I DUE GEMELLI VENEZIANI, di Carlo Goldoni - pagina 10
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Tante stravaganze che ancuo me xe nate, le me fa crescer el dubbio.
Chi sa? Se pol dar.
Oh la sarave bella! Me voggio chiarir.
Se ghe xe quel servitor in casa, vôi saver la verità.
Scoverzirò terren, senza palesarme.
Cancaro! Ghe vol politica.
Sta volta bisogna farla da vero cortesan.
Oe de casa.
(batte dal Dottore)
SCENA DICIOTTESIMA
BRIGHELLA di casa, e detto.
BRIGH.
Servitor umilissimo; ela ella che batte?
TON.
Sì ben, son mi.
BRIGH.
La perdona, perché adesso in casa no se pol vegnir.
TON.
No? Perché?
BRIGH.
La patrona sbuffa e smania; el patron è sulle furie.
Anzi la conseggio andar via; perché, se i la vede qua, i è capaci de far qualche sproposito.
TON.
Ma cossa gh'oggio fatto?
BRIGH.
No so.
Sento che i se lamenta, e no so el perché.
TON.
Diseme, amigo, avè cognossù mio fradello a Venezia?
BRIGH.
Certo che l'ho cognossù.
TON.
Me someggielo?
BRIGH.
I par un pomo spartio.
No se pol dir che no i sia do zemelli.
TON.
E xe do anni che no l'avè visto?
BRIGH.
Do anni in circa.
TON.
Mio fradello...
BRIGH.
Sior sì, el sior Tonin.
TON.
E mi mo chi songio?
BRIGH.
O bella! el sior Zanetto.
TON.
Che vien da...
BRIGH.
Da Bergamo, a sposar la siora Rosaura.
TON.
Bravo! Vu savè tutto, sè un omo de garbo.
(Adesso capisso el negozio).
(da sé)
BRIGH.
La me diga, cara ella, e la perdona della curiosità.
Ala mai savesto gnente de so sorella?
TON.
Mai.
Ah, savè anca vu che la s'ha perso?
BRIGH.
Siguro.
Quante volte me l'ha dito la bona memoria de so sior pare.
TON.
Ma! no gh'è altro; mentre che mio pare la mandava a Bergamo, la s'ha smario, e no se sa come.
BRIGH.
Cossa vorla far? Una dota de manco.
Se no la me comanda gnente, vago in casa, perché se i me vede a parlar con ella, i me dirà roba.
A bon reverirla.
(entra in casa)
SCENA DICIANNOVESIMA
TONINO, poi COLOMBINA di casa.
TON.
Schiavo, amigo.
Vardè quando che i dise dei accidenti del mondo! Se pol dar? Mio fradello xe in Verona e no se semo visti.
Uno xe tolto per l'altro, e nasce mille imbrogi in t'un zorno.
Adesso intendo el negozio delle zogie e dei bezzi; quell'Arlecchin sarà servitor de mio fradello, e quella roba doveva esser soa.
Se saveva che i giera de mio fradello, no ghe li dava indrio(104).
Quanto che pagherave de veder sto mio fradello! Ma basta, anderò tanto zirando, fina che el troverò.
COL.
Sentite quella pettegola di Rosaura, come parla male del signor Zanetto; mi viene una rabbia, che non la posso soffrire.
TON.
Coss'è, fia(105), che ve vedo cussì scalmanada(106)? Coss'è stà?
COL.
Se sapeste, signore, mi riscaldo per causa vostra.
TON.
Per causa mia? Ve son ben obbligà: mo per che motivo?
COL.
Perché quella presuntuosa di Rosaura, credendo di essere una gran signora, tratta tutti male.
TON.
De mi la deve dir cossazze(107).
COL.
Ed in che modo! E perché io ho prese le vostre parti, ed ho parlato in vostra difesa, ha principiato a strapazzarmi, come se fossi una bestia.
Pettegola, sfacciata: se non si sapesse chi è, la compatirei.
TON.
Mo no xela fia del sior Dottor?
COL.
Eh! il malanno che la colga.
È una venuta di casa del diavolo; trovata per le strade da un pellegrino.
TON.
Ma come? Se sior Dottor dise che la xe so fia?
COL.
Perché ancor egli è un vecchio birbone; lo dice per rubare un'eredità.
TON.
(Eh, l'ho ditto che quel Dottor xe un poco de bon).
(da sé) Donca siora Rosaura no se sa de chi la sia fia?
COL.
Non si sa e non si saprà mai.
TON.
Quanto xe che la passa per fia del Dottor?
COL.
L'ebbe in fasce da bambina quella bella gioja.
TON.
Quanti anni gh'averala?
COL.
Lei dice che n'ha ventuno; ma credo non conti quelli della balia.
TON.
No la pol gnanca aver de più.
Diseme, fia; sto pellegrin da dove vegnivelo?
COL.
Da Venezia.
TON.
E dove alo trovà quella putela(108)?
COL.
Dicono alle basse di Caldiera, tra Vicenza e Verona.
TON.
Gierela in fasse?
COL.
Sicuro, in fasce.
TON.
L'aveu viste vu quelle fasse?
COL.
