I DUE GEMELLI VENEZIANI, di Carlo Goldoni - pagina 2
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Io non credo arrogante la mia franca asserzione, quando ricordomi delle risa da cui si smascellavano gli spettatori universalmente, sul momento delle sue agonie e de' suoi ultimi respiri.
Peraltro esser può che, in leggendola, il ridicolo che vi è non risalti tanto, quanto fece animato dalla grazia del valoroso Comico.
Ma la Commedia è Poesia da rappresentarsi, e non è difetto suo che ella esiga, per riuscir perfettamente, de' bravi Comici che la rappresentino, animando le parole col buon garbo d'un'azione confacevole; checché ne possan dir i severi Critici, egli è certo che tutti coloro i quali han veduto rappresentar la morte di Zanetto, han confessato esser ella uno de' pezzi più ridicoli e nuovi della Commedia.
PERSONAGGI
Il DOTTORE BALANZONI avvocato bolognese in Verona;
ROSAURA creduta sua figlia, poi scoperta sorella dei due gemelli;
PANCRAZIO amico del Dottore e suo ospite;
ZANETTO gemello sciocco;
TONINO gemello spiritoso;
LELIO nipote del Dottore;
BEATRICE amante di Tonino;
FLORINDO amico di Tonino;
BRIGHELLA servo in casa del Dottore;
COLOMBINA serva in casa del Dottore;
ARLECCHINO servo di Zanetto;
TIBURZIO orefice, che parla;
BARGELLO che parla;
Uno staffiere di Beatrice, che non parla;
Birri;
Servitori.
La Scena si rappresenta in Verona.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera di Rosaura.
ROSAURA e COLOMBINA, tutte due alla tavoletta, che si assettano il capo.
ROS.
Signora Colombina garbata, mi pare che l'obbligo suo sarebbe, prima di mettersi in tante bellezze, di venire ad assettare il capo alla sua padrona.
COL.
Signora, l'obbligo mio l'ho fatto: vi sono stata dietro due ore ad arricciarvi, frisarvi e stuccarvi: ma se poi non vi contentate mai, e vi cacciate per dispetto le dita ne' capelli, io non vi so più che fare.
ROS.
Guardate mo che presunzione! Voler lasciar me arruffata, per perdere il tempo intorno a se medesima.
COL.
E che! non ho io forse de' capelli in capo, come ne avete voi?
ROS.
Sì, ma io son la padrona, e tu sei la serva.
COL.
Oh, di grazia, non mi fate dire.
ROS.
E bada a durare.
Or ora verrà lo sposo che si attende a momenti, e mi troverà in questa maniera.
COL.
Anch'io, signora, aspetto lo sposo, e mi preme di comparire.
ROS.
E ti vuoi paragonare con me, sfacciatella che sei?
COL.
Ehi, signorina, non mi perdete il rispetto, sapete, che ve ne pentirete.
ROS.
Impertinente, levati, o ti farò levare con un bastone.
COL.
Poter del mondo! a me un bastone? (s'alza)
ROS.
Così rispondi alla padrona? Disgraziata, lo dirò a mio padre.
COL.
Che padrona! Che padre! Eh, signorina, ci conosciamo.
ROS.
E che vorresti dire, bricconcella?
COL.
Alto, alto con questi titoli, che se mi stuzzicherete, vomiterò ogni cosa, sapete.
ROS.
Via, parla; che puoi tu dire, bugiarda?
COL.
Posso dire...
basta.
Se ho taciuto finora, adesso non voglio tacere.
SCENA SECONDA
DOTTORE e dette.
DOTT.
Cos'è questo rumore? Cos'è stato? Che cosa avete?
ROS.
Ah signor padre! mortificate colei.
Ella m'insulta, mi maltratta, mi perde il rispetto.
DOTT.
Come? Così tratti una mia figliuola? (a Colombina)
COL.
Eh, signore, so più di quello che v'immaginate.
Mia madre m'ha detto tutto, sapete.
DOTT.
(Ah donna senza giudizio, se fosse viva, la vorrei scorticare).
(da sé) (Colombina, per amor del cielo, non dir nulla di quello che sai.
Sta cheta, e farò tutto per te e per i tuoi vantaggi).
(piano a Colombina)
COL.
(Oh certo, tacerò, e mi lascerò maltrattare).
(piano al Dottore)
ROS.
Dunque, signor padre...
DOTT.
