I DUE GEMELLI VENEZIANI, di Carlo Goldoni - pagina 11
...
.
PANC.
Animo.
ZAN.
Son qua.
Forte come una torre.
PANC.
E se vi sentite male, soffrite.
ZAN.
Soffrirò tutto.
PANC.
Parto per non dar ombra di me; mentre, se si risapesse, ognuno mi tormenterebbe, perch'io gliene dessi.
ZAN.
Gh'avè rason.
PANC.
Oh, quanto vogliam ridere con queste donne!
ZAN.
Tutte drio de mi.
E mi gnente.
PANC.
Niente! Crudo come un leone.
ZAN.
Pianzerale?
PANC.
E come!
ZAN.
E mi gnente!
PANC.
Niente.
ZAN.
Bevo.
PANC.
Animo.
ZAN.
Alla vostra salute.
(beve mezzo bicchiere di vino)
PANC.
(Il colpo è fatto).
(da sé, e parte)
SCENA VENTITREESIMA
ZANETTO bevendo a sorso a sorso, poi COLOMBINA
ZAN.
Uh che roba! Uh che tossego! Uh che velen! Oh che fogo che me sento in tel stomego! Coss'è sto negozio? No vôi bever altro.
(mette il bicchiere in terra) Oh poveretto mi! Moro, moro, ma gnente.
La polvere fa operazion.
Se ho da veder le donne a spasemar, bisogna che sopporta.
Me l'ha dito sior Pancrazio...
ma...
oimè...
gh'ho troppo mal...
me manca el fià...
no posso più...
Se no avesse bevù, no beverave altro...
Oh poveretto mi...
un poco de acqua...
acqua...
acqua...
Deboto(112) no ghe vedo più...
me trema la terra sotto i piè...
le gambe no me reze(113)...
oimè, el mio cuor...
oimè, el mio cuor...
Forti, Zanetto, forti, che le donne te correrà drio...
e ti...
ti le burlerà...
oh che gusto!...
no posso più star in piè...
casco...
moro...
(cade in terra)
COL.
(Esce di casa e vede Zanetto in terra) Cosa vedo! Il signor Zanetto in terra? Cos'è? Cos'è stato? Che cosa avete?
ZAN.
(Vardè...
se xe vero...
le donne me corre drio).
(da sé)
COL.
Oh diamine! Ha la schiuma alla bocca.
Certo gli è venuto male.
Poverino! Voglio chiamare aiuto, perché io sola non posso aiutarlo.
(entra in casa)
SCENA VENTIQUATTRESIMA
ZANETTO, poi FLORINDO
ZAN.
Sentila...
se la xe innamorada...
la se despiera...
e mi duro...
ma...
oimè, me manca el cuor...
crepo, crepo...
agiuto...
agiuto.
FLOR.
Come! Tonino in terra? Ecco il tempo di vendicarmi.
ZAN.
Un'altra donna me corre drio...
(si va torcendo)
FLOR.
(Ma che vedo? Que' moti paiono di moribondo).
(da sé)
ZAN.
Son morto...
Son morto...
FLOR.
(Muore davvero costui).
(da sé) Ma che avete?
ZAN.
Son morto...
FLOR.
In che maniera?...
che è stato?...
(benché rivale, mi fa pietà).
(da sé)
ZAN.
Ho bevù...
sì...
le donne...
Sior Pancrazio...
oimè...
oimè...
son velenà...
son morto...
ma no...
Via, donne...
forti...
duro, vedè...
oimè.
(muore)
FLOR.
Ah che spirò il meschino! Chi mai l'ha assassinato? Come mai è egli morto? Che vedo? Ha un bicchiere vicino! Oh come è torbido questo vino! L'infelice fu avvelenato.
(osserva il bicchiere, poi lo ripone in terra)
SCENA VENTICINQUESIMA
Il DOTTORE, BRIGHELLA e COLOMBINA di casa, e detti; poi ROSAURA e BEATRICE col SERVITORE, poi ARLECCHINO
COL.
Venite, signor padrone, soccorrete questo povero giovine.
(al Dottore, uscendo di casa)
DOTT.
Presto, Brighella, va a chiamare un medico.
FLOR.
È inutile che cerchiate il medico, mentre il signor Zanetto è morto.
DOTT.
È morto?
BRIGH.
Oh poveretto, l'è morto?
COL.
Morto il povero signor Zanetto?
ROS.