Il signor Dottore mi pare che le conservi; ma io non le ho vedute.
TON.
Ma sto pellegrin come l'avevelo abua? Gierela so fia? Cossa gh'avevela nome?
COL.
Non era sua figlia; ma la trovò sulla strada, dove gli assassini avevano svaligiati alcuni passeggieri, e questa bambina rimase colà viva per accidente.
Il nome poi né pur egli lo sapeva, ed il signor Dottore le impose quello di Rosaura.
TON.
(Oh questa è bella! Stè a veder che la xe Flaminia mia sorella, giusto persa tra Vicenza e Verona, quando xe stà sassinà la mia povera mare, che la menava a Bergamo).
(da sé)
COL.
(Che diavolo dice tra sé?) (da sé)
TON.
Saveu che ghe fusse in te le fasse una medaggia col retratto de do teste?
COL.
Mi pare di averlo sentito dire.
Ma perché mi fate tante interrogazioni?
TON.
Basta...
lo saverè...
(Questa xe mia sorella senz'altro.
Cielo, te ringrazio.
Vardè che caso! Vardè che accidente! Do fradei! Una sorella! Tutti qua! Tutti insieme! El par un accidente da commedia).
(da sé)
COL.
(Sta a vedere che costei si scopre figlia di qualche signor davvero).
(da sé) Signore, se mai la signora Rosaura fosse qualche cosa di buono, avvertite a non dirle che ho sparlato di lei, per amor del cielo.
TON.
No no, fia, no ve dubitè.
Za so che el mestier de vualtre cameriere xe dir mal delle patrone, e che ve contenteressi de zunar pan e acqua, più tosto che lasar un zorno de mormorar.
(parte)
SCENA VENTESIMA
COLOMBINA, poi PANCRAZIO ed il DOTTORE
COL.
Non vorrei, per aver parlato troppo, aver fatto del male a me e del bene a Rosaura.
Quel signor Zanetto m'ha fatte troppe interrogazioni.
Dubito che vi voglia essere qualche novità strepitosa.
DOTT.
Colombina, cosa fai sopra la strada?
COL.
Sono venuta a vedere se passava quel dell'insalata.
DOTT.
Animo, animo, in casa.
COL.
Avete veduto il signor Zanetto?
DOTT.
Va in casa, pettegola.
COL.
Uh, che vecchio arrabbiato! (entra in casa)
SCENA VENTUNESIMA
Il DOTTORE e PANCRAZIO
DOTT.
Signor Pancrazio; a voi che siete il più caro amico ch'io m'abbia, confido la mia risoluta deliberazione di voler che immediatamente seguano gli sponsali di mia figlia Rosaura col signor Zanetto Bisognosi, ad onta di tutte le cose passate.
PANC.
Ma come! se ella gli ha stracciata la scrittura in faccia, e non lo vuole?
DOTT.
Ella ha ciò fatto per pura gelosia.
Le cose sono avanzate a un segno, che senza scapito del mio decoro non si può sospendere un tal matrimonio.
Tutta Verona ne parla; e poi, per dirvela, il signor Zanetto è assai ricco, e con poca dote assicuro la fortuna della mia figliuola.
PANC.
Ecco qui; l'avarizia, l'avarizia vi tenta a far il sacrificio di quella povera innocente colomba.
DOTT.
Tant'è, ho risolto! I vostri consigli, che ho sempre stimati e venerati, questa volta non mi rimoveranno da una risoluzione che trovo esser giusta, onesta e decorosa per la mia casa.
PANC.
Pensateci meglio.
Prendete tempo.
DOTT.
Mi avete voi insegnato più volte a dire: chi ha tempo, non aspetti tempo.
Vado subito a ritrovar il signor Zanetto, e avanti sera voglio che si concludano queste nozze.
Caro amico, compatitemi, a rivederci.
(parte)
SCENA VENTIDUESIMA
PANCRAZIO, poi ZANETTO
PANC.
Ecco precipitata ogni mia speranza.
Il Dottore la vuol dar per forza a quel veneziano.
Ed io, misero, che farò? Non ardisco palesare la mia passione, perché perderei il credito di uomo da bene, e perderei la miglior entrata ch'io m'abbia.
S'ella si sposa a costui, la condurrà seco a Bergamo, e mai più la vedrò.
Ah, questo non sarà mai vero.
All'ultimo farò qualche bestialità.
Mi leverò la maschera e mi farò anche conoscere per quel che sono, prima di perder Rosaura, che amo sopra tutte le cose di questa terra.
ZAN.
Sior Pancrazio, son desperà.
PANC.
La morte è la consolazione de' disperati.
ZAN.
Crepo de voggia de maridarme, e nissuna me vol.
Tutte le donne le me strapazza: tutte le me maltratta e le me manda via, come se fusse un can, una bestia, un aseno.
Sior Pancrazio, son desperà, no posso più.
PANC.
Ma! se aveste fatto a mio modo, non vi trovereste in questo miserabile stato.
ZAN.
Pazenzia! gh'avè rason.
Vorave scampar dalle donne, e no posso.
Me sento tirar per forza, giusto come un sion(109) che tira l'acqua per aria.
