erano già in grado di gustare Virgilio e Omero.
Questa nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si sente romana e latina e si pone nella sua personalità di rincontro agli altri popoli, tutti stranieri e barbari, ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone.
Qui non ci è più il guelfo o il ghibellino, non il romano o il fiorentino: c'è l'Italia che si sente ancora regina delle nazioni; ci è l'italiano che parla con l'orgoglio di una razza superiore, e ricorda Mario come se fosse vivuto l'altro ieri e quella storia fosse la sua storia; ci è la viva impressione di quel mondo classico sul giovine poeta, che ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell'Italia potente e gloriosa, l'Italia di Mario.
L'orgoglio nazionale e l'odio de' barbari è il motivo della canzone, lo spirito che vi alita per entro.
Vi compariscono già tutte le qualità di un grande artista.
La chiarezza e lo splendore dello stile, la fusione delle tinte, l'arte de' chiaroscuri, la perfetta levigatezza e armonia della dizione, la sobrietà nel ragionamento, la misura ne' sentimenti, un dolce calore che penetra dappertutto senza turbare l'equilibrio e la serenità e l'eleganza della forma, fanno di questa canzone uno de' lavori più finiti dell'arte.
L'Italia ha avuto il suo poeta; ora ha il suo artista.
In questa risurrezione dell'antica Italia è naturale che la lingua latina fosse stimata non solo lingua de' dotti, ma lingua nazionale, e che la storia di Roma dovesse sembrare agl'italiani la loro propria storia.
Da queste opinioni uscì l'Africa, che al Petrarca dove parere la vera Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in quella lotta ultima, nella quale Roma, vincendo Cartagine, si apriva la via alla dominazione universale.
Questo poema rispondeva così bene alla coscienza pubblica, che Petrarca fu incoronato principe de' poeti, ed ebbe tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto mai.
Nuovo Virgilio, volle emulare anche a Cicerone, accettando volentieri legazioni che gli dessero occasione di recitare pubbliche orazioni.
Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino: lavori molto apprezzati da' contemporanei, ma tosto dimenticati, quando cresciuta la coltura e raffinato il gusto, parve il suo latino così barbaro, come barbaro era parso a lui il latino di Dante e de' Mussati, de' Lovati e de' Bonati tenuti a' tempi loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.
Ma la lingua latina potea così poco rivivere come l'Italia latina.
Il latino scolastico avea pure alcuna vita, perchè lo scrittore sforzava la lingua e l'ammodernava e ci mettea se stesso.
Ma il latino classico non potea produrre che un puro lavoro d'imitazione.
Lo scrittore pieno di riverenza verso l'alto modello non pensa ad appropriarselo e trasformarlo, ma ad avvicinarvisi possibilmente.
Tutta la sua attività è volta alla frase classica, che gli sta innanzi nella sua generalità, spoglia di tutte le idee accessorie che suscitava ne' contemporanei, e dove è il più fino e il più intimo dello stile.
Perciò schiva il particolare e il proprio, corre volentieri appresso le perifrasi e le circonlocuzioni, e arido nelle immagini, povero di colori, scarso di movimenti interni, e dice non quanto o come gli sgorga dal di dentro, ma ciò che può rendersi in quella forma e secondo quel modello: difetti visibili nell'Africa.
Così si formo una coscienza puramente letteraria, lo studio della forma in se stessa con tutti gli artifici e i lenocini della rettorica: ciò che fu detto «eleganza», «forma scelta e nobile»; maniera di scrivere artificiosa, che pare anche nelle sue canzoni politiche, come quella a Cola di Rienzo, opera più di letterato che di poeta, e perciò pregiata molto, finchè in Italia durò questa coscienza artificiale.
In verità il Petrarca era tutt'altro che romano o latino, come pur voleva parere: potè latinizzare il suo nome, ma non la sua anima.
Lo scrittore latino è tutto al di fuori, ne' fatti e nelle cose, è tutto vita attiva e virile, diresti non abbia il tempo di piegarsi in sè e interrogarsi.
Al Petrarca sta male l'abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani e ridevano.
Non sentivano l'uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano.
L'uomo c'era, ma più simile all'anacoreta e al santo che a Livio e a Cicerone, più inclinato alle fantasie e alle estasi che all'azione.
Natura contemplativa e solitaria, la vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua vera vita fu tutta al di dentro di sè: il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso.
Dante alzo Beatrice nell'universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto l'universo in Laura, e fece di lei e di sè il suo mondo.
Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.
Pare un regresso: pure è un progresso.
Questo mondo è più piccolo, è appena un frammento della vasta sintesi dantesca, ma è un frammento divenuto una compiuta e ricca totalità, un mondo pieno, concreto, sviluppato, analizzato, ricerco ne' più intimi recessi.
Beatrice sviluppata dal simbolo e dalla scolastica, qui è Laura nella sua chiarezza e personalità di donna; l'amore, scioltosi dalle universe cose entro le quali giaceva inviluppato, qui non è concetto nè simbolo, ma sentimento; e l'amante, che occupa sempre la scena, ti dà la storia della sua anima, instancabile esploratore di se stesso.
In questo lavoro analitico-psicologico la realtà pare sull'orizzonte chiara e schietta, sgombra di tutte le nebbie, tra le quali era stata ravvolta.
Usciamo infine da' miti, da' simboli, dalle astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in piena luce, nel tempio dell'umana coscienza.
Nessuna cosa oramai si pone di mezzo tra l'uomo e noi.
La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato.
Gli è vero che la teoria rimane la stessa.
La donna è «scala al Fattore», l'amore è il «principio delle universe cose».
Ma tutto questo è accessorio, è il convenuto; la sostanza del libro è la vicenda assidua de' fenomeni più delicati del cuore umano.
Cresciuto in Avignone fra le tradizioni provenzali e le corti d'amore, quando Francesco da Barberino avea già pubblicato i Documenti d'amore e i Reggimenti delle donne, raccolta di tutte le leggi e costumanze galanti, egli attinge nello stesso arsenale e spaccia la stessa rettorica, allegorie, concetti, sottigliezze, spiritose galanterie.
Soprattutto tiene molto a questo, che tutto il mondo sappia non essere, il suo, amore sensuale, ma amicizia spirituale, fonte di virtù.
Dante chiama infamia l'accusa di avere espresso il suo amore troppo sensualmente, e a cessare da sè l'infamia trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche.
Ma le continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perchè e il corpo di Laura, non come la bella faccia della sapienza, ma come corpo, che gli scalda l'immaginazione.
Laura è modesta, casta, gentile, ornata di ogni virtù; ma sono qualità astratte, non è qui la sua poesia.
Ciò che move l'amante e ispira il poeta, è Laura da' capei biondi, dal collo di latte, dalle guance infocate, da' sereni occhi, dal dolce viso, la quale egli situa e atteggia in mille maniere e ne cava sempre un nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un bel paesaggio, il verde del campo, la pioggia de' fiori, l'acqua che mormora, fatta la natura eco di Laura.
Questo sentimento delle belle forme, della bella donna e della bella natura, puro di ogni turbamento, è la musa di Petrarca.
Diresti Laura un modello, del quale il pittore sia innamorato, non come uomo, ma come pittore, intento meno a possederlo che a rappresentarlo.
E Laura è poco più che un modello, una bella forma serena, posta lì per essere contemplata e dipinta, creatura pittorica, non interamente poetica: non è la tale donna nel tale e tale stato dell'animo, ma è la Donna, non velo o simbolo di qualcos'altro, ma la donna come bella.
Non ci è ancora l'individuo: ci è il genere.
In quella quietudine dell'aspetto, in quella serenità della forma ci è l'ideale femminile ancora divino, sopra le passioni, fuori degli avvenimenti, non tocco da miseria terrena, che il poeta crederebbe profanare calandolo in terra e facendolo creatura umana.
La chiama una dea, ed è una dea; non è ancor donna.
Sta ancora sul piedistallo di statua; non è scesa in mezzo agli uomini, non si è umanata.
Coloro i quali vogliono leggere nell'anima di questo essere muto e senza espansione, e cercarvi il suo segreto, fanno il contrario di quello che volle il poeta, cercano la donna dov'egli vedeva la dea.
Certo a' nostri occhi Laura dee parere una forma monotona, e anche talora insipida; ma chi si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverà in Laura la creatura più reale che il medio evo poteva produrre.
La vita di Laura diviene umana appunto allora che è morta ed è fatta creatura celeste.
Qui l'amore non può aver niente più di sensuale: è l'amore di una morta, viva in cielo, e può liberamente spandersi.
Non vedi più i «capei d'oro» e le «rosee dita» e il «bel piede», dal quale l'«erbetta verde» e i «fiori di color mille» desiderano d'esser tocchi.
Pure questa Laura non dipinta e più bella, e soprattutto più viva, perchè «meno altera», meno dea e più donna, quando apparisce all'amante, e siede sulla sponda del suo letto, e gli asciuga gli occhi con quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli angioli si volge indietro, come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine desidera il bel corpo e l'amante ed entra con lui in dolci colloqui.
Così il mistero di Laura si scioglie nell'altro mondo, com'è nella Commedia: tutte le contraddizioni finiscono.
Sciolta dalle condizioni del reale, tolta di mezzo la carne, divenuta creatura libera dell'immaginazione, Laura par fuori con chiarezza, acquista un carattere, dove ci è la santa, e ci è soprattutto la donna.
Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono, Beatrice e Laura cominciano a vivere, appunto quando muoiono.
E il mistero si scioglie anche nel Petrarca.
In vita di Laura, sorge l'opposizione tra il senso e la ragione, tra la carne e lo spirito.
Questo concetto fondamentale del medio evo, se nel Petrarca è purificato della sua forma simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo «credo» cristiano e filosofico.
L'opposizione era sciolta teoricamente con l'amicizia platonica o spirituale, legame d'anime, puro di ogni concupiscenza; dalla quale astrazione non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita, senza sangue, dove non trovi nè l'amante, nè l'amata, nè l'amore.
Vi sono momenti nella vita del Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici, perchè egli si possa dare a questo spasso.
Allora riproduce la scuola de' trovatori con tutt'i suoi difetti, in una forma eletta e vezzosa, che li pallia.
E vi trovi il convenzionale, il manierato, le regole e le sottigliezze del codice d'amore, soprattutto il concettoso, dotato com'era di uno spirito acuto.
Non coglie se stesso nel momento dell'impressione; l'impressione è passata, e se la mette dinanzi e la spiega, come critico o filosofo: hai un di là dell'impressione, l'impressione generalizzata e spiegata, come è nella più parte de' suoi sonetti in vita di Laura; antitesi, freddure, sottigliezze, ragionamenti in forma pretensiosa e civettuola.
Allora tutto è chiaro; tutto e spiegato con Platone e col codice d'amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla donna, sull'amore, pomposamente abbigliato.
Trovi un maraviglioso artefice di verso, un ingegno colto, ornato, acuto, elegante: non trovi ancora il poeta e non l'artista.
Ma nel momento delle impressioni, tra le sue irrequietezze e agitazioni, circuito di fantasmi, par fuori la sua personalità: trovi il poeta e l'artista.
Quello che sente è in opposizione con quello che crede.
Crede che la carne è peccato; che il suo amore è spirituale; che Laura gli mostra la via «che al ciel conduce»; che il corpo è un velo dello spirito.
E se in questo «credo» trovasse ogni suo appagamento, avremmo Dante e Beatrice.
Ma non vi si appaga: l'educazione classica e l'istinto dell'artista si ribella contro queste astrazioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo, il senso del reale e del concreto, così sviluppato ne' pagani.
Non vi si appaga l'artista, e non vi si appaga l'uomo; perchè si sente inquieto, non ben sicuro di quello che crede e vuol far credere, e sente il morso del senso e tutte le ansietà di un amore di donna.
Scoppia fuori la contraddizione, o il mistero.
Il suo amore non e così possente che lo metta in istato di ribellione verso le sue credenze, nè la sua fede è così possente che uccida la sensualità del suo amore.
Nasce un fluttuar continuo di riflessioni contraddittorie, un sì ed un no, un voglio e non voglio:
Io medesmo non so quel che mi voglio.
Nasce il mistero dell'amore, che ti offre le più diverse apparenze, senza che il poeta giunga ad averne chiara coscienza:
Se amor non è, che dunque è quel che i' sento?
a s'egli è amor, per Dio che cosa e quale?
Manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa contraddizione, e più vi si dimena, più vi s'impiglia.
Il canzoniere in vita di Laura è la storia delle sue contraddizioni.
Ora gli pare che contraddizione non ci sia, e unisce in pace provvisoria cielo e terra, ragione e senso, gli occhi che mostrano la via del cielo e gli occhi alfin dolci tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.
Sono i suoi momenti di sanità e di forza, di entusiasmo più artistico che amoroso, dal quale escono le vivaci descrizioni del bel corpo e le tre «canzoni sorelle».
Ora si sente inquieto, e si lascia ir dietro alla corrente delle impressioni e delle immagini, e vede il meglio e al peggior s'appiglia, come conchiude nella canzone
I' vo pensando e nel pensier m'assale,
dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione e il senso, la ragione che parla e il senso che morde.
E ci sono pure momenti che la ragione piglia il di sopra, e si volge a Dio, e si confessa, e fa proposito di svellere dal suo cuore il «falso dolce fuggitivo»,
che il mondo traditor può dare altrui.
Non c'è dunque nel Canzoniere una storia, un andar graduato da un punto all'altro; ma è un vagar continuo tra le più contrarie impressioni, secondo le occasioni e lo stato dell'animo in questo o quel momento della vita.
Non ci è storia, perchè nell'anima non ci è una forte volontà, ne uno scopo ben chiaro; perciò è tutta in balìa d'impressioni momentanee, tirata in opposte direzioni.
Di che nasce un difetto d'equilibrio, la discordia o la scissura interiore.
Il reale comparisce la prima volta nell'arte, condannato, maledetto, chiamato il «falso dolce fuggitivo»: pur desiderato, di un desiderio vago che si appaga solo in immaginazione, debolmente contraddetto e debolmente secondato.
Minore è la speranza, più vivo è il desiderio, il quale, mancatagli la realtà, si appaga in immaginazione.
Nasce una vita di sogni, di estasi, di fantasie, di quello che l'animo desidera, non con la speranza di conseguirlo, anzi con la coscienza di non conseguirlo mai.
Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli piace sognare,
e più certezza averne fora il peggio.
Perchè se per averne più certezza, rompe il corso dell'immaginazione, sopraggiunge il disinganno.
Così vive in fantasia, fabbricandosi godimenti interrotti spesso dalla riflessione con un «ahi lasso!», in un flutto perenne d'illusioni e disillusioni.
Il disaccordo interno è appunto in questo, nella immaginazione che costruisce e nella riflessione che distrugge: malattia dello spirito, nata appunto dall'esagerazione dello spiritualismo.
Lo spirito non è sano, perchè a forza di segregarsi dalla natura e dal senso si trova al fine di rincontro e ribelle l'immaginazione, e l'immaginazione non è sana, perchè ha di rincontro a sè e ribelle la riflessione, che in un attimo le dissipa i suoi castelli incantati.
Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta, e non ha forza di sottoporsi la volontà, per il contrasto che trova nell'immaginazione.
L'immaginazione rimane pura immaginazione, e non ha forza sulla volontà, non lavora a realizzare i suoi dolci fantasmi per il contrasto che trova nella riflessione.
Se una delle due forze potesse soggiogar l'altra, nascerebbe l'equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza alcun risultato, non si giunge mai a un virile «io voglio», ci è al di dentro il sì e il no in eterna tenzone: perciò la vita non esce mai al di fuori in un risultato, in un'azione, rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di dentro:
...