(Di casa) Perdonate, signor padre, s'io vengo sopra la strada.
Parmi di aver inteso che il signor Zanetto sia morto; è forse vero?
DOTT.
Pur troppo è vero.
Eccolo là, poverino.
BEAT.
Oimè! Che vedo? Morto il mio bene? Morta l'anima mia? (passando per la strada)
ARL.
Coss'è? Dormelo el sior Zanetto?
BRIGH.
Altro che dormir! L'è morto el povero sfortunado.
ARL.
Co l'è cussì, torno alle vallade de Bergamo.
DOTT.
Facciamolo condurre nell'osteria: in mezzo alla strada non istà bene.
ROS.
Ahi, che il dolore mi opprime il cuore.
COL.
Poverina! siete vedova prima di essere maritata.
(Ho quasi piacere che resti mortificata).
(da sé)
DOTT.
Brighella, fallo condurre nell'osteria.
(accennando Zanetto)
BRIGH.
Animo, Arlecchin, dà una man a menarlo in casa.
Quel zovene, fe anca vu el servizio de aiutarlo a portar.
(al Servitore di Beatrice)
BEAT.
Misera Beatrice! cosa sarà di me?
FLOR.
Se è morto il vostro Tonino, potrò sperare nulla da voi? (a Beatrice, piano)
BEAT.
Vi odierò eternamente.
ARL.
Camerada, portelo pulito, acciò, dopo che l'è morto, no ti ghe rompi la testa.
(Arlecchino e il Servitore portano Zanetto morto nell'osteria)
ROS.
Mi sento strappar l'anima dal seno.
BEAT.
Chi mai sarà stato il perfido traditore?
DOTT.
Come mai è accaduta la sua morte?
FLOR.
Io dubito sia stato avvelenato.
DOTT.
E da chi?
FLOR.
Non lo so; ma ho de' forti motivi per crederlo.
ROS.
Deh, scoprite ogni indizio, acciò si possa vendicar la morte dell'infelice.
SCENA VENTISEIESIMA
TONINO e detti, poi ARLECCHINO ed il SERVO di Beatrice.
TON.
Coss'è, siora Beatrice...
DOTT.
Come? (si spaventa)
BRIGH.
L'anima de sior Zanetto? (come sopra)
ROS.
Non è morto!
BEAT.
È vivo! (Tutti fanno atti di ammirazione, guardandosi l'un l'altro con qualche spavento)
ARL.
(Esce col Servitore dall'osteria, vede Tonino, lo crede anch'egli Zanetto e si spaventa) Oh poveretto mi! Cossa vedio.
TON.
Com'ela? Coss'è stà? Coss'è sti stupori, ste maraveggie?
DOTT.
Signor Zanetto, è vivo?
TON.
Per grazia del cielo.
DOTT.
Ma poco fa non era qui in terra disteso in figura di morto?
TON.
No xe vero gnente.
Son vegnù in sto ponto.
BRIGH.
Com elo sto negozio?
ARL.
Adesso, adesso.
(entra nell'osteria, poi ritorna subito) Oh bella! L'è mezzo morto e mezzo vivo.
Salva, salva.
(parte)
BRIGH.
Vegno, vegno.
(fa lo stesso che ha fatto Arlecchino) Oh che maraveggia! Drento morto, e fora vivo.
DOTT.
Voglio veder anch'io.
(fa lo stesso degli altri due) Signor Zanetto, colà dentro vi è un altro signor Zanetto.
TON.
Zitto, patroni, zitto, che scoverziremo tutto.
Lassè che vaga là drento anca mi, e torno subito (entra nell'osteria)
ROS.
Voglia il cielo che Zanetto sia vivo.
BEAT.
Benché mi sia infedele, desidero ch'egli viva.
TON.
(Torna dall'osteria sospeso e mesto) Ah pazenzia! L'ho visto tardi.
L'ho cognossù troppo tardi.
Quello che xe là drento, e che xe morto, l'è Zanetto, mio fradello.
DOTT.
E lei dunque chi è?
TON.
.
Mi son Tonin Bisognosi, fradello del povero Zanetto.
ROS.
Che sento!
DOTT.
Quale stravaganza è mai questa?
BEAT.
Dunque siete il mio sposo.
(a Tonino)
TON.
Sì ben, son quello.
Ma vu, perché strazzar la scrittura? Perché strapazzarme? Perché trattarme cussì?
BEAT.