Orsù, oggi si aspetta il vostro sposo, il signor Zanetto Bisognosi, figlio di quel famoso mercante veneziano che chiamavasi Pantalone, il quale è stato allevato a Bergamo da suo zio Stefanello, ed è uno de' più ricchi mercanti di Lombardia.
COL.
Ricordatevi che anch'io mi ho a maritare con il suo servo.
Così m'avete promesso.
DOTT.
(Benissimo, lo farò, ti contenterò: purché tu taccia) (piano a Colombina)
COL.
Fate bene, se volete ch'io taccia, a turarmi la bocca col matrimonio.
DOTT.
Quant'è, Rosaura, che non hai veduto il signor Pancrazio?
ROS.
Oh, lo vedo spessissimo.
DOTT.
Egli è un grand'uomo di garbo!
ROS.
Certo che sì; non cessa mai di darmi de' buoni consigli.
DOTT.
Fin ch'io vivo, non lo lascio uscire di casa mia.
ROS.
Fate bene.
È un uomo che può molto giovarvi.
COL.
Quanto a me, con vostra buona grazia, lo credo un bel birbone.
DOTT.
Taci, mala lingua.
Che motivo hai tu di parlare così?
COL.
So io quel che dico.
Non mi voglio spiegare.
SCENA TERZA
BRIGHELLA e detti.
BRIGH.
Sior padron, siora padrona, è arrivado in sto ponto el sior Zanetto da Bergamo; l'è smontà da cavallo, e l'è alla porta che el parla con uno che l'ha compagnà.
DOTT.
Sia ringraziato il cielo.
Figliuola mia, vado in persona a riceverlo, e lo conduco subito a visitarti.
(parte)
SCENA QUARTA
ROSAURA, COLOMBINA e BRIGHELLA
ROS.
Dimmi un poco, Brighella, tu che hai veduto il signor Zanetto, che ti pare di lui? È bello? È grazioso?
BRIGH.
Ghe dirò siora; circa alla bellezza no gh'è mal: l'è zovene, e el pol passar; ma, per quel poco che ho visto, el me par molto gnocco.
Nol saveva gnanca da che banda smontar da cavallo.
Al viso el someggia tutto a un altro so fradello zemello, che gh'ha nome Tonin, el qual sta sempre a Venezia, dove ho avudo occasion de conosserlo: ma se el ghe someggia in tel viso, nol ghe someggia in tel resto, perché quello l'è spiritoso e disinvolto, e questo el par un zocco taggià colla manera.
ROS.
Questa relazione non mi dà gran piacere.
COL.
Col signor Zanetto doveva venire un certo Arlecchino suo servitore; è egli venuto? (a Brighella)
BRIGH.
No l'è ancora vegnù; ma el s'aspetta col bagaglio del so patron.
COL.
Me ne dispiace.
Ho curiosità di vederlo.
BRIGH.
Lo so, lo so che l'è destinà al possesso delle vostre bellezze.
COL.
Se avete invidia, crepate.
(parte)
SCENA QUINTA
ROSAURA e BRIGHELLA
ROS.
Narrami, o Brighella, come hai conosciuto questa famiglia in Venezia, e dimmi per qual cagione il signor Zanetto sia stato allevato a Bergamo.
BRIGH.
Mi serviva in Venezia un mercante ricchissimo, amigo intrinseco del fu sior Pantalon dei Bisognosi, padre de sti do fradelli zemelli.
El sior Pantalon, oltre de questi, l'aveva anca una femena, e questa el l'ha mandada a Bergamo a un so fradello, per nome chiamado Stefanello, ricco e senza eredi, dove prima l'aveva mandà anca el sior Zanetto.
Ho sentio a dir, praticando in quella casa, che la femena s'aveva perso; che a Bergamo no l'è arrivada, e che la s'è smarrida, non se sa come, per viazo; e mai più i ghe n'ha avudo nova: e questo è quanto ghe posso dir circa alle persone de sta fameggia.
In quanto po al grado e alle facoltà, la casa Bisognosi in Venezia fa bona fegura in Piazza, e la passa per una delle più comode tra i marcanti.
ROS.
Tutto va bene, ma mi rincresce che il signor Zanetto non sia spiritoso quanto il fratello.
BRIGH.
Eccolo che el vien in compagnia col patron.
La lo esamina, e la vederà se ho dito la verità.
