I MALCONTENTI, di Carlo Goldoni - pagina 2
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FELIC.
Sì, è vero.
La signora Leonide mi disse ieri, che a momenti sarà di partenza.
Anzi non ci pensavo ancora in quest'anno, ma ella me ne ha fatta venir volontà.
GRILL.
Lo so io il perché le ha destato il solletico.
FELIC.
Oh, voi penserete che sia per il signor Ridolfo di lei fratello.
Ma non è vero.
GRILL.
Se il mio pensiero non fosse vero, non l'avrebbe indovinato sì presto.
FELIC.
Vi dirò, il signor Ridolfo non mi dispiace, ma è un certo carattere stravagante, che ancora non conosco bene.
GRILL.
In campagna lo conoscerebbe un po' meglio.
FELIC.
Certamente là si pratica con un poco più di confidenza.
I nostri beni sono poco distanti dai beni loro: colla signora Leonide siamo amiche; ci praticheremmo spesso, e per conseguenza vorrei conoscere l'animo e l'intenzione del signor Ridolfo.
GRILL.
Lo dica al suo signor padre; egli che l'ama teneramente, farà di tutto per contentarla.
FELIC.
Se stesse a lui, son certa che sarei consolata.
Ma egli non conta niente in questa casa.
Quell'avaraccio dello zio ha il maneggio, ha i quattrini, e vuol le cose a suo modo.
GRILL.
E suo fratello?
FELIC.
E mio fratello è un babbeo, che non ha coraggio di dir due parole.
Questo vecchio ci tien tutti sotto.
Per un poco di denari, che ha accumulati col nostro, fa tremar tutti.
E non si tratta di maritarmi, e non si pensa a divertirmi, e guai a chi parla; ma so io quello che farò.
GRILL.
Che cosa penserebbe ella di fare?
FELIC.
Anderò a cacciarmi in un ritiro per sempre, e il signor zio sarà contento.
GRILL.
Sarebbe buona davvero a rovinar se stessa, per far a lui un dispetto.
FELIC.
Tant'è, se questa volta non mi dà questa picciola soddisfazione; se non mi manda un poco in campagna, faccio qualche risoluzione.
GRILL.
Può essere, se glielo dice, che la conduca con lui.
FELIC.
Oh, non ce lo voglio lui.
Non basta che ci sieno mio padre e mio fratello? Non mi ci posso vedere con quel vecchio tisico.
GRILL.
Mi pare che abbiano picchiato.
FELIC.
Andate a vedere.
Picchiano qui dalla scala.
GRILL.
Sarà la serva della signora Leonide.
FELIC.
Può essere che sia ella stessa.
GRILL.
Eh, sarà la serva, che tutto il giorno viene in prestito di qualche cosa.
Ora sale, ora olio, ora zucchero: oh che casa disordinata! non hanno mai il bisogno in casa.
Almeno qui da noi, per dir il vero, non manca niente.
(parte)
SCENA SECONDA
La signora FELICITA
FELIC.
Non manca niente, non manca niente: a me manca tutto.
Che importa a me che ci sia sale, olio e zucchero, se manca il miglior condimento, ch'è quello della libertà? Non sono più una bambina da tener per la cintola.
Ogn'anno passa un anno, e vedo tante che fanno più di me e sono meno di me; e voglio fare ancor io quello che fanno le altre.
SCENA TERZA
GRILLETTA e detta, poi la signora LEONIDE
GRILL.
È qui la signora Leonide.
FELIC.
Va in campagna?
GRILL.
Se ci va? È vestita da viaggio.
FELIC.
Ah! tutte sì, ed io no.
Quando ci penso, mi vengono cento mali.
LEON.
Serva sua, signora Felicita.
FELIC.
Serva, signora Leonide.
Come sta?
LEON.
A servirla.
Ed ella?
FELIC.
A servirla.
GRILL.
(Questo complimento non manca mai).
(da sé)
FELIC.
Datele da sedere.
(a Grilletta, la quale porta due sedie, e parte)
LEON.
Non s'incomodi, son qui per poco.
Son venuta a riverirla, a ricevere i suoi comandi.
FELIC.
Vedo ch'ella è di viaggio.
Per dove, se è lecito di saperlo?
LEON.
In campagna.
Nei nostri beni.
A goder l'autunno, a star allegramente, con una buonissima compagnia.
FELIC.
Ci starà un pezzo?