E voi perché rinunziarmi ad altri? Perché sugli occhi miei parlar d'amore colla signora Rosaura?
TON.
Gnente, fia mia, gnente.
Le somegianze tra mi e mio fradello ha causà tante stravaganze.
Son vostro, sè mia, e tanto basta.
ROS.
Ma, signor Zanetto, e la fede che a me avete data?
TON.
Do no le posso sposar.
E po mi no son Zanetto.
DOTT.
O Zanetto, o Tonino, se non isdegnate di meco imparentarvi, potete sposar mia figlia.
(Egli sarà ancora più ricco del fratello, per cagion dell'eredità).
(da sé)
TON.
Son qua, son pronto a sposar vostra fia.
DOTT.
Datele dunque la mano.
TON.
Ma dov'ela vostra fia?
DOTT.
Eccola qui.
TON.
Eh via, me maraveggio de vu.
Questa no xe vostra fia.
DOTT.
Come! Che cosa dite?
TON.
Orsù, so tutto.
So del pellegrin.
So ogni cossa.
DOTT.
Ah pettegola, disgraziata! (a Colombina)
COL.
Ma io non so nulla, vedete...
TON.
Diseme, sior Dottor, quella medaggia che gh'avè trovà in te le fasse, la gh'averessi?
DOTT.
(E di più sa ancora della medaglia?) (da sé) Una medaglia con due teste?
TON.
Giusto: con do teste.
DOTT.
Eccola, osservatela, è questa?
TON.
Sì ben, l'è questa.
(Fatta far da mio pare, quando che l'ha abù i do zemelli).
(da sé)
DOTT.
Già che il tutto è scoperto, confesso Rosaura non esser mia figlia, ma essere una bambina incognita, trovata da un pellegrino alle basse di Caldiera, fra Vicenza e Verona.
Mi disse il pellegrino essere rimasta in terra, sola e abbandonata colà ancora in fasce, dopo che i masnadieri avevano svaligiati ed uccisi quelli che in cocchio la custodivano.
Io lo pregai di lasciarmela, ei mi compiacque, e come mia propria figlia me l'ho sinora allevata.
TON.
Questa xe Flaminia mia sorella; andando da Venezia a Val Brambana in Bergamasca la mia povera mare, per desiderio de veder Zanetto so fio, e con anemo de lassar sta putela a Stefanello mio barba, i xe stai assaltai alle basse de Caldiera, dove l'istessa mia mare e tutti della so compagnia xe stai sassinai, e ella, in grazia dell'età tenera, bisogna che i l'abbia lassada in vita.
ROS.
Ora intendo l'amore che aveva per voi.
Era effetto del sangue.
(a Tonino)
TON.
E per l'istessa rason anca mi ve voleva ben.
BEAT.
Manco male che Tonino non può sposare la signora Rosaura.
FLOR.
(Ora ho perduta ogni speranza sopra la signora Beatrice).
(da sé)
TON.
Adesso intendo l'equivoco della scrittura e delle finezze che m'avè fatto.
(a Rosaura) E mi aveva tolto in sinistro concetto el povero sior Dottor.
(al Dottore)
DOTT.
Ah, voi m'avete rovinato!
TON.
Mo perché?
DOTT.
Sappiate che da un mio fratello mi fu lasciata una pingue eredità di trenta mila ducati, in qualità di commissario e tutore di una bambina, chiamata Rosaura, unico frutto del mio matrimonio.
La bambina è morta ed io perdeva l'eredità, poiché nel caso della di lei morte, il testamento sostituiva nell'eredità stessa un mio nipote.
Mancata la figlia, per non perdere un patrimonio sì ricco, pensai di supporre alla morta Rosaura un'altra fanciulla: opportunamente mi venne questa alle mani, e coll'aiuto della balia, madre di Colombina, mi riuscì agevole il cambio.
Ora, scoperto il disegno, non tarderà mio nipote a spogliarmi dell'eredità ed a voler ragione de' frutti sino ad ora malamente percetti.
TON.
Ma chi xelo sto vostro nevodo?
DOTT.
Un certo Lelio, figlio d'una sorella del testatore e mia.
TON.
Elo quel sior cargadura, che dise d'esser conte e marchese?
DOTT.
Appunto quegli.
TON.
Ve lo qua che el vien.
Lassè far a mi, e no ve dubitè gnente.
SCENA VENTISETTESIMA
LELIO e detti.
LEL.
Alto, alto quanti siete! guardatevi da un disperato.
