I MALCONTENTI, di Carlo Goldoni - pagina 10
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Mo che gran bella cossa! el patrù parla ingles,
Mi parli bergamasch, all'us del mi paes.
Lu no m'intend mi, mi no l'intendi lu
E pur se fa, se dis, di coss in tra de nu.
Qualchedun me dirà come fet, Arlecchin?
Respond che la virtù la sta in tel me codin.
Questo no l'è el demoni, questa no l'è magia:
L'è virtù del poeta: viva la poesia.
(parte)
RID.
Scioccherie sono queste...
ma mi preme il denaro, se mai si potesse avere.
Oh impegno, impegno, che cosa mi consigli di fare? Basta...
Il denaro lo prendo a censo.
Il rapitore è nipote, e gli ho protestato e riprotestato...
Ah, è meglio non ci pensare.
Se ci penso, la delicatezza d'onore non lo comporta.
(parte)
SCENA DECIMA
Il signor GERONIMO, il signor POLICASTRO e GEPPINO servitore, colla lanterna.
GERON.
V'ho detto, e vi torno a dire, che Grisologo è un ignorante.
POLIC.
Ed io vi dico, che ne sa più di voi.
GERON.
Nella commedia di questa sera ci sono più spropositi che parole.
POLIC.
Spropositi? Se scrive da Cicerone.
Scrive colla Crusca alla mano; dice paroloni stupendi.
GERON.
Paroloni fuor di proposito.
E poi, che pasticcio è quello che ha egli fatto? Si può far peggio?
POLIC.
Pasticcio chiamate una commedia fatta sul gusto di quelle di Sacca...
di Sacchi...
di Sacco...
GERON.
Di Sacchespir volete dire.
C'è tanta differenza, come dal giorno alla notte.
POLIC.
Chi sente voi, non ci sono altri dottori che voi, e io non so niente, io.
GERON.
Oh, voi sapete molto! Povera la vostra famiglia, se venisse regolata da voi.
POLIC.
Povera, povera, povera...
Geppino
GEPP.
Signore.
POLIC.
Ce ne sono più fichi?
GEPP.
Tre o quattro ancora.
POLIC.
Date qui.
GEPP.
Eccoli.
(gli dà il cartoccio)
POLIC.
Povera, povera, povera (mangiando fichi)
GERON.
Eccoli lì i due mestieri del signor Policastro.
Mangiare e dormire.
POLIC.
E voi taroccare, e contar quattrini.
SCENA UNDICESIMA
CRICCA e detti
CRI.
Signor padrone.
POLIC.
Che c'è?
CRI.
Non dico a lei, dico al signor Geronimo.
POLIC.
Eh già; non sono padrone io; non conto nulla io.
CRI.
Ho una cosa da dirle.
(a Geronimo)
GERON.
Ditela.
CRI.
Che non senta il signor Policastro.
(piano a Geronimo)
GERON.
Venite qui.
(lo tira in disparte)
POLIC.
Non ho da sentire io; non c'entro io; non conto nulla io.
(mangiando fichi)
CRI.
(Ho sentito strepito nella di lei camera.
Ho guardato per il buco della chiave, e ho veduto il signor Grisologo, unitamente al signor Ridolfo, che forzavano il di lei armadio).
(piano a Geronimo)
GERON.
(Cospetto di bacco! ) (parte subito)
POLIC.
Che c'è? dove va?
CRI.
Non so niente io.
(parte)
POLIC.
Va a vedere che cosa c'è.
(a Geppino)
GEPP.
Vuol restare qui solo?
POLIC.
Anderò ancor io a vedere...
No, è meglio che me ne vada nella mia camera...
(parte da un altro lato con Geppino)
SCENA DODICESIMA
Camera con lumi sul tavolino.
La signora FELICITA, poi GRILLETTA
FELIC.
Pagherei uno scudo a poter vedere la signora Leonide, e corbellarla un poco.
Ma la vedrò domani.
Spero che il signor Ridolfo tratterà meco da galantuomo; mi manterrà quello che mi ha promesso; ed io poi sarò obbligata di corrispondere...
GRILL.
Eccomi qui.
La signora Taddea la riverisce.
Le manda il tabarrino....