(parte)
SCENA SESTA
ROSAURA, poi il DOTTORE e ZANETTO
ROS.
Al viso non mi dispiace.
Può essere che non sia tanto sciocco, quanto me l'ha dipinto Brighella.
DOTT.
Venga, venga liberamente, senza soggezione.
Figlia mia, ecco il signor Zanetto.
ZAN.
Siora novizza(1), la reverisso.
ROS.
Signore, io gli sono umilissima serva.
ZAN.
(Ah, la xe serva! Bondì sioria).
Digo, sior missier(2), la novizza dov'ela?
DOTT.
Eccola qui: questa è mia figlia, questa è la sposa.
ZAN.
Mo se la m'ha dito che la xe serva.
DOTT.
Eh, non signore, ha detto gli sono umilissima serva, per complimento, per cerimonia.
ZAN.
Ho inteso; scomenzemo mal.
DOTT.
Per qual ragione?
ZAN.
Perché in tel matrimonio no ghe vuol né busie, né cerimonie.
ROS.
(È veramente sciocco, ma pure non mi dispiace).
(da sé)
DOTT.
Eh via, non abbadi a queste inezie.
ROS.
Signor Zanetto, assicuratevi ch'io sono sincera, che non so simulare, e che avrò per voi tutta la stima ed il rispetto.
ZAN.
Tutte cosse che no val un figo(3).
ROS.
Ma forse non aggradite queste mie espressioni?
ZAN.
Siora sì, come che la vol.
ROS.
Dispiace agli occhi vostri il mio volto?
ZAN.
Alle curte.
Mi son vegnù a Verona per maridarme, e aspetto Arlecchin da Bergamo coi abiti, co le zogie e coi bezzi.
ROS.
E bene, non sono io destinata per vostra sposa?
ZAN.
Ma che bisogno ghe xe de tanti squinci e quindi? La me tocca la man, e la xe fenia.
ROS.
(Che temperamento curioso!) (da sé)
DOTT.
Ma, caro signor genero, vuol ella fare il matrimonio così ruvidamente? Dica qualcosa alla sposa, le parli con più di buona grazia ed amore.
ZAN.
Oh sì, disè ben.
Son tutto, tutto vostro.
Me piase quel bel visetto.
Vorave...
Caro sior missier, feme un servizio.
DOTT.
Cosa comanda?
ZAN.
Andè via de qua, perché me dè soggezion.
DOTT.
Benissimo, la servirò.
Io sono un uomo compiacentissimo.
(Figlia mia, abbi giudizio: è un poco scioccherello, ma ha de' quattrini).
(piano a Rosaura) Signor genero, la riverisco.
(Guardate a chi dona la sorte i suoi favori!) (da sé, e parte)
SCENA SETTIMA
ROSAURA e ZANETTO
ZAN.
Sioria vostra(4).
(al Dottore) E cussì, siora novizza, nualtri semo mario e muggier(5).
ROS.
Così spero.
ZAN.
Donca cossa femio qua impalai(6)?
ROS.
E che cosa vorreste fare?
ZAN.
Oh bella! mario e muggier.
ROS.
Marito e moglie lo saremo, torno a dir, così spero: ma ora il matrimonio non è ancora fatto.
ZAN.
No? Mo cossa ghe vol per far el matrimonio?
ROS.
Vi vogliono molte cerimonie e solennità.
ZAN.
Parlemose schietto.
Me accetteu per vostro mario?
ROS.
Sì, signore, vi accetto.
ZAN.
E mi ve accetto per mia muggier.
Cossa ghe xe bisogno de altre cerimonie? Questa xe la più bella cerimonia del mondo.
ROS.
Voi dite bene.
Ma qui non si pratica in questa guisa.
ZAN.
No? Torno a Bergamo.
Torno alle montagne, dove son stà arlevà.
Là, co se vol ben, xe fatto tutto.
Co do parole se fa un matrimonio: e tutte le cerimonie le se fa tra mario e muggier.
ROS.
Vi torno a dire che qui vi vogliono altre solennità.
ZAN.
Ma ste solennità quando fenirale?
ROS.
Ci vogliono almeno due giorni.
ZAN.
Oh, figureve se aspetto tanto!
ROS.
Siete molto furioso.
ZAN.
O femo subito, o no femo gnente.
ROS.
Ma questo è un disprezzo che fate della mia persona.
ZAN.