...
In questi pensier,
lasso, tienmi dì e notte il signor nostro, Amore.
Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile e in una inutile riflessione.
È punito là dove ha peccato.
Ha voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba di se stesso ed è egli medesimo il suo avoltoio.
Stanco, svogliato, disgustato di una realtà a cui si sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle al mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e rimane solo con se stesso a fantasticare, «solo e pensoso», incalzato dal suo interno avoltoio:
Solo e pensoso i più deserti campi
vo misurando a passi tardi e lenti.
Da questa situazione sono uscite le due più profonde canzoni del medio evo, l'una poco nota, l'altra assai popolare, amendue poco studiate, l'una che incomincia:
Di pensiero in pensier, di monte in monte;
l'altra che incomincia:
Chiare, fresche e dolci acque.
Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della sua malattia, di questa attività interna inutile e oziosa, una specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da sè e attingere il reale, avremmo la tragedia dell'anima, come Dante ne concepì la commedia (una tragedia, nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna) tra' dolori della contraddizione vedremmo il misticismo morire, spuntare l'alba della realtà, il senso o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli tocca nella vita.
Ma nel Petrarca la lotta è senza virilità.
Gli manca la forza che abbondò a Dante d'idealizzarsi nell'universo; e rimanendo chiuso nella sua individualità, gli manca pure ogni forza di resistenza: sì che la tragedia si risolve in una flebile elegia.
Il poeta si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in lamenti.
Acuto più che profondo, non guarda negli abissi del suo male e si contenta descriverne i fenomeni condensati in immagini e in sentenze rimaste proverbiali.
Tenero e impressionabile, capace più di emozioni che di passioni, non dimora lungamente nel suo dolore, che vien presto l'alleviamento, lo scoppio delle lagrime e de' lamenti.
Artista più che poeta, e disposto a consolarsi facilmente, quando l'immaginazione abbia virtù di offrirgli un simulacro di quella realtà di cui sente la privazione:
in tante parti e sì bella la veggio,
che se l'error durasse, altro non chieggio.
La famiglia, la patria, la natura, l'amore sono per il poeta, com'era Dante, cose reali, che riempiono la vita e le danno uno scopo.
Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione: l'immagine per lui vale la cosa.
Ma come ci è insieme in lui la coscienza che è l'immagine e non la cosa, la sua soddisfazione non è intera, ci è in fondo un sentimento della propria impotenza, ci e questo: - Non potendo avere la realtà, mi appago del suo simulacro.
- Onde nasce un sentimento elegiaco «dolce-amaro», la malinconia, sentimento di tutte le anime tenere, che non reggono lungamente allo strazio e non osano guardare in viso il loro male, e si creano amabili fantasmi e dolci illusioni.
Manca al suo strazio l'elevata coscienza della sua natura e la profondità del sentimento.
Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo, cercando scampo nella benefica immaginazione.
La fisonomia di questo stato del suo spirito è scolpita nella canzone:
Chiare, fresche e dolci acque,
cielo fosco e funebre che a poco a poco si rasserena ne' più cari diletti dell'immaginazione, insino a che da ultimo divien luce di paradiso:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Il poeta è così attirato in questo mondo fabbricatogli dall'immaginazione, che quando si riscuote, domanda:
Qui come venn'io, o quando?
Il suo obblio, il suo sogno era stato così tenace, così simile alla realtà, che gli parea essere in cielo, non là dov'era.
Questa dolce malinconia è la verità della sua ispirazione, è il suo genio.
Quando si sforza di uscirne, spunta spesso il retore: le sue collere, le sue ammirazioni non sono senza una esagerazione e ricercatezza, che rivelano lo sforzo.
Ma quando vi s'immerge e vi si annega, la sua forma acquista il carattere della verità congiunta con la grandezza, è un modello di semplicità e naturalezza.
Gli è che natura, negandogli le grandi convinzioni e le grandi passioni e lo sguardo profondo di Dante, ne aveva fatto un artista finito.
L'immagine appaga in lui non solo l'artista, ma tutto l'uomo.
Senza patria, senza famiglia, senza un centro sociale in mezzo a cui viva altro che letterario, ritirato nella solitudine dello studio e nell'intimo commercio degli antichi, la verità e la serietà della sua vita e tutta in queste espansioni estetiche, come la vita del santo e nelle sue estasi e contemplazioni.
Dante è sbandito da Firenze, ma la sua anima è sempre colà.
Il Petrarca è costretto a dimostrare la sua italianità:
Non è questo 'l terren ch'io toccai pria?
A Dante non fa bisogno di rettorica.
Si sente italiano e ne ha tutte le passioni, e ne senti il fremito e il tumulto nella sua poesia.
Ciò che al contrario ti colpisce nel mondo personale e solitario del Petrarca è la privazione della realtà, e un desiderio di essa scemo di forza, che si appaga ne' docili sogni dell'immaginazione.
Tutto converge nell'immaginazione; tutto gli si offre come un sensibile: il pensiero e il sentimento sono in lui contemplazione estetica, bella forma.
Ciò che l'interessa non è entusiasmo intellettuale, nè sentimento morale o patriottico, ma la contemplazione per se stessa, in quanto è bella, un sentimento puramente estetico.
Laura piange; egli dice: - Quanto son belle quelle lacrime! - Laura muore; egli dice:
Morte bella parrea nel suo bel viso.
Fantastica sulla sua morte.
Ed ecco Laura che prega sulla sua fossa,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
La bellezza per Dante è apparenza simbolica, la bella faccia della sapienza: dietro a quella ci sta la vita nella sua serietà, vita intellettuale e morale.
Qui la bellezza, emancipata dal simbolo si pone per se stessa, sostanziale, libera, indipendente, quale si sia il suo contenuto, sia pure indifferente, o frivolo o repugnante.
Il contenuto, già così astratto e scientifico, anzi scolastico, qui pare per la prima volta essenzialmente come bellezza schietta, realtà artistica.
Al Petrarca non basta che l'immagine sia viva, come bastava a Dante; vuole che sia bella.
Ciò che move il suo cervello a sviluppare e formare l'immagine, non è l'idea, come storia o filosofia o etica, ma è il piacere estetico, che in lui s'ingenera della sua contemplazione.
Questo sentimento della bella forma è così in lui connaturato, che penetra ne' minimi particolari dell'elocuzione, della lingua e del verso.
Dante anche nei più minuti particolari di esecuzione guarda il di dentro, e non lo perde mai di vista, perchè è il di dentro che l'appassiona; il Petrarca rimane volentieri al di fuori, e non resta che non l'abbia condotto all'ultima perfezion tecnica.
Nelle immagini, ne' paragoni, nelle idee non cerca novità e originalità, anzi attinge volentieri ne' classici e ne' trovatori, intento non a cercare o trovare, ma a dir meglio ciò che è stato detto da altri.
L'obbiettivo della sua poesia non è la cosa, ma l'immagine, il modo di rappresentarla.
E reca a tanta finezza l'espressione che la lingua, l'elocuzione, il verso finora in uno stato di continua e progressiva formazione, acquistano una forma fissa e definitiva, divenuta il modello de' secoli posteriori.
La lingua poetica è anche oggi quale il Petrarca ce la lasciò, nè alcuno gli è entrato innanzi negli artifici del verso e dell'elocuzione.
Quel tipo di una lingua illustre che Dante vagheggiava nella prosa, il Petrarca lo ha realizzato nella poesia, dalla quale è sbandito il rozzo, il disarmonico, il volgare, il grottesco e il gotico, elementi che pur compariscono nella Commedia.
È una forma bella non solo per rispetto all'idea, ma per se stessa, aulica, aristocratica, elegante, melodiosa.
La parola vale non solo come segno, ma come parola.
Il verso non è solo armonia, o rispondenza con quel di dentro, ma melodia, elemento musicale in se stesso.
Ma questa bella forma non è un puro artificio tecnico o meccanico, una vuota sonorità, anzi vien fuori da una immaginazione appassionata e innamorata, che ha il suo riposo, il suo ultimo fine in se stessa.
È una immaginazione chiusa in sè, non trascendente, che di rado si alza a fantasia o a sentimento, anzi rifugge dal fantasma, e tende spesso a produrre immagini finite, ben contornate, chiare e fisse.
E se vi si appagasse, sarebbe poesia assolutamente pagana e plastica.
Ma il grande artista ne' momenti anche più geniali della produzione sente come un vuoto, qualche cosa che gli manchi, e non è soddisfatto, ed è malinconico.
Che gli manca?
Gli manca, com'è detto, il possesso e il godimento e la serietà e la forza della vita reale.
Come artista si sente incompiuto; come immaginazione si sente isolato: vivere in immaginazione gli piace; pur sente che là non è la vita, e vi trova sollievo, non appagamento.
Questo sentimento del vuoto che penetra ne' più cari diletti dell'immaginazione, e li tronca bruscamente, questa immaginazione che, appunto perchè si sente immaginazione e non realtà, produce le sue creature con la lacrima del desiderio negli occhi, questo desiderio inestinguibile che pullula dal seno stesso dell'arte e la chiarisce ombra e simulacro, e non cosa viva, sono il fondo originale e moderno della poesia petrarchesca.
L'immagine nasce trista, perchè nasce con la coscienza di essere immagine e non cosa, e lo strazio di questa coscienza è raddolcito, perchè, non ci essendo la cosa, ci è l'immagine, e così bella, così attraente.
Situazione piena di misteri, di contraddizioni e di chiaroscuri, che genera quel non so che «dolce amaro», detto malinconia, un sentirsi consumare e struggere dolcemente:
che dolcemente mi consuma e strugge.
La malinconia è la musa cristiana, e il male di Dante e de' più eletti spiriti di quel tempo.
Ma la malinconia del Petrarca e della nuova generazione che gli stava attorno e già di un'altra natura e accenna a tempi nuovi.
La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso del medio evo, che poneva il fine della vita in un di là della vita, nella congiunzione dell'umano e del divino, che è la base della Divina Commedia.
Le anime del purgatorio sono malinconiche, perchè sospirano appresso ad un bene, di cui hanno innanzi la sola immagine nelle pitture, ne' simboli, nelle visioni estatiche.
Quei godimenti dell'immaginativa aguzzano più il desiderio.
Non basta loro l'immagine: vogliono la realtà; e questo volere, raddolcito alla presenza del simulacro, genera la loro malinconia.
Sono prive del paradiso, ma lo veggono in immaginazione, e sperano di salirvi quando che sia: perciò sono contente nel fuoco.
La condizione delle anime purganti è molto simile a quella degli uomini nella vita terrena: è lo stesso tarlo che li rode.
La vita corporale è un velo, un simulacro di quel di là che la fede e la scienza offriva chiarissimo all'intelletto e all'immaginazione; perciò la vita corporale era in se stessa il peccato o la carne, l'inferno, il vasello o la prigione, dove l'anima vive malinconica: il giorno della morte è per l'anima il giorno della vita e della libertà.
Non che profondarsi nel reale, e cercare di assimilarselo, l'anima tende a separarsene, e vivere in ispirito o in immaginazione, fabbricandosi un simulacro di quel di là a cui spera di giungere: indi la tendenza all'ascetismo, alla solitudine, all'estasi e al misticismo.
Questa era la malinconia di Caterina, quando dicea: «Muoio e non posso morire».
La stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Petrarca.
Anch'egli cerca fabbricarsi ombre e simulacri di Laura, anch'egli cerca l'obblio e il riposo ne' sogni dell'immaginazione.
Quando la santa e il poeta s'incontrarono in Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto parenti di spirito.
Il poeta aveva la stessa inclinazione alla solitudine, alla contemplazione, al raccoglimento, all'estasi, alla malinconia.
E se guardiamo all'apparenza, c'era in tutti e due le stesse credenze e le stesse aspirazioni.
Quel «muoio e non posso morire» corrisponde bene a questo grido del poeta:
aprasi la prigione ov'io son chiuso,
e che 'l cammino a tal vista mi serra.
Ma qui fiutate la rettorica, e là avete l'espressione nuda ed energica di un sentimento che investe tutta l'anima e consuma la santa a trentatrè anni.
Questa concentrazione ed unità delle forze intorno ad un punto solo, in che è la serietà della vita, mancò al Petrarca.
Il suo mondo è pur quello di Caterina e di Dante, mondato della sua scorza scolastica e simbolica, ridotto in forma più chiara e artistica, ma pur quello.
Se non che questo mondo mistico non lo possiede tutto e, sovrano e indiscusso nella mente non tira a sè tutte le forze della vita.
È in lui visibile una dispersione e distrazione di forze, come di uomo tirato in qua e in là da contrarie correnti, che vorrebbe pigliar la sua via e non se ne sente la forza, e vaga in balìa dei flutti scontento e riluttante.
La bella unità di Dante, che vedeva la vita nell'armonia dell'intelletto e dell'atto mediante l'amore, è rotta.
Qui ci è scompiglio interiore ribellione, contraddizione:
e veggio il meglio ed al peggior m'appiglio.
La malinconia di Caterina è l'impazienza del morire, di unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la dissonanza fra il mondo divino e la selva oscura, la vita terrena, malinconia piena di forza e di speranza, che si scioglie nell'azione.
La malinconia del Petrarca è la coscienza della sua interna dissonanza e della sua impotenza a conciliarla, malinconia insanabile, perchè il male non è nell'intelletto, è nella volontà non certo ribelle, ma debole e contraddittoria.
Per palliare la dissonanza, esce in mezzo la sofistica e la rettorica, con le più smaglianti frasi, con le più sottili distinzioni: intervalli di tregua, che fanno risorgere più acuta la coscienza del male.
Gli è che il medio evo è già nel suo petto in fermentazione, penetrato di altri elementi, senza che egli abbia una distinta coscienza di questo nuovo stato: accanto al cristiano ascetico ci è l'erudito, il letterato, l'artista, il pagano, l'uomo di mondo con tutti gl'istinti e le tendenze naturali, che vogliono farsi valere.
Si forma in lui un essere contraddittorio, come ne' tempi di transizione, che non è ancora l'uomo nuovo, e non è più l'uomo antico.
La malinconia del Petrarca non è dunque più la malinconia del medio evo, di un mondo formato e trascendente, che rende quaggiù malinconico lo spirito per il suo legame a quel corpo, ma è la malinconia di un mondo nuovo che, oscuro ancora alla coscienza, si sviluppa in seno al medio evo e ci sta a disagio, e tende a sprigionarsene, e non ne ha la forza per la resistenza che trova nell'intelletto.
L'intelletto appartiene al medio evo, alle cui dottrine ha tolta la ruvida scorza, non la sostanza.
Quel mondo nuovo, plastico, pagano, reazione della natura contro il misticismo, è ancora così debole, così poco lineato, che l'intelletto può condannarlo e maledirlo, o assimilarselo con una sofistica apparenza di conciliazione, e se cacciato dalla vita reale riapparisce nell'immaginazione, può penetrare anche colà e dirgli: - Tu non sei che un fantasma.
Se in vita di Laura questo sentimento nuovo che sorge, più vicino all'uomo e alla natura, e dissimulato co' più ingegnosi sofismi, quasi peccato che si cerchi di palliare, dopo la morte di Laura purificato e trasformato si manifesta con più energia.
Beatrice morta diviene per Dante la scienza, la voce di quel mondo di là, ov'era lo scopo della vita.
La storia di Beatrice è sviluppo di idee e di dottrine nella lirica e nella Commedia.
Il suo riso è luce intellettuale, raggio dell'intelletto.