LEON.
Tutto l'autunno; fino che ci staranno gli altri.
FELIC.
Ah! (sospira da sé)
LEON.
Che ha, che mi par melanconica?
FELIC.
Niente, mi duole un poco la testa.
S'accomodi.
LEON.
No, perché bisogna ch'io vada via.
FELIC.
Quando si parte?
LEON.
Oggi, a qualche ora.
FELIC.
Viene il signor Ridolfo?
LEON.
Sì signora, viene egli, viene il signor Roccolino, altri tre o quattro amici di mio fratello.
Non manca gente, staremo allegri.
FELIC.
Mah! è fortunata la signora Leonide!
LEON.
Oh, io in verità non posso lamentarmi di niente.
In casa mi fanno tutto quello che voglio.
Vede questo abitino? Me l'hanno fatto ora a posta per andar in campagna.
FELIC.
Anch'io me ne faccio uno.
S'accomodi un poco.
LEON.
No, perché vado via.
Di che cosa lo fa quest'abito?
FELIC.
Non so s'io me lo faccia di carè, o di stoffetta.
LEON.
Per portare in città, vuol essere un bel drappo di seta alla moda.
FELIC.
Basta, ci penserò.
Mi dispiace vederla in piedi.
LEON.
Bisogna ch'io me ne vada: m'aspettano.
Dica, ella non ci va in campagna?
FELIC.
Non so; può essere.
LEON.
Poverina! in verità me ne dispiace.
Sempre qui sagrificata.
Hanno poca carità questi suoi parenti, e per dirla, anche poca convenienza.
FELIC.
Oh, io non me ne sono curata d'andar in campagna; per altro...
LEON.
Oh, s'ella ci stesse un anno, come stiamo noi, l'assicuro che non la lascierebbe più.
FELIC.
Stanno allegri dunque?
LEON.
Allegrissimi.
Senta voglio dirle la vita che abbiamo fatto l'anno passato.
FELIC.
Non vorrei che per me l'aspettassero.
LEON.
Che importa a me? che aspettino.
Siamo andati in dodici in compagnia; e tutti uomini, donne, padroni, servitori, carrozze, cavalli, tutti alla nostra villa.
Arrivati colà, trovammo preparata una sontuosa cena; dopo cena si giocò al faraone, e siccome il sonno andava prendendo ora l'uno, ora l'altro, e mio fratello ed io eravamo impegnati nel gioco, ciascheduno che aveva volontà di dormire, andò nel primo letto che ritrovò, ed io fui obbligata dormir colla cameriera, e mio fratello sul canapè.
FELIC.
Questo è piacere! Questa libertà mi piace.
E la mattina, come andò poi?
LEON.
La mattina? Bellissima...
FELIC.
Ma non istia così in piedi.
LEON.
La mattina dopo, (sedendo) chi si levò tardi, e chi si levò di buon'ora.
Chi al passeggio, chi a leggere, e chi alla tavoletta.
Verso mezzodì, ci ragunammo a bevere la cioccolata; e poi al gioco, e si giocò fino che la zuppa era in tavola.
Dopo pranzo chi andò a dormire, chi a passeggiare, e chi...
Ehi, amica, un po' di genietto ci ha da essere, ci s'intende.
FELIC.
Ed io sempre qui.
LEON.
Non farei la vita che ella fa, se credessi di diventar regina.
FELIC.
Eh! questa volta mi sentiranno.
Basta, basta.
E così? Dica, dica, come andò poi?
LEON.
Andò benissimo, e tutti i giorni bene, e sempre bene.
Tardi a letto, buona tavola, gioco eterno, amoretti fra mezzo un po' di ballo, un po' di passeggio, un poco di dir male del prossimo, abbiamo fatto una villeggiatura la più piacevole di questo mondo.
FELIC.
Queste sono cose per altro, che si possono fare anche in città.
LEON.
Oh, vi è altra libertà in campagna.
Quante cose si fanno colà liberamente, che qui non convengono.
Per esempio...
FELIC.
Cara signora Leonide, non vorrei che per causa mia la si trattenesse...
LEON.
Niente, niente: non ho da far niente.
FELIC.
Perché pareva che ella avesse premura...
LEON.
Per esempio, se qui una giovane civile si vedesse passeggiare con un giovanotto, che direbbero mai le genti?
FELIC.
Oh qui? guardi il cielo! E in campagna si fa...