PANC.
Ma voi non siete per il matrimonio.
ZAN.
Mo perché?
PANC.
Conosco, e so di certo, che se voi vi ammogliate, sarete l'uomo più infelice e più misero della terra.
ZAN.
Donca cossa gh'oggio da far?
PANC.
Lasciar le donne.
ZAN.
Mo se no posso.
PANC.
Fate a mio modo, partite subito da questa città, ritornate al vostro paese, e liberatevi da questa pena.
ZAN.
Sarà sempre per mi l'istesso.
Anca le donne de Bergamo e de Val Brambana le me burla e le me strapazza.
PANC.
Dunque, che volete fare?
ZAN.
No so gnanca mi, son desperà.
PANC.
S'io fossi come voi, sapete che cosa farei?
ZAN.
Cossa faressi?
PANC.
Mi darei la morte da me medesimo.
ZAN.
La morte? Disème, caro sior, no ghe saria mo un altro remedio senza la morte?
PANC.
E che rimedio vi può essere per guarire il vostro male?
ZAN.
Vu, che sè un omo tanto virtuoso, no gh'averessi un secreto da farme andar via sta maledetta voggia de matrimonio?
PANC.
V'ho inteso.
(Eccolo da sé nella rete).
(da sé) Voi mi fate tanta compassione, che quasi vorrei per amor vostro privarmi d'una porzione d'un rarissimo e prezioso tesoro ch'io solo possiedo, e che custodisco con la maggior segretezza.
Io l'ho lo specifico da voi desiderato, e sempre lo porto meco per tutto quello che accadere mi può.
Anch'io nella mia gioventù mi sentivo tormentato da questa peste d'importuno solletico, e guai a me se non avessi avuta questa polvere in questo scatolino rinchiusa.
Con questa mi son liberato parecchie volte dai forti stimoli della concupiscenza, e replicando la dose ogni cinque anni, mi sono condotto libero da ogni pena amorosa, sino all'età in cui mi vedete.
Una presa di questa polve può darvi la vita, può liberarvi da ogni tormento.
Se la beveste nel vino, vi trovereste privo d'ogni passione, e mirando con indifferenza le donne, potreste, deridendole, vendicarvi de' loro disprezzi.
Anzi vi correranno dietro: ma voi non curandole colla virtù della mirabile polvere, le sprezzerete, e loro farete pagar a caro prezzo le ingiurie, colle quali vi hanno trattato sinora.
ZAN.
Oh magari! Oh che gusto che gh'averave! Per amor del cielo, sior Pancrazio, per carità, deme un poco de quella polvere.
PANC.
Ma...
privarmi di questa polvere...
costa troppo.
ZAN.
Ve darò quanti bezzi che volè.
PANC.
Orsù, per farvi vedere ch'io non sono interessato e che quando posso, giovo volentieri al mio prossimo, vi darò una presa di questa polvere.
Voi la berrete nel vino, e sarete tosto sanato.
Subito presa, vi sentirete della confusione per verità nello stomaco e vi parerà di morire, ma acquietato il tumulto, vi troverete un altro uomo, sarete contento e benedirete Pancrazio.
ZAN.
Sior sì, sieu benedio.
Dèmela, no me fe più penar.
PANC.
(Il veleno datomi da Tiburzio fa appunto al caso per liberarmi da questo sciocco rivale).
(da sé) Questa è la polvere, ma ci vorrebbe il vino.
(gli mostra lo scatolino)
ZAN.
Anderò a casa, e la beverò.
PANC.
(Si potrebbe pentire).
(da sé) No, no, aspettate ch'io vi porterò il bisognevole.
(Mi fa pietà, ma per levarmi dinanzi l'ostacolo de' miei amori, conviene privarlo di vita).
(da sé, ed entra in casa del Dottore)
ZAN.
In sta maniera no se pol viver.
Co(110) vedo una donna, me sento arder da cao a piè, e tutte le me minchiona, le me strapazza.
Desgraziae! me vegnirè sotto, me correrè drio; e mi gnente, saldo.
Faremo patta e pagai(111).
No vedo l'ora de far le mie vendette co quella cagna de Rosaura.
Velo qua ch'el vien.
Aveu portà el negozio?
PANC.
(Torna con un bicchiere con vino) Ecco il vino.
Mettetevi dentro la polvere.
ZAN.
Cussì? (mette la polvere nel bicchiere di vino)
PANC.
Bravo.
Bevete.
Ma avvertite di non dire ad alcuno ch'io vi abbia dato il segreto.
ZAN.
No dubitè.
PANC.
Animo.
ZAN.
Son qua.
Forte come una torre.
PANC.
E se vi sentite male, soffrite.
ZAN.
Soffrirò tutto.
PANC.
Parto per non dar ombra di me; mentre, se si risapesse, ognuno mi tormenterebbe, perch'io gliene dessi.
ZAN.
Gh'avè rason.
PANC.
Oh, quanto vogliam ridere con queste donne!
ZAN.
Tutte drio de mi.
E mi gnente.
PANC.
Niente! Crudo come un leone.
ZAN.
Pianzerale?
PANC.
E come!
ZAN.
E mi gnente!