La storia di Laura è profondamente umana e reale, eco de' più delicati sentimenti, delle più tenere emozioni, delle più vivaci impressioni che colpiscono l'uomo in terra.
La poesia in vita di Laura è dominata dall'intelletto, da una riflessione sofistica e rettorica, che altera la purità de' sentimenti, e sottilizza le immagini, e raffredda le impressioni, e con vani sforzi di conciliazione mette più in vista quel sì e quel no che battagliavano nella debole volontà del poeta.
In morte di Laura ogni battaglia cessa, e non ci è più vestigio di sofismi e di rettorica, perchè la conciliazione cercata finora così ingegnosamente e non conseguita e già avvenuta per la natura delle cose.
Laura morta diviene libera creatura dell'immaginazione, non più persona autonoma e resistente, ma docile fantasma.
Il poeta ne fa la sua creatura, può darle affetti e pensieri, quali gli piaccia: può piangerla, vederla, parLare seco, vivere seco in ispirito.
La situazione è semplice e umana.
È la donna amata, sparita dalla terra, che ti apparisce in sogno e ti asciuga gli occhi e ti prende per mano e ti parla: consolazioni malinconiche, interrotte da una lacrima, quando ti svegli.
Dante si asciuga presto la lacrima, e si gitta fra le onde agitate dell'esistenza, e si rifà un ideale e lo chiama Beatrice.
A lui manca il tempo di piangere, perchè tiene nel suo petto due secoli, ed ha la forza di comprenderli e realizzarli.
Il Petrarca giunge qui, che è già stanco e disgustato dell'esistenza, vi giunge con l'anima di solitario e di romito, e non ha altra forza che di piangere:
Ed io son un di quei che il pianger giova.
Piange la fine delle illusioni, il vacuo dell'esistenza, il perire di tutte le cose:
Veramente siam noi polvere ed ombra.
Così, dopo vane speranze e vani timori, quest'anima tenera e impressionabile rinunzia alla lotta, e si abbandona, e si separa da un mondo, dove invano erasi sforzata di penetrare, e si ritira nella solitudine della sua immaginazione con Laura, chiamando partecipi de' suoi lamenti l'usignolo, e il vago augelletto, e la valle e il bosco e l'aura e l'onda.
La scissura interna dà luogo ad una calma elegiaca; il cuore stanco si riconcilia con l'intelletto.
Il passato, cagione di gioie e di affanni, gli pare un sogno; la vita gli pare insipida; vivere è un breve sonno; morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti; quando gli occhi si chiudono, allora si aprono nell'eterno lume; il mondo cristiano, non contraddetto mai dal suo intelletto, ora penetra nel suo cuore, gli appare come un mondo nuovo, che dipinge con accenti di maraviglia:
Come va il mondo! Or mi diletta e piace
quel che più mi dispiacque; or veggio e sento
che per aver salute ebbi tormento
e breve guerra per eterna pace.
Ecco in che modo rappresenta questo nuovo stato nel suo inno alla Vergine:
Da poi ch'i' nacqui in su la riva d'Arno,
cercando or questa, ora quell'altra parte,
non è stata mia vita altro che affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m'hanno
tutta ingombrata l'alma.
Vergine sacra ed alma,
non tardar: ch'i' son forse all'ultim'anno.
I dì miei più correnti che saetta
fra miserie e peccati
sonsen andati; e sol Morte ne aspetta.
Quest'uomo, che gitta sul passato lo sguardo del disinganno, che chiama la sua vita miseria e peccato, che vede gli anni fuggiti con tanta rapidità senza alcun frutto, ben si promette di fare un altro canzoniere alla Vergine, ma e troppo tardi.
- Omai son stanco! - Grida.
E se ne' Trionfi cerca ingrandire il suo orizzonte e uscire da sè e contemplare l'umanità, ciò che ne' suoi versi ha ancora qualche interesse è il suo passato, che i vecchi hanno il privilegio di evocare, rifarne qualche frammento; e soprattutto il sogno di Laura, tanto imitato da poi.
Chi legge il Canzoniere, non può non ricevere questa impressione, di un mondo astratto, rettorico, sofistico, quale fu foggiato da' trovatori, dove appariscono sentimenti più umani e reali e forme più chiare e rilevate, o se vogliamo guardare più alto, di un mondo mistico-scolastico, oltreumano, ammesso ancora dall'intelletto, ma repulso dal cuore e condannato dall'immaginazione.
Se guardiamo alla forma, quel mondo ha perduto il suo aspetto simbolico-dottrinale, che lo teneva al di là della vita e dell'arte, e si è umanizzato, è divenuto immagine e sentimento; il tempio gotico si è trasformato in un bel tempietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luce uguale, con perfetta simMetria, ispirato da Venere, dea della bellezza e della grazia.
Il grottesco, il gotico, gli angoli, le punte, le ombre, l'indefinito, il dissonante, il prolisso, il superfluo, il volgare, il difforme, tutto è cacciato via da questo tempio dell'armonia, maraviglia d'arte, che chiude un secolo e ne annunzia un altro.
L'artista gode; l'uomo è scontento.
Perchè sotto a questa bella forma così levigata e pulita vive un povero core d'uomo, nutrito di desidèri e d'immagini, a cui lo tira la natura, da cui lo allontana la ragione, senza la forza di uscire dalla contraddizione e senza la ferma volontà di realizzarle.
L'uomo è minore dell'artista.
L'artista non posa, che non abbia data l'ultima finitezza al suo idolo; l'uomo non osa di guardarsi, e abbozza i moti del proprio cuore, e salta nelle più opposte direzioni, quasi tema di fermarsi troppo, di esser costretto a volere e a risolversi.
Perciò quella bella superficie riman fredda; non ha al di sotto profondità di esplorazione, o energia di volontà e di convinzione.
La situazione poteva esser tragica, rimane elegiaca; poesia di un'anima debole e tenera, che si effonde malinconicamente in dolci lamenti, assai contenta, quando possa vivere in immaginazione e fantasticare: l'uomo svanisce nell'artista.
Gli è che a quest'uomo mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa e di Dante un poeta.
Quel mondo giace nel suo cervello già decomposto e in fermentazione, mescolato con altre divinità.
Ciò che di più serio si move nel suo spirito è il sentimento dell'arte congiunto con l'amore dell'antichità e dell'erudizione.
È in abbozzo l'immagine anticipata de' secoli seguenti, di cui fu l'idolo.
L'arte si afferma come arte e prende possesso della vita.
Così il medio evo, quando appena cominciava a svilupparsi negli altri popoli, presso di noi per una precoce cultura si dissolveva prima che avesse potuto esplicarsi in tutti gli aspetti dell'arte e produrre la forma drammatica.
Dante, che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine.
Quel mondo così perfetto al di fuori è al di dentro scisso e fiacco: è contemplazione d'artista, non più fede e sentimento.
Questa dissonanza tra una forma così finita e armonica e un contenuto così debole e contraddittorio ha la sua espressione ne' sentimenti che prevalgono a' tempi di transizione, la malinconia, la tenerezza, la delicatezza, il molle e voluttuoso fantasticare.
E l'illustre malato, abbandonato a' flutti di questo doppio mondo, di un mondo che se ne va e di un mondo che se ne viene, e che con tanta dolcezza e grazia rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza e la forza, è Francesco Petrarca.
IX
IL DECAMERONE
Se ora apri il Decamerone, letta appena la prima novella, gli è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca: «Qui come venn'io o quando?».
Non è una evoluzione, ma è una catastrofe, o una rivoluzione, che da un dì all'altro ti presenta il mondo mutato.
Qui trovi il medio evo non solo negato, ma canzonato.
Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi secoli, con questa differenza, che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l'intenzione di concitare gli uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si spassa con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita che di farti ridere a spese del suo buon confessore e de' creduli frati e della credula plebe.
Perciò l'arma del Molière è l'ironia sarcastica; l'arma del Boccaccio è l'allegra caricatura.
Per giungere a queste forme e a queste intenzioni bisogna andare fino al Voltaire.
Giovanni Boccaccio sotto un certo aspetto fu il Voltaire del secolo decimoquarto.
Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli guastò e corruppe lo spirito italiano.
Egli medesimo in vecchiezza fu preso dal rimorso e finì chierico, condannando il suo libro.
Ma quel libro non era possibile, se nello spirito italiano non fosse già entrato il guasto, se «guasto» s'ha a dire.
Ove le cose, di cui ride il Boccaccio, fossero state venerabili, poniamo pure ch'egli avesse potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione.
Ma fu il contrario.
Il libro parve rispondere a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel loro segreto, e fu applauditissimo, con tanto successo che il buon Passavanti se ne spaventò e vi oppose come antidoto lo Specchio di penitenza.
Il Boccaccio fu dunque la voce letteraria di un mondo, quale era già confusamente avvertito nella coscienza.
C'era un segreto: egli lo indovinò, e tutti batterono le mani.
Questo fatto, in luogo d'essere maledetto, merita di essere studiato.
Il carattere del medio evo è la trascendenza, un dì là oltreumano ed oltrenaturale, fuori della natura e dell'uomo, il genere e la specie fuori dell'individuo, la materia e la forma fuori della loro unità, l'intelletto fuori dell'anima, la perfezione e la virtù fuori della vita, la legge fuori della coscienza, lo spirito fuori del corpo, e lo scopo della vita fuori del mondo.
La base di questa teologia filosofica è l'esistenza degli universali.
Il mondo fu popolato di esseri o intelligenze, sulla cui natura molto si disputò: sono esse idee divine? Sono generi e specie reali? Sono specie intelligibili? Questo edificio gemeva già sotto i colpi dei nominalisti, cioè di quelli che negavano l'esistenza de' generi e delle specie, e li chiamavano puri nomi, e dicevano esistere solo il singolo, l'individuo.
Sulla loro bandiera era scritto un motto divenuto così popolare: «Non bisogna moltiplicare enti senza necessità».
L'ascetismo era il frutto naturale di un mondo teocratico spinto all'esagerazione.
La vita quaggiù perdeva la sua serietà e il suo valore.
L'uomo dimorava con lo spirito nell'altra vita.
E la cima della perfezione fu posta nell'estasi, nella preghiera e nella contemplazione.
Così nacque la letteratura teocratica, così nacquero le leggende, i misteri, le visioni, le allegorie: così nacque la Commedia, il poema dell'altra vita.
Il pensiero non aveva intimità, non calava nell'uomo e nella natura, ma se ne teneva fuori, tutto intorno alla natura e alle qualità degli enti, che erano le stesse forze umane e naturali sciolte dall'individuo ed esistenti per sè stesse.
Le astrazioni dello spirito divennero esseri viventi.
E perchè le astrazioni, frutto dell'intelletto inesauribile nelle sue distinzioni e suddistinzioni, sono infinite, questi esseri moltiplicarono nell'acuto intelletto degli scolastici.
Come il mondo scolastico fu popolato di esseri astratti, così il mondo poetico fu popolato di esseri allegorici, l'uomo, l'anima, la donna, l'amore, le virtù, i vizi.
Non erano persone, come le pagane divinità: erano semplici personificazioni.
Il sentimento, come frutto di inclinazioni umane e naturali, era peccato.
Le passioni erano scomunicate.
La poesia era madre di menzogne.
Il teatro cibo del diavolo.
La novella e il romanzo generi di letteratura profani.
Tutto questo si chiamava il senso, e il luogo comune di questo mondo ascetico era la lotta del senso con la ragione, da fra Guittone a Francesco Petrarca.
Il sentimento, reietto come senso e costretto ad esser ragione, strappato dal cuore umano, divenne anch'esso un universale, un fatto esteriore, ora simbolico, ora scolastico, o, come si diceva, «platonico».
Il padre de' sentimenti, l'amore, divenne un fatto filosofico, forza unitiva, unità dell'intelletto e dell'atto.
Così nacque la lirica platonica, dal Guinicelli al Petrarca.
Il senso e l'immaginazione si ribellavano contro questo platonismo.
Ed è in questa ribellione, ancorachè poco scrutata e poco accentuata, che è la grandezza della lirica petrarchesca.
Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione nella loro naturalezza e intimità era vietato.
E colui che più gustò di questo frutto proibito, fu il Petrarca.
L'immaginazione era un istrumento dell'intelletto, destinata a creare forme e simboli di concetti astratti.
Lo sa il povero Dante.
Nessuno ebbe mai l'immaginazione così torturata.
E nacquero forme simboliche e intellettuali, nella cui generalità scomparve l'individuo con la sua personalità.
Erano forme tipiche, generi e specie, anzichè l'individuo.
La regina delle forme, la donna, non potè sottrarsi a questa invasione degli universali, e rimase un ideale più divino che umano, bella faccia, ma faccia della sapienza, più amata che amante, e amata meno come donna che come scala alle cose celesti.
Così nacquero Beatrice e Laura.
Certo, a nessuno è lecito parlare con poca riverenza di questo mondo dell'autorità che segna un momento interessantissimo nella storia dello spirito umano, e che ha pure il suo fondamento nella vita.
L'illuminismo o il misticismo, la visione estatica, è un portato naturale dello spirito nella sua alienazione dal corpo, ciò che dicevasi a «vivere in astrazione»: momento di concitazione e di entusiasmo, che l'uomo pare più che uomo e sembra in lui parli un dio o un demonio.
Perciò quell'entusiasmo fu detto «furore divino» o «estro», qualità de' profeti e de' poeti, che sono tutt'uno per Dante.
Questa elevazione dell'anima in se stessa, e al di sopra de' limiti ordinari della vita reale, è il lato eroico dell'umanità, il privilegio della giovinezza, la condizione di tutte le società primitive, quando, cessati i bisogni materiali, vi si sveglia lo spirito.
Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i piaceri, è degno di stima.
Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non può aver durata.
L'arte, la coltura, la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano e lo trasformano.
L'arte, impossessandosi di questo mondo, lo umanizza, lo accosta all'uomo e alla natura, lo mescola di altri elementi, vi fa penetrare le passioni e i furori del senso.
Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai qualche cosa che sia la vita nella sua intimità, insieme paradiso e inferno; ma già di rincontro al paradiso hai l'inferno, di rincontro a Beatrice hai Francesca da Rimini, e di rincontro a Dante, simbolo dell'umanità, hai Dante Alighieri, l'individuo in tutta la sua personalità.
Nel Canzoniere quel mondo si spoglia pure le sue forme natie, teologiche, scolastiche, allegoriche, e prende aspetto più umano e naturale.
E se fosse durato ancora un pezzo nella coscienza, non è dubbio che l'arte vi si sarebbe compiutamente sviluppata, e come la visione e la leggenda divenne la Commedia, come Selvaggia divenne Beatrice, e Beatrice Laura, dal seno de' misteri sarebbe uscito il dramma, e molti generi di letteratura ancora iniziali e abbozzati già nella Commedia sarebbero venuti a maturità, come l'inno e la satira.
Ma già quel mondo nel Canzoniere non ha più il calore dell'entusiasmo e della fede, e in quelle forme così eleganti lascia una parte della sua sostanza.
Il sentimento religioso, morale, politico vive fiaccamente nella coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall'arte.
Questo infiacchirsi della coscienza, questo culto della bella forma fra tanta invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici della nuova generazione, che succede all'età virile e credente e appassionata di Dante.
Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine, e non cercano il vero sotto i «versi strani»; la «bella veste» li appaga.
I loro studi non hanno più a guida l'investigazione della verità, ma l'erudizione: c'è il sapere per il sapere, come l'arte per l'arte.