Ghe disè desprezzo a voler concluder el matrimonio? Saveu quante putte(7) che vorave esser desprezzae in sta maniera?
ROS.
Ma che diavolo! non potete aspettar un giorno?
ZAN.
Ma disè, cara vu: ste solennità e ste cerimonie no le se poderave far dopo el matrimonio? Concludemo le cosse tra de nu, e po andemo drio a cerimoniar anca un anno, che no ghe penso gnente.
ROS.
Eh, signor Zanetto, mi pare che vi vogliate prender divertimento di me.
ZAN.
Seguro che me vorave devertir, ma col matrimonio.
ROS.
Lo farete a suo tempo.
ZAN.
Dise el proverbio: chi ha tempo, no aspetta tempo.
Via, no me fe più penar.
(s'accosta, e vuol toccarle la mano)
ROS.
Ma questa poi è un'impertinenza.
ZAN.
E via, che cade(8)!
ROS.
Abbiate giudizio, vi dico.
ZAN.
Siben, giudizio.
(vuol abbracciarla, ella gli dà uno schiaffo)
ROS.
Temerario!
ZAN.
(Senza parlare si ferma attonito, si tocca la guancia.
Guarda in viso Rosaura, fa il motto dello schiaffo, la saluta, e alla muta correndo parte)
SCENA OTTAVA
ROSAURA, poi PANCRAZIO
ROS.
Poter del mondo! che uomo improprio! che giovine sfacciato! non mi sarei mai creduta una tale temerità in colui, che sembra a prima vista uno sciocco.
Ma appunto questi guarda basso sono quelli che ingannano più degli altri.
Noi altre donne mai non ci dovremmo trovare da sola a solo cogli uomini.
Sempre s'incontra qualche pericolo.
Me l'ha detto tante volte quel buon uomo del signor Pancrazio...
Ma eccolo che viene; veramente nel di lui volto si vede a chiare note la bontà del suo cuore.
PANC.
Il ciel vi guardi, fanciulla; che avete, che vi veggo così alterata?
ROS.
Oh, signor Pancrazio, se sapeste cosa mi è accaduto!
PANC.
Che mai, che mai! Palesatemi il tutto con libertà.
Già in me vi potete sicuramente fidare.
ROS.
Ve lo dirò, signore: sapete già che mio padre mi ha destinata in isposa ad un Veneziano.
PANC.
(Così non lo sapessi!) (da sé)
ROS.
Saprete ancora ch'egli, partitosi da Bergamo, oggi è arrivato in questa città.
PANC.
(Così si fosse rotto l'osso del collo).
(da sé)
ROS.
Ora sappiate che costui è uno sciocco, ma però temerario.
PANC.
La temerità è propria di gente sciocca.
ROS.
Mio padre mi fece subito abboccare con esso lui.
PANC.
Male.
ROS.
Poi seco lui ancora mi lasciò sola.
PANC.
Peggio.
ROS.
Ed egli...
PANC.
Già me l'immagino.
ROS.
Ed egli con parole indecenti...
PANC.
Ed anco tenere, non è così?
ROS.
Sì, signore.
PANC.
E con qualche atto immodesto?
ROS.
Per l'appunto.
PANC.
Seguite; che avvenne?
ROS.
Mi provocò a segno ch'io gli diedi uno schiaffo.
PANC.
Oh, brava, oh saggia, oh esemplare fanciulla! oh degna d'esser descritta nel catalogo dell'eroine del nostro secolo! Non ho lingua bastante per lodare la savia risoluzione del vostro spirito.
Così si trattano cotesti insolenti; così si mortificano questi irriverenti del sesso.
Oh mano eroica, oh mano illustre e gloriosa! Lasciate che per riverenza ed ammirazione imprima un bacio su quella mano, che merita gli applausi del mondo tutto.
(le prende la mano, e la bacia teneramente)
ROS.
Merita dunque la vostra approvazione quest'atto del mio risentimento?
PANC.
Pensate! e in che modo! Al giorno d'oggi è un prodigio trovar una giovane, che per modestia dia uno schiaffo ad un amante.
Seguite, seguite sì bel costume.
Avvezzatevi a disprezzare la gioventù, dalla quale non potete sperare che mali esempi, infedeltà e strapazzi; e se mai il vostro cuore risolvere si volesse ad amare, cercate un oggetto degno del vostro amore.
ROS.
Ma dove ed in chi dovrei cercarlo?
PANC.
