I MALCONTENTI, di Carlo Goldoni - pagina 5
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Tutte le burle si fanno a me; io sono quello che tiene tutti in divertimento.
Una volta mi hanno fatto prendere l'anguilla nel secchio; mi hanno fatto mangiare i maccheroni colle mani legate, mi hanno dato le polpette di crusca, e che so io, cento barzellette, tutte a me, signora.
E quest'anno sono con voi.
Farò vedere chi sono.
Ho imparato a posta il gioco de' bussolotti, a fare sparir la moneta, a tagliar il nastro che resti intero, a far da un mazzo di carte saltar fuori un uccello.
E vedere quei contadini, con tanta di bocca, a dire: oh che diavolo! oh che stregone! Vederete che balli, vederete che salti! Con questi stivalacci non posso fare.
Voglio cavarmeli, e voglio farvi vedere.
Basta, voglio farvi vedere.
Sebbene siamo in città, s'ha da principiare l'autunno or ora, come se fossimo in villa.
Madama, votre servitor, madama; allegraman toujour, allegraman, allegraman toujour.
(parte)
LEON.
Oh bravo, oh bravo! Questo è particolare davvero.
Tutti procurano aver in villeggiatura con loro alcuno che faccia naturalmente, o sappia fare il buffone.
Ma il signor Roccolino passa tutti.
Sarà egli il nostro divertimento.
Sono bene spesi i denari per coloro che ci fanno ridere.
Mi ricordo di mio padre, che conduceva in campagna con lui dei dottori, dei letterati, dei virtuosi.
Oibò, oibò, non si usa più.
Gente allegra vuol essere, gente allegra.
Ballo, canto, gioco, burle, spendere allegramente, spendere allegramente.
(pare)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera della signora Leonide.
La signora LEONIDE e CRICCA
CRI.
La signora Felicita, se si contenta, vorrebbe venire a riverirla.
LEON.
Sì, sì, verrà a restituirmi la visita; ditele che è padrona.
(Cricca parte) Giacché si è differita da noi la partenza, averò tempo di riceverla e di godermela un poco.
Poverina! aveva quasi le lagrime agli occhi, quando parlava meco.
Si vede che la divora l'invidia, ma le conviene soffrire.
S'io fossi in lei, non ci vorrei stare io ad una condizione sì miserabile.
Piuttosto mi contenterei patire tutto il resto dell'anno, ma da questi giorni s'ha da andare, s'ha da spendere, s'ha da divertirsi.
E non occorre che dicano: si fa quello che si può.
S'ha da fare quello che fanno gli altri, e più degli altri, se fia possibile ancora.
SCENA SECONDA
La signora FELICITA e la suddetta
FELIC.
Non parte ancora la signora Leonide? Serva sua.
LEON.
Umilissima.
Si è differito alla sera per maggior comodità.
Di giorno fa ancora troppo caldo; abbiamo poi il benefizio della luna, che è un piacere viaggiar di notte.
FELIC.
Quanto goderei che differissero sino a domani.
LEON.
Perché? ha qualche cosa da comandarmi?
FELIC.
Obbedirla sempre.
Non signora, ma domani avrei l'onore di poterle servire di compagnia.
LEON.
Per dove, signora Felicita?
FELIC.
Per campagna, signora Leonide.
Sa che i beni della nostra casa non sono lontani dai suoi.
Potremmo, s'ella si degnasse, fare una carrozzata insieme.
LEON.
Che dunque va ella pure in campagna?
FELIC.
Oh sì, signora.
Non vuole? Sarebbe bella che l'autunno non si andasse un po' a villeggiare.
Ci vanno tanti, che non hanno un palmo di terra.
Meglio ci possiamo andar noi, che abbiamo case e poderi.
LEON.
Non ci è mai stata per altro in villeggiatura.
FELIC.
Perché finora non ho voluto andarvi.
LEON.
Ed ora le è venuta la volontà perché ci vado io, non è egli vero?
FELIC.
Oh, pensi lei! Io non sono di quelle, signora.
Grazie al cielo, non ho motivo d'invidiare il bene degli altri.
Alla nostra casa non manca niente.
Credo che ella lo sappia, quanto lo so io, chi siamo e chi non siamo.
LEON.
Sì, anzi...
favorisca.
Va con quel vestito in campagna?
FELIC.
Perché no? Non è egli proprio? Non è una cosa civile?
LEON.
Mi perdoni.
Si renderà ridicola con quel vestito in campagna.
FELIC.
È forse troppo? Le par troppo ricco?
LEON.
Vede, signora Felicita, che non sa niente? Non è alla moda.
È da città, e non è da campagna.
Vede il mio? Così va fatto.
Tutte così lo portano, e chi non ha il vestito alla moda, non occorre si metta in impegno.
Io non vi anderei certo in villa con un abito antico.
FELIC.
Credo di aver il modo di potermelo fare un abito come quello.
LEON.
Come questo non sarà così facile.
È di buon gusto, sa ella? Il mio sarto, che veste le prime dame della città, mi assicura che il simile non l'ha fatto in quest'anno.
FELIC.
Io non ci vedo poi questi gran miracoli.
LEON.
Che! mi burla? Perdoni, signora Felicita; ella non se ne intenderà poi tanto.
Per altro...
FELIC.
Qual è il sarto che glielo ha fatto?
LEON.
Monsieur Lolì.
Lo conosce?
FELIC.
Se lo conosco! Mi ha fatto questo che ho in dosso.
Oh, guardi un poco!
LEON.
Non so che dire.
Quand'ella lo dice, sarà.
Ma quello non mi pare il taglio di monsieur Lolì.
FELIC.
Non sono capace di dire una cosa per un'altra.
L'ha fatto egli medesimo colle sue mani.
LEON.
Vi è una grandissima differenza.
Può anch'essere che venga dal taglio di vita.
FELIC.
Oh, oh, in quanto alla vita, cara signora Leonide, non mi pare di essere stroppiata.
LEON.
Non dico questo.
Ma non ci vedo il buon gusto.
FELIC.
Pare a lei così, perché il mio vestito non è da campagna.
LEON.
Sì, è vero; le cose compariscono buone o cattive, secondo in che vista si prendono.
Per città non è cattivo quell'abito, ma in campagna non la consiglierei di portarlo.
FELIC.
Io son capace di farmene uno a bella posta, subito subito.
LEON.
Per quando?
FELIC.
Per domani.
LEON.
Monsieur Lolì non glielo fa in un mese.
FELIC.
Coi denari si fa tutto, signora.
LEON.
Vede questo? Venti giorni me lo ha fatto aspettare.
FELIC.
Col denaro alla mano, anche i sarti sanno far delle meraviglie.
LEON.
Se volessero denari, io li pago subito.
Non sono di quelle che li fanno tornare più d'una volta.
Li pago anche prima, se vogliono.
FELIC.
(Il mondo non dice così per altro).
(da sé)
LEON.
E per questo sono servita bene, perché pago subito.
FELIC.
Il signor zio ha questa massima anch'esso.
Vuol godere dell'avvantaggio, ma paga subito.
LEON.
E così noi, si paga subito.
SCENA TERZA
CRICCA e dette.
CRI.
Signora, è qui monsieur Lolì che aspetta...
LEON.
Che cosa vuole? Ditegli che ora non ho bisogno di lui.
FELIC.
Cara signora Leonide, lo faccia passare; che sentiremo un poco se è possibile d'aver quest'abito per domani.
LEON.
Compatisca, signora.
Per ora non lo faccio passare.
Sono un poco disgustata con lui.
Sarà venuto a domandarmi scusa, eh? (a Cricca) Ditegli che al mio ritorno ci accomoderemo.
CRI.
È venuto con il conto, signora...
LEON.
No no, per ora non voglio far niente.
(a Cricca) Gli avevo ordinati due vestiti da città per l'inverno, mi ha portato le mostre, ed ora mi averà fatto il conto della spesa.
Sono così io; voglio vedere prima quello che devo spendere.
(a Felicita) Ditegli che per ora non ho comodo; e che al mio ritorno si farà ogni cosa.
Andate.
(a Cricca)
FELIC.
Galantuomo, con licenza della padrona, dite a monsieur Lolì che vada giù da me ad aspettarmi, che gli ho da parlare.
(a Cricca)
LEON.
Mi faccia questo piacere, signora Felicita: per questa volta non si stia a servire da lui; ho piacere che si mortifichi un poco la sua impertinenza.
Già per domani non glielo fa certamente.
Per quest'anno io la consiglierei a servirsi di questo che ha in dosso, che finalmente poi è un abito buono; è vero che non è all'ultima moda, ma ne vedrà degli altri così.
FELIC.
Bene, bene, farò come dice lei.
(Che invidia! Non vorrebbe che le altre si vestissero come veste lei!) (da sé)
LEON.
Andate, licenziatelo, e ditegli che al mio ritorno lo farò avvisare.
(a Cricca)
CRI.
Sì signora.
(Ho capito: non sa come fare a pagarlo).
(da sé, e parte)
FELIC.
(Già or ora lo manderò a chiamare dalla bottega).
(da sé)
LEON.
(Non avrei mai creduto che mio fratello avesse così pochi denari).
(da sé)
FELIC.
