I MALCONTENTI, di Carlo Goldoni - pagina 3
...
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POLIC.
Lo dirò io.
FELIC.
E andiamoci tutti.
POLIC.
Ci anderemo noi.
(mangiasi un dattero)
FELIC.
Che mangia, signor padre?
POLIC.
Mangio de' datteri; mi piacciono tanto.
Ne volete voi? (le mostra il cartoccio)
FELIC.
Obbligatissima.
(li ricusa)
POLIC.
Sono buoni veh!
FELIC.
Sono troppo dolci.
POLIC.
Mi piace tanto a me il dolce, mi piace.
FELIC.
Pensi un poco, signore, a persuadere il signor zio Geronimo che ci conduca in campagna, o che ci lasci andare da noi.
POLIC.
E se non ci vorrà condurre, ci anderemo da noi.
FELIC.
Meglio; ci averei più gusto io.
POLIC.
Ci anderemo da noi.
(si mangia un dattero)
FELIC.
Il denaro non lo potrà negare.
POLIC.
Non lo potrà negare.
FELIC.
Vada dunque subito a dirglielo, prima ch'egli esca di casa.
POLIC.
Non ci parlo troppo volentieri io con lui.
FELIC.
Dunque, come s'ha da fare?
POLIC.
Fate così, Felicita; diteglielo voi, diteglielo.
FELIC.
Oh, a me non mi baderà.
Se ci fosse anche lei...
POLIC.
Ci sarò io.
FELIC.
Eccolo che va via.
(osservando fra le scene)
POLIC.
Buon viaggio.
FELIC.
Se non gli parliamo ora...
POLIC.
Come volete ch'io faccia?
FELIC.
Chiamiamolo.
POLIC.
Io non lo chiamo.
FELIC.
Lo chiamerò io.
Signor zio, dica, signor zio.
(verso la scena)
POLIC.
(Me n'anderei tanto volentieri).
(da sé)
FELIC.
Ora gli si dice tutto, e si parla schietto.
(a Policastro)
SCENA SETTIMA
Il signor GERONIMO e detti.
GERON.
Che cosa volete, signora nipote?
FELIC.
È qui il signor padre, che le vorrebbe parlare.
POLIC.
Io non voglio niente, io.
(si mangia un dattero)
GERON.
Il signor Policastro si diverte coi datteri.
POLIC.
Vi do fastidio? Anderò via.
(in atto di partire)
FELIC.
No, signor padre, non vada via.
Dica quello che gli voleva dire.
POLIC.
Glielo potete dire anche voi.
FELIC.
Glielo dirò, se così comanda.
GERON.
È una gran cosa questa, che vi vuol tanto a dirla?
FELIC.
Avremmo volontà, signore, d'andar un poco in campagna.
GERON.
Perché non me l'avete detto due mesi prima, che vi averei compiaciuto volentieri?
FELIC.
D'agosto non si va in campagna.
GERON.
Anzi, quand'è caldo, allora si gode l'aria aperta.
Che vorreste far in villa nel mese d'ottobre, in cui per solito principia il freddo, principiano le pioggie, e conviene stare ritirati in casa? Che dite, signor Policastro, non si sta meglio in città?
POLIC.
Sì; quando principia il freddo, si sta bene in casa.
FELIC.
Ma che vuol dire, che ora tutti fanno le loro villeggiature? (a Geronimo)
GERON.
Volete voi dire di quelli che vanno a far il loro vino? Noi abbiamo de' buoni castaldi, de' buoni fattori, non vi è bisogno che c'incomodiamo per questo.
Il bucato lo faccio far nell'estate.
In verità, credetemi, ora ci servirebbe d'incomodo.
Non è egli vero, signor Policastro?
POLIC.
Per me...
non dico nulla io...
Felicita vorrebbe ella...
(mangiando il dattero)
FELIC.
Io e Grisologo mio fratello vorremmo dal signor zio questo piacere in quest'anno, che ci facesse godere un poco di villeggiatura d'autunno; e se non può venir lui, verrà il signor padre.
Non è egli vero, signor padre, non ci verrà ella volentieri con noi?
POLIC.
Ci verrò io.
GERON.
Ci andereste voi? (a Policastro)
POLIC.
Eh, perché no?
GERON.
A far che ci andereste? (alterato)
POLIC.
A far che, a far che? Ci anderei.
A far che, a far che?
GERON.
Già rispondete sempre a proposito.
POLIC.
A proposito certo; rispondo a proposito io.
FELIC.
Ci vanno tanti; perché non ci possiamo andare anche noi?
POLIC.
Ci vanno tanti, eh?
FELIC.
Sì signore.
Ci vanno ora anche questi che stanno sopra di noi.
E alla signora Leonide hanno fatto un abito nuovo da viaggio, a posta per andar in campagna.
GERON.
Ne vorreste uno anche voi?
FELIC.
Lo vorrei certo.
GERON.
Che dice il signor Policastro?
POLIC.
Lo vorrebbe lei.
FELIC.
Che dice il signor zio?
GERON.
Ho che fare ora; ne parleremo poi.
FELIC.
Ma questo poi, compatitemi, è troppo.
Non mi voler contentare in niente.
Signor padre, dica qualche cosa anche lei.
POLIC.
Eh...
contentatela.
GERON.
Fatelo voi, se avete il modo di farlo.
FELIC.
Lo farebbe lui, se il signor zio non facesse tutto da sé.
POLIC.
Lo farei io, se ne avessi.
FELIC.
Finalmente il signor padre è padre.
GERON.
Certamente, è padre; ha messi al mondo due figli.
POLIC.