FELIC.
Non mi occorre altro.
Glielo potete riportare.
GRILL.
Ci è il cappellino, e l'ombrellino ancora.
FELIC.
Se vi dico che non mi occorre.
GRILL.
Non si va altro in villa?
FELIC.
Per ora no.
Domattina riportate le robe sue alla signora Taddea, ditele che la ringrazio.
Sentite, potete dirle che ho mandato a prendere queste cose per mostra, e che mi faccio un tabarrino nuovo, un cappellino nuovo ed un parasole.
GRILL.
Sì signora, ho capito.
Ma che vuole dire, che non si va in campagna?
FELIC.
Vuol dire che non va più nemmeno la signora Leonide.
GRILL.
Certo, egli è vero.
Non ci va più.
Passando ora per la sala terrena, l'ho sentita gridar come un'aquila.
Lo sa ella, signora padrona, il perché non va la signora Leonide?
FELIC.
Lo so certo.
Il signor Ridolfo, che ha della stima di me, si è impegnato meco di non partire, se non siamo in grado di partir seco.
GRILL.
Oh signora mia, ella è male informata.
FELIC.
Come! non sarà vero che il signor Ridolfo abbia della premura per me?
GRILL.
Sarà verissimo; ma non è questo il motivo che lo trattiene.
FELIC.
Che altro dunque lo può arrestare?
GRILL.
Sono stata informata di tutto, ora in passando, dalla cameriera della signora Leonide.
Dice così, che il signor Ridolfo è circondato da' creditori, e se non li paga prima d'andarsene, gli succederanno de' guai.
FELIC.
Oh, questa è bella davvero! Ora vorrei che mi capitasse alle mani la signora Leonide.
Ci ho tanto gusto, Grilletta, quanto se andassi ora in villa, e credo ancora di più.
GRILL.
Affé, mi pare...
è dessa senz'altro.
(guardando tra le scene)
FELIC.
Chi?
GRILL.
La signora Leonide.
FELIC.
Oh bellissima! viene a tempo.
GRILL.
Vado a ripor queste robe.
Dica forte, che sentirò ancor io.
(parte)
SCENA TREDICESIMA
La signora FELICITA, poi la signora LEONIDE, poi GRILLETTA
FELIC.
Pare che il demonio l'abbia mandata a posta.
LEON.
Compatisca, signora Felicita, è qui mio fratello?
FELIC.
Non l'ho veduto, signora.
LEON.
Dove diamine si è cacciato? In casa non si trova: mi è stato detto ch'egli sia col signor Grisologo.
FELIC.
Io non ho veduto né l'uno, né l'altro.
LEON.
Mi vuol far disperare questo mio fratello.
FELIC.
Quando va di fuori, signora Leonide?
LEON.
Tutto è pronto, e non trovasi il signor Ridolfo.
FELIC.
Il signor Ridolfo non sarà lontano.
Ma mi dispiace darle una cattiva nuova.
LEON.
Che vuol dire, signora?
FELIC.
Vuol dire, che il signor Ridolfo per ora non anderà più in villa, e a lei toccherà star qui, poverina.
LEON.
Come! dice davvero? Che cosa mai gli è accaduto?
FELIC.
Credo che sia per una picciola difficoltà.
LEON.
Ma perché mai?
FELIC.
In confidenza, in segno di vera amicizia; già nessuno ci sente.
Credo sia perché gli manchino de' quattrini.
LEON.
Mi maraviglio, non può essere.
Casa nostra non è in questo stato; s'ingannerà, signora.
FELIC.
Non occorre farsene maraviglia.
A tutti qualche volta può mancare il denaro.
E guai a chi manca.
Casa sua, per esempio, paga tutti con tanta pontualità; e una sol volta che non ha potuto pagare il sarto monsieur Lolì, dice cose colui, che meriterebbe di essere bastonato.
Fa bene a non servirsi più da lui, a mortificarlo.
LEON.
(La capisco l'impertinente.
Ma giuro al cielo, mi saprò vendicare).
(da sé)
FELIC.
Grilletta.
(chiama)
GRILL.
Signora.
(di dentro)
FELIC.
Portami quell'abitino da viaggio.