Oh signora Leonide, le leverò l'incomodo.
LEON.
Ella non incomoda; favorisce.
FELIC.
Le auguro buon viaggio; si diverta bene, e avrò l'onore di riverirla in campagna.
LEON.
Se vuol venire da noi, è padrona.
FELIC.
Chi sa? Può essere che in passando mi prenda la libertà di scendere un poco da lei.
Serva umilissima, signora Leonide.
(partendo)
LEON.
Serva divota.
SCENA QUARTA
Il signor RIDOLFO e le suddette.
RID.
Oh signora Felicita, dove si va?
FELIC.
Levo l'incomodo alla signora Leonide.
Sono venuta a fare il mio debito.
RID.
Troppo gentile, signora.
Prima ch'io parta, sarò a riverirla, e a ricevere i suoi comandi.
LEON.
A che ora partiremo, signor Ridolfo?
RID.
L'ora non l'ho per anche fissata.
LEON.
Fissatela.
Ci vuol tanto? Prima avete detto dopo desinare.
Poi alla sera.
Volete aspettare la notte? Si può partire quando tramonta il sole.
RID.
Si partirà, quando si potrà.
(E se non vengono i mille scudi, non si partirà).
(da sé)
FELIC.
Diceva io alla signora Leonide, che se avessero differita la loro partenza a domani, avremmo avuto la fortuna d'andar insieme.
RID.
Davvero? Differiamola dunque.
(a Leonide)
LEON.
Non signore, non signore, non si può differire.
Si è mandato a dire agli altri che si partirà questa sera; volete che ci trattino da pazzi?
RID.
Niente, cara sorella, non vi confondete.
Manderò io da tutti: alcuni anzi avranno piacer di restare.
Questa sera vi è la commedia nuova.
FELIC.
Oh sì, questa sera vi è la commedia nuova.
LEON.
Pensate voi, se per una scioccheria simile s'ha a differire la nostra partenza.
RID.
Io ci ho tutta la mia passione per le commedie; restiamoci, cara sorella.
LEON.
Se volete restar voi, restateci; io me n'anderò con tutta la compagnia.
FELIC.
Lo sapete, signor Ridolfo, chi sia l'autore della commedia nuova di questa sera?
RID.
Non signora, non lo so.
Sento dire che sia un autore novello, che per la prima volta si espone.
FELIC.
Ora sappiate che quest'autore novello è il signor Grisologo, mio fratello.
RID.
Meglio.
Restiamoci, signora Leonide.
LEON.
Oh, oh, sarà una bella cosa davvero! (ironicamente)
FELIC.
Non ne ha più fatto; per altro sento dire che sia una bellissima cosa.
LEON.
Quasi quasi ci resterei; ma non è possibile, signor Ridolfo, bisogna andar per forza.
RID.
Perché per forza?
LEON.
Non lo sapete che questa mattina per tempo si sono mandati in villa tutti i letti, e che non vi è da dormire né per noi, né per la servitù?
RID.
Cospetto di bacco! non me ne ricordavo.
LEON.
E di più abbiamo il signor Roccolino, che da noi non si parte più.
RID.
Questo è un inconveniente.
(E se non si trovano i mille scudi, vuol esser bella!) (da sé)
FELIC.
(Che ricchi signori! Fanno passeggiare anche i letti!) (da sé)
LEON.
Ora vedete se necessariamente s'ha da partire.
RID.
Così è, signora Felicita, ci conviene partire.
FELIC.
Pazienza.
Sfortuna mia, questa.
RID.
Sfortuna mia grandissima, perdendo la bella sorte di una così amabile compagnia.
LEON.
La signora Felicita ci verrà a ritrovare in campagna.
RID.
Oh fosse vero! Non mi potrei bramare maggior contento.
Venga a stare un poco da noi.
FELIC.
Se mi sarà possibile, ci verrò volentieri.
RID.
Mi spiace infinitamente di perdere questa commedia.
LEON.
Il signor Grisologo la porterà con lui in campagna; e ci farà il piacere di leggerla.
FELIC.
Perché no? Questo si potrà fare.
RID.
Ma non si potrebbe sentirne qualche scena anticipatamente?
LEON.
Quando?
RID.
Oggi; prima che si parta.
FELIC.
Glielo dirò, e lor signori saranno tosto avvisati.
Serva umilissima.
LEON.
Sì sì, verremo a ridere un poco.
FELIC.
(Sguaiataccia! se non fosse per suo fratello, non ci metterei piede in casa sua).
(da sé, e parte)
SCENA QUINTA
Il signor RIDOLFO e la signora LEONIDE
LEON.
Che ne dite? Ha sentito che noi andiamo in campagna, si è messa al punto di volervi andare anche lei.
RID.
Ho piacere io di quest'incontro.
Fatele buona cera alla signora Felicita, a suo padre ed a suo fratello.
LEON.
Perché? Abbiamo forse bisogno di loro, noi?
RID.
Cara sorella, sapete che sono genti ricche; la signora Felicita avrà una grossa dote, e mi comoderebbe moltissimo se potessi io sposarla.
LEON.
Sposarla? Pensa ad ammogliarsi il signor fratello, e non pensa a maritar la sorella? Fino che ci sono io in questa casa, non ha da venir altra donna.
Non voglio cognate, non voglio padrone che mi comandino.
Accasate me prima, e poi penserete a voi, signor Ridolfo carissimo; e mi pare che a me dovreste avere di già pensato.
Sono negli anni della discrezione, sapete; e tutti si maravigliano che una giovane, come me, non abbia ancora ritrovato marito.
Grazie al cielo però, non vi sarà nessuno che creda provenire da me.
Grazie al cielo, non ho difetti; e delle giovani come me, al giorno d'oggi, se ne trovano poche.
Ell'è che io non ci penso gran cosa! che godo la mia libertà, e di legarmi vi è ancora tempo.
Ma se pensate a prender moglie, maritatemi subito, subito, che non ci voglio star un'ora con lei; e se non me lo troverete voi il marito, me lo saprò trovare da me, che grazie al cielo ne ho più di dieci che mi vorrebbono, e posso scegliere, e posso vantarmi di dire che son sul fiore, e felice quello che mi potrà avere.
(parte)
RID.
La lascio dire, e me la godo, e non dico niente.
Felice quello che potrà aver questa bella gioja! (parte)
SCENA SESTA
Camera della signora Felicita.
La signora FELICITA e GRILLETTA
FELIC.
Tant'è, Grilletta, sono nell'impegno, e voglio ad ogni costo aver questa soddisfazione.
Mi dicono che quest'abito non è proprio per andar in campagna; ne voglio uno a proposito, e lo voglio per domattina.
GRILL.
Farlo per domani è impossibile.
FELIC.
Non se ne potrebbe trovare uno fatto?
GRILL.
Non è così facile trovarlo che le torni bene.
FELIC.
Da oggi a domani si può assestare.
Troviamo il vestito sul gusto di quello della signora Leonide; manderò a chiamare la sarta, ed ella lo ridurrà per l'appunto.
GRILL.
Come s'ha a fare a ritrovar ora questo vestito?
FELIC.
Oh, guardate la gran faccenda! S'ha a cercare da tutti i rigattieri della città, fino che venga fatto di ritrovarlo.
Andateci voi; ditelo a madonna Fabrizia che ci vada ella pure, e fate che si trovi, perché lo voglio.
GRILL.
Si cercherà, e si farà il possibile per trovarlo; quanto s'ha da spendere?
FELIC.
Quel che vale.
GRILL.
Può valer poco, e può valer molto.
FELIC.
Si pagherà quel che vale.
GRILL.
Compatisca; così per un po' di regola: quanti denari si trova avere?
FELIC.
Denari? Sapete pure ch'io non ne ho.
GRILL.
E per questo diceva io, come c'impegneremo, signora?
FELIC.
Ho bene il modo da ritrovarne.
GRILL.
Come?
FELIC.
Ho tutti i miei vestiti da inverno che ora non si portano.
Si possono dare in baratto.
GRILL.
Venderli?
FELIC.
Non dico venderli io.
Ma si possono dare al rigattiere medesimo, se li vuole, e quando torno di villa, rendergli il suo vestito con quello che sarà pattuito, ovvero mandarli al monte e al mio ritorno ricuperarli.
GRILL.
E se lo sa il signor zio? Poveri noi!
FELIC.
Come l'ha da sapere? Egli non viene a vedere nel mio armadio quel che c'è o che non c'è.
Se voi non lo dite, non lo può sapere nessuno.
GRILL.
E se il diavolo facesse che il vestito preso dal rigattiere fosse poi conosciuto?
FELIC.
Ci ho pensato a questo.
Gli muteremo la guarnizione; o si farà in qualch'altra maniera per fargli cambiar figura.
GRILL.
Cara signora padrona, e vorrà ella mettersi in dosso un vestito che sa il cielo chi l'averà portato?
FELIC.
Oh cara Grilletta, sarò la prima io a farlo? Come campano i rigattieri? E sono tanti, e si fanno ricchi prestissimo.
Le cose si stimano, quando abbisognano.
GRILL.
Andiamo dunque, e principiamo a girare.
FELIC.
Portatevi bene; fate prestino, e ho preparato una galanteria da donarvi.