Vi par poco, eh?
GERON.
Ma non è buono da mantenerli.
FELIC.
Che non ci sono le entrate?
POLIC.
Che non ci sono le entrate?
GERON.
A che basterebbono le entrate, se io coll'industria mia non aumentassi gli utili della casa? Poveri sciocchi! Vorreste andare in villa, eh? Vorreste andare a goder l'autunno! Lo so perché ci anderebbe volentieri la signora nipote ed il pazzo di suo fratello...
Perché l'autunno in villa non si va a goder la campagna, ma si va a far la conversazione.
E il padre amoroso li seconderebbe questi cari figliuoli, e anderebbe a mangiar in un mese in villa quello che basta quattro mesi in città.
Non vi anderebbe per economia, no, come farebbe qualche altro buon padre di famiglia: vi anderebbe per ispendere, per divertirsi, per far da grande più che non è.
Un abito nuovo per andar in campagna! Quando si va in campagna, si va per risparmiarli i vestiti, non per farne de' nuovi.
Si va per godervi la libertà, non per essere in maggior soggezione.
Cospetto di bacco! se vi piace la villa, vi soddisferò, signori miei, sì, vi soddisferò.
Vi ci farò stare tredici mesi dell'anno.
Ma sapete dove? Dove non vi sieno case di villeggianti, dove non si radunano le genti per giocare, per ballare, per tripudiare.
In un bosco, in un bosco.
O qui, o in un bosco.
Signora nipote, la riverisco.
Signor fratello, badi a mangiare i suoi datteri, che farà meglio.
(parte)
POLIC.
(Cava un dattero e lo mangia)
SCENA OTTAVA
La signora FELICITA ed il signor POLICASTRO poi il signor GRISOLOGO
FELIC.
(Cava il fazzoletto e piange)
POLIC.
(Mangia i datteri e non dice niente)
GRIS.
Sorella, ho sentito ogni cosa.
Signor padre, ho sentito ogni cosa.
Ero dietro di quella porta, ho sentito ogni cosa.
FELIC.
Lo zio è un cane; e il signor padre non parla.
POLIC.
Che ho da dire io? non sentite? Parla, parla, parla; chi gli può rispondere?
GRIS.
Non vuol che si vada in campagna?
FELIC.
Non vuole.
GRIS.
Non vuole eh, signor padre?
POLIC.
Non vuole.
GRIS.
E che sì, che ci andiamo?
FELIC.
Come?
GRIS.
E che sì, signor padre?
POLIC.
Come?
GRIS.
Quanto ci vuole a far una quindicina di giorni di villeggiatura?
FELIC.
Il luogo l'abbiamo.
I mobili fuori ci sono, e tutto il bisogno di biancheria, di cucina, di letti.
GRIS.
È egli vero, signore? C'è poi tutto?
POLIC.
Oh, non so niente io.
FELIC.
La signora madre, poverina, me l'ha detto cento volte.
Ci è tutto; lo so di certo.
GRIS.
Dunque quanto denaro ci vorrebbe? (a Felicita)
FELIC.
Non saprei.
Domandatelo al signor padre.
GRIS.
Quanto ci vorrebbe? (a Policastro)
POLIC.
Non so niente io, non ho pratica.
GRIS.
Basteranno dodici zecchini? (a Felicita)
FELIC.
Crederei di sì.
GRIS.
Basteranno? (a Policastro)
POLIC.
Crederei di sì.
GRIS.
Domani anderemo in campagna.
FELIC.
Ma come?
POLIC.
Come, come?
GRIS.
Domani anderemo in campagna.
FELIC.
Avete voi dodici zecchini?
POLIC.
Li avete voi dodici zecchini?
GRIS.
Li averò questa sera; e domani anderemo in campagna
FELIC.
A dispetto di vostro zio.
POLIC.
A dispetto di mio fratello.
FELIC.
Ma in che maniera li averete voi questi denari?
GRIS.
Sentite.
Ve lo confido, non voglio che nessuno lo sappia.
FELIC.
Non dubitate.
POLIC.
Eh, non parlo io.
GRIS.
Vi è nota già quella tragicommedia che ho fatto per il teatro...
FELIC.
Quella che dite essere sul gusto inglese?
GRIS.
Sì, quella.
La prima e l'unica che finora ho fatto.
POLIC.
Gran buona testa che ha il mio Grisologo! Non so come faccia a saper tanto.
FELIC.
E così? Seguitate.
GRIS.
E così, l'ho data ai comici, come sapete; e questa sera la devono rappresentare, e se piace al pubblico mi hanno da contare domani dodici zecchini d'oro.
FELIC.
E se poi non piacesse?
GRIS.
Piacerà sicuramente.
POLIC.
Piacerà sicurissimamente.
GRIS.
È vero che non ne ho più fatto, ma questa son certo che piacerà, perché le novità sempre piacciono, ed io pretendo d'aver trovato una novissima novità.
Sui nostri teatri non si è più sentito lo stile di Sachespir, celebre autor inglese.
POLIC.
Intendete anche l'inglese voi?
GRIS.
Qualche poco l'intendo.
POLIC.
Ma come diamine fa a saper tanto?
FELIC.
Dunque, se piace, dodici zecchini.
GRIS.
E piacerà senz'altro.
POLIC.
Piacerà senz'altro.
GRIS.
Rimarranno storditi, quando sentiranno questo novello stile.
POLIC.
Lo stile di...
come si chiama?
GRIS.
Di Sachespir.
POLIC.
Di Sachespir.
FELIC.
E noi anderemo in campagna
GRIS.
Anderemo in campagna.