TON.
Forti, sior Lelio, che al mal fatto no gh'è remedio.
Beatrice xe mia muggier.
LEL.
Sconvolgerò gli abissi.
Porrò sossopra il mondo!
TON.
Mo perché vorla far tanto mal?
LEL.
Perché son disperato.
TON.
Ghe sarave un remedio.
LEL.
E quale?
TON.
Sposar la siora Rosaura co quindese mille ducati de dota, e altrettanti dopo la morte del sior Dottor.
LEL.
Trenta mila ducati di dote? La proposizione non mi dispiace.
TON.
E la putta ghe piasela?
LEL.
A chi non piacerebbe? Trenta mila ducati formano una rara bellezza.
TON.
Non occorre altro, e se farà tutto: qua in strada no stemo ben.
Andemo in casa, e se darà sesto a ogni cossa.
Beatrice xe mia, Rosaura sarà del sior Lelio.
Ela contenta? (a Rosaura)
ROS.
Io farò sempre il volere di mio padre.
DOTT.
Brava, ragazza.
Voi mi date la vita.
Caro signor Tonino, vi sono obbligato.
Ma andiamo a far le scritture, prima che la cosa si raffreddi.
TON.
Cussì tutti sarà contenti.
FLOR.
Non sarò già io contento, mentre mi trafigge il cuore il dolore d'aver tradita la nostra amicizia.
TON.
Vergogneve d'averme tradio, d'aver procurà de far l'azion più indegna che far se possa.
Ve compatisso, perché sè stà innamorà, e se sè pentio della vostra mancanza, ve torno a accettar come amigo.
FLOR.
Accetto la vostra generosa bontà; e vi giuro in avvenire la più fedele amicizia.
SCENA ULTIMA
PANCRAZIO e detti.
PANC.
(Che vedo! Zanetto non è morto? Non ha preso il veleno? Quanto fui sciocco a credere che volesse farlo).
(da sé)
DOTT.
Signor Pancrazio, allegramente.
Abbiamo delle gran novità.
PANC.
Con buona grazia di lor signori.
(chiama Tonino in disparte) (Ditemi, avete bevuto?) (piano al medesimo)
TON.
Se ho bevù? Songio forsi imbriago?
PANC.
No.
Dico se avete bevuto quel che io vi ho dato.
TON.
(Zitto, che qua ghe xe qualcossa da scoverzer(114)).
(da sé) Mi no, non ho gnancora bevù.
PANC.
Ma, e le donne che vi tormentano, come farete a soffrirle?
TON.
Come gh'oggio da far a liberarme?
PANC.
Subito che avete bevuto, sarete liberato.
TON.
E cossa gh'oggio da bever?
PANC.
Oh bella! quella polvere che vi ho dato.
Che avete fatto del bicchiere col vino e colla polvere?
TON.
(Bicchier de vin colla polvere? Adesso ho capio).
(da sé) Ah sier cagadonao(115), ah sier bronza coverta(116), ipocrita maledetto! Vu sè stà, che ha mazzà mio fradello.
Pur troppo l'ha bevù, pur troppo el xe andà all'altro mondo per causa vostra.
Mi no son Zanetto, son Tonin.
Gerimo do zemelli, e le nostre someggie v'ha fatto equivocar.
Diseme, sior can, sassin, traditor per cossa l'aveu sassinà? Per cossa l'aveu mazzà? (forte, che tutti sentono)
PANC.
Mi maraviglio di voi.
Non so nulla, non intendo che dite.
Sono chi sono, e sono incapace di tali iniquità.
TON.
Ma cossa me disevi, se ho bevù? Se me voggio liberar dalle donne?
PANC.
Diceva così per dire...
se voi bevendo...
diceva per le nozze, per le nozze.
TON.
Vedeu che ve confondè? Sier infame, sier indegno, mazzarme un fradello?
PANC.
Oh cielo! oh cielo! tanto ascolto, e non moro?
DOTT.
Il signor Pancrazio è un uomo onorato, l'attesto ancor io.
FLOR.
Io ho trovato vicino al moribondo Zanetto un bicchiere con dentro del vino molto torbido.
COL.
Ed il signor Pancrazio poco fa è venuto in casa, e di nascosto ha preso un bicchiere di vino.
FLOR.
Ora confronteremo.
(prende il bicchiere che è in terra)
TON.
Senti, se ti l'ha mazzà, poveretto ti! E delle mie zogie cossa ghe n'astu fatto! (a Pancrazio)
PANC.