SCENA QUARTA
GRILLETTA e dette.
GRILL.
Signora, è domandata di sopra.
(a Leonide)
LEON.
Vengo.
In campagna ogni giorno si vedono visi nuovi che vanno e vengono, e si trattano con libertà: qui? pensate.
FELIC.
Qui? se viene uno in casa, immediatamente si critica.
LEON.
E poi...
GRILL.
Signora, la pregano di far presto.
LEON.
Vado subito.
(s'alza) E poi quell'aria aperta, quel verde, quei fiori, quell'acque fanno proprio allargar il cuore.
FELIC.
Ed io qui.
LEON.
Poverina! e ella qui.
FELIC.
Ma non ci starò.
GRILL.
Sente, signora? picchiano.
(a Leonide)
LEON.
Signora Felicita, io me ne vado.
FELIC.
Faccia buon viaggio.
LEON.
Vuol venire con noi?
FELIC.
Se potessi!
LEON.
Poverina! non vogliono eh?
FELIC.
Ah! chi sa?
LEON.
Me ne dispiace tanto.
È una miseria la sua.
FELIC.
Se poi mi metterò al punto, ci anderò.
LEON.
Io intanto ci vado.
FELIC.
Buon pro le faccia.
LEON.
E mi divertirò assaissimo.
FELIC.
Felice lei!
LEON.
E vado presto.
E in buona compagnia; e con denari da giocare, e con degli abiti da comparire, e con l'amante al fianco, che nessuno sa niente.
(piano a Felicita) Signora Felicita, la riverisco.
(Ha una rabbia, ha un'invidia che si divora).
(da sé, e parte)
SCENA QUINTA
La signora FELICITA e GRILLETTA
FELIC.
(Ci mancava costei a farmi disperare un po' più).
(da sé)
GRILL.
Via, signora padrona, non istia ad affliggersi per così poco.
Se non anderà quest'anno in campagna, ci anderà un altro.
FELIC.
Ci voglio andare quest'anno.
Non sono una miserabile: abbiamo anche noi case e poderi quanto la signora Leonide, e due volte più.
GRILL.
Non vi è altra differenza, se non che ha dei parenti che la contentano, e ella è tenuta bassa.
FELIC.
Lo dirò a mio padre.
Io non voglio più far questa vita.
Mio padre e mio fratello sono uomini come gli altri.
Se vogliono, mi possono dare questa piccola soddisfazione, e se non vogliono, so io quel che farò.
GRILL.
Vuol ella forse...
FELIC.
So io quel che risolverò.
GRILL.
Ecco qui il signor padre: gli dica l'animo suo.
FELIC.
Capperi, se glielo dirò!
GRILL.
Io me ne vado, non voglio altri guai; ne ho tanti de' miei, che mi bastano.
FELIC.
Che avete voi, che vi dà fastidio?
GRILL.
Un affanno grande grandissimo, che mi fa vegliare di notte e smaniare di giorno.
FELIC.
E in che consiste?
GRILL.
Nella volontà di marito.
(parte)
SCENA SESTA
La signora FELICITA, poi il signor POLICASTRO
FELIC.
Questo desiderio l'ho anch'io, perché mi tengono qui incatenata...
Se avessi un poco di libertà, come hanno le altre, forse forse non ci penserei.
Mai una volta a spasso, mai un anno in campagna...
POLIC.
(In veste da camera, con un cartoccio di datteri in seno) Ogni giorno s'hanno a sentir a dire le medesime cose.
Sono stufo io di sentirle.
(verso la scena)
FELIC.
Con chi l'ha, signor padre?
POLIC.
L'ho, l'ho...
Che cosa sono io? un ragazzo? Ho de' figliuoli grandi e grossi, e non ho bisogno che nessuno mi venga a far il dottore.
(verso la scena, come sopra; poi si mangia un dattero)
FELIC.
Di grazia, posso sapere io con chi parla ora?
POLIC.
Parlo con quel satrapo di mio fratello.
FELIC.
Ma egli non sente ora.
Là non c'è, non lo vedo.
POLIC.
E se ci fosse, non parlerei; perché, se io dico una parola, egli ne vuol dir dieci, e sempre vuol avere ragione.
FELIC.
Davvero, davvero, questo signor zio vuol far troppo.
Per che causa si sono attaccati presentemente?
POLIC.
Ogni giorno non si sente altro da lui che rimproveri, che consigli, che dicerie e sbeffature.