POLIC.
Anderemo in campagna.
FELIC.
Vado a dirlo alla signora Leonide.
(parte)
GRIS.
Sentirà, signor padre, che bella cosa.
POLIC.
Tieni due datteri, che te li dono di cuore.
(dà due datteri a Grisologo, e mangiandone uno parte)
GRIS.
Altro che datteri! Se prende fuoco il novello stile do scaccomatto a quanti poeti ci sono.
(parte)
SCENA NONA
Camera in casa del signor Ridolfo.
Il signor RIDOLFO, CRICCA ed un SARTO
RID.
Gran vizio maladetto di voi altri sarti, che volete sempre farvi aspettare.
SAR.
Abbiamo lavorato tutta notte per servirla.
RID.
Sono quindici giorni che ho ordinato quest'abito per andar in campagna e vi siete ridotti a portarlo ora che ho i cavalli da posta in casa; ora che sto per partire.
SAR.
Bisogna ch'ella sappia...
RID.
Non avete pontualità, non avete parola, non avete rispetto per le persone di qualità, di carattere.
SAR.
Se mi permette, vorrei giustificarmi, signore, della mia tardanza.
RID.
Via, che direte in vostra giustificazione? Sono quindici giorni.
SAR.
È vero, sono quindici giorni; ma il mercante da oro, che ci doveva dare i galloni per di lei conto, non ha voluto darli senza il denaro, ed il mio padrone è stato costretto a prenderli da un altro, e metter fuori il denaro di sua scarsella.
RID.
Cricca, tirate giù.
Vediamo se questo vestito va bene.
(si fa vestire da Cricca)
CRI.
(Ehi, l'istoria dei galloni lo ha ammutolito).
(piano al Sarto)
SAR.
(Cattivo segno) (piano a Cricca)
RID.
Via, proviamolo.
(al Sarto, il quale gli mette il vestito)
SAR.
Dovrebbe andar bene.
Il padrone non è solito di fallare.
RID.
Ecco, è troppo largo.
CRI.
Lo ha lasciato a posta un poco larghetto: l'autunno vengono delle giornate fredde; se vuol mettersi sotto qualche cosa di più...
RID.
Cricca, chiamate mia sorella, ditele che venga a vedere se quest'abito mi sta bene.
CRI.
Poco fa non c'era la signora Leonide.
Non so se sia ritornata.
RID.
Andate a vedere.
CRI.
La servo subito.
(parte poi torna)
SAR.
L'assicuro che gli sta dipinto.
RID.
Queste maniche non mi paiono alla moda.
SAR.
Oh, che dice mai! Vedrà che tutti i forestierl le portano così.
RID.
Ho veduto ieri un inglese, che le aveva due dita più lunghe.
SAR.
Sarebbe poi una caricatura.
CRI.
Signore, è qui il procuratore di casa, che avrebbe necessità di parlargli.
RID.
Ditegli che or ora vado in campagna, che non ho tempo di sentire a parlar di liti.
CRI.
Veramente gliel'ho detto io, ma mi ha risposto che la premura è grande, e prima ch'ella parta, gli deve tenere un piccolo discorsetto.
RID.
Gran seccatori! Che aspetti.
Quando mi sarò spicciato del sarto, potrà venire.
La signora Leonide l'avete veduta?
CRI.
Non signore, per causa del procuratore.
Vado ora a ricercare di lei.
RID.
Ditele che l'aspetto.
CRI.
(Ogni anno da questi giorni si mette in confusione la casa.
E gli interessi suoi vanno in precipizio).
(da sé, e parte)
SCENA DECIMA
RIDOLFO ed il SARTO
RID.
Parmi che il vestito non vada male.
SAR.
Va benissimo, l'assicuro.
RID.
Sentiremo che dirà mia sorella.
SAR.
Intanto favorisca veder il conto.
RID.
Eh, non importa.
Tenetelo, lo vedrò un'altra volta.
SAR.
Il padrone la prega...
RID.
Ditegli che al mio ritorno lo pagherò immediatamente.
SAR.
Ma egli ne ha bisogno, signore.
Ha sborsato i denari per il panno, per i galloni...
RID.
Bene, lo pagherò al ritorno.
SAR.
Ma in verità, ne ha bisogno grandissimo.
RID.
Orsù, andate.
Io non ho tempo da perdere.
Ho da sentir il procuratore, che mi preme assai più del sarto.
SAR.
E al mio padrone preme aver il denaro.
RID.
Signor dottore, favorisca.
(alla porta)
SAR.
Aspetterò...
RID.
Andate, vi dico.
SAR.
Non vuol sentire l'opinione della signora Leonide, se il vestito va bene?
RID.
Va bene, va benissimo.
Non occorr'altro.
Dove diamine si è cacciato il procuratore? Signor dottore.
(chiama) Eccolo; aveva il capo fuori della finestra.
SCENA UNDICESIMA
Il PROCURATORE e detti.
PROC.
Servitor umilissimo, signor Ridolfo.
RID.
La riverisco divotamente.
(Andate a fare i fatti
vostri) (al Sarto)
SAR.
Ma, signore, almeno...
RID.
Sì, aspettate.
Ecco un paolo per voi.
Andate.
SAR.
Anderò.
Non lo vuole il conto?
RID.
Lasciatelo, se lo volete lasciare.
SAR.
Eccolo.
RID.
Mettetelo lì su quel tavolino.
SAR.
Come comanda.
(Ci gioco io, che questo conto gli
serve per fare una spazzatura! Questa è poi la ragione,
perché da chi paga si fanno pagare il doppio).