PANC.
Niente.
ZAN.
Bevo.
PANC.
Animo.
ZAN.
Alla vostra salute.
(beve mezzo bicchiere di vino)
PANC.
(Il colpo è fatto).
(da sé, e parte)
SCENA VENTITREESIMA
ZANETTO bevendo a sorso a sorso, poi COLOMBINA
ZAN.
Uh che roba! Uh che tossego! Uh che velen! Oh che fogo che me sento in tel stomego! Coss'è sto negozio? No vôi bever altro.
(mette il bicchiere in terra) Oh poveretto mi! Moro, moro, ma gnente.
La polvere fa operazion.
Se ho da veder le donne a spasemar, bisogna che sopporta.
Me l'ha dito sior Pancrazio...
ma...
oimè...
gh'ho troppo mal...
me manca el fià...
no posso più...
Se no avesse bevù, no beverave altro...
Oh poveretto mi...
un poco de acqua...
acqua...
acqua...
Deboto(112) no ghe vedo più...
me trema la terra sotto i piè...
le gambe no me reze(113)...
oimè, el mio cuor...
oimè, el mio cuor...
Forti, Zanetto, forti, che le donne te correrà drio...
e ti...
ti le burlerà...
oh che gusto!...
no posso più star in piè...
casco...
moro...
(cade in terra)
COL.
(Esce di casa e vede Zanetto in terra) Cosa vedo! Il signor Zanetto in terra? Cos'è? Cos'è stato? Che cosa avete?
ZAN.
(Vardè...
se xe vero...
le donne me corre drio).
(da sé)
COL.
Oh diamine! Ha la schiuma alla bocca.
Certo gli è venuto male.
Poverino! Voglio chiamare aiuto, perché io sola non posso aiutarlo.
(entra in casa)
SCENA VENTIQUATTRESIMA
ZANETTO, poi FLORINDO
ZAN.
Sentila...
se la xe innamorada...
la se despiera...
e mi duro...
ma...
oimè, me manca el cuor...
crepo, crepo...
agiuto...
agiuto.
FLOR.
Come! Tonino in terra? Ecco il tempo di vendicarmi.
ZAN.
Un'altra donna me corre drio...
(si va torcendo)
FLOR.
(Ma che vedo? Que' moti paiono di moribondo).
(da sé)
ZAN.
Son morto...
Son morto...
FLOR.
(Muore davvero costui).
(da sé) Ma che avete?
ZAN.
Son morto...
FLOR.
In che maniera?...
che è stato?...
(benché rivale, mi fa pietà).
(da sé)
ZAN.
Ho bevù...
sì...
le donne...
Sior Pancrazio...
oimè...
oimè...
son velenà...
son morto...
ma no...
Via, donne...
forti...
duro, vedè...
oimè.
(muore)
FLOR.
Ah che spirò il meschino! Chi mai l'ha assassinato? Come mai è egli morto? Che vedo? Ha un bicchiere vicino! Oh come è torbido questo vino! L'infelice fu avvelenato.
(osserva il bicchiere, poi lo ripone in terra)
SCENA VENTICINQUESIMA
Il DOTTORE, BRIGHELLA e COLOMBINA di casa, e detti; poi ROSAURA e BEATRICE col SERVITORE, poi ARLECCHINO
COL.
Venite, signor padrone, soccorrete questo povero giovine.
(al Dottore, uscendo di casa)
DOTT.
Presto, Brighella, va a chiamare un medico.
FLOR.
È inutile che cerchiate il medico, mentre il signor Zanetto è morto.
DOTT.
È morto?
BRIGH.
Oh poveretto, l'è morto?
COL.
Morto il povero signor Zanetto?
ROS.
(Di casa) Perdonate, signor padre, s'io vengo sopra la strada.
Parmi di aver inteso che il signor Zanetto sia morto; è forse vero?
DOTT.
Pur troppo è vero.
Eccolo là, poverino.
BEAT.
Oimè! Che vedo? Morto il mio bene? Morta l'anima mia? (passando per la strada)
ARL.
Coss'è? Dormelo el sior Zanetto?
BRIGH.
Altro che dormir! L'è morto el povero sfortunado.
ARL.
Co l'è cussì, torno alle vallade de Bergamo.
DOTT.
Facciamolo condurre nell'osteria: in mezzo alla strada non istà bene.
ROS.
Ahi, che il dolore mi opprime il cuore.
COL.
Poverina! siete vedova prima di essere maritata.
(Ho quasi piacere che resti mortificata).
(da sé)
DOTT.
Brighella, fallo condurre nell'osteria.
(accennando Zanetto)
BRIGH.
Animo, Arlecchin, dà una man a menarlo in casa.
Quel zovene, fe anca vu el servizio de aiutarlo a portar.
(al Servitore di Beatrice)
BEAT.
Misera Beatrice! cosa sarà di me?
FLOR.
Se è morto il vostro Tonino, potrò sperare nulla da voi? (a Beatrice, piano)
BEAT.
Vi odierò eternamente.
ARL.
Camerada, portelo pulito, acciò, dopo che l'è morto, no ti ghe rompi la testa.