I Fiori, I Giardini, I Conviti, I Tesori, dove la sapienza sacra e profana era usata a scopo morale, danno luogo a raccolte semplicemente storiche ed erudite.
Ci sono ancora gli scolastici, che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro querele si sperdono nel plauso universale, che pone il Petrarca accanto a Virgilio.
E codesto Virgilio non è più il mago, precursore del cristianesimo, e neppure il savio «che tutto seppe», ma è il dolce ed elegante poeta.
Dante s'incorona da sè in paradiso poeta, profeta e apostolo: i contemporanei incoronano nel Petrarca l'autore dell'Africa, della nuova Eneide.
La coltura e l'arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.
Ma la coltura e l'arte non è il naturale fiorire di un mondo interiore, anzi è accompagnata con l'infiacchirsi della coscienza, e si pone già per se stessa, come un fatto estrinseco che abbia il suo valore in sè e sia a un tempo mezzo e scopo.
È una coltura e un'arte «formale», non riscaldata abbastanza dal contenuto.
Ci è lì dentro lo stesso mondo di Dante, ma c'è come ragione in lotta col sentimento e con l'immaginazione; lotta fiacca e inconcludente: scemato è il vigore della fede e della volontà.
Gli è che quel mondo mistico, fuori della natura e dell'uomo, appunto per la sua esagerazione, non poteva avere alcun riscontro con la realtà.
Ebbe la sua età dell'oro, evocata da Dante con tanta malinconia; ma a lungo andare dovea rimanere pura teoria, ammessa per tradizione e per abitudine e contraddetta nella vita pratica.
Più alto era il modello, più visibile era la contraddizione e più scandalosa.
Nel secolo di Dante e di Caterina grandi sono i lamenti e le invettive per la corruttela de' costumi, specialmente ne' papi e ne' chierici, che con l'esempio contraddicevano alle loro dottrine.
Queste invettive divennero il luogo comune della letteratura, e ne odi l'eco un po' rettorica ne' versi eleganti del Petrarca contro l'avara Babilonia.
Ma lo spettacolo, divenuto abituale e generale, non moveva più indignazione; e mentre Caterina ammoniva e il Petrarca satireggiava, il mondo continuava sua via.
Allato al misticismo vedevi il cinismo.
Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna di Napoli.
La corruttela de' costumi non era negazione ardita delle dottrine cristiane, anzi tutti si tenevano buoni cristiani, ed erano zelantissimi contro gli eretici, e molti facevano all'ultimo penitenza.
Ma era qualche cosa di peggio: era indifferenza, un oscurarsi del senso morale.
Quel mondo viveva ancora nell'intelletto, non creduto e non combattuto, ozioso, senza alcuna efficacia su' sentimenti e sulle azioni.
In questa condizione degli spiriti, la coltura dovea avere un effetto deleterio.
La parte leggendaria, fantastica, miracolosa di quel mondo dovea parere a quegl'ingegni così svegliati cosa così poco seria, come le prediche de' frati contraddette dalla vita.
Sparisce quel candore infantile di fede anche nelle cose più assurde, che tanto ci alletta negli scrittori antecedenti.
Le classi colte cominciano a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso della sua credulità.
Esser credente era prima un titolo di gloria de' più forti ingegni.
Essere incredulo diviene ora indizio di animo colto.
D'altra parte la maggiore coltura, generando un più vivo sentimento della natura e dell'uomo, dovea affrettare la rovina di un mondo così astratto e così estrinseco alla vita.
Il reale disconosciuto dovea prender la sua rivincita; la natura troppo compressa dovea reagire a sua volta.
Così di rincontro a quello spiritualismo esagerato sorgeva una reazione inevitabile, il naturalismo e il realismo nella vita pratica.
Indi è che la coltura, in luogo di calare in quel mondo e modificarlo e trasformarlo e riabilitarlo nella coscienza, come fu più tardi in Germania, si collocò addirittura fuori di esso, e lasciata la coscienza vuota, impiegò la sua attività ne' piaceri dell'erudizione e dell'arte.
Così quel mondo si trovò fuori della coscienza, senza lotta intellettuale, anzi rimanendo ozioso padrone dell'intelletto.
Ci erano anche allora i liberi pensatori, soprattutto ne' conventi, ma erano sforzi isolati, scuciti.
Una lotta più seria era stata iniziata da' ghibellini; ma la rotta di Benevento e il trionfo durevole de' guelfi avea posto fine alla discussione e all'esame.
Gli uomini amavano meglio scoprire e postillare manoscritti, e nelle cose di fede lasciar dire il papa, e vivere a modo loro.
Questo fu il naturale effetto della vittoria guelfa.
Finirono le lotte e le discussioni; successe l'indifferenza religiosa e politica, fra tanto fiorire di coltura, di erudizione, di arte, di commerci e d'industrie.
Ci erano tutti i segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza dell'antichità, un gusto più fine e un sentimento artistico più sviluppato, una disposizione meno alla fede che alla critica e all'investigazione, minor violenza di passioni, maggiore eleganza di forme: l'idolo di questa società dovea essere il Petrarca, nel quale riconosceva e incoronava se stessa.
Ma sotto a quel progresso v'era il germe di una incurabile decadenza, l'infiacchimento della coscienza.
Il Canzoniere, posto tra quei due mondi, senza esser nè l'uno, nè l'altro, così elegante al di fuori, così fiacco e discorde al di dentro, è l'ultima voce letteraria, rettorica ed elegiaca, di un mondo che si oscurava nella coscienza.
I contemporanei applaudivano alla bella forma, e non cercavano e non si appassionavano pel contenuto, come avveniva con la Commedia.
Quel mondo, divenuto letterario e artistico, anche un po' rettorico e convenzionale, non rispondeva più alle condizioni reali della vita italiana.
Quel misticismo, quell'estasi dello spirito, che si rivela un'ultima volta con tanta malinconia e tenerezza nel Petrarca, era in aperta rottura con le tendenze e le abitudini di una società colta, erudita, artistica, dedita a' godimenti e alle cure materiali, ancora nell'intelletto cristiana, non scettica e non materialista ma nella vita già indifferente e incuriosa degli alti problemi dell'umanità.
Il linguaggio era lo stesso, ma dietro alla parola non ci era più la cosa.
Questo era il segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito e non definito, ma che pur si manifestava con tanta chiarezza nella vita pratica.
E colui che dovea svelare il segreto e dargli una voce letteraria, non usciva già dalle scuole: usciva dal seno stesso di una società che dovea così bene rappresentare.
Tutti i grandi scrittori erano usciti dall'università di Bologna, Guinicelli, Cino, Cavalcanti, Dante, Petrarca.
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il Petrarca e otto prima della morte di Dante, «non pienamente avendo imparato grammatica», come scrive Filippo Villani, «volendo e costringendolo il padre per cagione di guadagno, fu costretto ad attendere all'abbaco, e per la medesima cagione a peregrinare».
Il padre era un mercante fiorentino, e alla mercatura indirizzò il figlio.
Quando i giovani appena cominciavano i loro studi nella università, il nostro Giovanni faceva, come si direbbe oggi, il commesso viaggiatore in servigio del padre, e il suo libro era la pratica e la conoscenza del mondo.
Girando di città in città, si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che all'esercizio della mercatura, e più uomo di spirito e d'immaginazione che uomo d'affari.
Era chiamato «il poeta».
Venuto in Napoli a ventitrè anni, menava vita signorile, bazzicava in corte, usava co' gentiluomini, spendeva largamente, amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava.
Dicesi che alla vista della tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua vocazione poetica.
Fatto è che il buon padre, visto che non se ne potea cavare un mercante, pensò farne un giureconsulto, e lo mise a studiare i canoni, con gran rincrescimento del giovane, che chiama sciupato il tempo messo a fare il mercante e ad imparare i canoni.
Finalmente, libero di sè, si gittò agli studi letterari, e come portava il tempo, si die' al latino e al greco, e si empì il capo di mitologia e di storia greca e romana.
Ei menava la vita, mezzo tra gli studi e i piaceri, spesso viaggiando, non più a mercatare, ma a cercar manoscritti.
Narrasi che al 7 aprile del 1341 siAsi nella chiesa di San Lorenzo invaghito di Maria, figlia naturale di re Roberto: certo, nella corte spensierata e licenziosa della regina Giovanna non potè prender lezione di buon costume, nè di amori platonici.
E volse lo studio e l'ingegno a rallegrare col suo spirito la corte e la sua non ingrata Maria, che con nome poetico chiamò Fiammetta.
Il Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto era pieno di Dante, e tra' suoi più appassionati era il nostro poeta.
Frutto della sua ammirazione fu la Vita di Dante, uno de' suoi lavori giovanili.
Ma egli poteva ammirarlo, non comprenderlo, perchè lo spirito di Dante non era in lui.
Formatosi fuori della scuola, alieno da ogni seria coltura scolastica e ascetica, profano anzichè mistico ne' sentimenti e nella vita, si foggiò un Dante a sua immagine.
Chi vuol conoscere le opinioni e i sentimenti del nostro giovane, legga quel libro e vi troverà già la stoffa, da cui uscì il Decamerone.
Nessuna originalità e profondità di pensiero, nessuna sottigliezza di argomentazione; tutto vi è dimostrato, anche le più comuni verità, ma il fondamento della dimostrazione non è nell'intelletto, è nella memoria; non hai innanzi un pensatore, nè un disputatore, ma un erudito.
Vuol mostrare l'ingratitudine di Firenze verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, «il cui petto uno umano tempio di divina sapienza fu reputato», e la Siria, la Macedonia, la greca e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e Smirne, e Pilos, e Chios, e Colofon, e Mantova, e Sulmona, e Venosa, e Aquino.
«Tu sola, » conchiude il poeta «quasi i Cammilli, i Publicoli, i Torquati, Fabrizi, Catoni, Fabi, Scipioni ...
in te fossero, ...
avendoti lasciato il tuo antico cittadino Claudiano cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta cura, ma l'hai da te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo soprannome».
Volendo parlar di Dante, comincia ab ovo, dalla prima fondazione di Firenze.
Spesso lascia lì Dante ed esce in lunghe digressioni, tra le quali è notabile quella sulla natura della poesia.
Secondo lui, il linguaggio poetico fu trovato per porgere «sacrate lusinghe» alla divinità, con parole lontane «da ogni altro plebeo e pubblico stile di parlare» e «sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi il rincrescimento e la noia».
I poeti imitarono «dello Spirito santo le vestigie», perchè come nella divina Scrittura, «la quale teologia appelliamo, quando con figura di alcuna storia, quando col senso di alcuna visione», si mostra l'«alto mistero della Incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa ...
così i poeti, ...
quando con finzioni di vari iddii, quando con trasmutazioni di uomini in varie forme, quando con leggiadre persuasioni ne dimostrano le cagioni delle cose e gli effetti delle virtù e de' vizi».
Poi spiega ciò che lo Spirito santo volle mostrare nel rogo di Mosè, nella visione di Nabuccodonosor, nelle lamentazioni di Geremia; e ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno, Giove, Giunone, Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio e di Licaone in lupo, e nella bellezza degli Elisi e nell'oscurità di Dite.
E ribattendo quelli che chiamano i poeti antichi «uomini insensati», inventori di favole «a niuna verità convenienti», conclude che «la teologia e la poesia quasi una cosa si posson dire», anzi che la «teologia niun'altra cosa è che una poesia d'Iddio» e «poetica finzione».
L'erudito poeta non si arresta qui, e ci regala la favola di Dafne, amata da Febo e in lauro convertita, per darci spiegazione perchè i poeti avevano la corona d'alloro.
Di quello che fu il mondo interiore di Dante, qui non è alcun vestigio; invece il mondo esterno vi è sviluppato fino all'aneddoto, fino al pettegolezzo.
Ci si vede uno spirito curioso e profano che cerca il maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani, disposto a spiegarli con la superficialità di un erudito e di un uomo di mondo, o «del secolo», come si diceva allora.
Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un sogno attribuito alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta la sua erudizione.
Sotto il suo sguardo profano Beatrice perde tutta la sua idealità, e l'amore di Dante, scacciato dalle sue regioni ascetiche e platoniche e scolastiche, acquista una tinta romanzesca.
Il nostro Giovanni non si fa capace come Dante a nove anni abbia potuto amare Beatrice.
Il caso gli pare strano, e ne cerca diverse spiegazioni.
Forse fu «conformità di complessioni o di costumi»; forse anche «influenza da cielo».
Ma queste spiegazioni non lo appagano, e si ferma in quest'altra, che cava dall'esperienza.
Dante, secondo lui, vide Beatrice in una festa il primo di maggio, quando la «dolcezza del cielo riveste dei suoi ornamenti la terra, e tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi fronde la fa ridente, e per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la generale allegrezza, per la delicatezza de' cibi e de' vini, gli animi eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti ampliarsi e divenire atti a poter leggermente esser presi da qualunque cosa che piace».
Dante dunque amò fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo maturo; i cibi e i vini delicati e l'allegrezza generale, ecco ciò che dispose il suo animo all'amore.
Beatrice era per Dante «angeletta bella e nova», senza contorni e senza determinazioni scesa di cielo a mostrare le bellezze e le virtù che le piovono dalle stelle.
Tutto questo non entra al Boccaccio, il quale vuol pure spiegarsi come la potè parere un'angioletta, e si foggia nella profana immaginazione una bella immagine di fanciulla, e la descrive così:
«Assai leggiadretta secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che 'l suo picciolo tempo non richiedeva; ed oltre a questo, aveva le fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi un'angioletta era reputata da molti.»
Ecco un'angioletta di carne; eccoci dalle mistiche altezze di Dante caduti in piena fisiologia e notomia.
Dante amò, perchè tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad amare; e Beatrice parea quasi un'angioletta, perchè era fatta così e così.
Beatrice muore a ventiquattro anni.
Il nostro biografo non se ne maraviglia, perchè «un poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo, ...
ci conduce» alla morte.
I parenti e gli amici per consolare Dante gli diedero moglie:
«Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti!», esclama il nostro scapolo e nemico dell'amore regolato.
«Qual medico» egli aggiunge
«s'ingegnerà di cacciare l'acuta febbre col fuoco, o 'l freddo delle midolla delle ossa col ghiaccio o colla neve? Certo niun altro se non colui, il quale con nuova moglie crederà le amorose tribolazioni mitigare».
E qui da uomo esperto della materia parla della natura e de' fenomeni dell'amore e dell'indole delle donne, e delle noie e degli affanni de' mariti, e compiange il povero Dante.
Dipinge con tocchi sicuri, e in certi punti è eloquente, perchè qui è in casa sua.
Udite questo periodo: «Possiamo pensare quanti dolori nascondono le camere, li quali da fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia trapassa le mura, sono riputati diletti».
Ma Dante, secondo ch'egli narra, dimenticò presto moglie e Beatrice, e si die' all'amore delle donne: ciò che l'indusse al gran viaggio nell'altro mondo, ove se ne fece così aspramente rimproverare da Beatrice.
Il quale amore non pare poi un così gran peccato al nostro scapolo: «Chi sarà tra' mortali giusto giudice a condannarlo? Non io».
Ed ecco venire innanzi l'erudito, e citare parecchi casi di uomini illustri vinti dalle donne, Giove, Ercole, Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode.
Ti par di assistere a una parodia.
Eppure niente è più serio.
Il giovane è pieno di ammirazione verso Dante che chiama un «iddio fra gli uomini», e crede con questa Vita riparare alla ingratitudine di Firenze e alzargli un monumento.
La Vita di Dante è una rivelazione.
Qui dentro si manifesta l'autore in tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che si andava formando in Italia.