(da sé;
mette il conto sul tavolino, e parte)
SCENA DODICESIMA
Il signor RIDOLFO ed il PROCURATORE
RID.
Che mi comanda il signor dottore?
PROC.
Signore, abbiamo delle novità che mi danno un po' da pensare.
RID.
Se si tratta di liti, ora non si fa niente.
Tutti vanno in campagna.
PROC.
Eh, signore, si tratta di peggio assai che di liti! Evvi una congiura di creditor, i quali avendo saputo che vostra signoria va in campagna, vogliono esser pagati, altrimenti minacciano...
RID.
Che minacciano? che cosa minacciano?
PROC.
Niente altro che di assicurare per via di giustizia il pagamento de' loro crediti.
RID.
E che cosa possono fare costoro?
PROC.
Possono sequestrare, inventariare, e anche far qualche istanza contro della persona.
RID.
Caro signor dottore, fatemi il piacere voi di acchetarli.
Dite loro che al mio ritorno pagherò tutti.
PROC.
Sarà inutile ch'io dica questo.
Sanno che ella va in campagna per ispendere, e non per avanzare.
Sono parecchi anni che si tengono a bada con parole.
Ho detto assai; ho detto tutto quello che poteva dire.
Non vi è rimedio, sono risolutissimi.
RID.
Costoro mi faranno fare delle bestialità.
PROC.
Non gioveranno niente per acchetarli.
RID.
Ma qual rimedio ci trovereste voi?
PROC.
Il rimedio più facile sarebbe dar loro un poco di denaro alla mano, e per il resto vedere di accomodarsi alla meglio.
RID.
Dite bene voi, signor dottore carissimo, ma io di denaro sto male assai.
PROC.
Perdoni, se mi avanzo troppo.
Ella fa delle spese superflue.
Ecco, per andar in campagna si è fatto un vestito nuovo, magnifico, che non occorreva.
Averà speso de' zecchini parecchi, e con questi poteva contentare due o tre creditori.
RID.
A dirvi la verità...
per quest'abito sinora non ho sborsato denari.
PROC.
E quando lo pagherà?
RID.
Al ritorno.
PROC.
Tutti al ritorno.
Ma non si ricorda ella, che il vino di quest'anno lo ha quasi tutto obbligato a quel signore che gli ha guadagnati i dugento zecchini al faraone?
RID.
La mia pontualità voleva che io facessi così.
I debiti di gioco devono essere i primi pagati da chi ha riputazione in capo.
PROC.
E i poveri bottegai che hanno dato il loro sangue...
RID.
Orsù, non ho bisogno che voi mi facciate né il correttore, né il moralista.
Pensate al ripiego, se c'è presentemente.
Voglio andar in villa.
Sono impegnato con una partita d'amici, e non posso sottrarmi.
PROC.
Vuol ella dar niente alla mano a quelli che fanno il fuoco più grande?
RID.
Dei denari che ho destinati per la villeggiatura, non ne posso toccar uno.
Ho preso le mie misure: cencinquanta zecchini in un mese, è il meno ch'io possa spendere.
Non me ne priverei di uno, se andasse a fuoco la casa.
PROC.
Dunque quid agendum?
RID.
Tocca a voi, che siete del mestiere.
PROC.
Non basta ora uno che sappia fare il legale, ci vorrebbe uno che sapesse far l'oro.
RID.
Voi altri, quando vi preme, lo cavate di sotterra.
PROC.
Quando c'è, si cava: ma quando non c'è, non si cava.
RID.
Chi ha ceppi, può far delle scheggie.
Non ho io de' beni per trovar a interesse quello che mi bisogna?
PROC.
Quando così le comoda, si potrà fare.
RID.
Quanto credete voi che ci vorrà per far tacere costoro?
PROC.
Per quello che ho potuto raccogliere, un migliaio di scudi.
RID.
Bene, trovatemi voi mille scudi a censo.
PROC.
Si troveranno.
Ma se ella ora si contentasse di distribuire quel denaro che ha, potrebbe darsi che tirassero innanzi.
RID.
No; questo denaro è per la villeggiatura; questo non si tocca.
Trovate voi mille scudi, e accomodiamola.
PROC.
Ci vorrà tempo per ritrovarli.
RID.
Frattanto che io sono in villa, avrete tempo di farlo.
PROC.
Oh, i creditori non la lasciano andare, senza esser pagati.
RID.
Che! ardiranno di tenermi qui sequestrato?
PROC.
Ardiranno anche più, per esser pagati.
RID.
Fate voi la sicurtà per me.
PROC.
Non si può, signore.
I procuratori non possono farsi mallevadori de' principali.
(Ci mancherebbe anche questa!) (da sé)
RID.
Dunque, che s'ha da fare?
PROC.
Con un po' di tempo si troveranno.
RID.
Ma se oggi devo andar in campagna.
PROC.
Per oggi è impossibile.
RID.
E quando?
PROC.
Più presto che si potrà.
RID.
Domani per assoluto.
PROC.
Vedremo.
RID.
Più in là di domani non aspetto certo.
PROC.
Ma le vostre liti, signore, avrebbero bisogno di un poco di attenzione.
Sarebbe necessario che si tenesse qualche sessione cogli avvocati, ora appunto che hanno meno che fare.
RID.
Al mio ritorno ci baderò.
PROC.
E intanto gli avversari non dormono.
RID.
Badate voi a non dormire, e a trovarmi subito i mille scudi, o qualche espediente per sottrarmi da quei bricconi che mi circondano.
PROC.
Non dite loro bricconi.
Sono genti oneste, che vi hanno affidato il sangue loro.