GRILL.
Farò il possibile per contentarla.
(Faccio il conto da me, che le darò ad intendere d'aver girato.
Queste figure non le faccio certo).
(da sé, e parte)
SCENA SETTIMA
La signora FELICITA, poi il signor GRISOLOGO
FELIC.
Se andiamo in villa, so ben io che con qualche cosa ritornerò in città.
Mio padre, mio fratello, mi hanno assicurato che venderanno del grano e del vino, senza che il signor zio lo sappia, e anch'io ne averò la mia parte.
GRIS.
E voi non mi dite niente, signora sorella?
FELIC.
Di che?
GRIS.
Ho veduto ora il signor Ridolfo...
FELIC.
Appunto.
Vi ha egli detto che vorrebbe sentire qualche scena della vostra commedia?
GRIS.
Me l'ha detto.
Ma mi fa torto a andarsene questa sera.
La potrebbe sentire in teatro.
FELIC.
Non può restare, lo sapete il perché?
GRIS.
Non so nulla io.
FELIC.
Perché hanno mandato i letti in campagna.
Oh, guardate se sono ricchi.
GRIS.
Non è tutt'oro quello che luce.
Noi potremmo fare una bella figura, se non fosse l'avarizia di nostro zio, ma sentite, ora spero d'aver ritrovata la miniera dell'oro; se questa commedia piace, ne voglio far tante che non avrò bisogno di nessuno per divertirmi.
FELIC.
Siete poi sicuro ch'ella debba piacere?
GRIS.
Son sicurissimo.
Oh che piena vi sarà questa sera in teatro! A quest'ora non vi è da ritrovare un palchetto, chi volesse pagarlo dieci zecchini.
FELIC.
Credo ancor io che la curiosità empiere farà il teatro, tanto più che si sa essere la commedia di un autore novello; ma tanto peggio per voi, se all'universale non piace.
GRIS.
Ha da piacere sicurissimamente.
Tutti quelli ai quali ho comunicato il disegno mio, tutti me lo hanno applaudito.
Si sono vedute delle commedie alla francese, alla spagnuola, all'italiana, e sino alla foggia latina e alla foggia greca.
Ora io sarò il primo a esporre sul teatro italiano una commedia all'inglese.
Ho preso per esempio il celebre Sachespir, che è stato il primo a dirozzare il teatro di quella nazione; e in oggi, quantunque antico egli sia, lo stimano assaissimo in Inghilterra, ove vi sono tanti grand'uomini, tanti uomini insigni in ogni genere di sapere.
FELIC.
In che consiste questa vostra magnifica imitazione?
GRIS.
Vi dirò qualche cosa per compiacervi.
Lo stile mio, che mi renderà singolare al mondo, consiste in una forza di dire vibrato, ampolloso, sonoro, pieno di metafore, di sentenze, di similitudini, colle quali ora m'inalzo alle stelle, ora vo terra terra radendo il suolo.
Non mi rendo schiavo della dura legge dell'unità.
Unisco il tragico ed il comico insieme; e quando scrivo in versi, m'abbandono intieramente al furore poetico, senza ascoltar la natura che con soverchi scrupoli viene da altri obbedita.
Io credo averlo seguito assai bene.
Ho impiegato tutto il mio studio nella fluidezza del metro, nella vibrazion della rima, e vedrete con quale artifizio abbia studiato a tessere i primi versi per far risaltare i secondi.
FELIC.
Spiacemi infinitamente che forse non averò il piacer di sentirla: vedrete che il signor zio non vorrà che io vada al teatro.
CRIS.
Oh sì, sarebbe questa una stiticheria madornale! Si tratta d'un suo nipote, dovrebbe venirci egli pure.
Tanto più che ho bisogno di persone che mi facciano un po' di partito.
Ho procurato io cogli amici, ai caffè, ai ridotti, di guadagnarli.
Ho pagato qualche cena, qualche merenda.
Se mi è stata regalata qualche bottiglia, me l'ho posta sotto al giubbone e l'ho fatta bevere ai miei parziali.
Ma i miei di casa ci dovrebbono essere.
Essi con più cuore degli altri potrebbono battere mani e piedi, e fracassare il palchetto ogni quattro versi almeno.
FELIC.
Se ci verrò, non dubitate, batterò certo io; ma intanto, sul dubbio di venirvi o no, fatemi sentir qualche cosa.
GRIS.
Bene, coll'occasione che leggerò la commedia al signor Ridolfo, alla signora Leonide e a qualcun altro che non può venire a sentirla, ci sarete anche voi, e la sentirete.
FELIC.
Mandiamolo a dire dunque...
GRIS.
Sono avvisati.
A momenti scenderanno giù da noi, e si leggerà la commedia.
Con quest'occasione, se qualche cosa sentirò che non torni bene, averò tempo di accomodarla.
FELIC.
Prego il cielo che riesca; prima per l'onor vostro, e poi per poter andare un po' in villa.
Me l'avete promesso.
GRIS.
Sì, e ve lo torno a promettere.
FELIC.
Ma ci anderemo noi subito?
GRIS.
Subito.
FELIC.
Domani?
GRIS.
Domani.
FELIC.
Mi faccio un abito nuovo, sapete.
GRIS.
Bisognerebbe che me ne facessi uno ancor io.
FELIC.
Ma badate che coi dodici zecchini non si può far tanto.
GRIS.
È vero, si fa poco con dodici zecchini.
Ma quando saremo in campagna, il fattore farà a modo nostro.
FELIC.
Zitto, che viene il signor zio.
GRIS.
Se lo sapesse, poveri noi!
FELIC.
Come faremo andare, ch'ei non lo sappia?
GRIS.
Aspetteremo che non ci sia.
SCENA OTTAVA
Il signor GERONIMO e detti.
GERON.
Riverisco lor signori.
FELIC.
Serva sua.
GRIS.
Servitor suo umilissimo.
GERON.
Quando si va in campagna, padroni mie?
FELIC.
In campagna, signore? Non so niente io.
GERON.
Eh? quando si va, signor nipote?
GRIS.
Non si anderà, se vossignoria non vuol che si vada.
GERON.
Eppure, senza che la mia signoria lo voglia, so che si vuol andare.
GRIS.
Chi v'ha detto questo, signore?
GERON.
Eh? (verso Felicita)
FELIC.
Dice a me? Non so niente.
GERON.
Certo, signori sì; ho saputo per via di quei garbati signori che stan qui sopra, che la famiglia degnissima del mio signor fratello sta sulle mosse per andar in campagna.
GRIS.
Quei signori ci hanno fatta l'esibizione...
FELIC.
Finalmente, se ci va il signor padre...
GRIS.
E non si spende...
FELIC.
La compagnia è di gente onesta e civile...
GRIS.
(Non dice niente...) (piano a Felicita)
FELIC.
(Via).
(piano a Grisologo)
GERON.
Ma! così è; il mal esempio è la rovina delle famiglie.
Pretendereste di far voi pure quello che fanno gli altri, eh? Poveri sciocchi! Vadano, vadano quei signori in campagna.
Io so quel che si dice di loro.
So io lo stato in cui si trova il signor Ridolfo.
Con queste orecchie ho sentito testé il sarto francese, monsieur Lolì, lagnarsi della signora Leonide che non l'ha pagato.
FELIC.
Per il vestito da viaggio forse?
GERON.
Sì signora, per il vestito da viaggio.
Essi si divertiranno in villa, e qui si faranno delle belle canzoni sul loro modo di vivere.
E voi altri vorreste accompagnarvi con questa sorta di gente? In casa vostra non manca il bisognevole, anche con abbondanza.
Qui non viene alcuno a picchiare all'uscio per essere pagato; non si fanno tornare i creditori due volte, non si fa mormorare.
Ma sapete che cosa ci mantiene in riputazione? Non le entrate, che sono poche; non i negozietti ch'io faccio per migliorarle; ma la buona regola, la prudenza e l'economia.
Senza di questa, poveri voi.
Poveri voi, se non aveste altro che vostro padre.
So io lo studio che mi costa il reggere questa barca.
Ma sono vecchio, figliuoli miei, sono vecchio.
Poco ancor posso vivere: e però, prima di chiuder gli occhi, vorrei vedervi in istato di non aver bisogno dell'aiuto di vostro padre.
Egli non è buono per sé, molto meno sarebbe al caso per regger voi.
Cara Felicita, ho qualche partito per voi; penso accasarvi con fondamento da vostra pari.
Ma voi non vi stancate di essere una figliuola prudente, come stata siete sinora; e voi, nipote carissimo, è tempo che vi determiniate a qualche cosa di sodo.
I vostri studi li avete fatti.
Vi comprerò una carica, se v'inclinate; vi addottorerò, se il volete, credetemi che vi amo da padre, e più assaissimo di vostro padre, né altro esigo da voi che buon amore, soda prudenza e discreta rassegnazione.
FELIC.
Per me, signore, se volete accasarmi, sarò contenta.
GERON.
Ho tre o quattro partiti, vi dico, e di questi non dubitate ch'io non sappia scegliere il meglio.
FELIC.
Perdonatemi, signor zio, vi vorrei dire una cosa.
GERON.