(Arlecchino e il Servitore portano Zanetto morto nell'osteria)
ROS.
Mi sento strappar l'anima dal seno.
BEAT.
Chi mai sarà stato il perfido traditore?
DOTT.
Come mai è accaduta la sua morte?
FLOR.
Io dubito sia stato avvelenato.
DOTT.
E da chi?
FLOR.
Non lo so; ma ho de' forti motivi per crederlo.
ROS.
Deh, scoprite ogni indizio, acciò si possa vendicar la morte dell'infelice.
SCENA VENTISEIESIMA
TONINO e detti, poi ARLECCHINO ed il SERVO di Beatrice.
TON.
Coss'è, siora Beatrice...
DOTT.
Come? (si spaventa)
BRIGH.
L'anima de sior Zanetto? (come sopra)
ROS.
Non è morto!
BEAT.
È vivo! (Tutti fanno atti di ammirazione, guardandosi l'un l'altro con qualche spavento)
ARL.
(Esce col Servitore dall'osteria, vede Tonino, lo crede anch'egli Zanetto e si spaventa) Oh poveretto mi! Cossa vedio.
TON.
Com'ela? Coss'è stà? Coss'è sti stupori, ste maraveggie?
DOTT.
Signor Zanetto, è vivo?
TON.
Per grazia del cielo.
DOTT.
Ma poco fa non era qui in terra disteso in figura di morto?
TON.
No xe vero gnente.
Son vegnù in sto ponto.
BRIGH.
Com elo sto negozio?
ARL.
Adesso, adesso.
(entra nell'osteria, poi ritorna subito) Oh bella! L'è mezzo morto e mezzo vivo.
Salva, salva.
(parte)
BRIGH.
Vegno, vegno.
(fa lo stesso che ha fatto Arlecchino) Oh che maraveggia! Drento morto, e fora vivo.
DOTT.
Voglio veder anch'io.
(fa lo stesso degli altri due) Signor Zanetto, colà dentro vi è un altro signor Zanetto.
TON.
Zitto, patroni, zitto, che scoverziremo tutto.
Lassè che vaga là drento anca mi, e torno subito (entra nell'osteria)
ROS.
Voglia il cielo che Zanetto sia vivo.
BEAT.
Benché mi sia infedele, desidero ch'egli viva.
TON.
(Torna dall'osteria sospeso e mesto) Ah pazenzia! L'ho visto tardi.
L'ho cognossù troppo tardi.
Quello che xe là drento, e che xe morto, l'è Zanetto, mio fradello.
DOTT.
E lei dunque chi è?
TON.
.
Mi son Tonin Bisognosi, fradello del povero Zanetto.
ROS.
Che sento!
DOTT.
Quale stravaganza è mai questa?
BEAT.
Dunque siete il mio sposo.
(a Tonino)
TON.
Sì ben, son quello.
Ma vu, perché strazzar la scrittura? Perché strapazzarme? Perché trattarme cussì?
BEAT.
E voi perché rinunziarmi ad altri? Perché sugli occhi miei parlar d'amore colla signora Rosaura?
TON.
Gnente, fia mia, gnente.
Le somegianze tra mi e mio fradello ha causà tante stravaganze.
Son vostro, sè mia, e tanto basta.
ROS.
Ma, signor Zanetto, e la fede che a me avete data?
TON.
Do no le posso sposar.
E po mi no son Zanetto.
DOTT.
O Zanetto, o Tonino, se non isdegnate di meco imparentarvi, potete sposar mia figlia.
(Egli sarà ancora più ricco del fratello, per cagion dell'eredità).
(da sé)
TON.
Son qua, son pronto a sposar vostra fia.
DOTT.
Datele dunque la mano.
TON.
Ma dov'ela vostra fia?
DOTT.
Eccola qui.
TON.
Eh via, me maraveggio de vu.
Questa no xe vostra fia.
DOTT.
Come! Che cosa dite?
TON.
Orsù, so tutto.
So del pellegrin.
So ogni cossa.
DOTT.
Ah pettegola, disgraziata! (a Colombina)
COL.
Ma io non so nulla, vedete...
TON.
Diseme, sior Dottor, quella medaggia che gh'avè trovà in te le fasse, la gh'averessi?
DOTT.
(E di più sa ancora della medaglia?) (da sé) Una medaglia con due teste?
TON.
Giusto: con do teste.
DOTT.
Eccola, osservatela, è questa?
TON.
Sì ben, l'è questa.
(Fatta far da mio pare, quando che l'ha abù i do zemelli).
(da sé)
DOTT.
Già che il tutto è scoperto, confesso Rosaura non esser mia figlia, ma essere una bambina incognita, trovata da un pellegrino alle basse di Caldiera, fra Vicenza e Verona.
Mi disse il pellegrino essere rimasta in terra, sola e abbandonata colà ancora in fasce, dopo che i masnadieri avevano svaligiati ed uccisi quelli che in cocchio la custodivano.
Io lo pregai di lasciarmela, ei mi compiacque, e come mia propria figlia me l'ho sinora allevata.
TON.