Mette in un fascio mondo sacro e profano, Bibbia e mitologia, teologia e poesia: la teologia è una «poesia di Dio», una «finzione poetica».
Questa strana mescolanza era già comune al secolo; Dante stesso ne dava esempio.
Ma dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo universo e lo battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio sbattezza tutto l'universo e lo materializza.
In teoria ammette la religione, e parla con riverenza della teologia, che ci fa conoscere «la divina essenza e le altre separate intelligenze».
Ma in pratica questo mondo dello spirito rimane perfettamente estraneo alla sua intelligenza e al suo cuore.
Misticismo, platonicismo, scolasticismo, tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per lui.
Non solo questo mondo gli rimane estraneo come coltura, ma ancora più come sentimento.
E gli manca non solo il sentimento religioso, ma fino quella certa elevatezza morale che talora ne fa le veci.
Spento è in lui il cristiano, e anche il cittadino.
Non gli è mai venuto in mente che servire la patria e dare a lei l'ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto, come è il provvedere al proprio sostentamento.
Dietro al cittadino comincia a comparire il buon borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia molto fastidio, e lo lasci attendere alla sua industria, e non lo tiri per forza di casa o di bottega.
De' guelfi e ghibellini è perduta la memoria, tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato.
E non si persuade come Dante siesi potuto mescolare nelle pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla sua vanità, ed ha quasi l'aria di dirgli: - Ben ti sta.
- Non voglio dire con questo che il Boccaccio fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù o della patria.
Sciolto era di costumi, pure tutti i doveri comuni della vita li adempiva con la stessa puntualità e diligenza degli altri, e molte legazioni gli furono commesse da' suoi concittadini.
Ma l'età eroica era passata; la nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de' padri; il carattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora volgarità, e non è più grandezza; della religione, della libertà, dell'uomo antico c'erano ancora le forme, ma lo spirito era ito.
Di vita pubblica qualche apparenza era ancora in Toscana, sede della coltura; nelle altre parti era vita di corte.
L'erudizione, l'arte, gli affari, i piaceri costituivano il fondo di questa nuova società borghese e mezzana, della quale ritratto era il Boccaccio, gioviale, cortigiano, erudito, artista.
Se la malinconia dell'estatico Petrarca ti presentava un simulacro dell'uomo antico, la spensierata giovialità del Boccaccio è l'ingresso nel mondo, a voce alta e beffarda, della materia o della carne, la maledetta, il peccato; è il primo riso di una società più colta e più intelligente, disposta a burlarsi dell'antica; è la natura e l'uomo, che, pure ammettendo l'esistenza di separate intelligenze, non ne tien conto, e fa di sè il suo mezzo e il suo scopo.
Questo tempo fu detto di transizione.
Vivevano insieme nel seno degli uomini due mondi, il passato nelle sue forme se non nel suo spirito, ed un mondo nuovo che si affermava come reazione a quello, fondato sulla realtà presa in se stessa e vuota di elementi ideali.
Erano in presenza il misticismo, con le sue forme ricordevoli del mondo soprannaturale, e il puro naturalismo.
Ma il misticismo, indebolito già nella coscienza, era divenuto abituale e tradizionale, applaudito nel Petrarca non come il mondo sacro, ma come un mondo artistico e letterario.
Il naturalismo al contrario sorgeva allora in piena concordia con la vita pratica e co' sentimenti, con tutti gli allettamenti della novità.
Questo mutamento nello spirito dovea capovolgere la base della letteratura.
Il romanzo e la novella, rimasti generi di scrivere volgari e scomunicati, presero il sopravvento.
Al mondo lirico, con le sue estasi, le sue visioni e le sue leggende, il suo entusiasmo, succede il mondo epico o narrativo, con le sue avventure, le sue feste, le sue descrizioni, i suoi piaceri e le sue malizie.
La vita contemplativa si fa attiva; l'altro mondo sparisce dalla letteratura; l'uomo non vive più in ispirito fuori del mondo, ma vi si tuffa e sente la vita e gode la vita.
Il celeste e il divino sono proscritti dalla coscienza, vi entra l'umano e il naturale.
La base della vita non è più quello che dee essere, ma quello che è: Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.
Mettiamo ora il piè in questo mondo del Boccaccio.
Che vi troviamo? Opere latine di gran mole: una specie di dizionario storico, ove hai tutte le antiche forme mitologiche usate da' poeti, e con le loro spiegazioni allegoriche, e i fatti degli uomini illustri e delle celebri donne, libri tradotti in francese, in tedesco, in inglese, in ispagnuolo, in italiano, di cui si fecero moltissime edizioni, accolti con infinito favore da' contemporanei, come una nuova rivelazione dell'antichità.
Prima ci erano le enciclopedie e i «fiori» e i «giardini», ove si raccoglieva ciò che gli antichi pensarono in filosofia, in etica, in rettorica; il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi immaginarono, quello che operarono.
Al mondo del puro pensiero succede il mondo dell'immaginazione e dell'azione.
Vediamolo ora all'opera.
Quest'uomo, che ha pieno il capo di tanta erudizione greca e latina, che ammira Dante perchè ha saputo molto bene imitare Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano, e a cui di fiorentino è rimasto l'amore del bello idioma e il sentimento dell'arte, è insieme il trovatore e il giullare della corte, rallegrata dalle sue facezie e dai suoi racconti, è l'erede della gaia scienza, sa a menadito romanzi francesi, italiani e provenzali, e scrive per sollazzarsi e per sollazzare.
Ci erano in lui parecchi uomini non ben fusi, l'erudito, l'artista, il trovatore, il letterato e l'uomo di mondo.
Ecco uscirgli dall'immaginazione il Filocolo.
Il titolo è greco, come più tardi è il Filostrato e come sarà il Decamerone.
La materia è tratta da un romanzo spagnuolo, ed è gli amori di Florio e Biancofiore.
Ma si tratta della Spagna pagana, al tempo di Roma pagana, quando già vi penetrava il cristianesimo.
La materia è tale, che il giovane autore vi può sviluppare tutte le sue tendenze.
Ai giovani innamorati e alle amorose donzelle consacra i «nuovi versi, i quali - egli dice loro - non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell'antica Troia, nè le sanguinose battaglie di Farsaglia, ma udirete i pietosi avvenimenti dell'innamorato Florio e della sua Biancofiore, i quali vi fiano graziosi molto».
Probabilmente i giovani vaghi e le donne innamorate avrebbero desiderato una storia di amore più breve e meno dotta.
Ma come resistere alla tentazione? Il giovane ci ficca dentro tutta la mitologia, e ad ogni menoma occasione esce fuori con la storia greca e romana.
Giulia, uccisole il marito, nell'ultima disperazione, parlando all'uccisore, cita Ecuba e Cornelia.
Nè la mitologia ci sta a pigione, come semplice colorito, ma è la vera macchina del racconto, come in Omero e Virgilio.
E se Giove, Pluto, Venere, Pallade e Cupido fossero personaggi vivi, avremmo un grottesco non dispiacevole; ma sono personificazioni ampollose e rettoriche, formate dalla memoria, non dall'immaginazione.
Ancora, visto che teologia e poesia sono una stessa cosa, la teologia è paganizzata, e Dio diviene Giove, e Lucifero diviene Pluto; sì che pagani e cristiani, inimicandosi a morte, usano le stesse forme e adorano gli stessi iddii.
Macchinismo vuoto che s'intramette dappertutto, e guasta il linguaggio naturale del sentimento, introducendo ne' fatti e nelle passioni un'espressione artificiale e metaforica.
Volendo dire giovani innamorati si dice: «i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzato a' venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea».
L'avvicinarsi della sera è espresso così: «I disiosi cavalli del sole caldi per lo diurno affanno si bagnavano nelle marine acque d'occidente».
Altrove è detto: «L'Aurora aveva rimossi i notturni fuochi, e Febo avea già rasciutte le brinose erbe».
Nasce uno stile pomposo e freddo, che invano l'autore cerca incalorire con le figure rettoriche, in cui è maestro.
Spesseggiano le interrogazioni, le esclamazioni, le personificazioni, le apostrofi; il sentimento si sviluppa dalle cose e si pone per se stesso in una forma ampollosa e pretensiosa.
Il prode Lelio è ucciso sul campo di battaglia, e il poeta vi recita su questa magnifica tirata rettorica:
«Oh misera Fortuna, quanto sono i tuoi movimenti vani e fallaci nelle mondane cose! Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove i molti amici? Ove la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste cose, e il suo corpo senza sepoltura morto giace negli strani campi.
Almeno gli avessi tu concedute le romane lacrime, e le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e l'ultimo onore della sepoltura gli avesse potuto fare!»
Giulia sviene: «gli spiriti ...
vagabondi pare che vadano per lo vicino aere»; e il poeta fa una lunga apostrofe a Lelio, che al suo pericol correndo lei semiviva abbandona, e dice di Amore:
«Deh! Quanto Amore si portò villanamente tra voi, avendovi tenuti insieme con la sua virtù tanto tempo caramente congiunti; e ora, nell'ultimo partimento, non consentì che voi vi avessi insieme baciati o almeno salutati.»
I personaggi fanno spesso lunghe orazioni con tutti gli artifici della rettorica, com'è la parlata di Pluto a' ministri infernali, imitata dal Tasso.
Spesso la sensualità si scopre tra le lacrime.
Giulia si straccia i capelli e si squarcia le vesti; il giovane deplora quello «sconcio tirare» che traeva «i biondi capelli» «dell'usato modo e ordine», e aggiunge: «I vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima soleano nascondere».
Non mancano qua e colà tratti affettuosi, e anche modi e forme di dire semplici ed efficaci; ma rimane il più spesso fuori dell'uomo e della natura, inviluppato in perifrasi, circonlocuzioni, aggettivi, orazioni, descrizioni e citazioni: ci si sente una viva tendenza al reale guastata dalla rettorica e dall'erudizione.
Accampandosi nel mondo antico, e portandovi pretensioni erudite e rettoriche, la letteratura, se da una parte si emancipava da quel mondo teologico-scolastico che sorgeva come barriera tra l'arte e la natura, s'intoppava dall'altra in una nuova barriera, un mondo mitologico-rettorico.
Il successo del Filocolo alzò l'animo del giovane a più alto volo.
Pensò qualche cosa come l'Eneide, e scrisse la Teseide.
Ma niente era più alieno dalla sua natura che il genere eroico, niente più lontano dal secolo che il suono della tromba.
Qui hai assedii, battaglie, congiure di dei e di uomini, pompose descrizioni, artificiosi discorsi, tutto lo scheletro e l'apparenza di un poema eroico; ma nel suo spirito borghese non entra alcun sentimento di vera grandezza, e Teseo e Arcita e Palemone e Ippolito ed Emilia non hanno di epico che il manto.
Il suo spirito è disposto a veder le cose nella loro minutezza, ma più scende ne' particolari, più l'oggetto gli si sminuzza e scioglie, sì che ne perde il sentimento e l'armonia.
Le armi, i modi del combattere, i sacrifizii, le feste, tutta l'esteriorità è rappresentata con la diligenza e la dottrina di un erudito; ma dov'è l'uomo? E dov'è la natura? De' suoi personaggi carichi di emblemi e di medaglie antiche si è perduta la memoria.
Ecco un campo di battaglia.
Egli vede con molta chiarezza i fenomeni che ti presenta, ma è la chiarezza di un naturalista, scompagnata da ogni movimento d'immaginazione; ci è l'immagine, manca il fantasma, que' sottintesi e que' chiaroscuri, che ti danno il sentimento e la musica delle cose:
Dopo il crudele e dispietato assalto
orribile per suoni e per fedite,
li fatto prima sopra il rosso smalto,
si dileguaron le polveri trite;
non tutte, ma tal parte, che da alto
ed ancora da basso eran sentite
parimente e vedute di costoro
le opere e 'l marziale aspro lavoro.
È un'ottava prosaica, dove un fenomeno comunissimo è sminuzzato con la precisione e distinzione di un anatomico, non di un poeta.
Il Tasso tutto condensa in un verso solo, che ti presenta in unica immagine il campo di battaglia:
la polve ingombra ciò ch'al sangue avanza.
La stessa prosaica maniera trovi nell'ottava seguente:
Il sangue quivi de' corpi versato,
e de' cavalli ancor similemente,
aveva tutto quel campo innaffiato,
onde attutata s'era veramente
e la polvere e 'l fumo: imbragacciato
di sangue era ciascun destrier corrente,
o qualunque uomo vi fosse caduto,
benchè a caval poi fosse rivenuto.
Qui il sangue è talmente analizzato negli oggetti e congiunto con particolari così vuoti e insignificanti, che se ne perde l'impressione.
Alla grande maniera, sobria, rapida, densa, di Dante, del Petrarca, succede il prolisso, il diluito e il volgare.
Chi ricorda descrizioni simili nell'Ariosto e nel Tasso, vi troverà le stesse cose, ma vive e mobili, piene di sentimento e di significato.
Nel canto duodecimo descrive la bellezza di Emilia da' capelli fino alle anche, anzi fino a' piedi, e non si contenta di passare a rassegna tutte le parti del corpo, chè di ciascuna fa minuta descrizione, e non solo nel quale, ma nel quanto, sì che pare un geometra misuratore.
Delle ciglia dice:
...
più che altra cosa
nerissime e sottil, nelle qua' lata
bianchezza si vedea lor dividendo,
nè il debito passavan se' estendendo..
Ecco un'ottava similmente prosaica su' capelli:
Dico che li suoi crini parean d'oro,
non per treccia ristretti, ma soluti
e pettinati sì che infra loro
non n'era un torto, e cadean sostenuti
sopra li candidi omeri, nè fòro
prima nè poi sì be' giammai veduti:
nè altro sopra quelli ella portava
ch'una corona che assai si stimava.
Ottave e versi soffrono malattia di languore: così procede il suono fiacco e sordo.
La Teseide è indirizzata a Fiammetta, e copertamente e sotto nomi greci espone una vera storia d'amore.
Ma la gravità del soggetto, e le intenzioni letterarie soperchiarono l'autore e lo tirarono in un mondo epico, pel quale non era nato.
Meglio riuscì nel Filostrato, dove lo scheletro greco e troiano esattamente riprodotto nella sua superficie è penetrato di una vita tutta moderna.
L'allusione non è in questo o quel fatto, come nella Teseide, ma è nello spirito stesso del racconto.
I languori di Troilo, gli artifici di Pandaro, che è il mezzano, le resistenze sempre più deboli di Griseida, le gradazioni voluttuose di un amore fortunato, le arti e le lusinghe di Diomede presso Griseida, la sua vittoria e le disperazioni di Troilo, questo non è epico e non è cavalleresco, se non solo ne' nomi de' personaggi: è una pagina tolta alla storia secreta della corte napoletana, è il ritratto della vita borghese, collocata di mezzo fra la rozza ingenuità popolana e l'ideale vita feudale o cavalleresca.
Qui per la prima volta l'amore, squarciato il velo platonico, si manifesta nella sua realtà ed autonomia, separato da' suoi antichi compagni, l'onore e il sentimento religioso; e non è già amore popolano, ma borghese, cioè a dire raffinato, pieno di tenerezze e di languori, educato dalla coltura e dall'arte.
Mancati tutti gli alti sentimenti della vita pubblica e religiosa, non rimane altra poesia che della vita privata.
La quale è vil prosa, quando il fine del vivere non è che il guadagno, ed è nobilitata dall'amore.