Sono nelle mani del giudice.
TON.
Ben ben, ghe penserò mi a recuperarle.
FLOR.
Ecco il vino in cui si avvelenò Zanetto.
(mostra il bicchiere)
COL.
E quello è il bicchiere col vino, che prese in casa il signor Pancrazio.
TON.
Xe vero?
PANC.
È vero.
TON.
Donca ti, ti l'ha avvelenà.
PANC.
Non è vero.
Son galantuomo, e per farvi vedere la mia innocenza, datemi quel bicchiere.
FLOR.
Prendete pure.
PANC.
Ecco ch'io bevo.
DOTT.
Se l'ho detto.
Il signor Pancrazio non è capace di commettere iniquità.
TON.
(Col beve, nol sarà velen).
(da sé)
COL.
Almeno si fosse avvelenato costui.
TON.
Oimè! oimè! El straluna i occhi; ghe xe del mal.
PANC.
(Avendo bevuto, sente l'effetto del veleno) Amici, son morto, non v'è più rimedio.
Ora discopro il tutto, ora che son vicino a morire.
Amai la signora Rosaura, e non potendo soffrire ch'ella divenisse altrui sposa, avvelenai quell'infelice per liberarmi da un tal rivale.
Oimè, non posso più.
Moro, e moro da scellerato qual vissi.
La mia bontà fu simulata, fu finta.
Serva a voi il mio esempio, per poco credere a chi affetta soverchia esemplarità; mentre non vi è il peggior scellerato di quel che finge esser buono, e non è.
Addio, amici: vado a morire da disperato.
(traballando parte)
COL.
L'ho sempre detto ch'era un briccone.
TON.
L'ha levà sto vadagno al bogia(117).
Povero mio fradello! Quanto che me despiase! Sorella cara, son consolà averve trovà vu, ma me despiase la morte del povero Zanetto.
ROS.
Rincresce ancora a me, ma ci vuole pazienza.
DOTT.
Orsù, andiamo in casa.
TON.
Se la se contenta, menerò la mia sposa.
LEL.
E verrò anch'io colla mia diva.
DOTT.
Vengano tutti, che saranno testimoni nelle scritture che s'hanno a fare.
(Questo è quello che mi preme).
(da sé)
TON.
Co l'eredità de mio fradello giusterò el Criminal de Venezia, e me tornerò a metter in piè.
Se el podesse resussitar, lo faria volentiera, ma za che l'è morto, anderò in Val Brambana a sunar(118) quelle quattro fregole(119).
Ringrazierò la fortuna che m'ha fatto trovar la sorella e la sposa, e colla morte de quel povero desgrazià sarà messi in chiaro tutti i equivochi, nati in t'un zorno, tra i do Veneziani Zemelli.
Fine della Commedia
(1) Novizza, sposa.
(2) Missier, suocero.
(3) Figo, fico, termine veneziano ch'equivale al niente.
(4) Sioria vostra, saluto basso e triviale.
(5) Mario e muggier, marito e moglie.
(6) Impalai, ritti e fermi come pali.
(7) Putte, fanciulle.
(8) Che cade! cosa serve?
(9) Bulada in credenza, qui vuol dire soverchieria.
(10) Canapiolo, termine di disprezzo, che si può spiegare spaccone.
(11) Vegnì a nu, espressione bizzarra, vuol dire volgetevi a me.
(12) Cortesani: spiega in veneziano: gente accorta, onorata e brava.
(13) Manazzar, minacciare.
(14) Colegà, disteso in terra.
(15) Scartozzo de pévere, cartoccio di pepe, frase derisoria.
(16) Vovo, ovo.
(17) Abuo, avuto.
(18) Scavezzo, rotto, cioè discolo.
(19) Siorazzo, signorone.
(20) In cotego, in trappola, cioè in prigione.
(21) Gondola, barchetta che si usa in Venezia comunemente.
(22) Bezzi, denari.
(23) Scapolerò, sfuggirò.
(24) Co, come.
(25) Compare, termine d'amicizia usato in Venezia.
(26) Piantar el bordon, introdursi a scroccare.
(27) Mare, madre.
(28) Proverbio veneziano.
(29) Aseo! Aceto! esclamazione di sorpresa.
(30) Dei, dategli.
Sbusèlo, bucatelo.
(31) Ficheghela quella cantinella in tel corbame, cacciategli quella spada nel ventre.