GRILL.
La servo subito.
(di dentro)
LEON.
Un abito fatto sì presto?
FELIC.
Lo vedrà.
Non è finito del tutto.
GRILL.
Eccolo, signora.
(porta l'abito)
LEON.
Oh oh, dove l'ha preso? In ghetto? (ridendo)
FELIC.
Non signora, le donne lo lavorano in casa.
LEON.
Un bell'abito nuovo di pezza vecchia!
FELIC.
Almeno non farò aspettare né il mercante, né il sarto.
LEON.
E perché se l'è fatto quell'abitino?
FELIC.
Per andar in campagna.
LEON.
Quando?
FELIC.
Presto, prestissimo.
LEON.
In confidenza, in segno di vera amicizia; già nesuno ci sente.
Come vuol ella andar in campagna, se il signor Grisologo non ha avuto i dodici zecchini della commedia?
GRILL.
(Uh povera me! ) (da sé)
FELIC.
Come! che dic'ella de' dodici zecchini?
LEON.
Domandatelo a Grilletta, che lo sa meglio di me.
FELIC.
Temeraria! come lo potete voi dire? (a Grilletta)
GRILL.
Vado a rimetter l'abito nel guardarobe.
(parte)
LEON.
Incartatelo, che non venga nera la guarnizione.
(verso Grilletta)
FELIC.
Credo ch'ella lo saprà, signora, che in casa nostra si vive d'entrata.
LEON.
E con tante ricchezze non le fanno un abito con un poco di civiltà.
SCENA QUATTORDICESIMA
Il signor GERONIMO e dette.
GERON.
Che si fa qui, signore mie garbatissime?
LEON.
Io cerco di mio fratello, signore.
GERON.
Il suo signor fratello so io dov'è.
Non è molto di qua lontano.
LEON.
Mi faccia il piacer d'avvisarlo che tutto è in pronto, che non si aspetta che lui.
GERON.
Ha qualche cosa che fare ora; non potrà venir così subito.
LEON.
E che cosa fa egli? si può sapere?
GERON.
Lo saprà da qui a poco; ora non posso dirglielo.
LEON.
Son curiosa ben di saperlo.
FELIC.
Vi è qualche novità, signore? (a Geronimo)
GERON.
Vi sono delle bellissime novità di lui e di vostro fratello.
(a Felicita)
FELIC.
Son curiosa anch'io di saperlo.
GERON.
Se lor signore vogliono aver il piacere di saper tutto, favoriscano ritirarsi per qualche poco, e si chiariranno perfettamente.
LEON.
Dica, signore, crede ella che questa notte si vada altro in campagna? (a Geronimo)
GERON.
Ho paura di no.
LEON.
Vogliamo star bene.
Si dormirà sulle seggiole.
(entra in una camera)
FELIC.
(Non ci voglio stare con lei.
Ho troppa vergogna ch'ella abbia saputo dei dodici zecchini).
(entra in un'altra camera)
SCENA QUINDICESIMA
Il signor GERONIMO, poi CRICCA
GERON.
Cricca.
CRI.
Signore.
GERON.
Avete trovato il signor Policastro?
CRI.
Sì signore, è qui di fuori in sala.
GERON.
Fatelo venire.
Ditegli che ho una cosa da comunicargli.
Hanno tentato d'uscire dall'altra porta i due manigoldi?
CRI.
Non ho sentito niente alla porta.
Lavorano ancora intorno all'armadio.
GERON.
Bene dunque.
Tenete queste chiavi.
Aprite per di là, ed entrate a drittura.
Essi resteranno sorpresi.
Voi fingete di volerli assistere; e dando loro a credere di salvarli, aprite quest'altra porta, e conduceteli per di qua.
Portatevi bene, e ci sarà per voi un paio di scarpe.
CRI.
Lasci fare a me, che quando voglio, so far le cose come vanno fatte.
(parte)
SCENA SEDICESIMA
Il signor GERONIMO, poi il signor POLICASTRO
GERON.
Ora spero di condurre la cosa bene, senza strepiti.
POLIC.
Siete voi che mi vuole?
GERON.
Sono io, che disdicendomi del male che ho detto di vostro figlio, desidero ora che siate a parte di un frutto novello della di lui virtù.