Dite; parlate con libertà.
FELIC.
Fra questi partiti vi sarebbe per sorte quello del signor Ridolfo?
GERON.
Il signor Ridolfo? Il signor Ridolfo? Fino che io son vivo, non vi mariterete al certo col signor Ridolfo, né con altro simile a lui.
Il signor Ridolfo fa le belle villeggiature; ma i creditori l'aspettano, per augurargli il buon viaggio.
Ora capisco l'intreccio della favoletta.
Sono invitati per andar in campagna, eh? Oh che bel villeggiare coll'amante al fianco! E il fratello il comporta, e il padre tien mano.
Pazzi, pazzi quanti che siete.
FELIC.
Per me, non dico né di volere, né di non volere; sono stata a tutto finora, e vi starò ancora per l'avvenire.
Già di me ha da essere sempre così, sempre schiava, sempre avvilita, sempre sgridata; cacciatemi in un ritiro, che non voglio più saper niente di questo mondo.
(parte)
SCENA NONA
Il signor GERONIMO ed il signor GRISOLOGO
GERON.
La sentite la scioccherella? disperazioni, disperazioni.
Quando le figlie non hanno quello che vogliono, danno nelle smanie; vogliono rinserrarsi.
Meriterebbe ch'io la rinserrassi davvero; sentireste allora come griderebbe no no.
GRIS.
Mia sorella è poi una buona pasta.
S'accomoda facilmente a tutto.
Due buone parole servono a consolarla.
GERON.
Buone parole e buoni fatti da me non le mancheranno.
Sia savia, e non dubiti niente; e voi, nipote, che cosa pensate di fare, giacché siamo su questo proposito?
GRIS.
Io, signore, spero d'averlo trovato il mio impiego.
GERON.
Sì? L'ho a caro.
Ma vorrei ben saperlo ancor io.
GRIS.
Domani ve lo saprò dire.
GERON.
Domani?
GRIS.
Sì signore, domani, e forse ancor questa sera.
GERON.
E non si potrebbe saperlo un po' prima? Ora, per esempio, non si potrebbe saper qualche cosa?
GRIS.
Ora ve lo dirò anche io; già s'ha da sapere, e avrò piacere che anche il signor zio questa sera mi favorisca.
GERON.
Dove? a far che?
GRIS.
Questa sera i comici rappresentano una mia commedia...
GERON.
Una commedia? Rappresentano una vostra commedia? È questo il bell'impiego che vi siete trovato? Sciocco! una commedia eh? Che vi credete che sia far una commedia, lo stesso che fare una canzone, un sonetto? Quando avete studiato l'arte di far commedie? Alla prima, subito, schicchera una commedia e la dà ai comici da recitare.
Oh sì, che vi farete onore.
Vorreste ch'io pure, eh? fossi presente alle fischiate che vi faranno?
GRIS.
Signore, voi non mi credete capace...
GERON.
No, non vi credo capace.
Uomini consumati vogliono essere a tal esercizio.
Mi sono dilettato anch'io di commedie, e, vecchio come sono, quando si fanno delle cose buone...
L'avete fatta vedere a nessuno questa vostra commedia?
GRIS.
Non signore, a nessuno.
GERON.
E vi arrischiate a esporla così?
GRIS.
Oggi sono in impegno di leggerla a qualcheduno.
GERON.
Dove?
GRIS.
Qui in casa, se il signor zio si contenta.
GERON.
Sì, leggetela; se potrò, ci sarò ancor io a sentirla.
Posto che abbiate fatto la bestialità di darla, almeno non vi ponete in ridicolo.
Stimate meglio la vostra riputazione.
GRIS.
Mi danno dodici zecchini; non li vorrei perdere.
GERON.
Imprudentissimo! stimate dodici zecchini più della vostra riputazione? Ve li hanno dati questi danari?
GRIS.
Non signore, me li daranno.
GERON.
Quando?
GRIS.
Domani.
GERON.
Piaccia o non piaccia? Vada mal, vada bene?
GRIS.
S'intende quando piaccia.
GERON.
Voleva ben dire io, che i comici, che sanno il viver del mondo, volessero arrischiare sì malamente il denaro loro.
Povero sciocco! Se la commedia va male, voi avrete il danno e le beffe.
GRIS.
La commedia mia anderà bene.
GERON.
Chi lo dice?
GRIS.
Lo dico io, signore, e non parlo senza il mio fondamento.
Ho letto, ho veduto, ho studiato; so quel che faccio, so come scrivo, e in poco tempo vedrete il nome mio stampato, vedrete il mio ritratto in rame, e forse forse mi sentirete chiamar quanto prima il nuovo riformatore: il Sachespir italiano.
(parte)
SCENA DECIMA
Il signor GERONIMO, poi il PROCURATORE
GERON.
Costui ha letto il teatro inglese, e s'è innamorato dello stile di Sachespir.
Chi sa se averà preso il buono o il cattivo di quest'autore?
PROC.
Si può riverirla, signor Geronimo?
GERON.
Oh signor dottore, favorisca.
È padrone.
Che buon vento? Quant'è che non ci vediamo?
PROC.
Ella ha i suoi affari, io ho i miei.
Per altro non manco del mio rispetto, e dove potessi obbedirla...
GERON.
Lasciamo le cerimonie e parliamoci da buoni amici.
Vi occorre nulla?
PROC.
Sarebbe ella in grado d'impiegare un migliaio di scudi?
GERON.
Perché no? anche duemila, se l'occasione è buona.
PROC.
L'investita è sicurissima.
I fondi sono liberi, liberissimi, e i debiti notificati non coprono che la metà dello stato del debitore.
GERON.
Vediamo i fondamenti, vediamo le scritture che occorrono...
PROC.
Tutto è in mano mia, signore.
Io difendo la casa ch'è molti anni, e vi assicuro che troverete le cose in chiaro.
GERON.
Siete un uomo onesto, lo so benissimo.
Con voi si può trattare a occhi serrati.
PROC.
Quanto volete voi d'interesse?
GERON.
L'onesto, il giusto, caro signor dottore; mi rimetterò a voi.
PROC.
Più del cinque per cento non si può fare.
GERON.
Mi contento del quattro e mezzo; al giorno d'oggi si dura fatica a trovar da investire con sicurezza e il denaro in cassa non frutta.
PROC.
La persona che cerca i mille scudi, siccome ne ha bisogno, non guarderà dal quattro e mezzo al cinque.
Se fosse in altre mani, pagherebbe anche il dieci.
GERON.
Guai a coloro che fanno simili negozi usuratici, indegni.
È una crudeltà, una ladroneria profittare delle miserie altrui, e dar mano alla rovina delle persone.
Pur troppo si sentono cose che fanno inorridire.
Chi presta col pegno in mano e coll'usura palliata.
Chi dà ad interesse coll'utile sfacciato di venticinque o trenta per cento.
Chi dà i zecchini in imprestito a trenta paoli l'uno.
Ma all'ultimo, signor dottore, il diavolo porta via ogni cosa; e dice il proverbio, quel che vien di ruffa in raffa, se ne va di buffa in baffa.
PROC.
Verissirmo, signor Geronimo, verissimo.
E se sapeste quanti ne hanno mangiato per questa strada al povero galantuono, che ora ha bisogno dei mille scudi!
GERON.
Chi è egli?
PROC.
Sapete chi è? Il signor Ridolfo, che sta qui sopra di voi.
GERON.
Il signor Ridolfo?
PROC.
Sì signore
GERON.
Amico caro, compatitemi.
Io non gli voglio dar niente.
PROC.
Per qual ragione? V'assicuro io che vedrete le cose chiare.
GERON.
No certo; a lui non do denari per assoluto.
PROC.
Avete inimicizia con il signor Ridolfo?
GERON.
Sono inimico del suo modo di vivere, del suo costume, della sua mala condotta; e non voglio io coi miei denari contribuire alle sue pazzie.
Mille scudi? se li spende tutti in un mese in villeggiatura.
PROC.
Non li prende per questo; ma per pagar i suoi debiti.
GERON.
Tralasci di andar in villa.
Moderi le sue spese, si metta in un poco d'economia, e potrà pagare i suoi debiti, senza aggravarsi d'un altro peso di quarantacinque scudi di censo.
PROC.
Dite bene, signore; ma se non glieli date voi, glieli darà un altro.
GERON.
E bene? Se si vuol rovinar, si rovini.
Ma io non ne voglio parte.
PROC.
Mi dispiace che il povero signore ha tutto disposto per andar in campagna.
Ha perfino mandato i letti questa mattina, ed ora è circondato dai creditori; e se non paga...
GERON.
Suo danno, impari a misurare l'uscita coll'entrata; e poi, sapete che cosa mi hanno fatto il signor Ridolfo e la garbatissima sua sorella? Hanno sedotto i miei nipoti ad andare in villa a dispetto mio.
Oh, se non ci andassero nemmeno loro, affé di mio, questa volta l'avrei ben caro.
PROC.
Certo non istà bene che vada la signora Felicita in compagnia dove vi son de' giovani.
GERON.
E giovani di che taglia! Dite, signor dottore, vorrei disfarmene di questa nipote in casa.
PROC.
Quanto le volete dare di dote?
GERON.