Chi sente lui, io sono un poltrone che non fa niente.
Mi rimprovera perché levo un po' tardi, perché vado poco fuori di casa, perché non m'imbarazzo nelle cose della famiglia.
Oh bella! siamo in due, un po' per uno.
Egli bada agl'interessi, al negozio, alle riscossioni, alle lettere e che so io; ma io in vent'anni continui ho avuto una moglie al fianco, che mi ha fatto diventar canuto prima del tempo.
Ora è tempo che mi riposi.
Gridi quanto vuole, dica quel che sa dire: io non voglio far niente.
L'avete capita? io non voglio far niente.
(si mangia un dattero)
FELIC.
Certo; se il signor zio si leva presto, fa, gira e fatica, ha anche il piacere di esser egli il padrone di tutto; e vossignoria che è il maggiore, e ha la famiglia, non è padrone di niente.
POLIC.
Di questo ci penso poco.
Una lira al giorno mi basta, per i miei minuti piaceri.
Ma non voglio far niente.
FELIC.
Almeno, caro signor padre, pensi un poco ai suoi figli, non lasci che lo zio li tiranneggi così.
POLIC.
Sicuro, che i miei figliuoli voglio che abbiano il lor bisogno.
FELIC.
Ecco, ora tutte le persone civili che hanno il modo di poterlo fare, vanno in campagna, e noi dobbiamo star qui a nostro marcio dispetto.
POLIC.
L'è che ci anderei anch'io un poco in villa: sono tant'anni che non ci si va.
FELIC.
Ma perché non ci andiamo?
POLIC.
Perché il signor Geronimo non vuole.
FELIC.
E vossignoria non è padrone quanto lui?
POLIC.
Lo sono certo padrone; ancor io lo sono.
FELIC.
Non comanda ella pure?
POLIC.
Comando ancor io, comando.
FELIC.
Dunque dica che vuol andare.
POLIC.
Lo dirò io.
FELIC.
E andiamoci tutti.
POLIC.
Ci anderemo noi.
(mangiasi un dattero)
FELIC.
Che mangia, signor padre?
POLIC.
Mangio de' datteri; mi piacciono tanto.
Ne volete voi? (le mostra il cartoccio)
FELIC.
Obbligatissima.
(li ricusa)
POLIC.
Sono buoni veh!
FELIC.
Sono troppo dolci.
POLIC.
Mi piace tanto a me il dolce, mi piace.
FELIC.
Pensi un poco, signore, a persuadere il signor zio Geronimo che ci conduca in campagna, o che ci lasci andare da noi.
POLIC.
E se non ci vorrà condurre, ci anderemo da noi.
FELIC.
Meglio; ci averei più gusto io.
POLIC.
Ci anderemo da noi.
(si mangia un dattero)
FELIC.
Il denaro non lo potrà negare.
POLIC.
Non lo potrà negare.
FELIC.
Vada dunque subito a dirglielo, prima ch'egli esca di casa.
POLIC.
Non ci parlo troppo volentieri io con lui.
FELIC.
Dunque, come s'ha da fare?
POLIC.
Fate così, Felicita; diteglielo voi, diteglielo.
FELIC.
Oh, a me non mi baderà.
Se ci fosse anche lei...
POLIC.
Ci sarò io.
FELIC.
Eccolo che va via.
(osservando fra le scene)
POLIC.
Buon viaggio.
FELIC.
Se non gli parliamo ora...
POLIC.
Come volete ch'io faccia?
FELIC.
Chiamiamolo.
POLIC.
Io non lo chiamo.
FELIC.
Lo chiamerò io.
Signor zio, dica, signor zio.
(verso la scena)
POLIC.
(Me n'anderei tanto volentieri).
(da sé)
FELIC.
Ora gli si dice tutto, e si parla schietto.
(a Policastro)
SCENA SETTIMA
Il signor GERONIMO e detti.
GERON.
Che cosa volete, signora nipote?
FELIC.
È qui il signor padre, che le vorrebbe parlare.
POLIC.
Io non voglio niente, io.
(si mangia un dattero)
GERON.
Il signor Policastro si diverte coi datteri.
POLIC.
Vi do fastidio? Anderò via.
(in atto di partire)
FELIC.
No, signor padre, non vada via.
Dica quello che gli voleva dire.
POLIC.
Glielo potete dire anche voi.