Oh, Rosaura, per ora non posso dirvi di più.
Penso a voi ed al vostro bene più di quello che vi credete; basta, lo conoscerete.
ROS.
Signor Pancrazio, sono certa della vostra bontà.
Siete troppo interessato per i vantaggi di questa casa, per non isperare da voi ogni più segnalato favore.
Però, se devo dirvi la verità, il signor Zanetto non mi dispiace, e se non fosse così sfacciato, forse forse...
PANC.
Oibò, oibò, chiudete l'incauto labbro, e non oscurate con sentimenti sì vili l'eroica impresa della vostra virtù.
Via, odiate anzi un oggetto così abbominevole.
Chi non sa esser modesto, mostra di non aver la ragione che lo governi.
Il vostro merito d'altro oggetto più nobile vi rende degna.
Non fate mai più ch'io vi senta a pronunziare quel nome.
ROS.
Dite bene, signor Pancrazio.
Perdonate la mia debolezza.
Vado a dire a mio padre che non lo voglio.
PANC.
Brava; ora vi lodo.
Aggiungerò alle vostre le mie ragioni.
ROS.
Di grazia, non mi abbandonate.
(Che uomo dabbene, che uomo saggio ch'è questo! Felice mio padre, che l'ha in sua casa! felice me, che sono ammaestrata da' suoi consigli!) (da sé, e parte)
SCENA NONA
PANCRAZIO solo.
PANC.
Se non mi acquisto Rosaura col mezzo di una falsa virtù e di una finta prudenza, né colla gioventù, né colla bellezza, né colla ricchezza io non ispero di acquistarla per certo.
Ho trovata una strada, che forse forse mi condurrà al fine de' miei disegni.
In oggi chi sa più fingere sa meglio vivere; e per esser saggio basta parerlo.
(parte)
SCENA DECIMA
Strada.
BEATRICE da viaggio, con un SERVITORE, e FLORINDO
BEAT.
Tant'è, signor Florindo, io voglio tornar a Venezia.
FLOR.
Ma perché una risoluzione così improvvisa?
BEAT.
Sono ormai sei giorni ch'io sto attendendo il signor Tonino, con cui passar dovevo a Milano; e non per anco lo vedo a comparire.
Dubito che siasi pentito di seguitarmi, oppure che qualche strano accidente non lo trattenga in Venezia; senz'altro voglio partire, e chiarirmi in persona di questo fatto.
FLOR.
Ma questa, perdonatemi, è un'imprudenza; volete ritornar a Venezia, da dove, per consiglio del signor Tonino, siete fuggita? Se vi trovano i vostri parenti, siete perduta.
BEAT.
Venezia è grande: s'entra di notte: farò in modo che non sarò conosciuta.
FLOR.
No, signora Beatrice, non isperate ch'io vi lasci partire.
Il signor Tonino a me vi ha indirizzata, a me vi ha raccomandata, ho debito di trattenervi, ho debito di custodirvi; così vuole la legge dell'amicizia (e così richiede la forza di quell'amore, che a lei mi lega).
(da sé)
BEAT.
Non vi lagnate, se ad onta del vostro volere mi procaccio da me stessa il modo di partire.
Saprò trovare la Posta, e saprò col mio servo ritornare a Venezia, se con esso sono venuta a Verona.
FLOR.
Oh, questo sì che sarebbe il massimo degli errori.
Non mi diceste voi stessa che un certo Lelio per viaggio vi ha di continuo perseguitata? E non l'ho veduto io stesso qui in Verona raggirarsi sempre d'intorno a voi, a segno tale che più volte ho quasi seco dovuto precipitare? Se tornate a partire, ed egli giunge a penetrarlo, non vi esimerete da qualche insulto.
BEAT.
Una donna onorata non teme insulti.
FLOR.
Ma una donna sola con un servitore per viaggio, per quanto sia onorata, fa sempre una cattiva figura, ed è facile ricever un affronto.
BEAT.
Tant'è, voglio partire.
FLOR.
Aspettate ancora due giorni.
BEAT.
Ah, che il cuor mi predice, che ho perduto il mio Tonino.
FLOR.
Tolga il cielo gli auguri: ma se mai lo aveste perduto, che vorreste fare ritornando in Venezia?
BEAT.
E che avrei a fare stando in Verona?
FLOR.
Qui forse trovereste persona, che persuasa del vostro merito, potrebbe occupare il luogo del vostro caro Tonino.