Secondo il partito.
Sino a dodici mille scudi le darei, se si trovasse da collocarla bene.
PROC.
L'avrei un buon partito io.
GERON.
Ne ho avuti quattro sinora.
PROC.
Chi son eglino? Li conosco io?
GERON.
Non me ne ricordo bene di tutti.
Ho i nomi entro dello scrittoio.
PROC.
Vediamoli.
Vi dirò il mio parere.
GERON.
Sì, caro signor dottore.
Parlando si fa tutto.
SCENA UNDICESIMA
SERVITORE e detti.
SERV.
Signore, manda a dirle il signor Grisologo, se comanda restar servita a sentir leggere la sua commedia, che sono lesti.
GERON.
No, no, ditegli che non ho tempo.
Ho pensato di non volerne far altro.
Sia com'esser si voglia; se è buona, l'ho caro; se è cattiva, non siamo in tempo di trattenerla.
PROC.
Ha dello spirito il signor Grisologo; ha del talento.
GERON.
Ma non ha giudizio.
A che serve lo spirito, se non vi è la prudenza?
PROC.
L'acquisterà col tempo.
GERON.
Questo è quello ch'io dubito.
Volete andar voi signor dottore, a sentir qualche cosa?
PROC.
Andrò volentieri.
Ma prima vediamo, se vi contentate, i nomi di cui abbiamo parlato.
GERON.
Sì, passiamo dallo studio; ve li do subito; già non principieranno sì presto.
PROC.
La fa recitare questa commedia?
GERON.
Questa sera, dic'egli.
PROC.
Desidero si faccia onore.
GERON.
È difficile, ne' tempi in cui siamo.
Si farà corbellare.
Perché una commedia riesca, non basta ch'ella sia buona.
Vi vuol partito.
PROC.
Il partito si fa col merito.
GERON.
Si fa col merito? Si fa col merito?...
Non mi fate dire, per carità.
(partono)
SCENA DODICESIMA
Camera grande.
GRISOLOGO, FELICITA, LEONIDE, RIDOLFO, ROCCOLINO, POLICASTRO, MARIO.
CRICCA indietro.
Si tira innanzi il tavolino, in mezzo, per il signor Grisologo, e le sedie per tutti, e tutti si pongono a sedere.
GRIS.
Favoriscano accomodarsi.
(siede nel mezzo)
LEON.
(Prendiamoci questa seccatura).
(da sé)
ROCC.
Bravo, signor Grisologo, bravo, me ne rallegro con lei.
LEON.
Bravo gli dite, prima d'aver sentito niente? Vi rallegrate con lui troppo presto.
ROCC.
Son prevenuto che abbia a essere cosa buona.
Bravo, me ne rallegro.
GRIS.
Obbligatissimo alle di lei grazie.
POLIC.
E l'ha fatta in meno di quattro mesi, sa ella?
ROCC.
Così presto? bravo.
POLIC.
Io non l'avrei fatta in quattro anni.
RID.
Via, signore, non ci tenete più in pena.
Fateci godere le vostre grazie.
GRIS.
Subito vi servo.
Se il signore zio non vuol venire, suo danno, principieremo senza di lui.
POLIC.
Già mio fratello non sa niente.
Non sa far altro che numerar quattrini lui.
RID.
Se fosse mio zio, farei che ne numerasse meno.
GRIS.
Alle volte vengono a me pure delle tentazioni...
LEON.
Spicciatevi, signore, perché noi vogliamo andare in campagna.
(a Grisologo)
GRIS.
Subito.
(prepara il libro e si va accomodando)
FELIC.
(E Grilletta non si vede con il vestito.
Già lo prevedo.
Mi converrà poi andare così.
Andar certo; come si sia).
(da sé)
GRIS.
Sono pregati del loro compatimento.
Finalmente questa è la prima commedia che ho fatto.
MAR.
E questa sera si rappresenta in teatro?
GRIS.
Sì signore, per servirla.
MAR.
Spiacemi di non vederla.
Restiamo qui questa sera, signor Ridolfo.
LEON.
Signor no, signor no, questa sera s'ha da partire; ed il signor Mario ha da venire con noi.
MAR.
Come comanda la signora Leonide.
Sentiamola dunque ora.
GRIS.
Certamente in teatro farà maggior figura, colla varietà delle voci, coll'azione de' personaggi.
Basta, m'ingegnerò di gestire alla meglio.
ROCC.
Bravo, me ne rallegro infinitamente.
POLIC.
Ma via, principiate.
Muoio di volontà di sentirla.
LEON.
Sarà breve, m'immagino.
FELIC.
Ha una gran fretta la signora Leonide.
LEON.
L'averebbe anche lei, se si trattasse d'andare.
FELIC.
Da questa sera a domani...
GRIS.
Signori, supplico tutti umilmente di ascoltare e tacere, poiché patisco assaissimo, quando leggo, se sento un menomo zitto.
Principiamo.
La Vita di Cromuel protettore dell'Inghilterra, commedia di carattere in versi.
MAR.
La Vita di Cromuel? La vita d'un uomo in una sola commedia?
GRIS.
Sì signore.
Sachespir, celebre autore inglese, ha fatto La vita e la morte di Riccardo terzo Re d'Inghilterra.
ROCC.
Sachespir? (a Grisologo)
GRIS.
Sì signore.
ROCC.
Bravo, me ne rallegro infinitamente.
POLIC.
Sentite che testa? Io non sapeva nemmeno che Sachespir fosse stato al mondo.
(a Roccolino)
GRIS.
Zitto, signori, per carità.
POLIC.
Zitto.
(forte, poi cava dalla veste da camera qualche pasta dolce, e va mangiando)
GRIS.
Atto primo, scena prima.
La moglie di Cromuel e la sua cameriera.
Moglie.
Stelle! dov'è lo sposo? ahi, che in romita cella
Agito l'ali in vano misera rondinella!
Ei del Tamigi oppresso vendica i torti e l'onte
Bagna di sangue il fianco, e di furor la fronte;
Ed io fra le tempeste vivo nell'ozio infido,
Qual peregrin che il mare stassi a mirar dal lido.
ROCC.
Bravo, bravo.
Me ne rallegro infinitamente
POLIC.
Ah? (maravigliandosi mangiando)
LEON.
Io non capisco niente.
FELIC.
(E Grilletta non si vede).
(da sé)
RID.
Gran bei versi!
MAR.
Perdoni, signore.
Quell'ozio infido non mi pare che cada a proposito.
GRIS.
Quell'epiteto è incastrato con arte, signore, per far risaltare il verso che seguita.
...
Ozio infido,
Qual peregrin che il mare stassi a mirar dal lido.
ROCC.
Oh bravo! me ne rallegro infinitamente.
MAR.
E poi, perdonatemi.
Per commedia lo stile è troppo elevato.
POLIC.
Eh! (con disprezzo, mangiando)
GRIS.
Sì signore, è elevato, ma non è sempre così.
Sentite ora.
Serva fedel mia cara, d'amor dammi una prova.
Cerca lo sposo mio.
Dimmi dov'ei si trova.
MAR.
Chi parla ora?
GRIS.
La moglie di Cromuel.
Non sentite?
MAR.
Quella del Tamigi, della tortorella, dell'ozio infido?
POLIC.
Non sa niente.
(mangiando)
ROCC.
Rispondetegli.
(a Grisologo)
GRIS.
La varietà dello stile è il bellissimo mosaico delle composizioni.
Leggete Sachespir.
Leggete le sue Donne di bell'umore, o siano le Comari di Windsor.
Leggete il Sogno d'una notte etc.
etc.: sentirete com'egli talora si solleva, e talora si abbassa.
ROCC.
Bravo, me ne rallegro infinitamente.
POLIC.
Ah? (mangiando)
MAR.
Signore, perdonatemi; intendete voi bene l'inglese?
LEON.
Innanzi, innanzi, che l'ora si fa tarda.
GRIS.
In teatro sentirete che fracasso farà.
FELIC.
Ehi? È venuta Grilletta? (verso la scena)
GRIS.
Zitto.
(a Felicita)
POLIC.
Zitto.
(mangiando)
GRIS.
La cameriera.
Sì sì, padrona mia, subito immantinente
Ricercherò il padrone di cui non si sa niente.
Voglio in questa giornata trovarlo a tutti i patti,
Domanderò di lui fin per trovarlo ai gatti.
ROCC.
Bravissimo.
POLIC.
(Ride fortemente, mangiando) Ai gatti! (poi s'addormenta)
GRIS.
Zitto.
Sentite ora.
Quinci e quindi fiutando, qual cacciator mastino,
Ritroverò gli effluvii, ch'ei sparsi ha nel cammino:
Poiché da tutti i corpi, sien buoni o sien malvaggi,
L'esalazion si spargono, fatte a guisa di raggi;
Onde qual fido cane scopre l'errante cerva,
Io scoprirò il padrone, fedelissima serva.
ROCC.
Oh bravo, oh bravo! me ne rallegro infinitamente.
MAR.
Così parla una donna?
GRIS.
Sì signore, parla così.
Credete voi che le donne in Inghilterra non sappiano che cosa sono gli effluvii?
MAR.
Con licenza di lor signori.