FELIC.
Glielo dirò, se così comanda.
GERON.
È una gran cosa questa, che vi vuol tanto a dirla?
FELIC.
Avremmo volontà, signore, d'andar un poco in campagna.
GERON.
Perché non me l'avete detto due mesi prima, che vi averei compiaciuto volentieri?
FELIC.
D'agosto non si va in campagna.
GERON.
Anzi, quand'è caldo, allora si gode l'aria aperta.
Che vorreste far in villa nel mese d'ottobre, in cui per solito principia il freddo, principiano le pioggie, e conviene stare ritirati in casa? Che dite, signor Policastro, non si sta meglio in città?
POLIC.
Sì; quando principia il freddo, si sta bene in casa.
FELIC.
Ma che vuol dire, che ora tutti fanno le loro villeggiature? (a Geronimo)
GERON.
Volete voi dire di quelli che vanno a far il loro vino? Noi abbiamo de' buoni castaldi, de' buoni fattori, non vi è bisogno che c'incomodiamo per questo.
Il bucato lo faccio far nell'estate.
In verità, credetemi, ora ci servirebbe d'incomodo.
Non è egli vero, signor Policastro?
POLIC.
Per me...
non dico nulla io...
Felicita vorrebbe ella...
(mangiando il dattero)
FELIC.
Io e Grisologo mio fratello vorremmo dal signor zio questo piacere in quest'anno, che ci facesse godere un poco di villeggiatura d'autunno; e se non può venir lui, verrà il signor padre.
Non è egli vero, signor padre, non ci verrà ella volentieri con noi?
POLIC.
Ci verrò io.
GERON.
Ci andereste voi? (a Policastro)
POLIC.
Eh, perché no?
GERON.
A far che ci andereste? (alterato)
POLIC.
A far che, a far che? Ci anderei.
A far che, a far che?
GERON.
Già rispondete sempre a proposito.
POLIC.
A proposito certo; rispondo a proposito io.
FELIC.
Ci vanno tanti; perché non ci possiamo andare anche noi?
POLIC.
Ci vanno tanti, eh?
FELIC.
Sì signore.
Ci vanno ora anche questi che stanno sopra di noi.
E alla signora Leonide hanno fatto un abito nuovo da viaggio, a posta per andar in campagna.
GERON.
Ne vorreste uno anche voi?
FELIC.
Lo vorrei certo.
GERON.
Che dice il signor Policastro?
POLIC.
Lo vorrebbe lei.
FELIC.
Che dice il signor zio?
GERON.
Ho che fare ora; ne parleremo poi.
FELIC.
Ma questo poi, compatitemi, è troppo.
Non mi voler contentare in niente.
Signor padre, dica qualche cosa anche lei.
POLIC.
Eh...
contentatela.
GERON.
Fatelo voi, se avete il modo di farlo.
FELIC.
Lo farebbe lui, se il signor zio non facesse tutto da sé.
POLIC.
Lo farei io, se ne avessi.
FELIC.
Finalmente il signor padre è padre.
GERON.
Certamente, è padre; ha messi al mondo due figli.
POLIC.
Vi par poco, eh?
GERON.
Ma non è buono da mantenerli.
FELIC.
Che non ci sono le entrate?
POLIC.
Che non ci sono le entrate?
GERON.
A che basterebbono le entrate, se io coll'industria mia non aumentassi gli utili della casa? Poveri sciocchi! Vorreste andare in villa, eh? Vorreste andare a goder l'autunno! Lo so perché ci anderebbe volentieri la signora nipote ed il pazzo di suo fratello...
Perché l'autunno in villa non si va a goder la campagna, ma si va a far la conversazione.
E il padre amoroso li seconderebbe questi cari figliuoli, e anderebbe a mangiar in un mese in villa quello che basta quattro mesi in città.
Non vi anderebbe per economia, no, come farebbe qualche altro buon padre di famiglia: vi anderebbe per ispendere, per divertirsi, per far da grande più che non è.
Un abito nuovo per andar in campagna! Quando si va in campagna, si va per risparmiarli i vestiti, non per farne de' nuovi.
Si va per godervi la libertà, non per essere in maggior soggezione.
Cospetto di bacco! se vi piace la villa, vi soddisferò, signori miei, sì, vi soddisferò.
Vi ci farò stare tredici mesi dell'anno.