RID.
Or ora mi fareste venir la rabbia.
PROC.
Anderò via, per non alterarvi.
RID.
Avvertite, che domani voglio partire.
PROC.
Ho capito.
Servitor suo.
RID.
Schiavo, signor dottore.
PROC.
(Gran cosa a questo mondo! Per fare quello che non si può, si fa anche quello che non si deve).
(parte)
SCENA TREDICESIMA
Il signor RIDOLFO, poi la signora LEONIDE
RID.
Sono alcuni anni che le cose mie vanno male.
Quando torno di villa, vo' principiare a mettermi in economia.
Sarebbe tempo ch'io mi accasassi.
Se trovassi una buona dote, potrei sanar le mie piaghe, e fare un poco più di figura.
La signora Felicita sarebbe un buon partito, se suo zio volesse maritarla.
Ma è un vecchio stitico, a me non la vorrà dare.
LEON.
Eccomi, signor fratello.
Mi rallegro del bel vestito.
RID.
Che vi pare? va bene?
LEON.
Va benissimo.
Mi piace, è di buon gusto, è benissimo fatto.
Ma che vi pare del mio?
RID.
Anche il vostro non istà male.
LEON.
Appunto questo è il conto del sarto; bisogna pagarlo.
RID.
Lo pagherò al ritorno.
LEON.
Sono in parola di pagarlo subito; gli ho detto che fosse ritornato, e sarà qui a momenti.
RID.
Ma io ora non sono in comodo di pagarlo.
LEON.
Come! non avete denari?
RID.
Ho il bisogno per la villeggiatura.
Non voglio privarmi di quello mi può bisognare in campagna.
LEON.
In questo non so darvi torto.
Mi dispiace che il sarto verrà, ho promesso, e non so come disimpegnarmi.
RID.
Ma voi non siete senza denari.
Vi ho pur dato dieci zecchini l'altr'ieri; ne avevate degli altri.
LEON.
Questi non si toccano.
Li tengo per giocare.
Vorreste ch'io mi trovassi in un impegno senza denari?
RID.
Avete ragione.
Ma se viene il sarto...
LEON.
Se viene, se n'anderà come sarà venuto.
Già m'immagino che or ora si partirà.
RID.
Dubito che non si partirà così presto.
LEON.
I cavalli da posta sono venuti, sono giù nella stalla.
RID.
Bene, che aspettino; e che diano da mangiare ai postiglioni, ed il fieno ai cavalli.
LEON.
Dunque si desina qui?
RID.
Si desina qui certo.
LEON.
Il cuoco non sa niente.
RID.
Avvisatelo che si desina qui.
LEON.
E la compagnia che deve venire con noi, sa che non si parte per ora?
RID.
Ora manderò ad avvisare.
LEON.
Potrebbe restare a pranzo con noi, ma il cuoco non sarà a tempo.
RID.
E poi, se non si partisse né meno in tutt'oggi?...
LEON.
Come! che! lo ponete in dubbio che si parta oggi? Sarebbe bella! S'ha da partire per assoluto.
Ho fatto far le ambasciate, ho fatto le visite, mi sono licenziata dalla conversazione; e che oggi non si partisse? Non vi mancherebbe altro davvero! S'ha da partire, vi dico!
RID.
Si partirà.
LEON.
Ma perché lo poneste in dubbio?
RID.
Non si potrebbero dar de' casi?...
LEON.
Quai casi andate voi immaginando? Quando s'ha stabilito, si fa.
S'ha detto di partire, si partirà.
RID.
Si partirà.
LEON.
Pare che lo diciate per farmi grazia.
Si partirà, o non si partirà?
RID.
Si partirà.
LEON.
Badate bene, che se non si parte...
RID.
Si partirà, si partirà, si partirà.
(parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
La signora LEONIDE, poi il signor ROCCOLINO col suo Servitore.
LEON.
Se fosse mio marito gli avrei risposto: se non partirete voi, partirò io; ma sono ancora fanciulla, e col fratello non posso dire così.
Non vedo l'ora di maritarmi.
ROCC.
(Vestito da viaggio, cogli stivali grossi in piedi e colla scuriata in mano, seguito dal servitore che porta un valigiotto) Riverisco, riverisco, eccomi; riverisco.
LEON.
Oh signor Roccolino, siete sollecito.
ROCC.
M'hanno detto alle diciassette.
Ecco la mostra della verità.
Diciassette, meno quattro minuti.
(mostra l'orologio e poi lo ripone)
LEON.
Mio fratello, per ragione de suoi affari, non può partire questa mane.
Abbiamo però differito per dopo pranzo.
ROCC.
Benissimo.
Partasi quando si parte.
Io sono all'ordine per partire.
LEON.
È quello il vostro bagaglio?
ROCC.
Per obbedirvi.
LEON.
È molto in diminutivo.
ROCC.
Ma dentro vi sono delle cose superlative.
LEON.
In che consistono? Poco vi può essere, per quel ch'io vedo.
ROCC.
Polve di Cipro finissima, manteca odorosissima, melissa, samparelie, lavanda, ed una libreria intiera di canzonette novissime.
LEON.
Bravissimo! mi piace l'idea, ci divertiremo.
Ma non fate più stare colla valigia in collo quel poveruomo.
All'ora del partire c'è tempo.
ROCC.
Ora sono le diciassette in punto.
(guardando l'orologio) Con permission di madama.
Scaricate la valigia costì.
(al servitore)
LEON.
Se volete lasciar qui la valigia, siete padrone di farlo.
ROCC.
La mia valigia non si allontana da me.
LEON.