Questa xe Flaminia mia sorella; andando da Venezia a Val Brambana in Bergamasca la mia povera mare, per desiderio de veder Zanetto so fio, e con anemo de lassar sta putela a Stefanello mio barba, i xe stai assaltai alle basse de Caldiera, dove l'istessa mia mare e tutti della so compagnia xe stai sassinai, e ella, in grazia dell'età tenera, bisogna che i l'abbia lassada in vita.
ROS.
Ora intendo l'amore che aveva per voi.
Era effetto del sangue.
(a Tonino)
TON.
E per l'istessa rason anca mi ve voleva ben.
BEAT.
Manco male che Tonino non può sposare la signora Rosaura.
FLOR.
(Ora ho perduta ogni speranza sopra la signora Beatrice).
(da sé)
TON.
Adesso intendo l'equivoco della scrittura e delle finezze che m'avè fatto.
(a Rosaura) E mi aveva tolto in sinistro concetto el povero sior Dottor.
(al Dottore)
DOTT.
Ah, voi m'avete rovinato!
TON.
Mo perché?
DOTT.
Sappiate che da un mio fratello mi fu lasciata una pingue eredità di trenta mila ducati, in qualità di commissario e tutore di una bambina, chiamata Rosaura, unico frutto del mio matrimonio.
La bambina è morta ed io perdeva l'eredità, poiché nel caso della di lei morte, il testamento sostituiva nell'eredità stessa un mio nipote.
Mancata la figlia, per non perdere un patrimonio sì ricco, pensai di supporre alla morta Rosaura un'altra fanciulla: opportunamente mi venne questa alle mani, e coll'aiuto della balia, madre di Colombina, mi riuscì agevole il cambio.
Ora, scoperto il disegno, non tarderà mio nipote a spogliarmi dell'eredità ed a voler ragione de' frutti sino ad ora malamente percetti.
TON.
Ma chi xelo sto vostro nevodo?
DOTT.
Un certo Lelio, figlio d'una sorella del testatore e mia.
TON.
Elo quel sior cargadura, che dise d'esser conte e marchese?
DOTT.
Appunto quegli.
TON.
Ve lo qua che el vien.
Lassè far a mi, e no ve dubitè gnente.
SCENA VENTISETTESIMA
LELIO e detti.
LEL.
Alto, alto quanti siete! guardatevi da un disperato.
TON.
Forti, sior Lelio, che al mal fatto no gh'è remedio.
Beatrice xe mia muggier.
LEL.
Sconvolgerò gli abissi.
Porrò sossopra il mondo!
TON.
Mo perché vorla far tanto mal?
LEL.
Perché son disperato.
TON.
Ghe sarave un remedio.
LEL.
E quale?
TON.
Sposar la siora Rosaura co quindese mille ducati de dota, e altrettanti dopo la morte del sior Dottor.
LEL.
Trenta mila ducati di dote? La proposizione non mi dispiace.
TON.
E la putta ghe piasela?
LEL.
A chi non piacerebbe? Trenta mila ducati formano una rara bellezza.
TON.
Non occorre altro, e se farà tutto: qua in strada no stemo ben.
Andemo in casa, e se darà sesto a ogni cossa.
Beatrice xe mia, Rosaura sarà del sior Lelio.
Ela contenta? (a Rosaura)
ROS.
Io farò sempre il volere di mio padre.
DOTT.
Brava, ragazza.
Voi mi date la vita.
Caro signor Tonino, vi sono obbligato.
Ma andiamo a far le scritture, prima che la cosa si raffreddi.
TON.
Cussì tutti sarà contenti.
FLOR.
Non sarò già io contento, mentre mi trafigge il cuore il dolore d'aver tradita la nostra amicizia.
TON.
Vergogneve d'averme tradio, d'aver procurà de far l'azion più indegna che far se possa.
Ve compatisso, perché sè stà innamorà, e se sè pentio della vostra mancanza, ve torno a accettar come amigo.
FLOR.
Accetto la vostra generosa bontà; e vi giuro in avvenire la più fedele amicizia.
SCENA ULTIMA
PANCRAZIO e detti.
PANC.
(Che vedo! Zanetto non è morto? Non ha preso il veleno? Quanto fui sciocco a credere che volesse farlo).
(da sé)
DOTT.
Signor Pancrazio, allegramente.
Abbiamo delle gran novità.
PANC.
Con buona grazia di lor signori.
(chiama Tonino in disparte) (Ditemi, avete bevuto?) (piano al medesimo)
TON.
Se ho bevù? Songio forsi imbriago?
PANC.
No.
Dico se avete bevuto quel che io vi ho dato.
TON.
(Zitto, che qua ghe xe qualcossa da scoverzer(114)).
(da sé) Mi no, non ho gnancora bevù.
PANC.
Ma, e le donne che vi tormentano, come farete a soffrirle?
TON.
Come gh'oggio da far a liberarme?
PANC.
Subito che avete bevuto, sarete liberato.
TON.
E cossa gh'oggio da bever?
PANC.
Oh bella! quella polvere che vi ho dato.
Che avete fatto del bicchiere col vino e colla polvere?
TON.
(Bicchier de vin colla polvere? Adesso ho capio).