Ma sapete dove? Dove non vi sieno case di villeggianti, dove non si radunano le genti per giocare, per ballare, per tripudiare.
In un bosco, in un bosco.
O qui, o in un bosco.
Signora nipote, la riverisco.
Signor fratello, badi a mangiare i suoi datteri, che farà meglio.
(parte)
POLIC.
(Cava un dattero e lo mangia)
SCENA OTTAVA
La signora FELICITA ed il signor POLICASTRO poi il signor GRISOLOGO
FELIC.
(Cava il fazzoletto e piange)
POLIC.
(Mangia i datteri e non dice niente)
GRIS.
Sorella, ho sentito ogni cosa.
Signor padre, ho sentito ogni cosa.
Ero dietro di quella porta, ho sentito ogni cosa.
FELIC.
Lo zio è un cane; e il signor padre non parla.
POLIC.
Che ho da dire io? non sentite? Parla, parla, parla; chi gli può rispondere?
GRIS.
Non vuol che si vada in campagna?
FELIC.
Non vuole.
GRIS.
Non vuole eh, signor padre?
POLIC.
Non vuole.
GRIS.
E che sì, che ci andiamo?
FELIC.
Come?
GRIS.
E che sì, signor padre?
POLIC.
Come?
GRIS.
Quanto ci vuole a far una quindicina di giorni di villeggiatura?
FELIC.
Il luogo l'abbiamo.
I mobili fuori ci sono, e tutto il bisogno di biancheria, di cucina, di letti.
GRIS.
È egli vero, signore? C'è poi tutto?
POLIC.
Oh, non so niente io.
FELIC.
La signora madre, poverina, me l'ha detto cento volte.
Ci è tutto; lo so di certo.
GRIS.
Dunque quanto denaro ci vorrebbe? (a Felicita)
FELIC.
Non saprei.
Domandatelo al signor padre.
GRIS.
Quanto ci vorrebbe? (a Policastro)
POLIC.
Non so niente io, non ho pratica.
GRIS.
Basteranno dodici zecchini? (a Felicita)
FELIC.
Crederei di sì.
GRIS.
Basteranno? (a Policastro)
POLIC.
Crederei di sì.
GRIS.
Domani anderemo in campagna.
FELIC.
Ma come?
POLIC.
Come, come?
GRIS.
Domani anderemo in campagna.
FELIC.
Avete voi dodici zecchini?
POLIC.
Li avete voi dodici zecchini?
GRIS.
Li averò questa sera; e domani anderemo in campagna
FELIC.
A dispetto di vostro zio.
POLIC.
A dispetto di mio fratello.
FELIC.
Ma in che maniera li averete voi questi denari?
GRIS.
Sentite.
Ve lo confido, non voglio che nessuno lo sappia.
FELIC.
Non dubitate.
POLIC.
Eh, non parlo io.
GRIS.
Vi è nota già quella tragicommedia che ho fatto per il teatro...
FELIC.
Quella che dite essere sul gusto inglese?
GRIS.
Sì, quella.
La prima e l'unica che finora ho fatto.
POLIC.
Gran buona testa che ha il mio Grisologo! Non so come faccia a saper tanto.
FELIC.
E così? Seguitate.
GRIS.
E così, l'ho data ai comici, come sapete; e questa sera la devono rappresentare, e se piace al pubblico mi hanno da contare domani dodici zecchini d'oro.
FELIC.
E se poi non piacesse?
GRIS.
Piacerà sicuramente.
POLIC.
Piacerà sicurissimamente.
GRIS.
È vero che non ne ho più fatto, ma questa son certo che piacerà, perché le novità sempre piacciono, ed io pretendo d'aver trovato una novissima novità.
Sui nostri teatri non si è più sentito lo stile di Sachespir, celebre autor inglese.
POLIC.
Intendete anche l'inglese voi?
GRIS.
Qualche poco l'intendo.
POLIC.
Ma come diamine fa a saper tanto?
FELIC.
Dunque, se piace, dodici zecchini.
GRIS.
E piacerà senz'altro.
POLIC.
Piacerà senz'altro.
GRIS.
Rimarranno storditi, quando sentiranno questo novello stile.
POLIC.
Lo stile di...
come si chiama?
GRIS.
Di Sachespir.
POLIC.
Di Sachespir.
FELIC.
E noi anderemo in campagna
GRIS.
Anderemo in campagna.
POLIC.
Anderemo in campagna.
FELIC.