Dunque fatela portar con voi.
ROCC.
Non signora, io resterò con essa.
LEON.
S'intende che vogliate restar qui dunque?
ROCC.
Son di madama dall'alba di questo giorno, sino alla sera che si ritornerà di campagna.
LEON.
Ma oggi si starà male da noi; il cuoco non ha preparato niente.
ROCC.
Non potrò mai star male, se io starò alla condizione di madama.
LEON.
In verità, dovreste andare dalla signora Costanza e dalla signora Vittoria, ad avvisarle che sino al dopo desinare non si parte.
ROCC.
Come volete ch'io faccia, signora, a muover i passi con queste macchine ai piedi?
LEON.
Perché caricarvi co' stivalacci di peso?
ROCC.
Per non mi rovinare le gambe, perché, ogni volta ch'io vo a cavallo, son soggetto a cadere tre o quattro volte almeno.
LEON.
E dov'è il vostro cavallo?
ROCC.
Il signor Ridolfo mi ha promesso di provvederlo.
LEON.
Vi abbiamo anche da pagar il cavallo dunque?
ROCC.
Solite grazie, solite finezze di tutti quelli che mi conducono a villeggiare.
LEON.
In fatti non è poca fortuna per noi quest'anno avere in nostra compagnia il signor Roccolino.
Tutti lo vogliono, tutti lo bramano.
ROCC.
Io certo, non fo per dire, ma sono il condimento delle più belle villeggiature.
Se si tratta di ballare, io ballo minuetti, furlane, con suoni, senza suoni, con chi ne sa, con chi non ne sa; e quando ballo io, tutti ridono, che si smascellano dalle risa.
Io, bene o male, se occorre, prendo un violino in mano, e suono a rotta di collo.
Per cantare poi ho un dono di natura, che tutti credono che io abbia studiata la musica, e non so nemmeno che cosa voglia dire la solfa.
Canto alla disperata da tenor, da soprano, alto, basso, in compagnia, e solo, e non vi è nessuno che abbia l'abilità che ho io per cantar le canzonette di piazza.
A tavola tutti ridono per causa mia; faccio rime stupende, e ho la facilità di far comparire per rima anche quello che non è rima.
Quando ho bevuto un poco, sono deliziosissimo; non guardo in faccia a nessuno; insolenze a tutti, e prendomi poi senza avermene a male guanciate, scopellotti, sudicierie nel muso, e fino qualche volta mi hanno lordato da capo a piedi, che era una cosa da morir di ridere.
Tutte le burle si fanno a me; io sono quello che tiene tutti in divertimento.
Una volta mi hanno fatto prendere l'anguilla nel secchio; mi hanno fatto mangiare i maccheroni colle mani legate, mi hanno dato le polpette di crusca, e che so io, cento barzellette, tutte a me, signora.
E quest'anno sono con voi.
Farò vedere chi sono.
Ho imparato a posta il gioco de' bussolotti, a fare sparir la moneta, a tagliar il nastro che resti intero, a far da un mazzo di carte saltar fuori un uccello.
E vedere quei contadini, con tanta di bocca, a dire: oh che diavolo! oh che stregone! Vederete che balli, vederete che salti! Con questi stivalacci non posso fare.
Voglio cavarmeli, e voglio farvi vedere.
Basta, voglio farvi vedere.
Sebbene siamo in città, s'ha da principiare l'autunno or ora, come se fossimo in villa.
Madama, votre servitor, madama; allegraman toujour, allegraman, allegraman toujour.
(parte)
LEON.
Oh bravo, oh bravo! Questo è particolare davvero.
Tutti procurano aver in villeggiatura con loro alcuno che faccia naturalmente, o sappia fare il buffone.
Ma il signor Roccolino passa tutti.
Sarà egli il nostro divertimento.
Sono bene spesi i denari per coloro che ci fanno ridere.
Mi ricordo di mio padre, che conduceva in campagna con lui dei dottori, dei letterati, dei virtuosi.
Oibò, oibò, non si usa più.
Gente allegra vuol essere, gente allegra.
Ballo, canto, gioco, burle, spendere allegramente, spendere allegramente.
(pare)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera della signora Leonide.
La signora LEONIDE e CRICCA
CRI.
La signora Felicita, se si contenta, vorrebbe venire a riverirla.
LEON.
Sì, sì, verrà a restituirmi la visita; ditele che è padrona.
(Cricca parte) Giacché si è differita da noi la partenza, averò tempo di riceverla e di godermela un poco.
Poverina! aveva quasi le lagrime agli occhi, quando parlava meco.
Si vede che la divora l'invidia, ma le conviene soffrire.
S'io fossi in lei, non ci vorrei stare io ad una condizione sì miserabile.
Piuttosto mi contenterei patire tutto il resto dell'anno, ma da questi giorni s'ha da andare, s'ha da spendere, s'ha da divertirsi.
E non occorre che dicano: si fa quello che si può.
S'ha da fare quello che fanno gli altri, e più degli altri, se fia possibile ancora.
SCENA SECONDA
La signora FELICITA e la suddetta
FELIC.
Non parte ancora la signora Leonide? Serva sua.
LEON.
Umilissima.
Si è differito alla sera per maggior comodità.
Di giorno fa ancora troppo caldo; abbiamo poi il benefizio della luna, che è un piacere viaggiar di notte.
FELIC.
Quanto goderei che differissero sino a domani.
LEON.
Perché? ha qualche cosa da comandarmi?
FELIC.
Obbedirla sempre.
Non signora, ma domani avrei l'onore di poterle servire di compagnia.
LEON.
Per dove, signora Felicita?