(s'alza)
LEON.
Va via, signor Mario?
MAR.
Vado per un piccolo affare, signora.
Tornerò, tornerò.
(Non ne voglio più.
Ho sentito abbastanza).
(da sé, e parte)
LEON.
Pare che i versi del signor Grisologo gli abbiano fatto movere il corpo.
ROCC.
Me ne rallegro infinitamente.
GRIS.
Eh! genti che non gustano il buono.
Tiriamo innanzi.
RID.
Ehi! guardate un poco se fosse venuto il procuratore.
Quando viene, avvisatemi.
(a Cricca)
CRI.
Sarà servita.
(parte)
GRIS.
Andiamo innanzi.
FELIC.
(E Grilletta non viene.
Son disperata).
(da sé)
LEON.
Ehi! il signor Policastro dorme.
(a Roccolino)
GRIS.
Scena seconda.
Un messo e detti.
Messo.
Batto coll'ali il piede, fendo dell'aere i spazi.
Nuove felici io reco.
Di strage i Dei son sazi.
Moglie.
Dove è il britanno eroe, dov'è degli Angli il duce?
Messo.
Viene, e venendo ei sparge gloria, trionfi e luce.
ROCC.
Oh bravissimo!
GRIS.
La serva.
E dalla luce stessa dell'alme tue parole
Giubbilo anch'io di gloria, e mi trasformo in sole.
ROCC.
Oh che roba, oh che roba!
SCENA TREDICESIMA
Il PROCURATORE e detti.
PROC.
Con licenza di lor signori.
RID.
Oh! ecco il signor dottore.
(s'alza)
GRIS.
Favorisca.
Là vi è una sedia vuota.
Ascolti, e stia zitto.
(al Procuratore)
RID.
E così, è fatto il negozio? (al Procuratore)
PROC.
Non ancora.
RID.
.
No? Perché?
PROC.
Parleremo.
RID.
Sono impaziente.
PROC.
Ho fatto il possibile.
GRIS.
Ma zitto, signori miei.
LEON.
Vi è qualche cosa di nuovo? (s'alza)
RID.
Andiamo di sopra.
(al Procuratore)
PROC.
Vogliono qui lasciare?...
RID.
Andiamo, andiamo.
Compatite, ho un affar di premura.
(a Grisologo, in atto di partire)
LEON.
Si parte? Siete all'ordine? (a Ridolfo)
RID.
Credo di sì, io: basta, vedremo.
(parte)
PROC.
Con licenza di lor signori.
(parte)
GRIS.
Schiavo suo.
LEON.
Compatite.
Non abbiamo tempo per trattenerci.
Ci conviene andar via.
Portatela in campagna, che la goderemo con comodo.
ROCC.
Sì, in campagna ammireremo il vostro spirito, il vostro talento.
GRIS.
Sentite almeno una scena.
LEON.
Signora Felicita, a buon riverirla.
FELIC.
Se ne va, eh?
LEON.
Per servirla.
Serva umilissima.
Padroni tutti.
(parte)
ROCC.
Servo di lor signori.
Bravo, signor Grisologo.
Aspetteremo le nuove dell'esito della sua bella commedia; bravissimo, me ne rallegro infinitamente.
(parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
Il signor GRISOLOGO, la signora FELICITA, il signor POLICASTRO che dorme.
GRIS.
Bellissima scena! Mi hanno impiantato qui come uno stivale.
FELIC.
(Ma questa Grilletta mi fa dare al diavolo).
(da sé)
GRIS.
Voi che avete tanta volontà di sentire, sentite il fine di questa scena.
FELIC.
Lasciatemi stare.
Ho altro in capo io.
(Sto a vedere che mi toccherà stare in città, o andare con quest'abito in villa.
Sia maladetto!) (da sé, si pone a sedere con distrazione, coprendosi la faccia col fazzoletto)
GRIS.
Signor padre.
Dorme? Signor padre.
(lo sveglia)
POLIC.
Che c'è? Bravo, bravissimo.
Eh? dove sono andati? L'avete finita la commedia?
GRIS.
L'ho principiata appena.
Chi per una cosa, chi per l'altra, ciascuno è partito.
Vuol ella sentir niente?
POLIC.
Caro figliuolo, ho un sonno che non posso reggermi in piedi.
La sentirò stassera al teatro.
Lasciatemi andar un poco a dormire.
(sbadigliando parte)
SCENA QUINDICESIMA
Il signor GRISOLOGO e la signora FELICITA; poi GRILLETTA
GRIS.
Ma vorrei almeno finir questa scena.
Sentitela voi e ditemi la vostra opinione.
(a Felicita)
FELIC.
Dite, dite.
(stando nella medesima positura)
GRIS.
La moglie di Cromuel.
Dunque fia ver che amico alla Britannia il fato
Abbia da' colpi illeso il Protettor serbato?
Dunque...
FELIC.
Venite, venite, Grilletta; che nuova c'è?
GRILL.
Niente.
FELIC.
Non si è trovato?
GRILL.
Niente.
FELIC.
Né si troverà?
GRILL.
Niente.
FELIC.
Per poco, per poco mi getterei da un balcone.
GRIS.
E bene?
FELIC.
Lasciatemi stare, che non ho voglia di sentir commedie.
(parte)
SCENA SEDICESIMA
GRISOLOGO e GRILLETTA
GRIS.
Che diamine ha mia sorella?
GRILL.
Impazzisce per un vestito da viaggio.
Non si trova.
GRIS.
Sentite voi, che siete una serva, un discorsetto che fa la serva della moglie di Cromuel.
GRILL.
E chi sono queste genti? Non le conosco io.
GRIS.
Sentite.
Suol l'allegrezza il duolo scacciare in cotal modo,
Come la ferrea punta scaccia dall'asse il chiodo.
Fabbro sagace, antico, colla sinistra mano
Alza il duro metallo, e lo presenta al piano.
E là 've dell'antico spunta la ferrea testa,
Tronca la superficie, ed il novello innesta.
Indi col destro pugno maglio ferrato innalza,
Repplica i colpi al centro, batte, ribatte, incalza:
Finché dal lato opposto della scheggiata scorza
Esca l'antico chiodo, entri il novello a forza.
Ah? che ne dite?
GRILL.
Che linguaggio è questo?
GRIS.
Italiano perfetto.
GRILL.
Io l'ho creduto arabo, in coscienza mia; se la vostra commedia è scritta tutta così, partiranno stupiti, senza intendere una parola.
(parte)
GRIS.
Tutti ignoranti; tutti ignoranti.
Questa sera l'universale deciderà del merito della novità.
M'aspetto sentire risuonare gli applausi da tutti i lati.
Parmi vedere il popolo affollato d'intorno a me, a consolarsi meco, a portarmi in trionfo per l'allegrezza.
E domani anderò in campagna? Sì, sarà riputata la mia partenza un atto di modestia.
Sarà meglio ch'io parta, anzi che andar pettoruto raccogliendo gli applausi per tutti gli angoli della città.
(parte)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Sala terrena comune alle due case, con fanale acceso.
Il signore RIDOLFO ed il PROCURATORE
RID.
Sì signore, voglio aspettar qui il signor Geronimo, e sentire un poco da lui, come c'entra ne' fatti miei; e quale difficoltà, quale dubbio egli abbia di darmi a censo i mille scudi.
E se niente mi stuzzica, gl'insegnerò io il modo di trattare co' galantuomini pari miei.
PROC.
E in casa sua lo vorrebbe ella insultare?
RID.
Questa, ove siamo, non è casa sua.
Questo luogo, che serve d'ingresso alla sua ed alla nostra casa, è comune.
Posso, se mi monta davvero, strapazzarlo liberamente.
PROC.
Strapazzarlo poi, signore...
non si fa nemmeno in mezzo alla strada, che è più comune ancora di questa sala terrena.
RID.
Lo sapete voi, signore, ch'io sono mezzo disperato e più di mezzo ancora?
PROC.
Veramente la compatisco.
I suoi creditori non dormono questa notte.
Altri sono alle porte della città, altri virano qui d'intorno...
RID.
Come! m'assediano! mi circondano! Sono io un qualche fallito? Mi maraviglio di voi, che abbiate anche l'ardire di dirmelo.
PROC.
Io penso di far bene avvisandola.
RID.
Non averanno tanta temerità.
Sarà poi più interesse vostro, che loro.
PROC.
Interesse mio, eh? Che caro signor Ridolfo! S'ella non mi conosce bene sinora...
RID.
Siete di una razza di gente, che non si conosce mai abbastanza.
PROC.
Mi maraviglio di lei, signore: a quest'ora dovrebbe conoscermi.
Se nella professione mia vi è qualche briccone, sarà particolarmente segnato, ma il numero maggiore è quello de' galantuomini, ed io mi vanto di essere fra questi.
Un giorno conoscerà meglio chi sono.
Andrà, andrà nelle ugne di alcuno di quelli che tengono mano a contratti illeciti; troverà di quelli che le faranno avere il denaro ad usura, e poi verranno con lei a mangiare la loro quota in campagna.
Servitor umilissimo.
(in atto di partire)
RID.
Venite qui, sentite.
PROC.
Non occorr'altro; la riverisco divotamente.