POLIC.
Lo toccherete con mano, che Grisologo è virtuoso.
GERON.
Virtuosissimo anzi, non c'è dubbio.
Eccolo che egli viene da quella stanza.
Non ci facciamo vedere così presto.
(si ritira un poco col signor Policastro)
SCENA DICIASSETTESIMA
Il signor GRISOLOGO, il signor RIDOLFO e CRICCA dalla porta che s'apre; e detti.
CRI.
Vengano per di qua, che non saranno veduti.
GRIS.
Troppo tempo abbiamo perduto.
RID.
E quel ch'è peggio, non si è fatto niente.
GERON.
Dove, dove, signori miei?
GRIS.
(Si cava il cappello e resta confuso)
RID.
Servitor umilissimo.
CRI.
(Il tempo non ha loro servito.
Hanno fatto qualche danno all'armadio; ma non l'hanno aperto).
(piano a Geronimo)
RID.
Con licenza di lor signori.
(vuol partire)
GERON.
Favorisca trattenersi un momento.
GRIS.
(Povero me! non so in che mondo mi sia).
(da sé)
RID.
Signore, se mi vedete uscire da quella stanza...
GERON.
Lasciate parlare a me, signore.
Quando toccherà a voi, lo farete.
Signor Policastro, ecco il vostro degno figliuolo, di cui ho da farvi conoscere un'altra bella virtù.
Sapete voi che cosa faceva egli entro di quella camera? Tentava di aprire il mio armadio per prendere il denaro; ed il degnissimo signor Ridolfo gli serviva di scorta.
POLIC.
Io non so niente.
Io non c'entro per niente.
RID.
Io non l'ho consigliato a farlo...
GERON.
Lo credo benissimo.
GRIS.
Io finalmente voleva prendere...
GERON.
Sì nipote carissimo, so che volete dirmi; prevedo le vostre oneste difese, e voglio io contro di me medesimo far per voi l'avvocato.
Io finalmente (intendevate dirmi) non voleva prendere che roba mia.
Il signore zio maneggia le entrate della casa, che tiene rigorosamente serrate.
Noi non siamo padroni di niente.
Se si vuol un divertimento, non si può avere; se si vuol andar in villa, non si può andare.
Ed io vorrei andare in campagna con mia sorella, col mio signor padre; ed in mancanza d'assegnamenti, non faceva che prendere colle mie mani quello che col signor zio mi sarebbe stato barbaramente negato.
Per farlo, non aveva coraggio io solo, ho pregato l'amico; l'amico, persuaso delle mie ragioni, mi ha assistito; ma siamo due galantuomini, due persone oneste, incapaci di prendere quello che non è nostro, incapaci di una furfanteria.
Eh? dico bene? sono queste le difese vostre? quelle del signor Ridolfo? quelle del signor Policastro?
POLIC.
Io non so niente.
Non c'entro per niente, io.
GERON.
Oh, sentite ora come all'avvocato vostro risponde il mio.
Finalmente non volevate prendere che roba vostra.
Come sapete voi gl'interessi di questa casa, voi che col bell'esempio di vostro padre trascurate d'interessarvene, per non soccombere alla fatica di un cotal peso? Chi vi assicura, che le rendite annuali vostre bastino alle spese quotidiane della famiglia, onde possiate dir francamente che quegli avanzi sian vostri? No, che vostri non sono; poiché derivano essi dall'industria mia, da' miei traffichi particolari, e son frutti onorati de' miei sudori.
Sono vostri, egli è vero, in quanto l'amor mio a vostro pro li destina; ma non per farne mal uso, non per convertirli vilmente in passatempi, in gozzoviglie, in villeggiature.
Evvi una figliuola da collocare.
Voi avete bisogno di un onorato impiego per mantenervi.
È in necessità vostro padre di assicurarsi il pane della vecchiaia.
Il mio scrigno è il vostro deposito; ma voi insidiandolo barbaramente, siete un figlio snaturato, un ingrato nipote, un nemico del vostro sangue medesimo.
Il signor Ridolfo, persuaso delle vostre ragioni, vi prestava amorosa assistenza.