FELIC.
Per campagna, signora Leonide.
Sa che i beni della nostra casa non sono lontani dai suoi.
Potremmo, s'ella si degnasse, fare una carrozzata insieme.
LEON.
Che dunque va ella pure in campagna?
FELIC.
Oh sì, signora.
Non vuole? Sarebbe bella che l'autunno non si andasse un po' a villeggiare.
Ci vanno tanti, che non hanno un palmo di terra.
Meglio ci possiamo andar noi, che abbiamo case e poderi.
LEON.
Non ci è mai stata per altro in villeggiatura.
FELIC.
Perché finora non ho voluto andarvi.
LEON.
Ed ora le è venuta la volontà perché ci vado io, non è egli vero?
FELIC.
Oh, pensi lei! Io non sono di quelle, signora.
Grazie al cielo, non ho motivo d'invidiare il bene degli altri.
Alla nostra casa non manca niente.
Credo che ella lo sappia, quanto lo so io, chi siamo e chi non siamo.
LEON.
Sì, anzi...
favorisca.
Va con quel vestito in campagna?
FELIC.
Perché no? Non è egli proprio? Non è una cosa civile?
LEON.
Mi perdoni.
Si renderà ridicola con quel vestito in campagna.
FELIC.
È forse troppo? Le par troppo ricco?
LEON.
Vede, signora Felicita, che non sa niente? Non è alla moda.
È da città, e non è da campagna.
Vede il mio? Così va fatto.
Tutte così lo portano, e chi non ha il vestito alla moda, non occorre si metta in impegno.
Io non vi anderei certo in villa con un abito antico.
FELIC.
Credo di aver il modo di potermelo fare un abito come quello.
LEON.
Come questo non sarà così facile.
È di buon gusto, sa ella? Il mio sarto, che veste le prime dame della città, mi assicura che il simile non l'ha fatto in quest'anno.
FELIC.
Io non ci vedo poi questi gran miracoli.
LEON.
Che! mi burla? Perdoni, signora Felicita; ella non se ne intenderà poi tanto.
Per altro...
FELIC.
Qual è il sarto che glielo ha fatto?
LEON.
Monsieur Lolì.
Lo conosce?
FELIC.
Se lo conosco! Mi ha fatto questo che ho in dosso.
Oh, guardi un poco!
LEON.
Non so che dire.
Quand'ella lo dice, sarà.
Ma quello non mi pare il taglio di monsieur Lolì.
FELIC.
Non sono capace di dire una cosa per un'altra.
L'ha fatto egli medesimo colle sue mani.
LEON.
Vi è una grandissima differenza.
Può anch'essere che venga dal taglio di vita.
FELIC.
Oh, oh, in quanto alla vita, cara signora Leonide, non mi pare di essere stroppiata.
LEON.
Non dico questo.
Ma non ci vedo il buon gusto.
FELIC.
Pare a lei così, perché il mio vestito non è da campagna.
LEON.
Sì, è vero; le cose compariscono buone o cattive, secondo in che vista si prendono.
Per città non è cattivo quell'abito, ma in campagna non la consiglierei di portarlo.
FELIC.
Io son capace di farmene uno a bella posta, subito subito.
LEON.
Per quando?
FELIC.
Per domani.
LEON.
Monsieur Lolì non glielo fa in un mese.
FELIC.
Coi denari si fa tutto, signora.
LEON.
Vede questo? Venti giorni me lo ha fatto aspettare.
FELIC.
Col denaro alla mano, anche i sarti sanno far delle meraviglie.
LEON.
Se volessero denari, io li pago subito.
Non sono di quelle che li fanno tornare più d'una volta.
Li pago anche prima, se vogliono.
FELIC.
(Il mondo non dice così per altro).
(da sé)
LEON.
E per questo sono servita bene, perché pago subito.
FELIC.
Il signor zio ha questa massima anch'esso.
Vuol godere dell'avvantaggio, ma paga subito.
LEON.
E così noi, si paga subito.
SCENA TERZA
CRICCA e dette.
CRI.
Signora, è qui monsieur Lolì che aspetta...
LEON.
Che cosa vuole? Ditegli che ora non ho bisogno di lui.
FELIC.
Cara signora Leonide, lo faccia passare; che sentiremo un poco se è possibile d'aver quest'abito per domani.
LEON.
Compatisca, signora.
Per ora non lo faccio passare.
Sono un poco disgustata con lui.
Sarà venuto a domandarmi scusa, eh? (a Cricca) Ditegli che al mio ritorno ci accomoderemo.
CRI.
È venuto con il conto, signora...
LEON.
No no, per ora non voglio far niente.
(a Cricca) Gli avevo ordinati due vestiti da città per l'inverno, mi ha portato le mostre, ed ora mi averà fatto il conto della spesa.
Sono così io; voglio vedere prima quello che devo spendere.
(a Felicita) Ditegli che per ora non ho comodo; e che al mio ritorno si farà ogni cosa.
Andate.
(a Cricca)
FELIC.
Galantuomo, con licenza della padrona, dite a monsieur Lolì che vada giù da me ad aspettarmi, che gli ho da parlare.
(a Cricca)
LEON.
Mi faccia questo piacere, signora Felicita: per questa volta non si stia a servire da lui; ho piacere che si mortifichi un poco la sua impertinenza.
Già per domani non glielo fa certamente.
Per quest'anno io la consiglierei a servirsi di questo che ha in dosso, che finalmente poi è un abito buono; è vero che non è all'ultima moda, ma ne vedrà degli altri così.
FELIC.
Bene, bene, farò come dice lei.