BEAT.
Oh, questo non sarà mai.
O sarò di Tonino, o sarò della morte.
FLOR.
(Eppure, se qui restasse e non venisse il suo amante, spererei a poco a poco di vincerla).
(da sé)
BEAT.
(Quando meno lo crederà, gli fuggirò dalle mani).
(da sé)
FLOR.
Ma ecco qui quel ganimede affettato di Lelio.
Egli s'aggira sempre d'intorno a voi; guardi il cielo, se foste senza di me.
BEAT.
Partiamo.
FLOR.
Oh questo no: non diamo segno di timore.
State pur sul vostro decoro, e non dubitate.
BEAT.
(Mancava questo impedimento alla mia partenza).
(da sé)
SCENA UNDICESIMA
LELIO e detti.
LEL.
Bellissima veneziana, ho risaputo dal vetturino che voi bramate ritornare alla vostra patria; se così è, fate capitale di me: vi darò calesse, cavalli, staffieri, lacchè, denari e quanto volete, purché mi concediate il piacere di accompagnarvi.
BEAT.
(Che sguaiato!) (da sé)
FLOR.
Signore, mi favorisca.
Con che titolo offre ella tante magnifiche cose alla signora Beatrice, mentre la vede in mia compagnia?
LEL.
Che importa a me ch'ella sia in vostra compagnia: ho io soggezione di voi? Chi siete voi? Suo fratello, suo parente, o qualche suo condottiere?
FLOR.
Mi maraviglio di voi e del vostro cattivo procedere.
Sono un uomo d'onore.
Sono uno che ha impegno di custodir questa donna.
LEL.
Oh amico, siete in un difficile impegno!
FLOR.
E perché?
LEL.
Perché a custodir una donna ci vogliono altre barbe che la vostra.
FLOR.
Eppure mi dà l'animo di tener a dovere voi, e chiunque altro simile a voi.
LEL.
Orsù, alle corte.
Vi occorre nulla da me? Avete bisogno di denaro, di roba, di protezione? Comandate (a Beatrice)
FLOR.
Voi mi farete perder la pazienza.
LEL.
Eh, vi conosco alla cera; siete un giovine di garbo.
Signora Beatrice, mi dia la mano, e si lasci servire.
BEAT.
Mi sembrate un bell'impertinente.
LEL.
In amore vi vuole audacia.
A che servono tante inutili cerimonie? Via, andiamo.
(la vuol prender per mano, ed ella si ritira)
FLOR.
Abbiate creanza, vi dico.
(gli dà una spinta)
LEL.
A me questo? A me, temerario? A me, che uomo del mondo non può vantarsi d'avermi guardato con occhio brusco, che non abbia anche pagato col sangue il soverchio suo ardire? Sai tu chi sono? Sono il marchese Lelio, signor di Monte Fresco, conte di Fonte Chiara, giurisdicente di Selva Ombrosa.
Ho più terre che tu non hai capelli in quella mal pettinata parrucca, ed ho più centinaia di doppie, che tu non hai avuto bastonate.
FLOR.
Ed io credo che tu abbia più pazzie nel capo, di quel che vi sieno arene nel mare e stelle nel cielo.
(Chi non lo conoscesse? Si vanta conte, marchese, ed è nipote del dottor Balanzoni).
(da sé)
LEL.
O venga meco la donna, o tu caderai vittima del mio sdegno.
FLOR.
Questa donna vien da me custodita: e se hai che pretender da me, ti risponderò colla spada.
LEL.
Povero giovine! Ti compatisco.
Tu vuoi morire, non è così?
BEAT.
(Signor Florindo, non vi cimentate con costui).
(piano a Florindo)
FLOR.
(Eh, non temete.
Abbasserò io la sua alterigia).
(a Beatrice)
LEL.
Vivete ancora, che siete giovine, e lasciatemi questa donna.
Delle donne n'è pieno il mondo.
La vita è una sola.
FLOR.
Stimo più della vita l'onore.
O partite, o impugnate la spada.
(mette mano)
LEL.
Non sei mio pari, non sei nobile, non mi vo' batter teco.
FLOR.
O nobile, o plebeo, così si trattano i vili tuoi pari.
(gli dà una piattonata)
LEL.
A me questo! Dei tutelari della mia nobiltà, assistetemi nel cimento.
(pone mano)
FLOR.
Ora vedremo la tua bravura.