Lo crederei fors'anche, se non sapessi di certo esser egli in grado di pretendere da voi il prezzo dell'amicizia, per rimediare ai disordini della pessima sua condotta.
I mille scudi negati onoratamente dal zio, si procurano dal nipote.
Non si consiglia a rubare, ma gli si tien mano perché lo faccia; si fomenta la gioventù, si dà scandalo ai più pusillanimi, si eccita col mal esempio, e poi si potrà dir francamente: siamo due galantuomini, siamo persone oneste, incapaci di commettere una furfanteria? Le persone onorate non antepongono alla propria riputazione il piacere, il chiasso, il divertimento.
È un'azione onorata quest'ultima che fatta avete nella camera di un uomo che stenta per una famiglia non sua, che aumenta per il bene de' suoi nipoti, che ama i nipoti suoi, come se fossero di lui figliuoli? Vergognatevi.
(a Grisologo) Vergognatevi.
(a Ridolfo) Vergognatevi.
(a Policastro) Il mio avvocato ha ragionato così.
POLIC.
Vergognatevi a me pure? Come c'entro io?
GERON.
Gli avvocati hanno dette le vostre e le mie ragioni.
Sentite ora il giudice, che pronuncia la sua sentenza.
Ma questo giudice, sapete voi chi egli sia, nipote mio? Consolatevi, egli è l'amore, non è lo sdegno.
E buon per voi, signor Ridolfo imprudentissimo, incauto, buon per voi, che associato nel delitto di mio nipote, sarete a parte della sentenza dolcissima che gli destino.
Sì, figlio, il mio amore per questa volta vi assolve.
Non voglio perdervi, non voglio abbandonarvi per ora.
Scuso un primo delitto; ma giurovi sull'onor mio, che punirei severamente il secondo.
Ed il castigo che vi preparo, è il più fatale che avvenir vi potesse: è l'abbandono all'arbitrio di voi medesimo, alla tutela d'un miserabile genitore.
POLIC.
Come c'entro io? Non so niente io.
GERON.
Deh, movetevi a compassione di voi medesimo se conoscete che io non la meriti; se grato non volete essere ad uno zio che vi ama, che vi assiste, che vi benefica, siatelo alla provvidenza del cielo.
Non la stancate, figliuolo mio, non l'irritate; che s'ella con voi si sdegna, ahimè! s'ella vi scorge ingrato, leverà a me il piacere che ho di soccorrervi, e malgrado le mie diligenze, sarete un dì miserabile; mendicherete quel pane che ora vi sembra amaro, perché vi vien dato con parsimonia da chi vi ama, da chi vi ama di cuore.
GRIS.
Ah, signore zio, eccomi a' vostri piedi a domandarvi perdono.
RID.
Per carità, signore, vi raccomando la mia riputazione.
POLIC.
Caro fratello, non ci abbandonate.
(piangendo forte)
SCENA DICIOTTESIMA
La signora FELICITA, poi la signora LEONIDE; e detti.
FELIC.
Signore zio, ho sentito tutto; siate benedetto; mi raccomando a voi; se voi non mi maritate, non v'è nessun che ci pensi.
(piangendo)
LEON.
E così, signor Ridolfo, quando si parte?
RID.
Sorella carissima, per ora non si parte più.
FELIC.
(L'ho caro).
(da sé)
RID.
Il signor Geronimo mi ha toccato il cuore, facendomi toccar con mano la verità.
I denari che destinati avevo per la villeggiatura, pagheranno una parte de' miei creditori; e per il resto, se il signor Geronimo non mi aiuta, io non so più come tirare innanzi.
GERON.
Non ho difficoltà di prestarvi mille scudi, e anche più se vi occorrono, purché li veda bene impiegati.
Ma per andare in villa? piuttosto che pagar i debiti con quel denaro che avete serbato per i cavalli, per i trattamenti, per il gioco, per la villeggiatura? Avrei rimorso, se lo facessi.
Sono amico de' galantuomini, non nego un piacere a chi mi par che lo meriti; ma non contribuisco a pazzie, a disordini, a vanità.
FELIC.
Signora Leonide, che vuol ella fare? Ci goderemo in città con più comodo.
LEON.