(Che invidia! Non vorrebbe che le altre si vestissero come veste lei!) (da sé)
LEON.
Andate, licenziatelo, e ditegli che al mio ritorno lo farò avvisare.
(a Cricca)
CRI.
Sì signora.
(Ho capito: non sa come fare a pagarlo).
(da sé, e parte)
FELIC.
(Già or ora lo manderò a chiamare dalla bottega).
(da sé)
LEON.
(Non avrei mai creduto che mio fratello avesse così pochi denari).
(da sé)
FELIC.
Oh signora Leonide, le leverò l'incomodo.
LEON.
Ella non incomoda; favorisce.
FELIC.
Le auguro buon viaggio; si diverta bene, e avrò l'onore di riverirla in campagna.
LEON.
Se vuol venire da noi, è padrona.
FELIC.
Chi sa? Può essere che in passando mi prenda la libertà di scendere un poco da lei.
Serva umilissima, signora Leonide.
(partendo)
LEON.
Serva divota.
SCENA QUARTA
Il signor RIDOLFO e le suddette.
RID.
Oh signora Felicita, dove si va?
FELIC.
Levo l'incomodo alla signora Leonide.
Sono venuta a fare il mio debito.
RID.
Troppo gentile, signora.
Prima ch'io parta, sarò a riverirla, e a ricevere i suoi comandi.
LEON.
A che ora partiremo, signor Ridolfo?
RID.
L'ora non l'ho per anche fissata.
LEON.
Fissatela.
Ci vuol tanto? Prima avete detto dopo desinare.
Poi alla sera.
Volete aspettare la notte? Si può partire quando tramonta il sole.
RID.
Si partirà, quando si potrà.
(E se non vengono i mille scudi, non si partirà).
(da sé)
FELIC.
Diceva io alla signora Leonide, che se avessero differita la loro partenza a domani, avremmo avuto la fortuna d'andar insieme.
RID.
Davvero? Differiamola dunque.
(a Leonide)
LEON.
Non signore, non signore, non si può differire.
Si è mandato a dire agli altri che si partirà questa sera; volete che ci trattino da pazzi?
RID.
Niente, cara sorella, non vi confondete.
Manderò io da tutti: alcuni anzi avranno piacer di restare.
Questa sera vi è la commedia nuova.
FELIC.
Oh sì, questa sera vi è la commedia nuova.
LEON.
Pensate voi, se per una scioccheria simile s'ha a differire la nostra partenza.
RID.
Io ci ho tutta la mia passione per le commedie; restiamoci, cara sorella.
LEON.
Se volete restar voi, restateci; io me n'anderò con tutta la compagnia.
FELIC.
Lo sapete, signor Ridolfo, chi sia l'autore della commedia nuova di questa sera?
RID.
Non signora, non lo so.
Sento dire che sia un autore novello, che per la prima volta si espone.
FELIC.
Ora sappiate che quest'autore novello è il signor Grisologo, mio fratello.
RID.
Meglio.
Restiamoci, signora Leonide.
LEON.
Oh, oh, sarà una bella cosa davvero! (ironicamente)
FELIC.
Non ne ha più fatto; per altro sento dire che sia una bellissima cosa.
LEON.
Quasi quasi ci resterei; ma non è possibile, signor Ridolfo, bisogna andar per forza.
RID.
Perché per forza?
LEON.
Non lo sapete che questa mattina per tempo si sono mandati in villa tutti i letti, e che non vi è da dormire né per noi, né per la servitù?
RID.
Cospetto di bacco! non me ne ricordavo.
LEON.
E di più abbiamo il signor Roccolino, che da noi non si parte più.
RID.
Questo è un inconveniente.
(E se non si trovano i mille scudi, vuol esser bella!) (da sé)
FELIC.
(Che ricchi signori! Fanno passeggiare anche i letti!) (da sé)
LEON.
Ora vedete se necessariamente s'ha da partire.
RID.
Così è, signora Felicita, ci conviene partire.
FELIC.
Pazienza.
Sfortuna mia, questa.
RID.
Sfortuna mia grandissima, perdendo la bella sorte di una così amabile compagnia.
LEON.
La signora Felicita ci verrà a ritrovare in campagna.
RID.
Oh fosse vero! Non mi potrei bramare maggior contento.
Venga a stare un poco da noi.
FELIC.
Se mi sarà possibile, ci verrò volentieri.
RID.
Mi spiace infinitamente di perdere questa commedia.
LEON.
Il signor Grisologo la porterà con lui in campagna; e ci farà il piacere di leggerla.
FELIC.
Perché no? Questo si potrà fare.
RID.
Ma non si potrebbe sentirne qualche scena anticipatamente?
LEON.
Quando?
RID.
Oggi; prima che si parta.
FELIC.
Glielo dirò, e lor signori saranno tosto avvisati.
Serva umilissima.
LEON.
Sì sì, verremo a ridere un poco.
FELIC.
(Sguaiataccia! se non fosse per suo fratello, non ci metterei piede in casa sua).
(da sé, e parte)
SCENA QUINTA
Il signor RIDOLFO e la signora LEONIDE
LEON.
Che ne dite? Ha sentito che noi andiamo in campagna, si è messa al punto di volervi andare anche lei.
RID.
Ho piacere io di quest'incontro.
Fatele buona cera alla signora Felicita, a suo padre ed a suo fratello.
LEON.
Perché? Abbiamo forse bisogno di loro, noi?
RID.
Cara sorella, sapete che sono genti ricche; la signora Felicita avrà una grossa dote, e mi comoderebbe moltissimo se potessi io sposarla.
LEON
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