Vivere tra' godimenti di amore, con l'animo lontano da ogni cupidigia di onori e di ricchezze, questo è l'ideale della vita privata, nella quale la parte seria e prosaica è rappresentata dal mercante.
È un ideale che il Boccaccio trova nella sua propria vita, quando volse le spalle alla mercatura e si diè a' piacevoli studi e all'amore.
Descritti in morbidissime ottave i voluttuosi ardori di Troilo e Griseida, il poeta, calda ancora l'immaginazione, così prorompe:
Deh! Pensin qui gli dolorosi avari,
che biasiman chi è innamorato,
e chi, come fan essi, a far denari
in alcun modo non si è tutto dato,
e guardin se, tenendoli ben cari
tanto piacer fu mai a lor prestato,
quanto ne presta amore in un sol punto
a cui egli è con ventura congiunto.
Ei diranno di sì, ma mentiranno;
e questo amor «dolorosa pazzia»
con risa e con ischerni chiameranno;
senza veder che sola un'ora fia
quella che sè e' danari perderanno,
senza aver gioia saputo che sia
nella lor vita: Iddio gli faccia tristi,
ed agli amanti doni i loro acquisti.
Ottave sconnesse e saltellanti, assai inferiori alle bellissime che precedono; il poeta sa meglio descrivere che ragionare: pure ci senti per entro un po' di calore, e la conclusione è felicissima: è un moto subito e vivace di immaginazione, come di rado gl'incontra.
Sotto aspetto epico questo racconto è una vera novella con tutte le situazioni divenute il luogo comune delle storie d'amore, i primi ardenti desiri, l'intramessa di un amico pietoso e le ritrosie della donna, le raffinate voluttà del godimento, la separazione degli amanti, le promesse e i giuramenti e gli svenimenti della donna, la sua fragilità e i lamenti e i furori del tradito amante.
Sotto vernice antica spunta il mondo interiore del Boccaccio, una mollezza sensuale dell'immaginazione congiunta con una disposizione al comico e al satirico.
L'infedeltà di Griseida lo fa uscire in questo ritratto della donna:
Giovine donna è mobile, e vogliosa
è negli amanti molti, e sua bellezza
estima più ch'allo specchio, e pomposa
ha vanagloria di sua giovinezza;
la qual quanto piacevole e vezzosa
è più, cotanto più seco l'apprezza:
virtù non sente, nè conoscimento,
volubil sempre come foglia al vento.
A Beatrice e Laura succede Griseida; all'amore platonico l'amore sensuale; al volo dell'anima verso la sua patria, il cielo, succede il tripudio del corpo.
La reazione è compiuta.
A Dante succede il Boccaccio.
La contraddizione prende quasi aria di parodia inconscia nell'Amorosa visione.
La Commedia è imitata nel suo disegno e nel suo meccanismo.
Anche il Boccaccio ha la sua visione.
Anch'egli incontra la bella donna, che dee guidarlo all'altura, che è «principio e cagion di tutta gioia», via a salute e pace.
Ma dove nella Commedia si va di carne a spirito, sino al sommo Bene, in cui l'umano è compiutamente divinizzato o spiritualizzato, dove nella Commedia il sommo Bene è scienza e contemplazione: qui il fine della vita è l'umano e la scienza è il principio, e l'ultimo termine è l'amore, e la fine del sogno è in questi versi:
Tutto stordito mi riscossi allora,
e strinsi a me le braccia, e mi credea
infra esse madonna averci ancora.
Il paradiso del Boccaccio è un tempio dell'umanità, un nobile castello, che ricorda il Limbo dantesco, ricco di sale splendide e storiate, come sono le pareti del purgatorio.
Ed è tutta la storia umana, che ti viene innanzi in quelle pitture.
Dante invoca le muse, l'alto ingegno; il Boccaccio invoca Venere:
O somma e graziosa intelligenza
che movi il terzo cielo, o santa dea,
metti nel petto mio la tua potenza.
Una scala assai stretta mena al castello, e sulla piccola porta è questa scritta:
...
...
questa piccola porta mena a via di vita,
posta che paia nel salir molesta:
riposo eterno dà cotal salita.
Dunque salite su senza esser lenti:
l'animo vinca la carne impigrita.
Eccoci nella prima sala.
E vi son pinte le sette scienze, e via via schiere di filosofi e poi di poeti, a quel modo che fa Dante nel limbo.
Tutto il canto quinto è consacrato a Virgilio e a Dante, del quale dice:
Costui è Dante Alighieri fiorentino,
il qual con eccellente stil vi scrisse
il sommo ben, le pene e la gran morte:
gloria fu delle muse mentre visse,
ne qui rifiutan d'esser sue consorte.
Dalla sala delle Muse si passa nella sala della Gloria.
E ti sfilano innanzi moltitudine di uomini venuti in fama, quasi un quadro della storia del mondo.
Da Saturno e Giove scendi all'età de' giganti e degli eroi; poi giungi agli uomini e alle donne illustri di Grecia e di Roma, in ultimo viene la cavalleria ne' suoi due circoli di Arturo e Carlomagno, sino all'ultimo cavaliere, Federico secondo, e l'occhio si stende a Carlo di Puglia, Corradino, Ruggieri di Loria e Manfredi.
Il poeta dà libero corso alla sua vasta erudizione, intento più a raccogliere esempli che a lumeggiarli: sicchè nessuno de' suoi personaggi è giunto a noi così vivo, come è l'Omero e l'Aristotile del limbo dantesco, o l'Omero del Petrarca.
Siamo infine nella sala di Amore e Venere.
E come innanzi la storia, qui vien fuori la mitologia, e senti le prodezze amorose di Giove, Marte, Bacco e Pluto ed Ercole.
Poi vengono gli amori di Giasone, Teseo, Orfeo, Achille, Paride, Enea, Lancillotto.
Scienza, gloria, amore, ecco la vita quando non vi s'intrometta la Fortuna e colpisca Cesare o Pompeo nel sommo della felicità.
Percorsi i circoli della vita, comincia il tripudio, o la beatitudine; e non sono già le danze delle luci sante nel trionfo di Cristo o degli angeli, ma le voluttuose danze di un paradiso maomettano, o le danze delle ninfe napolitane a Baia.
Il poeta s'innamora, e mentre in sogno si tuffa negli amorosi diletti e tiene fra le braccia la donna, si sveglia, e la sua guida gli dice:
Ciò che porse
il tuo dormire alla tua fantasia
tutto averai.
E mentre la visione si dilegua, ella lo raccomanda al «sir di tutta pace», all'Amore.
Con le stesse forme e con lo stesso disegno di Dante il Boccaccio riesce a un concetto della vita affatto opposto, alla glorificazione della carne, nella quale è il riposo e la pace.
La «Divina Commedia» qui è cavata fuori del soprannaturale, in cui Dante aveva inviluppata l'umanità e se stesso e il suo tempo, ed è umanizzata, trasformata in un real castello, sede della coltura e dell'amore.
Se non che il Boccaccio non vide che quelle forme contemplative e allegoriche, naturale involucro di un mondo mistico e soprannaturale, mal si attagliavano a quella vita tutta attiva e terrena, ed erano disformi al suo genio, superficiale ed esterno, privo di ogni profondità ed idealità: perciò riesce monotono, prolisso e volgare.
Oggi, a tanta distanza, c'è difficile a concepire come non abbia trovato subito il suo genere, che è la rappresentazione della vita nel suo immediato, sciolta da ogni involucro non solo teologico e scolastico, ma anche mitologico e cavalleresco.
Ma lento è il processo dell'umanità anche nell'individuo, che passa per molte prove e tentennamenti prima di trovare se stesso.
Il Boccaccio, amico delle muse, stima co' suoi contemporanei che «le cose volgari non possono fare un uomo letterato» e che si richiedono «più alti studi».
E gli alti studi sono il latino e il greco, la conoscenza dell'antichità.
Il suo maggior titolo di gloria era l'ampia erudizione, che lo rendeva superiore a Dante ed anche al suo «Silvano», il Petrarca.
Trova innanzi a sè forme consacrate e ammirate, le forme epiche di Virgilio e Stazio, le forme liriche di Dante e di Silvano, e in quelle forme vuol realizzare un mondo prosaico che gli si moveva dentro.
Nei suoi primi lavori salta fuori tutto il suo mondo greco-romano, mitologico e storico, con grande ammirazione de' contemporanei.
Gli amori di Troilo e Griseida, d'Arcita e Palemone passarono le Alpi e fecondarono l'immaginazione di Chaucer; i quadri storici e mitologici della sua Visione ispirarono molti Saggi e molti Tempi dell'umanità.
Chi legge i Reali di Francia e tante scarne traduzioni di romanzi francesi allora in voga, può concepire che gran miracolo dovè parere la Teseide, il Filostrato e il Filocolo.
Anche nelle sue Rime si vede l'uomo nuovo alle prese con forme vecchie.
Vi trovi il solito repertorio, l'innamoramento, i sospiri, i desiri, i pentimenti, il volgersi a Dio e alla Madonna, ma la bella unità lirica del mondo di Dante e del Petrarca è rotta, ed ogni idealità è scomparsa.
Dietro alle stesse forme è un diverso contenuto che mal vi si adagia.
La donna in nome è ancora un'angioletta, ma che angiolo! Ella sta non raccolta e modesta nella sua ingenuità infantile, come Bice; o nella sua casta dignità, come Laura; ma
all'ombra di mille arbori fronzuti,
in abito leggiadro e gentilesco
tende lacci
con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco.
Hai la donna vezzosa e civettuola della vita comune, ed un amante distratto, che ora esala sospiri profani in forme platoniche e tradizionali, ora pianta lì la sua angioletta, e si sfoga contro i suoi avversari, e ragiona della morte e della fortuna, o inveisce contro le donne:
Elle donne non son, ma doglia altrui,
senza pietà, senza fè, senz'amore,
liete del mal di chi più lor credette.
Perchè meglio si comprenda questa disarmonia tra forme convenzionali e un contenuto nuovo, guardiamo questo sonetto:
Sulla poppa sedea d'una barchetta,
che 'l mar segando presta era tirata,
la donna mia con altre accompagnata,
cantando or una, or altra canzonetta.
Or questo lito ed or quell'isoletta,
ed ora questa ed or quella brigata
di donne visitando, era mirata
qual discesa dal ciel nuova angioletta.
Io che seguendo lei vedeva farsi
da tutte parti incontro a rimirarla
gente, vedea come miracol novo:
ogni spirito mio in me destarsi
sentiva, e con Amor di commendarla
vago non vedea mai il ben ch'io provo.
Il sonetto comincia bene, in forma disinvolta e fresca, ancorachè per la parte tecnica un po' trascurata.
In quelle giovanette, che cantano a mare e vanno a visitare le amiche e sono ammirate dalla gente, vedi una scena tutta napolitana, e ti corre innanzi Baia, sede di secrete delizie che destano le furie gelose del poeta.
Ma questa bella scena alla fine si guasta, col solito «spirito» e col solito «Amore vago di commendare», e riesce in una freddura.
Chi vuol vedere un sonetto affatto moderno, dove l'autore si è sciolto da ogni involucro artificiale, e ti coglie in atto la vita di Baia con le sue soavità e le sue licenze, senta questo:
Intorno ad una fonte, in un pratello
di verdi erbette pieno e di bei fiori,
sedeano tre angiolette, i loro amori
forse narrando; ed a ciascuna il bello
viso adombrava un verde ramoscello
che i capei d'or cingea, al qual di fuori
e dentro insieme due vaghi colori
avvolgeva un soave venticello.
E dopo alquanto l'una alle due disse
com'io udii: - Deh! Se per avventura
di ciascuna l'amante or qui venisse,
fuggiremo noi quinci per paura? -
- A cui le due risposer: - Chi fuggisse,
poco savia saria con tal ventura.
-
Qui senti il Boccaccio in quella sua mescolanza di sensuale e malizioso.
Gli scherzi del venticello sono abbozzati con l'anima di un satiro che divora con gli occhi la preda, e la chiusa cinica così inaspettata ti toglie a ogni idealità e ti gitta nel comico.
Qui il Boccaccio trova se stesso.
Fu chiamato «Giovanni della tranquillità» per quella sua spensierata giovialità, che lo tenea lontano da ogni esagerazione delle passioni, e tiravalo nel godimento e nel gusto della vita reale.
E quantunque si doglia dell'epiteto come d'una ingiuria e lo rifiuti sdegnosamente, pure è là il suo genio e la sua gloria, e non dove sfoggia in forme rettoriche sentimento ed erudizione.
Fu chiamato anche «uomo di vetro», per una cotal sua mobilità d'impressioni e di risoluzioni, di cui sono esempio le Rime, dove invano cerchi l'unità organica del Canzoniere, e un disegno qualunque, avvolto il poeta dalle onde delle impressioni e della vita reale e de' suoi studi e reminiscenze classiche.
Pure tra molte volgarità trovi un elevato sentimento dell'arte, o, come egli dice, «l'amor delle muse, che lo trae d'inferno», come chiama la terra deserta dalle muse.
«Vidi», egli canta,
...
una ninfa uscire
d 'un lieto bosco, e verso me venire
co' crin ristretti da verde corona.
A me venuta disse: - Io son colei,
che fo di chi mi segue il nome eterno,
e qui venuta sono ad amar presta;
lieva su, vieni.
- Ed io già di costei
acceso, mi levai; ond'io d'inferno
uscendo, entrai nell'amorosa festa.
Da questo elevato sentimento dell'arte è uscito il sonetto sopra Dante, scritto con una gravità e vigore di stile così insueto, che farebbe quasi dubitare sia cosa sua:
Dante Alighieri son, Minerva oscura
d'intelligenza e d'arte, nel cui ingegno
l'eleganza materna aggiunse al segno,
che si tien gran miracol di natura.
L'alta mia fantasia pronta e sicura
passò il tartareo e poi il celeste regno,
e il nobil mio volume feci degno
di temporale e spirital lettura.
Fiorenza gloriosa ebbi per madre,
anzi matrigna a me pietoso figlio,
colpa di lingue scellerate e ladre.
Ravenna fummi albergo del mio esiglio;
ed ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre,
presso cui invidia non vince consiglio.
La stessa disparità tra le forme e il contenuto troviamo nella Fiammetta e nel Corbaccio o Laberinto d'amore.
Sono due generi nuovi e pel contenuto affatto moderni.
La Fiammetta e un romanzo intimo e psicologico, dove una giovane amata e abbandonata narra ella medesima la sua storia, rivelando con la più fina analisi le sue impressioni.
Il Corbaccio è la satira del sesso femminile fatta dal vendicativo scrittore, canzonato da una donna.
La scelta di questi argomenti è felicissima.
L'autore volge le spalle al medio evo e inizia la letteratura moderna.
Di un mondo mistico-teologico-scolastico non è più alcun vestigio.
Oramai tocchiamo terra: siamo in cospetto dell'uomo e della natura.
Abbiamo una pagina di storia intima dell'anima umana, colta in una forma seria e diretta nella Fiammetta, in una forma negativa e satirica nel Corbaccio.
La letteratura non è più trascendente, ma immanente, cioè a dire vede l'uomo e la natura in se stessa, e non in forme estrinseche e separate, mitologiche e allegoriche.
Ma il Boccaccio non sa trovare le forme convenienti a questo contenuto.
Per rappresentarlo nella sua verità non aveva che a mettersi in immediata comunione con quello ed esprimere le sue impressioni così naturali e fresche come gli venivano.
Ma s'accosta a questo mondo con l'animo preoccupato dall'erudizione, dalla storia, dalla mitologia e dalla rettorica, e lo vede, lo dipinge a traverso di queste forme.