Una bellissima novità.
Che diranno i convitati da noi?
RID.
Torneranno alle case loro.
LEON.
Non mi sarei creduta una cosa simile.
FELIC.
È un peccato con quel bell'abitino da viaggio.
LEON.
Mandi a chiamare monsieur Lolì, che gliene faccia uno compagno.
GERON.
Figliuoli miei carissimi, signori amatissimi, mi spiace infinitamente vedervi tutti essere malcontenti; però voglio procurare di confortarvi, voglio farvi toccar con mano, che sono di buon cuore per tutti...
SCENA DICIANNOVESIMA
Il signor ROCCOLINO e detti.
ROCC.
Signori miei gentilissimi, scusino, perdonino, mi compatiscano, se vengo arditamente ad intendere quando si principia a trottare.
RID.
Per ora, signore, non si va più.
ROCC.
Non si va più in campagna? (a Leonide)
LEON.
Certamente; per causa di certo affare, non si va più.
Or ora, tornando in casa, lo saprà il signor Mario pure.
ROCC.
Resteremo qui dunque?
LEON.
Resteremo qui.
ROCC.
Me ne rallegro infinitamente.
RID.
Vostra signoria può ritornarsene a casa.
ROCC.
A casa ho da ritornare? (a Leonide)
LEON.
Certamente; noi non abbiamo comodo per servirla.
ROCC.
Ho da ritornare a casa? (a Ridolfo)
RID.
Così è.
ROCC.
Me ne...
dispiace infinitamente.
LEON.
Domani può favorire a pranzo da noi.
ROCC.
Sarò a servirla.
GERON.
Quel signore, per quel ch'io sento, è di quelli che va in campagna e in città onorando le mense or di questo, or di quello.
ROCC.
Chi è cotesto signore? (a Ridolfo)
RID.
Il signor Geronimo, zio del signor Grisologo.
ROCC.
Ella ha un bravo nipote.
Una bella testa.
Una testa originale massiccia.
Gran bei versi! gran belle cose! Me ne rallegro infinitamente, me ne rallegro infinitamente.
(parte)
GERON.
Nipote mio, adulatori, scrocchi, ignoranti.
Questi son quelli che vi lodano, che vi acciecano, e che vi faranno impazzire, se li ascolterete più oltre.
Torno al proposito di prima: siete malcontenti, figliuoli miei? Vo' procurare di rallegrarvi.
Nipote mia, voi avrete diecimila scudi di dote.
So che inclinereste al signor Ridolfo, ed egli inclinerebbe a voi.
Muti vita; lo faccia conoscere, e non sarò contrario ai desideri vostri.
Mio nipote lasci il fanatismo delle commedie; e avrà un impiego fra pochi giorni, onorifico, lucroso, e di non molta fatica.
Mio fratello sarà contento di vedere ben collocati i figliuoli; e la signora Leonide, che è senza padre, si assicuri, per l'interesse che averò della sua famiglia, che potrà in me ritrovarlo, se con una savia rassegnazione si lascierà condurre da' miei consigli; ma lasciamo da parte le vanità, le grandezze.
Piace a voi la campagna? Andremo a goderla insieme in altro tempo, in altro sito, con altra miglior maniera, con parsimonia, moderazione e cervello.
Siete più malcontenti? Alla cera mi par di no; mi par di vedervi tutti rasserenati.
GRIS.
Ah signore zio, compatitemi.
Voi mi consolate davvero, e se mi assicurate dell'amor vostro, son contentissimo.
RID.
Ed io non posso esser più lieto di quel che sono, se mi recate una sì soave speranza.
Cercherò di farmi degno di conseguirla; e ne vedrete gli effetti.
FELIC.
Caro signore zio, capisco che dite bene.
Voglia il cielo che mio fratello v'ascolti.
Di me non temete: son contentissima.
POLIC.
Fratello...
fratello...
Mi fate piangere per l'allegrezza.
LEON.
Anch'io sono quanto gli altri, e più degli altri, contenta.
Voglia il cielo che Malcontenti non sieno i spettatori di questa nostra commedia, ma piuttosto vogliano essi renderci consolati con qualche segno della loro allegrezza.
Fine della Commedia.
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