(parte)
SCENA SECONDA
Il signor RIDOLFO, poi GRILLETTA
RID.
Io sono nel maggior imbroglio di questo mondo.
Se non fosse l'impegno...
Sento gente dalla parte del signor Geronimo.
Sento scender le scale; se fosse lui almeno...
Ma no, è la serva di casa.
GRILL.
(Guardate se sono vere pazzie queste.
Mandarmi a quattr'ore di notte fuori di casa).
(da sé)
RID.
Ehi! Grilletta; il signor Geronimo è in casa?
GRILL.
Non signore, non c'è.
RID.
È molto che a quest'ora non sia tornato.
GRILL.
È ito alla commedia egli pure.
RID.
Se verrà a casa, dovrà passare di qui.
GRILL.
Ci sarebbe nessuno de suoi servitori, che volesse un po' accompagnarmi?
RID.
Dove avete d'andare a quest'ora?
GRILL.
Oh, veda lei se questa è ora da mandare una fanciulla come me, sola sola, e di più al buio ancora.
RID.
Chi vi manda?
GRILL.
La padrona mi manda.
RID.
È in casa la signora Felicita? Non è ita alla commedia ella pure?
GRILL.
Non signore, suo fratello e suo padre volevano che ci andasse.
Lo zio non voleva.
Hanno gridato un poco; poi ella ha voluto restare in casa.
RID.
Segno ch'è una figliuola rassegnata e discreta.
GRILL.
Sì, discretissima! rassegnatissima! Lo sa vossignoria perché è restata in casa?
RID.
Che volete ch'io sappia? Credeva per non disgustare lo zio.
GRILL.
È restata in casa per far impazzire me, ed altre due donne ancora.
Vuole in ogni maniera un vestito da viaggio per domattina.
Il sarto non lo può fare; fatto non si trova; ed ella presto presto ha tagliato un andrienne, ha chiamato una sarta con un'altra donna; lavora lei, ci lavoro io, e non si va a letto, se l'abitino non è finito.
RID.
Queste signore sono capricciosissime.
GRILL.
Ma come la mia non se ne dà.
RID.
Anche mia sorella ha voluto fare il vestito...
GRILL.
Ma non è niente il vestito.
Senta, se vuol ridere.
Mi manda a quest'ora dalla signora Taddea, che non istà poi tanto vicina; mi manda a pregarla che le dia in prestito un tabarrino da viaggio, un cappellino alla moda, ed un ombrellino da parar il sole.
RID.
Non le ha queste cose la signora Felicita?
GRILL.
Non le ha, e vuol parere di averle.
In verità mi fanno da ridere queste signore, che per comparire in qualche occasione vanno qua e là accattando le robe in prestito; e chi le dà, lo dice, e si fanno poscia burlare.
RID.
E se altri non lo dicesse, lo dicono le cameriere.
GRILL.
Oh, io lo dico a lei, ch'è nostro vicino di casa.
Del resto ad altri non lo direi.
RID.
So che siete una figliuolina di garbo.
GRILL.
Mi dispiace ora...
Non ha nessuno in casa da farmi un po' compagnare?
RID.
Non c'è nessuno.
Sono al teatro con mia sorella.
GRILL.
Si sa niente ancora della commedia nuova?
RID.
Niente, non sarà ancora finita.
GRILL.
Oh, la sarebbe bella che non incontrasse.
RID.
Che male sarebbe egli? L'esito è sempre incerto.
GRILL.
Male sarebbe per la signora Felicita, che avrebbe persa una notte, rovinato un andrienne, e non andrebbe in villa.
RID.
Perché? Come c'entra la riuscita della commedia coll'andar di fuori?
GRILL.
Come c'entra? Ve lo dirò io, come c'entra.
Se non piace, i comici non daranno al signor Grisologo il regalo promessogli di dodici zecchini, e senza questi non si va in campagna.
RID.
Dite il vero?
GRILL.
Verissimo.
RID.
Ma come? Raccontatemi; ditemi un poco meglio...
GRILL.
Oh, voi mi vorreste far dire, ed io non voglio dir niente.
Anderò dalla signora Taddea per il tabarrino, per il cappellino e per l'ombrellino.
Ma se non vengono i dodici zecchini, non si va di fuori.
Il padre non ne ha; lo zio non ne vuol spendere.
La figliuola è ambiziosa.
Basta basta...
non dico altro.
(parte per la porta di mezzo)
SCENA TERZA
Il signor RIDOLFO
RID.
Il mondo è fatto così, per quello ch'io vedo.
Ciascheduno vuol fare più di quello che può.
Io mi rovino a debiti, e non so come anderà a finire.
Mi basterebbe per quest'anno solo poter tirar innanzi con riputazione.
L'anno venturo mi metterei un poco in economia.
Gli è vero, che sono cinque o sei anni che vo dicendo così, ma una volta poi ci s'ha da venire ad una riforma.
Se non altro in occasione di maritarmi.
Se crepasse questo vecchiaccio del signor Geronimo! Se potessi metterci le ugne in quei dobloni di Spagna...
Oh, ecco che tornano dalla commedia.
E per partire non c'è fondamento.
Oh sì, che vogliamo sentire la signora sorella a cantarmi la solfa in tutte le quattro chiavi.
SCENA QUARTA
La signora LEONIDE col signor MARIO, serviti di lumi da Servitori, ed il suddetto.
LEON.
Eccoci, eccoci; fate attaccare, che siamo all'ordine.
RID.
È finita la commedia?
LEON.
Non ancora; non abbiamo avuto la sofferenza di starci sino alla fine.
RID.
Avrei piacer di sapere, come da ultimo il popolo l'ha applaudita.
LEON.
Il signor Roccolino, che vi è rimasto, ve lo saprà dire.
Intanto ordinate che attacchino; non perdiamo tempo.
RID.
Aspettiamo il signor Roccolino.
Ma ditemi qualche cosa della commedia.
C'è niente di buono?
LEON.
Se la finiscono, fanno molto.
RID.
È cattiva dunque?
LEON.
Scelleratissima.
RID.
È vero, signor Mario?
MAR.
Cosa peggiore non ho sentito a' miei giorni.
RID.
Sachespir non piace dunque?
MAR.
Non piace, perché il signor Grisologo non l'ha saputo imitare.
LEON.
Non vi è ordine, non vi è intreccio, non ci sono caratteri.
Oh che pasticcio!
MAR.
Io non so mai, perché il signor Grisologo siasi posto ad un tale impegno.
RID.
Ve lo dirò io il perché.
Per guadagnare dodici zecchini.
LEON.
Poveri comici! li hanno gettati via.
RID.
Se non piace, non glieli danno.
LEON.
Oh, non li ha dunque?
RID.
E se non li ha, né lui, né la signora Felicita vanno in villa.
LEON.
Come lo sapete? Chi ve l'ha detto?
RID.
Grilletta me lo ha detto, la cameriera.
MAR.
È bellissima l'istoriella.
LEON.
Non ci viene più a ritrovare la signora Felicita.
RID.
Zitto, zitto, ch'ella scende le scale, e viene da voi.
LEON.
Povera donna! mi fa compassione.
RID.
Usate prudenza con lei, non la state a mortificare.
LEON.
Se si tratta di compiacervi, le darò gusto.
MAR.
Meglio per lei, che non sia stata al teatro.
SCENA QUINTA
La signora FELICITA e detti.
FELIC.
Serva di lor signori.
Perdonino.
Ho veduto dalla finestra tornare la signora Leonide; la curiosità mi sprona.
Come è riuscita la commedia di mio fratello?
LEON.
Bellissima.
FELIC.
Davvero?
LEON.
Lo domandi al signor Mario.
FELIC.
Mi dica qualche cosa, signore.
(a Mario)
MAR.
Eh, il signor Grisologo è giovine; si farà sempre meglio.
FELIC.
Ma non ha fatto bene ora?
LEON.
Sì, ha fatto benissimo.
FELIC.
Ha avuto applauso in teatro?
LEON.
Ho sentito tre o quattro paia di mani che battevano.
FELIC.
Battevano dunque? (a Mario)
MAR.
Sì signora, battevano.
LEON.
Ed il signor Policastro come s'affaticava a battere!
FELIC.
Anche mio padre batteva?
LEON.
Anche lui, e il parrucchiere, e il sarto, e i portinai del teatro battevano terribilmente.
FELIC.
È piaciuta dunque la commedia di mio fratello.
(a Ridolfo)
RID.
Si può sperare che l'universale l'abbia aggradita.
FELIC.
(Buono, buono.
Anderemo in villa).
(da sé)
LEON.
Che volevano significare, signor Mario, coloro che sbadigliavano?
MAR.
Gente che non sa, che non bada.
FELIC.
Ignoranti saranno stati.
LEON.
E quelli che strillavano, che sussurravano, che corbellavano?
MAR.
Potevano essere anche genti maligne.
FELIC.
Genti mandate a posta saranno state.
RID.
Non occorre badare a tutto.
FELIC.
Basta, la commedia è riuscita bene.
(a Leonide)
LEON.
Riuscì a maraviglia.
FELIC.
È finita? (a Leonide)
LEON.
Non ancora; siamo partiti ch'erano all'atto terzo, e la commedia è di cinque atti.