(da sé) Ah sier cagadonao(115), ah sier bronza coverta(116), ipocrita maledetto! Vu sè stà, che ha mazzà mio fradello.
Pur troppo l'ha bevù, pur troppo el xe andà all'altro mondo per causa vostra.
Mi no son Zanetto, son Tonin.
Gerimo do zemelli, e le nostre someggie v'ha fatto equivocar.
Diseme, sior can, sassin, traditor per cossa l'aveu sassinà? Per cossa l'aveu mazzà? (forte, che tutti sentono)
PANC.
Mi maraviglio di voi.
Non so nulla, non intendo che dite.
Sono chi sono, e sono incapace di tali iniquità.
TON.
Ma cossa me disevi, se ho bevù? Se me voggio liberar dalle donne?
PANC.
Diceva così per dire...
se voi bevendo...
diceva per le nozze, per le nozze.
TON.
Vedeu che ve confondè? Sier infame, sier indegno, mazzarme un fradello?
PANC.
Oh cielo! oh cielo! tanto ascolto, e non moro?
DOTT.
Il signor Pancrazio è un uomo onorato, l'attesto ancor io.
FLOR.
Io ho trovato vicino al moribondo Zanetto un bicchiere con dentro del vino molto torbido.
COL.
Ed il signor Pancrazio poco fa è venuto in casa, e di nascosto ha preso un bicchiere di vino.
FLOR.
Ora confronteremo.
(prende il bicchiere che è in terra)
TON.
Senti, se ti l'ha mazzà, poveretto ti! E delle mie zogie cossa ghe n'astu fatto! (a Pancrazio)
PANC.
Sono nelle mani del giudice.
TON.
Ben ben, ghe penserò mi a recuperarle.
FLOR.
Ecco il vino in cui si avvelenò Zanetto.
(mostra il bicchiere)
COL.
E quello è il bicchiere col vino, che prese in casa il signor Pancrazio.
TON.
Xe vero?
PANC.
È vero.
TON.
Donca ti, ti l'ha avvelenà.
PANC.
Non è vero.
Son galantuomo, e per farvi vedere la mia innocenza, datemi quel bicchiere.
FLOR.
Prendete pure.
PANC.
Ecco ch'io bevo.
DOTT.
Se l'ho detto.
Il signor Pancrazio non è capace di commettere iniquità.
TON.
(Col beve, nol sarà velen).
(da sé)
COL.
Almeno si fosse avvelenato costui.
TON.
Oimè! oimè! El straluna i occhi; ghe xe del mal.
PANC.
(Avendo bevuto, sente l'effetto del veleno) Amici, son morto, non v'è più rimedio.
Ora discopro il tutto, ora che son vicino a morire.
Amai la signora Rosaura, e non potendo soffrire ch'ella divenisse altrui sposa, avvelenai quell'infelice per liberarmi da un tal rivale.
Oimè, non posso più.
Moro, e moro da scellerato qual vissi.
La mia bontà fu simulata, fu finta.
Serva a voi il mio esempio, per poco credere a chi affetta soverchia esemplarità; mentre non vi è il peggior scellerato di quel che finge esser buono, e non è.
Addio, amici: vado a morire da disperato.
(traballando parte)
COL.
L'ho sempre detto ch'era un briccone.
TON.
L'ha levà sto vadagno al bogia(117).
Povero mio fradello! Quanto che me despiase! Sorella cara, son consolà averve trovà vu, ma me despiase la morte del povero Zanetto.
ROS.
Rincresce ancora a me, ma ci vuole pazienza.
DOTT.
Orsù, andiamo in casa.
TON.
Se la se contenta, menerò la mia sposa.
LEL.
E verrò anch'io colla mia diva.
DOTT.
Vengano tutti, che saranno testimoni nelle scritture che s'hanno a fare.
(Questo è quello che mi preme).
(da sé)
TON.
Co l'eredità de mio fradello giusterò el Criminal de Venezia, e me tornerò a metter in piè.
Se el podesse resussitar, lo faria volentiera, ma za che l'è morto, anderò in Val Brambana a sunar(118) quelle quattro fregole(119).
Ringrazierò la fortuna che m'ha fatto trovar la sorella e la sposa, e colla morte de quel povero desgrazià sarà messi in chiaro tutti i equivochi, nati in t'un zorno, tra i do Veneziani Zemelli.
Fine della Commedia
(1) Novizza, sposa.
(2) Missier, suocero.
(3) Figo, fico, termine veneziano ch'equivale al niente.
(4) Sioria vostra, saluto basso e triviale.
(5) Mario e muggier, marito e moglie.
(6) Impalai, ritti e fermi come pali.
(7) Putte, fanciulle.
(8) Che cade! cosa serve?
(9) Bulada in credenza, qui vuol dire soverchieria.
(10) Canapiolo, termine di disprezzo, che si può spiegare spaccone.
(11) Vegnì a nu, espressione bizzarra, vuol dire volgetevi a me.
(12) Cortesani: spiega in veneziano: gente accorta, onorata e brava.
(13) Manazzar, minacciare.
(14) Colegà, disteso in terra.
(15) Scartozzo de pévere, cartoccio di pepe, frase derisoria.
(16) Vovo, ovo.