(si battono)
BEAT.
Oh me infelice! Non vo' trovarmi presente a qualche tragedia.
Mi ritirerò nell'albergo vicino.
(Nel mentre che li due si battono, Beatrice parte col Servo)
SCENA DODICESIMA
FLORINDO e LELIO che si battono, poi TONINO
FLOR.
Ah! son caduto.
(cade)
LEL.
Temerario, sei vinto.
(gli sta colla spada al petto)
FLOR.
Sdrucciolai per disgrazia.
LEL.
Ti superò il mio valore.
Mori...
TON.
(colla spada in mano in difesa di Florindo) A mi, mi: alto, alto: co la zente xe in terra, se sbassa la ponta.
(a Lelio)
LEL.
Voi come c'entrate?
TON.
Gh'intro, perché son un omo d'onor, e no posso sopportar una bulada in credenza(9).
FLOR.
Come...
Signor Tonino...
Amico caro...
(s'alza)
TON.
(Zitto..
son vostro amigo, e son arrivà in tempo de defender la vostra vita, ma no stè a dir el mio nome).
Animo, sior canapiolo(10), vegnì a nu(11).
(sfida Lelio)
LEL.
(Ci mancava costui).
(da sé) Ma voi chi siete?
TON.
Son un venezian, che gh'ha tanto de cuor; che no gh'ha paura né de vu, né de diese della vostra sorte.
LEL.
Io non ho nulla con voi, né intendo di volermi battere.
TON.
E mi gh'ho qualcossa con vu, e me voggio batter.
LEL.
Mi sembrate uno stolto; che cosa avete meco?
TON.
L'affronto che avè fatto a un mio amigo, lo risento come mio proprio.
A Venezia se fa più conto dell'amicizia che della vita; e me parerave d'esser indegno del nome de venezian, se no seguitasse l'esempio dei nostri cortesani(12), che xe el specchio dell'onoratezza.
LEL.
Ma qual è quell'affronto ch'ho fatto a questo vostro sì grande amico?
TON.
Ghe disè poco! manazzar(13) un uomo in terra? Ghe disè gnente, dirghe muori, co l'è colegà(14)? Via, mettè man a quella spada.
FLOR.
No, caro amico, non vi cimentate per me.
(a Tonino)
TON.
Eh via, cavève, che tanto stimo a batterme co sto scartozzo de pévere(15), come bever un vovo(16) fresco.
LEL.
Ma io ho troppo lungamente sofferta la vostra petulanza, con discapito della delicatezza dell'onor mio e con iscorno de' miei grand'avi.
TON.
È vero.
Cossa dirà vostra nona nina nana? Cossa dirà vostro pare della poltroneria de sto gran fio?
LEL.
Ah, giuro al cielo.
TON.
Ah, giuro alla terra.
LEL.
Eccomi.
(si pone in guardia contro Tonino)
TON.
Bravo, coraggio.
(si battono; Tonino disarma Lelio)
LEL.
Sorte ingrata! Eccomi disarmato.
TON.
L'è disarmà, e tanto me basta: vedeu come se tratta? No ve manazzo, no digo muori.
Me basta l'onor de averve vinto.
Me basta la spada per memoria de sto trionfo: cioè la lama, che la guardia ve la manderò a casa, acciò la podiè vender, e podiè pagar el cerusico, che ve caverà sangue per el spasemo che avè abuo(17).
LEL.
Basta, ad altro tempo riserbo la mia vendetta.
TON.
Da muso a muso, son sempre in casa, co me volè.
LEL.
Ci vedremo, ci vedremo.
(parte)
SCENA TREDICESIMA
FLORINDO e TONINO
TON.
Va pur, e per tua gloria basti
Il poter dir che contro me pugnasti.
FLOR.
Caro amico, quanto vi son tenuto!
TON.
Alle curte.
Beatrice dove xela?
FLOR.
Beatrice!...
(Finger mi giovi).
E chi è questa Beatrice?
TON.
Quella putta che ho fatto scampar da Venezia, e l'ho mandada qua da vu, pregandove de custodirla fina al mio arrivo.
FLOR.
Amico, io non ho veduto alcuno.
TON.
Come! diseu dasseno o burleu?
FLOR.
Dico davvero.
Io non ho veduto la donna che dite, e mi sarei fatto gloria di potervi servire.
TON.
Ho inteso; la me l'ha fatta.
Me pareva impossib
...
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