L'impressione giungendo nel suo spirito vi è immediatamente falsificata, nè si riconosce più dietro a quel denso involucro, che se non è teologico-scolastico, è pur qualche cosa di più strano, è mitologico-rettorico.
Nasce una nuova trascendenza, la cui radice non è nel naturale sviluppo del pensiero religioso e filosofico, come l'antica, ma nell'avviamento classico preso dalla coltura.
Fiammetta abbandonata da Panfilo, prima di fare i suoi lamenti, vuol vedere come in Virgilio si lamenta Didone abbandonata, pensando che a lei non è lecito di lamentarsi in altra guisa.
E se vuol consolarsi, cercando compagni al suo dolore, ti fa un trattato di storia antica, narrando tutti i casi infelici di amore degli antichi iddii ed eroi.
E se sogna, cerca in Ovidio la spiegazione de' sogni.
Vuol dire che sente vergogna di palesare i suoi godimenti amorosi? E ti definisce la vergogna e ragiona lungamente de' suoi effetti sulle donne.
Vuol esprimere gioia, speranza, timore, dolore, ira, gelosia? E analizza ciascuno di questi sentimenti, facendo tesoro di tutti i luoghi topici registrati da Aristotile.
Bisogna vedere con che diligenza il Sansovino nota tutti i luoghi etici e patetici, e le imitazioni e le erudizioni della Fiammetta, a guida de' maestri e degli scolari.
Dante, Minerva oscura, potè spesso tra le nebbie delle sue allegorie attingere il mondo reale, perchè era artista, e se è scolastico, non è mai rettorico: il Boccaccio non può distrigarsi da quel mondo artificiale e coglier la natura, perchè gli manca ogni serietà di vita interiore nel pensiero e nel sentimento, e vi supplisce con le esagerazioni e le amplificazioni.
Che dirò delle sue descrizioni così minute, come le sue analisi, e tutte di seconda mano, non ispirate dall'impressione immediata della natura? Veggasi il suo inverno e la primavera e l'autunno, e tutte le sue descrizioni della bellezza virile e femminile, fatte con la squadra e col compasso.
Così gli è venuto scritto un romanzo prolisso, noioso, in guisa che, a sentir quegli eterni lamenti della Fiammetta che aspetta Panfilo, siamo tentati di dire: - Panfilo, torna presto! Che non la sentiamo più.
-
Più conforme al suo genio è il Corbaccio, satira delle donne.
Ma come il burlato è lui, le risa sono a sue spese, specialmente quando si lamenta che una donna abbia potuto farla a lui, che pure è un letterato.
Vi mostra egli così poco spirito come nella lettera a Nicolò Acciaioli, che il Petrarca grecizzando chiamava Simonide, dove leva le alte strida perchè, invitato alla corte di Napoli, gli sia toccata quella cameraccia e quel lettaccio, ed esce in vitupèri, in minacce, in pettegolezzi, resi ancora più ridicoli da quella forma ciceroniana.
Come qui minaccia e vitupera e inveisce alla latina, così nel Corbaccio satireggia con la storia, co' luoghi comuni degli antichi poeti, narrando fatti o allegorie e ammassando noiosi ragionamenti.
L'ordito è semplicissimo.
Il Boccaccio, beffato da una donna, si vuole uccidere, ma il timore dell'inferno ne lo tiene, e pensa più saviamente a vivere e a vendicarsi, non col ferro, ma, come i letterati fanno, con «concordare di rime» o «distender di prose».
Fra questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel «laberinto d'amore», o valle incantata, una specie di selva dantesca, dove gli appare un'ombra, ed è il marito della donna, che nel purgatorio espia la troppa pazienza avuta con lei.
Costui gli espone tutte le cattive qualità delle donne, a cominciare dalla sua.
E quando si è bene sfogato, lo conduce sopra di un monte altissimo, onde vede il laberinto metter capo nell'inferno.
Questa vista guarisce il Boccaccio del mal concetto amore.
Come si vede, la satira non è rappresentazione artistica, ma esposizione, in forma di un trattato di morale, de' vizi femminili.
Nondimeno trovi qua e là di bei motti, e novellette graziose e descrizioni vivaci dei costumi delle donne, con l'uso felicissimo del dialetto fiorentino, com'è la donna in chiesa, che «incomincia una dolente filza di paternostri, dall'una mano nell'altra e dall'altra nell'una trasmutandogli senza mai dirne niuno», o la donna che con le sue gelosie non dà tregua al marito, e «di ciarlare mai non resta, mai non molla, mai non fina: dàlle, dàlle, dàlle, dalla mattina infino alla sera, e la notte ancora non sa restare».
Nelle sue gelose querele si rivela il vero genio del Boccaccio, una forza comica accompagnata con rara felicità di espressione, attinta in un dialetto così vivace e già maturo, pieno di scorciatoie, di frizzi, di motti, di grazie.
Citiamo alcuni brani:
«Credi tu ch'i' sia abbagliata, e ch'i' non sappia a cui tu vai dietro? A cui tu vogli bene? E con cui tutto il dì favelli? Misera me, che è cotanto tempo ch'io ci venni, e pur una volta ancora non mi dicesti - Amor mio, ben sia venuta.
- Ma alla croce di Dio, io farò di quelle a te che tu fai a me.
Or son io così sparuta? Non son io così bella, come la cotale? Ma sai che ti dico? Chi due bocche bacia, l'una convien che gli puta.
Fàtti costà, se Iddio m'aiuti, tu non mi toccherai: va' dietro a quelle di cui tu se' degno, chè certo tu non eri degno d'aver me, e fai bene ritratto di quello che tu sei, ma a fare a far sia.
Questa è lingua già degna di Plauto, e il Corbaccio è sparso di cotali scene, degne di colui che aveva già scritto il Decamerone.
Fra' tanti peccati che il marito tradito e l'amante burlato attribuiscono alla donna c'è pur questo, che «le sue orazioni e i suoi paternostri sono i romanzi franceschi», e «tutta si stritola quando legge Lancillotto o Tristano nelle camere segretamente».
E anche «legge la canzone dello indovinello, e quella di Florio e di Biancefiore, e simili altre cose assai».
Sono preziose rivelazioni sulla letteratura profana e proibita, allora in voga.
Ma se peccato c'è, il maggior peccatore era il Boccaccio per l'appunto, che per piacere alle donne scrivea romanzi.
Pure è lecito credere ch'elle leggevano con più gusto la nuda storia francesca di Florio e Biancefiore, che l'imitazione letteraria fatta dal Boccaccio, detta Filocolo, dove Biancefiore (Blanchefleur) è chiamata all'italiana «Biancofiore».
Alle donne caleva poco di mitologia e storia antica, e se tanta erudizione e artificio rettorico potea parere cosa mirabile al suo maestro di greco, Pilato, e a' latinisti e grecisti che erano allora i letterati, le donne, che cercavano ne' libri il piacer loro, facevano de' suoi scritti poca stima, e, «ciò che peggio era, per lui, Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri illustri uomini creduti suoi amici e domestici, come fango scalpitavano e schernivano».
In verità, le donne col loro senso naturale erano migliori giudici in letteratura che Leonzio Pilato e tutti i dotti.
Quelli che chiamarono «tranquillo» il nostro Giovanni espressero un concetto più profondo che non pensavano.
La tranquillità è appunto il carattere del nuovo contenuto che egli cercava sotto forme pagane.
La letteratura del medio evo è tutt'altro che tranquilla; anzi il suo genio è l'inquietudine, un cercare continuo, il di là senza speranza di attingerlo.
Il suo uomo è sospeso da terra, con gli occhi in alto, accesi di desiderio.
L'uomo del Boccaccio è, al contrario, assiso, in ozio idillico, con gli occhi volti alla madre terra, alla quale domanda e dalla quale ottiene l'appagamento.
Ma al Boccaccio non piace esser chiamato «tranquillo», inconsapevole che la sua forza è lì dov'è la sua natura.
E si prova nel genere eroico e cavalleresco, e nelle confessioni della Fiammetta tenta un genere lirico-tragico.
Tentativi infelici di uomo che non trova ancora la sua via.
L'indefinito è negato a lui, che descrive la natura con tanta minutezza di analisi.
Il sospiro è negato a lui, che numera ad uno ad uno i fenomeni del sentimento.
L'eroico e il tragico non può allignare in un'anima idillica e sensuale.
E quando vi si prova, riesce falso e rettorico.
Perciò non gli riesce ancora di produrre un mondo, cioè una totalità organica, armonica e concorde.
Nel suo mondo epico-tragico-cavalleresco penetra uno spirito eterogeneo e dissolvente, che rende impossibile ogni formazione artistica, il naturalismo pagano: spirito invitto, perchè è il solo che vive al di dentro di lui, il solo che si possa dire il suo mondo interiore.
E quando gli riesce di coglierlo nella sua semplicità e verità, come gli si move al di dentro, allora trova se stesso e diviene artista.
Questo mondo, gittato come frammento discorde e caotico ne' suoi romanzi epici e tragici, par fuori in tutta la sua purezza nel Ninfale fiesolano e nel Ninfale d'Ameto.
Qui l'autore, volgendo le spalle alla cavalleria e a' tempi eroici, rifà con l'immaginazione i tempi idillici delle antiche favole e dell'età dell'oro, quando le deità scendevano amicamente nella terra popolata di ninfe, di pastori, di fauni e di satiri.
La mitologia non è qui elemento errante fuori di posto in mondo non suo, è lei tutto il mondo.
Questo mondo mitologico primitivo è un inno alla natura.
Nel Ninfale fiesolano la ninfa sacra a Diana, vinta dalla natura, manca al suo voto ed è trasmutata in fonte.
L'anima del racconto è il dolce peccato, nel quale cadono Africo e Mensola non per corruzione o depravazione di cuore, ma per l'irresistibile forza della natura nella piena semplicità ed innocenza della vita; sì che, saputo il fatto, ne viene compassione alla stessa Diana.
Indi a poco sopraggiunge Atalante, e con la guida del figlio della colpa, nato da Mensola, distrugge gli asili sacri a Diana, e marita le ninfe per forza, ed edifica Fiesole, ed introduce la civiltà e la coltura.
Così il mondo mitologico perisce con le sue selvatiche istituzioni, e comincia il viver civile conforme alle leggi della natura e dell'amore.
Il racconto è diviso in sette parti o canti ed è in ottava rima.
L'autore, non costretto a gonfiare le gote nè a raffinare i sentimenti, si fa cullare dolcemente dalla sua immaginazione in questo mondo idillico, e descrive paesaggi e scene di famiglia e costumi pastorali con una facilità che spesso è negligenza, non è mai affettazione o esagerazione.
La tromba è mutata nella zampogna, suono più umile, ma uguale e armonioso: l'ottava procede piana e naturale, talora troppo rimessa; e non mancano di bei versi imitativi.
Africo e Mensola debbono dividersi, chè l'ora è tarda; e il poeta dice:
Partir non si sanno,
ma or si partono, or tornano, or vanno.
Altrove dice:
sempre mirandosi avanti ed intorno,
se Mensola vedea, poneva mente.
Frequente è in lui l'uso dello sdrucciolo in mezzo al verso, e quell'entrare de' versi l'uno nell'altro, che slega e intoppa le sue ottave eroiche, ma dà a queste ottave idilliche un aspetto di naturalezza e di grazia.
Il suo periodo poetico, saltellante e imbrogliato nella Teseide, qui è corrente e spedito, assai prossimo al linguaggio naturale e familiare:
Ella lo vide prima che lui lei,
perchè' a fuggir del campo ella prendea:
Africo la sentì gridare - Omei! -
e poi guardando fuggir la vedea:
e infra se disse: - Per certo costei
è Mensola -, e poi dietro le correa;
e sì la prega e per nome la chiama,
dicendo: - Aspetta quel che tanto t'ama.
-
Africo dorme; e il padre dice alla moglie, Alimena:
O cara sposa,
nostro figliuol mi pare addormentato,
e molto ad agio in sul letto si posa,
sì che a destarlo mi parria peccato,
e forse gli saria cosa gravosa
se io l'avessi del sonno svegliato.
- E tu di' vero, - diceva Alimena -
lascial posare e non gli dar più pena.
-
Manca il rilievo: per soverchia naturalezza si casca nel triviale e nel volgare.
Più tardi verrà il grande artista, che calerà in questo mondo della natura e dell'amore appena sbozzato e pur ora uscito alla luce, e gli darà l'ultima e perfetta forma.
Simile di disegno, ma in più larghe proporzioni, è il Ninfale d'Ameto.
È il trionfo della natura e dell'amore sulla barbarie de' tempi primitivi.
E il barbaro qui non è la ninfa, sacrata a Diana, che per violenza di natura rompe il voto, ma è il pastore, abitatore della foresta co' fauni e le driadi, che scendendo al piano lascia l'alpina ferita e prende abito civile.
Il luogo della scena comincia in Fiesole, negli antichissimi tempi detta Corito, quando vi abitavano le ninfe e non era venuto ancora Atalante a cacciarle via e introdurvi costumi umani.
Così l'Ameto si collega col Ninfale fiesolano.
Il pastore Ameto erra e caccia su pel monte e per la selva, quando un dì affaticato giunge co' suoi cani al piano, presso il Mugnone; e riposando e trastullandosi co' cani, gli giunge all'orecchio un dolce canto, e guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla bellissima Lia.
Sono ninfe, non sacrate a Diana, ma a Venere.
Lia racconta nella sua canzone la storia di Narciso, «bellissimo e crudo cacciatore», che, rifiutando il caro amore delle donne e innamorato della sua immagine, fu convertito in fiore.
Ameto parte pensoso, recando seco l'immagine di Lia.
Venuta la primavera, torna al piano, e cerca e chiama Lia, descrivendo la sua bellezza e offrendole doni:
Tu se' lucente e chiara più che il vetro
ed assai dolce più ch'uva matura;
nel cuor ti sento, ov'io sempre t'impetro
E siccome la palma in ver l'altura
si stende, così tu, viepiù vezzosa
che 'l giovanetto agnel ne la pastura;
e sei più cara assai e grazïosa
che le fredde acque a' corpi faticati,
o che le fiamme a' freddi, e ch'altra cosa.
E i tuoi capei più volte ho simigliati
di Cerere a le paglie secche e bionde,
dintorno crespi al tuo capo legati...
Vieni, ch'io serbo a te giocondo dono,
che io ho còlti fiori in abbondanza
agli occhi bei, d'odor soave e buono.
E siccome suol esser mia usanza,
le ciriege ti serbo, e già per poco
non si riscaldan per la tua distanza.
Con queste, bianche e rosse come fuoco
ti serbo gelse, mandorle e susine,
fravole e bozzacchioni in questo loco.
Belle peruzze e fichi senza fine,
e di tortole ho presa una nidiata,
le più belle del mondo, e piccoline...
Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio traggono pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto trova la sua Lia fra bellissime ninfe, delle quali contempla le bellezze parte a parte, fatto giudice esperto e amoroso.
E tutti fan cerchio a un pastore che canta le lodi di Venere e di Amore.
Sopravvengono altre ninfe, le quali «non umane pensava, ma dèe», e contempla rapito celesti bellezze, e di pastore si sente divenuto amante, dicendo: «Io, usato di seguire bestie, amore poco avanti da me non saputo seguendo, non so come mi convertirò in amante seguendo donne».
Le belle ninfe gli siedono intorno, ed egli scioglie un inno a Giove e canta la sua conversione.
Questi sono gli antecedenti del romanzo, sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze femminili in quella forma minuta e stancante che è il vezzo dell'autore.