(17) Abuo, avuto.
(18) Scavezzo, rotto, cioè discolo.
(19) Siorazzo, signorone.
(20) In cotego, in trappola, cioè in prigione.
(21) Gondola, barchetta che si usa in Venezia comunemente.
(22) Bezzi, denari.
(23) Scapolerò, sfuggirò.
(24) Co, come.
(25) Compare, termine d'amicizia usato in Venezia.
(26) Piantar el bordon, introdursi a scroccare.
(27) Mare, madre.
(28) Proverbio veneziano.
(29) Aseo! Aceto! esclamazione di sorpresa.
(30) Dei, dategli.
Sbusèlo, bucatelo.
(31) Ficheghela quella cantinella in tel corbame, cacciategli quella spada nel ventre.
(32) El me sbasiva de posta, mi uccideva a drittura.
(33) Sieu benedio, siate benedetto.
(34) Mi, mi l'ho buo.
Io, io l'ho avuto.
(35) Gnanca, né anche.
(36) Patrona, per signora.
(37) Oh magari: oh, il ciel volesse.
(38) Mo comòdo, Ma come?
(39) Schienze! vuol dire: schegge; e per frase: bagatelle.
Con ammirazione.
(40) Gnaccara muso d'oro! Esclamazione bergamasca di meraviglia.
(41) Ganasse, guance.
(42) Tossegar, avvelenare.
(43) Garétoli, poplite, o sia parte posteriore del ginocchio.
(44) Batte ben el canafio, fa ben la mezzana.
(45) Monee, monete.
(46) Massera, serva di cucina.
(47) De balla, termine furbesco, d'accordo.
(48) Cortesan, accorto.
(49) Cavarme zoso, levarmi la giubba.
(50) Ha lumà, ha veduto, termine furbesco in gergo.
(51) Bon stomego buono stomaco, cioè di poco onore.
(52) In tel comio, nel gomito, cioè all'incontrario.
(53) Pe! Ehi!
(54) Gastu, hai tu.
(55) Barba, zio.
(56) Putelo, ragazzo.
(57) Babio, viso, frase burlesca.
(58) Voggio darghe una tastadina, una toccatina, cioè, darle la prova.
(59) Traffega, traffica.
(60) I pì, i piedi.
(61) Capochieria, corbelleria.
(62) Polegana, arte fina, disinvoltura.
(63) Custia, costei.
(64) Me bisega in tel cuor, mi va a genio.
(65) Vecchio, termine amoroso de' Veneziani.
(66) Scoverzer, scoprire.
(67) Sbarè delle panchiane, dite delle bugie.
(68) Brazzolar, misura di braccio.
(69) De smania, smanioso
(70) Gargato, gozzo.
(71) Bombaso, bambagia, cotone.
(72) Sea, seta.
Termini allusivi alla morbidezza delle mani.
(73) Sie, sei.
(74) Do, due.
(75) Sioria vostra, saluto burlevole.
(76) Canapiolo monzuo, lo stesso che uomo da nulla.
(77) Pì, piedi.
(78) Crielo, crivello.
(79) Scartozzi de pévere mal ligai, cartocci di pepe mal fatti; termine di disprezzo.
(80) Pronzini salvadeghi: bravaccioni selvatici, cioè supposti.
(81) Cortesani d'albeo: suona quasi lo stesso.
Albeo vuol dire abete, quasi uomini di legno.
(82) A chi le tocca, a chi spettano.
(83) Zaffi, birri.
(84) Piegora, pecora
(85) Lovo, lupo.
(86) Becher, macellaro.
(87) Del dì d'ancuo, del giorno d'oggi.
(88) Manizada, ammasso.
(89) Ve rebalta, vi rovescia.
(90) Varisse, guarisce.
(91) Sgranfignae, rubate.
(92) Caponera, gabbione in cui si nutriscono i capponi.
Per metafora, prigione.
(93) Brisiola, bragiuola, pezzo di carne d'arrostirsi alla graticola.
(94) Un crepo, uno scoppio.
(95) Sbasìo, morto.
(96) Cusinar, cuocere.
(97) Bisegare, frugare.
(98) Oselo, uccello.
(99) Pàvero, papero.
(100) Nuar, nuotare.
(101) Sguatarar, dimenarsi nell'acqua.
(102) Bevaor, vaso in cui bevono volatoli.
(103) Spolverarse, dimenarsi o rivoltarsi per la polvere.
(104) Indrio, indietro.
(105) Fia, figlia.
Termine grazioso che danno i veneziani alla gioventù.
(106) Scalmanada, riscaldata.
(107) Cossazze, gran cose
(108) Putela, bambina.
(109) Sion, sione, voce lombarda, vale a dire, turbo vorticoso di più venti contrari.
(110) Co, quando.
(111) Patta e pagai, del pari.
(112) Deboto, or ora.
(113) No me reze, non mi reggono.
(114) Scoverzer, scoprire.
(115) Cagadonao, parola ingiuriosa.
(116) Sier bronza coverta, brace coperta, uomo finto, per metafora.
(117) Bogia, boia, carnefice.
(118) A sunar, a raccogliere.
(119) Fregole, bricciole.
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