Vado a dirlo alla signora Leonide.
(parte)
GRIS.
Sentirà, signor padre, che bella cosa.
POLIC.
Tieni due datteri, che te li dono di cuore.
(dà due datteri a Grisologo, e mangiandone uno parte)
GRIS.
Altro che datteri! Se prende fuoco il novello stile do scaccomatto a quanti poeti ci sono.
(parte)
SCENA NONA
Camera in casa del signor Ridolfo.
Il signor RIDOLFO, CRICCA ed un SARTO
RID.
Gran vizio maladetto di voi altri sarti, che volete sempre farvi aspettare.
SAR.
Abbiamo lavorato tutta notte per servirla.
RID.
Sono quindici giorni che ho ordinato quest'abito per andar in campagna e vi siete ridotti a portarlo ora che ho i cavalli da posta in casa; ora che sto per partire.
SAR.
Bisogna ch'ella sappia...
RID.
Non avete pontualità, non avete parola, non avete rispetto per le persone di qualità, di carattere.
SAR.
Se mi permette, vorrei giustificarmi, signore, della mia tardanza.
RID.
Via, che direte in vostra giustificazione? Sono quindici giorni.
SAR.
È vero, sono quindici giorni; ma il mercante da oro, che ci doveva dare i galloni per di lei conto, non ha voluto darli senza il denaro, ed il mio padrone è stato costretto a prenderli da un altro, e metter fuori il denaro di sua scarsella.
RID.
Cricca, tirate giù.
Vediamo se questo vestito va bene.
(si fa vestire da Cricca)
CRI.
(Ehi, l'istoria dei galloni lo ha ammutolito).
(piano al Sarto)
SAR.
(Cattivo segno) (piano a Cricca)
RID.
Via, proviamolo.
(al Sarto, il quale gli mette il vestito)
SAR.
Dovrebbe andar bene.
Il padrone non è solito di fallare.
RID.
Ecco, è troppo largo.
CRI.
Lo ha lasciato a posta un poco larghetto: l'autunno vengono delle giornate fredde; se vuol mettersi sotto qualche cosa di più...
RID.
Cricca, chiamate mia sorella, ditele che venga a vedere se quest'abito mi sta bene.
CRI.
Poco fa non c'era la signora Leonide.
Non so se sia ritornata.
RID.
Andate a vedere.
CRI.
La servo subito.
(parte poi torna)
SAR.
L'assicuro che gli sta dipinto.
RID.
Queste maniche non mi paiono alla moda.
SAR.
Oh, che dice mai! Vedrà che tutti i forestierl le portano così.
RID.
Ho veduto ieri un inglese, che le aveva due dita più lunghe.
SAR.
Sarebbe poi una caricatura.
CRI.
Signore, è qui il procuratore di casa, che avrebbe necessità di parlargli.
RID.
Ditegli che or ora vado in campagna, che non ho tempo di sentire a parlar di liti.
CRI.
Veramente gliel'ho detto io, ma mi ha risposto che la premura è grande, e prima ch'ella parta, gli deve tenere un piccolo discorsetto.
RID.
Gran seccatori! Che aspetti.
Quando mi sarò spicciato del sarto, potrà venire.
La signora Leonide l'avete veduta?
CRI.
Non signore, per causa del procuratore.
Vado ora a ricercare di lei.
RID.
Ditele che l'aspetto.
CRI.
(Ogni anno da questi giorni si mette in confusione la casa.
E gli interessi suoi vanno in precipizio).
(da sé, e parte)
SCENA DECIMA
RIDOLFO ed il SARTO
RID.
Parmi che il vestito non vada male.
SAR.
Va benissimo, l'assicuro.
RID.
Sentiremo che dirà mia sorella.
SAR.
Intanto favorisca veder il conto.
RID.
Eh, non importa.
Tenetelo, lo vedrò un'altra volta.
SAR.
Il padrone la prega...
RID.
Ditegli che al mio ritorno lo pagherò immediatamente.
SAR.
Ma egli ne ha bisogno, signore.
Ha sborsato i denari per il panno, per i galloni...
RID.
Bene, lo pagherò al ritorno.
SAR.
Ma in verità, ne ha bisogno grandissimo.
RID.
Orsù, andate.
Io non ho tempo da perdere.
Ho da sentir il procuratore, che mi preme assai più del sarto.
SAR.
E al mio padrone preme aver i
...
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