(32) El me sbasiva de posta, mi uccideva a drittura.
(33) Sieu benedio, siate benedetto.
(34) Mi, mi l'ho buo.
Io, io l'ho avuto.
(35) Gnanca, né anche.
(36) Patrona, per signora.
(37) Oh magari: oh, il ciel volesse.
(38) Mo comòdo, Ma come?
(39) Schienze! vuol dire: schegge; e per frase: bagatelle.
Con ammirazione.
(40) Gnaccara muso d'oro! Esclamazione bergamasca di meraviglia.
(41) Ganasse, guance.
(42) Tossegar, avvelenare.
(43) Garétoli, poplite, o sia parte posteriore del ginocchio.
(44) Batte ben el canafio, fa ben la mezzana.
(45) Monee, monete.
(46) Massera, serva di cucina.
(47) De balla, termine furbesco, d'accordo.
(48) Cortesan, accorto.
(49) Cavarme zoso, levarmi la giubba.
(50) Ha lumà, ha veduto, termine furbesco in gergo.
(51) Bon stomego buono stomaco, cioè di poco onore.
(52) In tel comio, nel gomito, cioè all'incontrario.
(53) Pe! Ehi!
(54) Gastu, hai tu.
(55) Barba, zio.
(56) Putelo, ragazzo.
(57) Babio, viso, frase burlesca.
(58) Voggio darghe una tastadina, una toccatina, cioè, darle la prova.
(59) Traffega, traffica.
(60) I pì, i piedi.
(61) Capochieria, corbelleria.
(62) Polegana, arte fina, disinvoltura.
(63) Custia, costei.
(64) Me bisega in tel cuor, mi va a genio.
(65) Vecchio, termine amoroso de' Veneziani.
(66) Scoverzer, scoprire.
(67) Sbarè delle panchiane, dite delle bugie.
(68) Brazzolar, misura di braccio.
(69) De smania, smanioso
(70) Gargato, gozzo.
(71) Bombaso, bambagia, cotone.
(72) Sea, seta.
Termini allusivi alla morbidezza delle mani.
(73) Sie, sei.
(74) Do, due.
(75) Sioria vostra, saluto burlevole.
(76) Canapiolo monzuo, lo stesso che uomo da nulla.
(77) Pì, piedi.
(78) Crielo, crivello.
(79) Scartozzi de pévere mal ligai, cartocci di pepe mal fatti; termine di disprezzo.
(80) Pronzini salvadeghi: bravaccioni selvatici, cioè supposti.
(81) Cortesani d'albeo: suona quasi lo stesso.
Albeo vuol dire abete, quasi uomini di legno.
(82) A chi le tocca, a chi spettano.
(83) Zaffi, birri.
(84) Piegora, pecora
(85) Lovo, lupo.
(86) Becher, macellaro.
(87) Del dì d'ancuo, del giorno d'oggi.
(88) Manizada, ammasso.
(89) Ve rebalta, vi rovescia.
(90) Varisse, guarisce.
(91) Sgranfignae, rubate.
(92) Caponera, gabbione in cui si nutriscono i capponi.
Per metafora, prigione.
(93) Brisiola, bragiuola, pezzo di carne d'arrostirsi alla graticola.
(94) Un crepo, uno scoppio.
(95) Sbasìo, morto.
(96) Cusinar, cuocere.
(97) Bisegare, frugare.
(98) Oselo, uccello.
(99) Pàvero, papero.
(100) Nuar, nuotare.
(101) Sguatarar, dimenarsi nell'acqua.
(102) Bevaor, vaso in cui bevono volatoli.
(103) Spolverarse, dimenarsi o rivoltarsi per la polvere.
(104) Indrio, indietro.
(105) Fia, figlia.
Termine grazioso che danno i veneziani alla gioventù.
(106) Scalmanada, riscaldata.
(107) Cossazze, gran cose
(108) Putela, bambina.
(109) Sion, sione, voce lombarda, vale a dire, turbo vorticoso di più venti contrari.
(110) Co, quando.
(111) Patta e pagai, del pari.
(112) Deboto, or ora.
(113) No me reze, non mi reggono.
(114) Scoverzer, scoprire.
(115) Cagadonao, parola ingiuriosa.
(116) Sier bronza coverta, brace coperta, uomo finto, per metafora.
(117) Bogia, boia, carnefice.
(118) A sunar, a raccogliere.
(119) Fregole, bricciole.
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