FELIC.
Perché non è stata sino alla fine?
LEON.
Perché dobbiamo partire.
RID.
Ecco il signor Grisologo.
FELIC.
La commedia è finita dunque.
LEON.
Così presto? non è possibile.
MAR.
Sarà venuto via innanzi, dunque.
SCENA SESTA
Il signor GRISOLOGO e detti.
LEON.
(Vedendo venire il signor Grisologo melanconico, se ne ride in segreto col signor Mario)
GRIS.
(Ah! pazienza!) (da sé in aria melanconica)
LEON.
(Fa lo stesso col signor Ridolfo)
FELIC.
È finita la commedia? (a Grisologo)
GRIS.
È finita.
LEON.
Come mai così presto? Siamo partiti ora, ch'erano all'atto terzo.
GRIS.
Sapete l'impertinenza che m'hanno fatto i maligni? Hanno sollevato il teatro, ed hanno costretto i comici a calar la tenda.
LEON.
(Ride col signor Mario)
FELIC.
Sono stati i maligni? (a Grisologo)
GRIS.
E chi volete che l'abbia fatto?
LEON.
Povero signor Grisologo.
Tutta invidia.
GRIS.
Dicano la verità, essi che ci sono stati: era una cosa che meritasse un affronto simile?
LEON.
Far calar la tenda? Piuttosto non alzarla nemmeno.
GRIS.
Non l'intendo, signora Leonide.
MAR.
Vuol dir la signora, che in questi casi è da desiderare di non essersi esposti.
GRIS.
Sa ella che cos'è, signore? Non intendono niente.
LEON.
Questo è quello che diceva io; non intendono niente.
RID.
Non vi perdete per questo, signor Grisologo.
Un'altra vi rimetterà in riputazione.
GRIS.
Sì; voglio farne delle altre, a dispetto de' miei nemici.
LEON.
Ecco il signor Roccolino; fate attaccare.
E che si parta una volta.
(a Ridolfo)
RID.
(Non si vede venire il signor Geronimo.
Non so che risolvere).
(da sé)
SCENA SETTIMA
Il Signor ROCCOLINO e detti.
ROCC.
Servitor umilissimo di lor signori.
Bravo, signor Grisologo; me ne rallegro infinitamente.
LEON.
Gli è piaciuta la commedia, signor Roccolino?
ROCC.
Bella davvero; ci ho avuto gusto.
Bene scritta; bei sentimenti, belle parole, bello stile, bella frase, bellisima dicitura; in verità, me ne rallegro infinitamente.
GRIS.
Sentono, signori miei? Non l'ho detto io, che i maligni me l'hanno buttata a terra?
LEON.
Certo una gran bella cosa! È un peccato, signor Roccolino, che non l'abbiano terminata.
ROCC.
Come? non l'hanno terminata? Sì, signora, terminatissima.
Ho veduto io calare la tenda.
LEON.
Ma la tenda l'hanno calata prima che la commedia fosse finita.
ROCC.
Davvero! questo non lo sapevo.
La commedia è fatta con tale artifizio, che si può finire quando si vuole; bravo, signor Grisologo, me ne rallegro infinitamente.
GRIS.
Obbligatissimo alle di lei grazie.
S'ella avesse desiderio di sentir il fine, posso servirla anche adesso, se vuole.
ROCC.
Mi farebbe un piacere singolarissimo.
LEON.
(Non ci mancherebbe altro, che questo resto di seccatura).
Signor Ridolfo, voi siete incantato, a quel che si vede.
Anderò io a sollecitare questo gran viaggio.
Con licenza di lor signori, la signora Felicita ci verrà a ritrovare in campagna; il signor Grisologo ci finirà di leggere la sua bella commedia in campagna.
(Poveri spiantati, non ci vengono per quest'anno).
(da sé, e parte col signor Mario)
ROCC.
Io ho l'onor di servir la signora, e ho l'onore di riverir lor signori.
E al signor Grisologo ho l'onore di dirgli: me ne rallegro infinitamente.
(parte)
SCENA OTTAVA
La signora FELICITA, RIDOLFO e GRISOLOGO
FELIC.
(I zecchini ci saranno?) (piano a Grisologo)
GRIS.
(Pensate! se mi hanno fatto calar la tenda).
(piano)
FELIC.
(Pazienza.
Povero il mio andrienne!) (da sé) Signor Ridolfo, ella va in campagna.
Faccia buon viaggio.
Si diverta bene.
(con passione)
RID.
Non ci sono ancora andato, signora.
FELIC.
Se non è andato, è vicino a andarvi, ed io resterò qui.
(asciugandosi gli occhi)
RID.
Dunque, signor Grisologo, non siete più in caso ora d'andar in villa?
GRIS.
Lasciatermi stare.
Sono arrabbiato quanto mai posso essere.
FELIC.
E il signor Ridolfo anderà a divertirsi.
Bella premura che ha per me! Sono sincere l'espressioni che ha avuto la bontà di farmi.
(con ironia)
RID.
(Vo' cogliere qualche profitto dalla mia disgrazia).
(da sé) Signora Felicita, le mie espressioni sono sincere.
Se ella non parte, non partirò nemmen io.
FELIC.
E la signora Leonide?
RID.
Nemmeno.
FELIC.
Ma se è vestita da viaggio.
RID.
Colla facilità con cui si è vestita, potrà spogliarsi.
FELIC.
Sì è verissimo; potrà spogliarsi.
Caro signor Ridolfo, vedo ch'ella ha della bontà per me.
Si assicuri della mia gratitudine.
(Pazienza, s'io non vado in campagna; bastami che non ci vada la signora Leonide).
(da sé, e parte)
SCENA NONA
Il signor GRISOLOGO e il signor RIDOLFO
GRIS.
Non mi sarei mai creduto, che la mia commedia dovesse avere un esito così infelice.
RID.
Non avete perciò ad affliggervi.
Sono accidenti che accadono.
GRIS.
Se l'avessero lasciata finire, si sarebbe replicata dieci volte almeno.
RID.
M'immagino che il buono sarà stato nel fine.
GRIS.
La faceva terminare con questi versi.
Se gli uditori non erano statue, conveniva per forza che la facessero replicare.
Sentite, se si può dire in modo più obbligante, più tenero, più convincente:
Ecco, uditori, il fine dell'opera piacevole:
L'onor, la gloria, il merto fra noi fu vicendevole.
Da noi aveste in dono il grande e l'ammirabile,
Noi ricevemmo in cambio l'aggradimento amabile.
Dell'umile poeta vadan gli applausi all'etera:
Battete e ribattete mani, piedi etcetera.
RID.
Poteva darsi che avessero battuto, ma se poi la sera dopo non andava gente al teatro, era peggio.
GRIS.
Per me era meglio.
I comici, a loro dispetto, avrebbono dovuto confessare che la commedia aveva incontrato.
RID.
E vi avrebbono pagato i dodici zecchini?
GRIS.
Dodici zecchini? Che cosa sapete voi de' dodici zecchini?
RID.
Caro amico, le cose si sanno.
Ma non vi prendete soggezione di me.
Sappiate che io pure sono nel caso vostro.
Senza trovar denaro, non posso andare in campagna.
GRIS.
Resteremo qui tutti dunque.
RID.
Se avessi io uno zio ricco come il vostro, so bene che, per amore o per forza, ne vorrei certo delli denari.
GRIS.
Se sapessi il modo.
RID.
Egli finalmente maneggia il vostro.
In quello scrigno vi è la parte di vostro padre e la parte vostra.
GRIS.
È verissimo; ma come ho da fare?
RID.
Se foss'io in luogo vostro, vorrei aprirgli lo scrigno e prendermi la parte mia.
GRIS.
Mi consigliate a farlo dunque?
RID.
Io non vi consiglio a farlo, vi dico quello che per me farei.
GRIS.
Lo farò, io.
RID.
Torno a dirvi: non vi consiglio di farlo, ma quando mai lo faceste, caro amico, ho bisogno di mille scudi.
Vi pagherò il vostro censo, e anderemo in campagna.
GRIS.
Prima ch'ei torni a casa, volete che tentiamo ora, presto presto, se potessimo fare il colpo?
RID.
Io non vi consiglio di farlo.
GRIS.
Son persuaso da me, senza che me lo consigliate.
Venite solamente per compagnia.
RID.
Verrò, ma avvertite bene, per qualunque caso vi protesto che non vi consiglio di farlo.
GRIS.
Non occorr'altro.
Andiamo; si perde il tempo.
Dirò, come diceva Arlecchino nella mia commedia...
RID.
Che c'era Arlecchino in Inghilterra, a tempo di Cromuel?
GRIS.
Ci fosse o non ci fosse, queste sono licenze poetiche.
Io ce l'ho messo per far ridere.
Sentite, se non è una cosa da far crepare:
No vôi perder più temp; a Londra vôi andà,
A fà quel ch'el patrù m'ha dicc e comandà.
Mo che gran bella cossa! el patrù parla ingles,
Mi parli bergamasch, all'us del mi paes.
Lu no m'intend mi, mi no l'intendi lu
E pur se fa, se dis, di coss in tra de nu.
Qualchedun me dirà come fet, A
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