Lia propone che ciascuna ninfa canti la sua storia e canti la deità reverita da lei, acciocchè «oziose, come le misere fanno, non passino il chiaro giorno».
Sedute in cerchio e posto in mezzo Ameto, come loro presidente o antistite, cominciano i loro racconti.
Sono sette ninfe: Mopsa, Emilia, Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta e Lia, ciascuna consacrata a una divinità, Pallade, Diana, Pomena, Bellona, Venere, delle quali si cantano le lodi.
Ne' racconti delle ninfe vedi la vittoria dell'amore e della natura sulla ferina salvatichezza degli uomini, e all'ozio bestiale tener dietro le arti di Pallade, di Diana, di Astrea, di Pomena e di Bellona, la cultura e l'umanità.
Ti vedi innanzi svilupparsi tutto il mondo della cultura, e cominciare da Atene ed in ultimo posare in Etruria, dove l'autore con giusto orgoglio pone il principio della nuova cultura.
Da ultimo apparisce una luce una e trina, entro la quale guardando Ameto, Mopsa gli occhi asciugandoli, da quelli levò l'oscura caligine, sì che nella luce triforme ravvisa la celeste e santa Venere, madre di amore puro e intellettuale.
Tuffato nella fonte da Lia, gittati i panni selvaggi e lavato di ogni lordura, si sente «di bruto fatto uomo», e «vede chi sieno le ninfe, le quali più all'occhio che all'intelletto erano piaciute, e ora all'intelletto piacciono più che all'occhio; discerne quali sieno i templi, quali le dee di cui cantano e chenti sieno i loro amori, e non poco in sè si vergogna de' concupiscevoli pensieri avuti».
Le ninfe, le quali non sono altro che le scienze e le arti della vita civile, tornano alla celeste patria, e Ameto canta la sua redenzione dallo stato selvaggio.
Questo disegno evidentemente è uscito da una testa giovanile, ancora sotto l'azione di tutti i diversi elementi di quella cultura.
Palpabili sono le reminiscenze della Divina Commedia.
Lia e Fiammetta ricordano Matilde e Beatrice.
Il concetto nella sua sostanza è dantesco: è l'emancipazione dell'uomo, il quale, percorse le vie del senso e dell'amore sensuale, è dalla scienza innalzato all'amore di Dio.
Anche la forma allegorica è dantesca, non essendo quelle apparizioni che simboli di concetti e figure di quelle separate intelligenze che presiedono alle stelle e regolano i moti dell'animo.
Tutto questo si trova inviluppato in un mondo mitologico, che è la sua negazione, animato da un naturalismo spinto sino alla licenza: Apuleio e Longo contendono con Dante nel cervello dello scrittore.
Il romanzo, che nell'intenzione dovrebbe essere spirituale, è nel fatto soverchiato da un vivo sentimento della bella natura e de' piaceri amorosi.
Si vede il giovane, che sta con Dante in astratto, ma ha pieno il capo di mitologia, di romanzi greci e franceschi, di avventure licenziose, e fa di tutto una mescolanza.
Se qualche cosa in questa noiosa lettura ti alletta, è dove lo scrittore si abbandona alla sua natura, com'è la comica descrizione che Acrimonia fa del suo vecchio marito, nel quale intravvedi già il povero dottore a cui Paganino rubò la moglie, e com'è qua e là qualche pittura e sentimento idillico.
Pure, in un mondo così dissonante e scordato si sviluppa chiaramente un entusiasmo giovanile per la coltura e l'umanità.
Ci si sente il secolo, che scuote da sè la rozza barbarie, e s'incammina fidente verso un mondo più colto e polito.
Ameto si spoglia il ruvido abito del medio evo, e guidato dalle muse prende aspetto gentile e umano.
Le ombre del misticismo si diradano nel tempio di Venere.
Dante canta la redenzione dell'anima nell'altro mondo.
Il Boccaccio canta la fine della barbarie e il regno della coltura.
È lo spirito nuovo, da cui più tardi uscirà Lorenzo de' Medici e Poliziano.
Gittando ora un solo sguardo su questi lavori, si possono raccogliere con chiarezza i caratteri della nuova cultura.
Le teorie in astratto rimangono le stesse, e il Boccaccio pensa come Dante.
Ma nel fatto lo spirito abbandona il cielo e si raccoglie in terra: perde la sua idealità e la sua inquietudine, e diviene tranquillo, calato tutto e soddisfatto nella materia della sua contemplazione.
A un mondo lirico di aspirazioni indefinite, espresso nella visione e nell'estasi, succede un mondo epico, che ha ne' fatti umani e naturali il suo principio e il suo termine.
Il poeta in luogo d'idealizzare realizza, cioè a dire fugge le forme sintetiche e comprensive che gittano lo spirito in un di là da esse, e cerca una forma nella quale l'immaginazione si trovi tutta e si riposi.
Non ci è più il «forse» e il «parere», non una forma appena abbozzata, quasi velo di qualcos'altro, ma una forma terminata e chiusa in sè e corpulenta, nella quale l'oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti: alla terzina succede l'analitica ottava.
Rimangono ancora le terzine, e le visioni e le allegorie, i sonetti e le canzoni, ma come forme prettamente convenzionali e d'imitazione, sciolte dallo spirito che le ha generate: il passato per lungo tempo si continua come morta forma in un mondo mutato.
Succedono forme giovani e nuove, più conformi a un contenuto epico.
Sul mondo inquieto delle allegorie e delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo pagano, con le sue deità umanizzate, con la sua natura animata, col suo vivo sentimento della bellezza, con la sua disinteressata contemplazione artistica.
Queste tendenze non trovano soddisfazione in un contenuto eroico e cavalleresco, perchè la serietà di una vita eroica e cavalleresca è ita via insieme col medio evo, e non è più nella coscienza, e non può essere altro che imitazione letteraria e artificio rettorico.
Più conveniente a quelle forme è la vita idillica, ne' cui tranquilli ozi, nella cui semplicità e chiarezza l'anima, agitata dalle lotte politiche e turbata dalle ombre di un mondo trascendente, si raccoglie come in un porto e si riposa.
L'idillio è la prima forma nella quale si manifesta questa nuova generazione, fiacca e stanca, pur colta ed erudita, che chiama barbara la generazione passata, e celebra i nuovi tempi della coltura e dell'umanità, invocando Venere e Amore.
Specchio di questa società nelle sue fluttuazioni, nelle sue imitazioni, nelle sue tendenze, è il Boccaccio.
I suoi tentennamenti e le sue dissonanze provengono dalla coesistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi, vivi e morti, mescolati.
Un doppio involucro, mistico e mitologico, circonda come una nebbia questo mondo della natura.
Fra questi tentennamenti si andò formando il Decamerone.
Il Boccaccio lascia qui cavalleria, mitologia, allegoria, e tutto il suo mondo classico, tutte le sue reminiscenze dantesche, e si chiude nella sua società, e ci vive e ci gode, perchè ivi trova se stesso, perchè vive anche lui di quella vita comune.
Par così facile attingere la società in questa forma diretta e immediata: pur si vede quanto laboriosa gestazione è necessaria, perchè esca alla luce il mondo del tuo spirito.
Quel mondo esisteva prima del Decamerone.
In Italia abbondavano romanzi e novelle e «canzoni latine», canti licenziosi.
Le donne, come abbiam visto, leggevano secretamente tra loro questi libri profani, e i novellatori intrattenevano le liete brigate con racconti piacevoli e licenziosi.
Il fondo comune de' romanzi erano le avventure de' cavalieri della Tavola rotonda e di Carlomagno Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero di questi eroi ed eroine, Artù, Lancillotto, Galeotto, Isotta la bionda, Chedino, Palamides, Lionello, Tristano, Orlando, Uliviero, Rinaldo, Guttifré, Roberto Guiscardo, Federico Barbarossa, Federico secondo.
Egli medesimo scrisse romanzi per far piacere alle donne, e rifatto il romanzo di Florio e Biancofiore, cercò un teatro più conforme a' suoi studi classici ne' tempi eroici e primitivi delle greche tradizioni.
Pure, le novelle doveano riuscire più popolari e più gradite, perchè più conformi a' tempi e a' costumi.
E se ne raffazzonavano o inventavano di ogni sorta, serie e comiche, morali e oscene, variate e abbellite da' novellatori secondo i gusti dell'uditorio.
La novella era dunque un genere vivente di letteratura, lasciato in balia dell'immaginazione, e come materia profana e frivola, trascurata dagli uomini colti.
Rivale della novella era la leggenda co' suoi miracoli e le sue visioni.
Gli uomini colti si tenevano alto in una regione loro propria, e lasciavano a' frati i Fioretti di san Francesco e la Vita del beato Colombino, e a' buontemponi la semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.
In questo mondo profano e frivolo entrò il Boccaccio, con non altro fine che di scrivere cose piacevoli e far cosa grata alla donna che gliene avea data commissione.
E raccolse tutta quella materia informe e rozza, trattata da illetterati, e ne fece il mondo armonico dell'arte.
Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle quali il Boccaccio ha attinte le sue novelle.
E molti credono si tolga qualche cosa alla sua gloria, quando sia dimostrato che la più parte de' suoi racconti non sono sua invenzione, quasi che il merito dell'artista fosse nell'inventare, e non piuttosto nel formare la materia.
Fatto è che la materia, così nella Commedia e nel Canzoniere come nel Decamerone, non uscì dal cervello di un uomo, anzi fu il prodotto di una elaborazione collettiva, passata per diverse forme, insino a che il genio non l'ebbe fissata e fatta eterna.
Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto diversi nomi, ma non c'era la novella, e tanto meno il novelliere, in cui i singoli racconti fossero composti ad unità e divenissero un mondo organico.
Questo organismo vi spirò dentro il Boccaccio, e di racconti diversi di tempi, di costumi e di tendenze fece il mondo vivente del suo tempo, la società contemporanea, della quale egli aveva tutte le tendenze nel bene e nel male.
Non è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la società da un punto elevato e ne scopre le buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza.
È un artista che si sente uno con la società in mezzo a cui vive, e la dipinge con quella mezza coscienza che hanno gli uomini fluttuanti fra le mobili impressioni della vita, senza darsi la cura di raccogliersi e analizzarle.
Qualità che lo distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca, spiriti raccolti ed estatici.
Il Boccaccio è tutto nel mondo di fuori tra' diletti e gli ozi e le vicissitudini della vita, e vi è occupato e soddisfatto, e non gli avviene mai di piegarsi in sè, di chinare il capo pensoso.
Le rughe del pensiero non hanno mai traversata quella fronte, e nessun'ombra è calata sulla sua coscienza.
Non a caso fu detto «Giovanni della tranquillità».
Sparisce con lui dalla nostra letteratura l'intimità, il raccoglimento, l'estasi, la inquieta profondità del pensiero, quel vivere dello spirito in sè, nutrito di fantasmi e di misteri.
La vita sale sulle superficie e vi si liscia e vi si abbellisce.
Il mondo dello spirito se ne va: viene il mondo della natura.
Questo mondo superficiale, appunto perchè vuoto di forze interne e spirituali, non ha serietà di mezzi e di scopo.
Ciò che lo move non è Dio, nè la scienza, non l'amore unitivo dell'intelletto e dell'atto, la grande base del medio evo; ma è l'istinto o l'inclinazione naturale: vera e violenta reazione contro il misticismo.
Ti vedi innanzi una lieta brigata, che cerca dimenticare i mali e le noie della vita, passando le calde ore della giornata in piacevoli racconti.
Era il tempo della peste, e gli uomini con la morte innanzi si sentivano sciolti da ogni freno e si abbandonavano al carnevale della loro immaginazione.
Di questo carnevale il Boccaccio aveva l'immagine nella corte ove avea passati i suoi più bei giorni, attingendo le sue ispirazioni in quel letame, sul quale le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori.
Un congegno simile trovi già nell'Ameto, un decamerone pastorale: se non che ivi i racconti sono allegorici e preordinati ad un fine astratto: non c'è lo spirito della Divina Commedia, ma ce n'è l'ossatura.
Qui al contrario i racconti non hanno altro fine che di far passare il tempo piacevolmente, e sono veri mezzani di piacere e d'amore, il vero Principe Galeotto, titolo italiano del novelliere, velato pudicamente da un titolo greco.
I personaggi evocati nell'immaginazione da diversi popoli e tempi appartengono allo stesso mondo, vuoto al di dentro, corpulento al di fuori.
Personaggi, attori, spettatori e scrittore sono un mondo solo, il cui carattere è la vita tutta al di fuori, in una tranquilla spensieratezza.
Questo mondo è il teatro de' fatti umani abbandonati al libero arbitrio e guidati ne' loro effetti dal caso.
Dio o la provvidenza ci sta di nome, quasi per un tacito accordo, nelle parole di gente caduta nella più profonda indifferenza religiosa, politica e morale.
E non c'è neppure quella intima forza delle cose, che crea la logica degli avvenimenti e la necessità del loro cammino; anzi l'attrattivo del racconto è proprio nell'opposto, mostrando le azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un fine affatto contrario a quello che ragionevolmente si potea presupporre.
Nasce una nuova specie di maraviglioso, generato non dall'intrusione nella vita di forze oltrenaturali sotto forma di visioni o miracoli, ma da uno straordinario concorso di accidenti non possibili ad essere preveduti e regolati.
L'ultima impressione è che signore del mondo è il caso.
Ed è appunto nel vario giuoco delle inclinazioni e delle passioni degli uomini sottoposte a' mutabili accidenti della vita che è qui il deus ex machina, il dio di questo mondo.
E poichè la macchina è il maraviglioso, l'imprevisto, il fortuito, lo straordinario, l'interesse del racconto non è nella moralità degli atti, ma nella loro straordinarietà di cause e di effetti.
Non già che il Boccaccio sconosca il mondo morale e religioso, ed alteri le nozioni comuni intorno al bene od al male, ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona.
Poco a lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò che importa è che possa stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri.
La virtù, posta qui a fare effetto sull'immaginazione, manca di semplicità e di misura, e diviene anch'essa un istrumento del maraviglioso, condotta ad una esagerazione, che scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il difetto di senso morale.
Esempio notabile è la Griselda, il personaggio più virtuoso di quel mondo.
La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti i sentimenti della natura e la sua personalità e il suo libero arbitrio.
L'autore, volendo foggiare una virtù straordinaria, che colpisca di ammirazione gli uditori, cade in quel misticismo contro di cui si ribella e che mette in gioco, collocando l'ideale della virtù femminile nell'abdicazione della personalità, a quel modo che secondo l'ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito e lo spirito è assorbito da Dio.
Si rinnova il sacrificio di Abramo, e il Dio che mette la natura a così crudel prova è qui il marito.
Similmente la virtù in Tito e Gisippo è collocata così fuori del corso naturale delle cose, che non ti alletta come un esempio, ma ti stupisce come un miracolo.
Ma virtù eccezionali e spettacolose sono rare apparizioni, e ciò che spesso ti occorre è la virtù tradizionale di tempi cavallereschi e feudali, una certa generosità e gentilezza di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie cavalleresche ed eroiche in tempi borghesi.
La qual virtù è in questo, che il principe usa la sua potenza a protezione de' minori, e soprattutto degli uomini valenti d'ingegno e di studi e poco favoriti dalla fortuna, come furono Primasso e Bergamino, verso i quali si mostrarono magnifici l'abate di Cligny e Can Grande della Scala.
Così è molto commendato il primo Carlo d'Angiò, il quale, potendo rapire e sforzare due bellissime fanciulle, figliuole di un ghibellino, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle.
La virtù
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